Mai parlare male dei Social…
Un interessante confronto su
Fb con Ruggero D’Alessandro
In principio, era Fabio Macaluso…
Ci scusiamo per l’incipit biblico, ma in effetti il post di oggi, che
spero interessante, nasce da una
notevole intervista di Fabio Macaluso, avvocato ed esperto di diritto
d’autore e comunicazioni, a Ruggero
D’Alessandro, sociologo e docente presso
le Università dell’Insubria e della Sapienza (1).
Alla quale, ieri, ho subito
replicato con il seguente commento, apparso sulla Pagina Fb di Macaluso:
Grazie Fabio Macaluso. Come sempre, molto interessante. I miei complimenti a Ruggero D’Alessandro.
Vengo al punto. Il fuoco dell’intervista ruota
intorno a un preciso meccanismo sociologico, che si può definire costante o
regolarità metapolitica. In particolare, penso alla costante
movimento-istituzione. O se si preferisce, “politologizzandola”, a quella
potere costituente-potere costituito.
Ruggero D’Alessandro, se ho capito bene, sembra
essere dalla parte del movimento, soprattutto quando rivendica il ruolo
dell’utopia, indicando tra l’altro una precisa linea di pensiero: Bakunin,
Durruti e Spartachisti. Tuttavia, quando egli parla del discrimine tra destra e
sinistra, citando giustamente Bobbio, rivendica il ruolo (a sinistra) della
lotta contro le disuguaglianze. Il che implica, piaccia o meno, un
apprezzamento del momento istituzionale, rispetto a quello movimentista. Ossia
- attenzione - del potere costituito che interviene per eliminare quelle
diseguaglianze evocate e stigmatizzate dal potere costituente.
Ora, poiché la sociologia e sette-ottomila anni
di storia-storia insegnano che ogni movimento, ha davanti a sé tre strade
(1.dissoluzione; 2.trasformazione in istituzione; 3. regressione a setta o
altro micro-gruppo), rivendicare il ruolo dell’utopia, come fa D’Alessandro,
quindi del solo momento, semplificando di nuovo, movimentista, costituente se
si vuole, risulta riduttivo sul piano sociologico-analitico e pericoloso sotto
quello storico-costruttivista. Insomma, l’utopia, per usare la terminologia
poetica di autore sicuramente caro a D’Alessandro, ossia “il trasumanar”, anche
nelle veste derivata e secondaria, di lotta alle diseguaglianze, chiama in
causa, inevitabilmente, “l’organizzar”. E l’ “organizzar” rinvia ai processi di
istituzionalizzazione e tutto ciò che ne segue in termini di stratificazione
economica, sociale, politica e culturale. E questa è sociologia. Dopo di che:
Hic sunt leones...
È vero pure che nessun potere è eterno - nel
senso però di potere-contenuto non di potere-forma - e che quindi è più che
giustificato sperare, proporre, ideare, eccetera, eccetera, tuttavia, esistono
delle regolarità o costanti, che rinviano al potere-forma (quindi qualcosa di
indipendente dai contenuti storici e culturali), regolarità e costanti, dicevo,
che si possono definire metapolitiche, di cui si deve tenere conto sia
analiticamente che politicamente.
Sempre che non si creda nel mitico concetto di
“rivoluzione permanente” che però è fuori dalla portata della sociologia e
della storia… E che per giunta, di riflesso, non si evochi la figura del
credente politico capace di vivere in funzione di una qualche mistica
rivoluzionaria, a sua volta, in grado di fondere, nell’incandescente fornace
della rivoluzione permanente, il trasumanar con l’organizzar… O, peggio ancora,
non si ritenga, sul piano personale, di essere a conoscenza del segreto stesso
della storia. Del suo senso ultimo. E che quindi, prima o poi, si potrà vincere
Campionato e Champions League. Dell’Umanità (con la maiuscola, naturalmente).
Mi scuso con tutti per essermi dilungato.
Dopo di che è seguita l'elegante controreplica di Ruggero
D’Alessandro:
Caro professore, grazie dell'apprezzamento
e del suo stimolante intervento a cui cerco di rispondere come merita (nel
senso migliore, s'intende !). Mi soffermo velocemente sui punti per me più
significativi. 1. La dialettica movimento/istituzione e' sicuramente una
costante (inevitabile?) nella dialettica politica. La lotta alle diseguaglianze
e' la priorità oggettiva e capace, forse, di scardinare poco a poco gli
equilibri malati del tardo capitalismo globalizzato da ormai una 30ina d'anni.
Lei sostiene che i due aspetti sarebbero in contrasto giacche' il movimento (se
interpreto correttamente il suo pensiero) non può non rifarsi al sostegno
dell'istituzione (Potere, con la P
maiuscola come lo denota Foucault), finendo perciò con il far retrocedere il
movimento stesso, se vuole lottare contro le diseguaglianze. 2. Io invece leggo
una forte coerenza nei due aspetti, nel senso che il movimento, di massa,
duttile, ispirato a un modello consiliare diffuso sul territorio, lotta contro
le diseguaglianze nel momento stesso in cui lotta proprio CONTRO l'istituzione
(anziché allearvisi, per poi finire risucchiata). Perché l'istituzione è
influenzata mafiosescamente dalle lobbies del Capitale e della Finanza,
collaborando istituzionalmente all'attivazione di nuove diseguaglianze e al
mantenimento delle vecchie. Penso ad esempi fra '900 e 2000 che vanno dai due
milioni di spagnoli che mantengono viva ed efficace la rivoluzione sociale
anarchica nella Spagna fra 1935 e '38; oppure alle lotte portate avanti
mondialmente dal World Social Forum (1999/2007) con il modello di assemblee di
quartiere nella città brasiliana di Porto Alegre - con 100/200.000 cittadini
che discutono e decidono su temi in genere istituzionalmente sottratti loro per
essere decisi dai consigli di amministrazione/politica. Come alle lotte del
2010/12, fra Plaza del Sol a Madrid e "Occupy Wall Street". 3. Il
pasoliniano doppio momento del <<trasumanar e organizzar>> non è
assolutamente destinato a un inevitabile scontro foriero di contraddizioni,
quindi di scacco matto finale. Marcuse ribatte nel '70 a un bel dibattito accanito
con Popper evidenziando che la <<Storia non è un istituto di
assicurazioni>> e sta agli uomini coscienti e organizzati prendere di
petto l'intollerabile provando a scioglierlo nell'acido come merita. In Tal
modo ribellandosi a ciclicità e costanti create dall'Uomo stesso. 4. Foucault
dice più volte in lezioni e interviste che di fronte a qualsiasi Potere vi sarà
sempre qualcuno che si opporrà. Aggiungo che il problema, ovviamente, sarà chi
e quanti sono e come si organizzano e quali finalità hanno questi
"qualcuno". Domande che decideranno dell'efficacia o del fallimento
di tale orizzonte di lotte sociali. 5. Le costanti sociali, le regolarità di
cui parla esistono senz'altro: ma lo spazio occupato finalmente da un'utopia
concreta, con soggetti in carne e ossa significa, ripeto, mettere finalmente in
questione tali regolarità che sono pur sempre altro da una costante K in fisica
dei fluidi o in geometria riemaniana. Qui le scienze sono, per fortuna, umane.
6. La rivoluzione che si fa fine assoluto spiana la strada ai riti omicidiari,
ai moderni "auto da fé" da Inquisizione rossa: stile Mosca 1935/38.
Dio ne scampi e liberi! Milioni di persone hanno già dato (Conquest calcola in
circa 27/28 milioni le vittime di purghe, persecuzione dei kulaki e i due piani
quinquennali, Kolyma e vari gulag nella Russia di Stalin nel 1924/53). Sono io
a essermi dilungato realmente ma il suo bell'intervento meritava che mi
spremessi le arrugginite meningi. Un caro saluto e alla prossima chiacchierata
"facebookiana".
Come si può osservare, si tratta di un
confronto d’idee aperto, dai contenuti impegnativi. Dove i "duellanti" danno prova di un notevole
sforzo cognitivo e argomentativo: un confronto che non
poteva assolutamente finire sepolto su Fb.
Come
posso rispondere alle pertinenti critiche di Ruggero D’Alessandro?
Nonostante tutto, continuo
a ritenere che ogni movimento, a prescindere dai contenuti
storici di cui si fa portatore, proprio per una socio-logica (definiamola
così) di natura formale, in primis organizzativa (quindi
dipendente dalle abilità e dalla allocazione delle risorse interne e dai
conseguenti conflitti, che implicano gerarchie sociali del valore ), non può non trasformarsi in istituzione, pena
la perdita di qualsiasi potere sociale. E dunque, come tale, perire
Pertanto, quanto più i conflitti sono
duri, come nel caso di specie indicato da Ruggero D'Alessandro, quello della lotta alle diseguaglianze, dove
sono in gioco risorse primarie materiali e simboliche, tanto più diviene (come dire?) naturale il passaggio dal movimento all’istituzione.
Il problema è dove fermarsi. Ossia quale e quanta sia l’incidenza
dell’uomo in questi processi sociali e politici. Nessuno sembra saperlo con certezza.
Io ritengo che le
istituzioni liberali della democrazia rappresentativa e della società di
mercato, espressione istituzionale dei
grandi movimenti sociali e
politici tra il Sette e l’ Ottocento (ma si potrebbe risalire fino alla Riforma protestante
e alla Rivoluzione inglese), garantiscano
quello che Pareto chiamava l’equilibrio sociale. Insomma, per farla breve: dove fermarsi,
per evitare che i conflitti degenerino. Pareto però era un conservatore.
D’Alessandro, come mostra la simpaticissima foto, non lo è. Quindi crede in altre forme di equilibrio
sociale (insomma, dove, per lui, ci si debba fermare…). Però l'invito che gli rivolgo, molto modestamente, è quello di non dimenticare mai che quanto più la lotta si fa dura, tanto più
si esce dalla mediazione liberale, e tanto più si corre il rischio di
scivolare in quell’ottica rivoluzionaria
dove i bullet contano più dei ballot. Perché è vero che esiste (ed è anche moralmente
giusto) sempre chi si opporrà al potere,
il punto però è come. E soprattutto dove (fermarsi). Qui nascono le preoccupazioni di Popper e di numerosi pensatori liberali intorno al destino della democrazia della rappresentanza. Che, non da oggi, ha numerosi nemici, a destra come a sinistra.
La mediazione liberale, finora,
storicamente parlando, ha mostrato di costituire, per quanto imperfetta, il
migliore dei mondi possibili. Oltre essa, e le sue istituzioni (parlamento e mercato) nessuno sa cosa ci sia. Perché, “l’intollerabile”, di cui parla D'Alessandro, rimanda alla
questione dell’equilibrio sociale, o meglio a ciò che sia ritenuto, come tale, dal progressista o
dal conservatore. E la mediazione liberale, offre un punto d’incontro,
procedurale, razionale, tra gli uni
e gli altri. La democrazia diretta, ad esempio, con
il suo fondo emotivo, no.
Ovviamente, quest’ultimo punto di vista è
inviso ai rivoluzionari, ai grandi semplificatori, che disdegnano, definendola
un’inganno, la democrazia liberale. Per non parlare delle istituzioni di mercato giudicate dagli stessi alla stregua dell' Anonima assassini. Non credo però sia questa la posizione di Ruggero D'Alessandro. Anche se i suoi riferimenti storici alle forme di democrazia assembleare mi preoccupano: in particolare il cenno all’esperimento
anarchico nella Spagna della guerra
civile: Durruti fucilava i gay e chi tentennava a uscire dalla trincea, proprio
come il Caudillo). Però può essere un mio limite: di liberale che crede nella democrazia
rappresentativa, nella società di mercato e nella composizione, per così dire amichevole, dei conflitti sociali. Come può essere un
altro mio limite, diciamo euristico - qui concordo con D'Alessandro sulla differenza tra regolarità fisiche
e sociali - il confidare, forse troppo, sulla “forma” delle relazioni metapolitiche
piuttosto che sui “contenuti” storici.
Ma come, capitato a Comte, anch’io, nel mio piccolo, rimasi affascinato, da giovane sociologo, dall’esempio storico del movimento-cristianesimo trasformatosi in istituzione-chiesa, capace di durare, rappresentando uno
straordinario canale di mobilità e consenso sociale, più di duemila anni. Altro che i movimenti di protesta di oggi. Anche Sorel, altro ateo, lo aveva capito.
Certo, D'Alessandro mi può rispondere che il comunismo, o qualcosa che vi
si avvicini, rappresenta un nuovo cristianesimo, però secolarizzato, e che
quindi siamo solo agli inizi. Benissimo. Però, non sarà con la democrazia consiliare
che il comunismo, diventerà tale. Forse
agli inizi, come tra i primi cristiani che vivevano in piccole comunità. Del resto anche i martiri sono importanti (si pensi al destino di Gramsci, e ancora prima della Luxemburg, per non parlare dei semplici militanti). E lo sono per "inventare" una
tradizione (la teoria di Hobsbawm deve valere per tutti...). Poi però, ingrossatesi le fila e agguantato il potere, servono, certo anche le preghiere (il “trasumanar” dei Majakovskij ), ma soprattutto il ferro e il fuoco (l’"organizzar" dei Lenin).
Bando, insomma, alle ingenuità cognitive. Il dato è sociologico: il “destino metapolitico” di ogni
movimento è segnato, trasformarsi in istituzione o
perire. Il punto "umano" della questione, come dicevamo, è dove fermarsi.
Il liberalismo, piaccia o meno, di fatto, ha risposto. Gli altri movimenti, inutile negarlo, hanno fallito. La stessa Chiesa, oggi sembra sotto scacco. Ovviamente, per molti, la speranza è l'ultima a morire. Ma la questione del dove fermarsi, permane. A ognuno di noi la libertà di scegliere.
Carlo Gambescia