lunedì 30 aprile 2018

30  aprile 1993, le monetine del Raphael
La nascita dell’antipolitica




Quando nasce l’antipolitica in Italia? Presto detto,  il 30 aprile del 1993.  Quando Craxi, reduce da una memorabile seduta  della Camera, ferma nel respingere l’autorizzazione a procedere contro il leader socialista, venne aggredito a colpi  di monetine all’uscita dell’Hotel Raphael. Porta principale, perché si era rifiutato di uscire dal retro. Un episodio  indecoroso,  roba da  repubblica sudamericana. 
Tra i tiratori  scelti: postcomunisti di Occhetto, missini di Fini, leghisti di Bossi. Secondo alcuni osservatori, le truppe occhettiane, erano  lì a bella posta  per  umiliare pubblicamente  Craxi in diretta tv. Come del resto attestano le cronache televisive del tempo.
Chiunque conosca, anche superficialmente la sociologia delle rivoluzioni, sa che essa prevede l’umiliazione pubblica dell’avversario trasformato in nemico. La sua degradazione simbolica a capro espiatorio. Diciamo che il Raphael, a prescindere dalle colpe o meno del leader socialista,  fu il primo passo verso una rivoluzione antipolitica  imperniata  su  una visione delinquenziale della politica, dettata dallo  scorgere  in ogni uomo politico un potenziale criminale. A prescindere.
Sono passati esattamente venticinque anni e proprio questa mattina, aprendo i giornali,  scopriamo  che il  Presidente della Camera, Roberto Fico, esponente di Cinque stelle, del partito che ha raccolto, con leghisti e post-missini, l’eredità politica di quella folla urlante, rischia di  ricevere, anch'egli,  in pieno viso monetine mediatiche.
Il che apre un’altra questione, ancora più grossa, ignorata di regola dai tiratori di monetine. Quale? Che il moralismo antipolitico è un’arma comunque politica,  perché si sfodera contro i nemici e si ripone con gli amici.  Detto altrimenti: poiché, nell'essenza,  la politica si fonda sul conflitto amico-nemico, e non sulle regole morali, il virtuismo si trasforma sempre in risorsa. 
Quindi - qualcuno ora penserà - chi di moralismo ferisce di moralismo perisce?  Dipende. Da cosa?   Dai rapporti di forza. Ciò significa che probabilmente il Presidente  Fico se la caverà, perché, diversamente dai socialisti di allora,  i pentastellati sono sulla cresta dell’onda, perché hanno la benedizione di quasi tutti i media e degli  stessi giornali a grande tiratura  che avevano scaricato Craxi. Ovviamente, dietro i giornali ci sono i padroni dei giornali...  
Carlo Gambescia       

domenica 29 aprile 2018

La triste  vicenda del piccolo Alfie Evans
Il socialismo sanitario della serva



Nella vicenda del piccolo Alfie Evans,  in pochi hanno notato che in gioco vi  era qualcosa di più. Certo, si è discusso, e giustamente, dell'annosa questione del chi deve decidere se,  come, dove e quando staccare la spina, perché  ha grande rilevanza etica per il cristiano.  O comunque  per chiunque ritenga che la vita umana sia parte di un disegno divino e provvidenziale.  Lo stesso però  si può dire di coloro che,  prescindendo dal credo religioso di ognuno, scorgano nel  diritto di vita e di morte una questione individuale, privata, intima.
In realtà, il punto sfuggito a molti  è  che  Alfie e i suoi genitori sono stati brutalmente risucchiati da un sistema sanitario di tipo socialista ( universalista, secondo certa  sociologia ancella del welfare state). Dove i medici, per potestà regolamentare decidono autonomamente  della vita e della morte dei pazienti. E per giunta, in caso di contrasti con pazienti e famiglie,  sembrano trovare sempre  sostegno tra i  magistrati. Altro che "c'è  un  giudice a Berlino"...
Molti osservatori italiani, prendendo come al solito lucciole per lanterne, hanno sostenuto  che  purtroppo i medici britannici sono stati costretti a queste dure decisioni, per ragioni di risparmio,  rivolte a tutelare i malati con maggiori speranze di vita. E in questo, giustamente,  seguiti  a ruota da giudici (per inciso, il sistema di common law spesso è un’arma a doppio taglio).  Sicché,   per riprendere il filo delle argomentazioni welfariste italiane,  se le strutture sanitarie inglesi e britanniche - si dice -  venissero finanziate adeguatamente, invece di subire tagli,  certe cose non accadrebbero. Siamo davanti  al classico  argomento  del socialismo buono che non può non avere la meglio sul socialismo cattivo. Auguri.
In Gran Bretagna,  dove il NHS (National Health Service) fu una bella pensata socialista post-seconda guerra mondiale,  negli ultimi anni si è cercato,  considerati costi crescenti e disservizi, di favorire la concorrenza tra strutture sanitarie pubbliche. Di qui però, quella corsa  ai tagli e alle mortali discriminazione tra pazienti.
Nel  Regno Unito esiste  anche una sanità privata, basata su assicurazioni individuali, ovviamente mai cresciuta, perché schiacciata dal gigantismo pubblico, nonché  dalla  concorrenza, però introdotta tardivamente. Attenzione però: concorrenza  non tra pubblico e privato ma tra  pubblico e pubblico.  Insomma, per dirla terra terra, se la  cantano e se la suonano da soli.
Come è noto,  neppure la Thatcher provò a riformare integralmente il Servizio Sanitario Nazionale. In seguito,  Blair e Cameron  hanno introdotto quegli elementi di rigore e concorrenza (nel senso sopra indicato) che  hanno però prodotto, se ci si passa l’espressione,  una specie di socialismo dei conti della serva.  
Tuttavia, per molti inglesi e britannici la sanità pubblica resta  una specie di credenza religiosa, una “religione nazionale”, come  talvolta capita di leggere, ovviamente sul “Guardian”. 
Chissà se lo è ancora,  per i genitori  di Alfie?

Carlo Gambescia


                      

venerdì 27 aprile 2018

Gli insulti  Social all’ex  Presidente GiorgioNapolitano
Pietà l’è morta…




Giorgio Napolitano, che per chi scrive è stato un buon Presidente della Repubblica (ma queste sono opinioni personali), dovrebbe promuovere una riflessione, appena ristabilito, e ci auguriamo presto,  su uno dei più famosi canti della Resistenza, della sua parte politica,  intitolato “Pietà l’ è morta”.  Che per truculenza,  non era inferiore a certi lugubri canti delle brigate nere.  “Quella”,  era tante cose, ma principalmente  un guerra civile. 
Nel 1943-1945 quando Nuto Revelli, scrisse il canto,  non si facevano prigionieri. I civili parlamenti liberali erano  solo un ricordo, dopo mezzo di secolo di parole di fuoco, scontri di piazza, rivoluzioni, dittature, la parola  era passata alle armi.  E la pietà era morta.   
Va dato atto al Presidente Napolitano di aver sempre rappresentato l'ala riformista del Pci, quella che alle pallottole mostrava di preferire il voto, la civile discussione, la moderazione e il compromesso. Però servirebbe comunque una riflessione, soprattutto prima di condannare senza appello i Social, come si legge in giro.  E il Presidente Napolitano, proprio per questa sua vocazione alla transigenza, dovrebbe favorire - come si usa dire -  una riflessione  più ampia  sulla questione.  
Infatti,  chiunque conosca la letteratura sullo sviluppo dei partiti, e ancora prima sulla storia delle istituzioni parlamentari, sa  chiaramente che i toni del dibattito si fecero  più duri con  l’ingresso  "nell’agone parlamentare"  dei partiti rivoluzionari. O comunque, si intensificò  dove operavano forze anti-sistemiche (rispetto al “sistema liberale”), come  monarchici e reazionari nella  Francia repubblicana dell’Ottocento o, su un altro versante politico, radicali, repubblicani, socialisti  nell’Italia liberale e monarchica di fine XIX secolo. 
I toni raggiunsero il vero e proprio clima da guerra civile  nel secolo successivo,  con  l’arrivo nelle aule di forze politiche a sfondo totalitario, come comunisti, fascisti, nazisti, o comunque assai divise sui "vantaggi" della "democrazia borghese".  Al riguardo, ci sono alcune pagine molto interessanti di Nolte, sul ferocissimo, linguaggio di nazisti e comunisti -  seguito subito dai fatti -  che distinse quel  gioco al ribasso e agli opposti estremismi che condusse  la Repubblica di Weimar all'autodistruzione.
Quindi, la regola era ed è:   più il Parlamento è inquinato da forze estremiste, più il linguaggio si fa duro e feroce.  E più la pace sociale è a rischio.
Si dirà  che  gli insulti rivolti a Giorgio Napolitano, per giunta  gravemente infermo,  sono venuti dai Social e non dal mondo politico-parlamentare e che quindi il nostro discorso è fuori luogo. E invece non è così, perché il clima politico italiano è degenerato molto prima  dell’irresistibile ascesa di Facebook e delle altre reti sociali.
Inutile qui ricordare, il deputato leghista che nei primi anni Novanta, si presentò alla Camera con  un cappio.  Oppure  i volgari festeggiamenti  dei deputati del centrodestra, in particolare di alcuni post-missini, quando cadde Prodi nel 2008.  Anche a sinistra non si è stati da meno: come confermano il linguaggio guerrigliero di un Di Pietro (tra l’altro, come noto,  ex magistrato) e di altri nemici del Cavaliere che quasi si auguravano in piena Camera la sua  morte in diretta.  A dire il vero, anche nei riguardi del Presidente Napolitano,  i populismi leghisti e pentastellati  hanno fatto la loro bella  parte in scena.
Dietro il linguaggio,  oggi approdato e rilanciato  dai  Social, c’è il disconoscimento dell’avversario, la sua trasformazione in nemico assoluto.  Sicché,  Napolitano  è condannato come  l'incarnazione del male, a prescindere ( nel senso che i capi d'accusa possono venire dopo o essere i più fantasiosi). Quel che è invece assolutamente certo e che  “deve morire”,  in quanto simbolo, eccetera, eccetera.  Se si ammala e soffre, “peggio per lui, meglio per noi”.  
Sono esercizi di inumanità. Magari, la stessa persona che, infatuata dal clima politico ormai degradato, grida “a morte questo a morte quello”,  poi accarezza un bimbo o gioca con un gattino. Il prolungamento carnivoro viene vissuto come qualcosa di normale: un atto dovuto. Se interrogato, colui che insulta in modo distruttivo, cade dalle nuvole, perché reputa perfettamente  “normale” il suo comportamento.
Si chiama “banalità del male”:  la stessa  praticata dagli "onesti carnefici"  postisi spontaneamente al di Hitler e dai servi, fedeli e armati,  di tanti altri regimi totalitari. Persone che ogni giorno,  riposta  la divisa, rientravano in famiglia  per indossare giacca da camera, calzare pantofole e leggere il giornale  in poltrona davanti al caminetto.
Non dimenticheremo mai, qualche tempo fa su Facebook, uno dei tanti estremisti politici, per ora solo da tastiera, che dopo avere vomitato parole di odio contro  un politico, salutò tutti, dicendo che doveva mettere in forno la pizza per la cena…
Ecco, come dicevamo…  Però, in principio fu il deputato leghista, non un hater qualunque. E ancora prima,  quel clima da guerra civile, che ha insanguinato il Novecento. Una atmosfera mefitica che il Presidente Napolitano, per esperienza politica conosce bene e teme, e che,  come pochi, ha sempre cercato di contrastare con la forza della ragione politica.     
Pertanto, se questo è vero,  resta  altrettanto vero che la  pietà rischia nuovamente  di morire e che  la colpa  non è dei Social, pura e semplice cassa di risonanza di un clima di violenza che viene da lontano. 

Carlo Gambescia  

giovedì 26 aprile 2018

I moderati italiani, un popolo senza più casa politica
E io mi astengo…
 
Il dato del 2018, assente nel grafico, è  più o meno in linea con quello del 2013 

Moderato è chi rifiuta gli estremi, quindi  le utopie politiche. È per la mediazione, il compromesso, il realismo delle cose che si oppone sempre all’irrealismo delle idee sulle cose. Il moderato ritiene che le cose vadano da sole e che il migliore governo sia quello che governa meno. La sua è una critica, forse senza neppure saperlo, a uno stato  che fa troppo. E che dunque deve fare meno: lasciar fare, lasciare passare.  Questo il suo motto.
Il moderato,  non si fida del politico che promette troppo. Nel dubbio non vota, resta a guardare, magari poi sentendosi colpa. Ma preferisce non votare. Del resto è un  suo diritto (naturale) di libertà. Insomma, il moderato guarda al  centro dello schieramento politico, non è completamente di destra e neppure di sinistra. 
Quali forze politiche hanno espresso il moderatismo italiano  nell’Italia repubblicana? Innanzitutto la Democrazia Cristiana, che però dopo De Gasperi, non  si è  più limitata  a guardare a sinistra ma si è spostata a sinistra, determinando  la progressiva fuga dei moderati. Che, a poco a poco,  dall’inizio degli anni Sessanta con l’apertura ai socialisti, poi negli anni Settanta al Pci, si  sono ritrovati senza casa politica. 
Al  moderato  non piaceva l’estremismo di  Almirante.  Restava freddo davanti alle galoppate  di Craxi e alle evoluzioni verso il Pci, del suo avversario, De Mita.  E neppure  si entusiasmava per Andreotti,  pur apprezzandone le arguzie. Ovviamente,  non credeva nelle  promesse  di  Berlinguer.  E nemmeno capiva le astruserie di Moro.
Il moderato  negli anni Settanta e Ottanta non votava più,  credeva solo nell’Arma dei Carabinieri.  Negli anni  Ottanta, tornava a ridere con le televisioni dei Berlusconi,  per poi votarlo negli anni Novanta, scorgendo in Forza Italia il provvisorio surrogato di un grande partito di centro.  E  subito dopo, negli anni Duemila, cadere in depressione.
Diciamo che fino a oggi, nonostante il micro-sussulto per Renzi, già archiviato, ancora non si è risollevato. Il moderato,  continua  a non votare. E ad assistere, sentendosi magari  in colpa,  al trionfo degli estremismi di destra e di sinistra. Il moderato con il populismo non ha alcun punto di contatto.
In qualche misura, interpretando  la letteratura in argomento, la crescita dell’astensionismo elettorale in Italia va vista come il progressivo ritiro nel suo guscio dell’elettore moderato,  che  non fidandosi delle promesse, di regola esagerate, dei demagoghi di destra e sinistra,  preferisce non votare, anche perché, guardandosi intorno, scorge  la società  marciare da sola, gli stili di vita non cambiare e nonostante il catastrofismo mediatico, la vita procedere normalmente  nelle sue cose quotidiane. Come dicevamo, lasciar fare, lasciar passare.  Le cose vanno da sole. Ecco l'Italia dei moderati. 
Il moderato non  è  il presuntuoso  "apote" di Prezzolini ("quello che non la beve"), segue invece più umilmente  la corrente delle cose:  si fa portare.  Si nutre, insomma,  del conformismo della quotidianità   Il moderato vive nella e di quotidianità.  E in base all’andamento di essa  giudica le cose.  Come i mercati, il moderato  vota tutti i giorni, facendo la spesa, andando al lavoro, in vacanza, eccetera, eccetera. E per quanto i mass media, possano estremizzare le cose, l’invisibile partito moderato del non voto, oggi quasi maggioritario, ci ricorda che l’Italia funziona meglio della sua rappresentazione  mediatica.   Insomma,  si dovrebbe essere felici, o quantomeno  politicamente appagati,  del fatto che il numero degli astensionisti sia cresciuto. Perché si tratta di  un segno di progresso sociale: in Italia si vive bene, e di conseguenza, votare è un  fatto secondario: la società va da sola, a che serve la politica?       
E invece no.  Estremisti, pedagogisti della democrazia, virtuisti, ecologisti, post-comunisti, fascio-comunisti, e rivoluzionari vari,  insomma  quelle  minoranze chiassose e mediaticamente sovra-rappresentate,  deprecano l'astensionismo, sottovalutando però  il nesso tra crescita del non voto e deciso miglioramento dello stile di vita degli italiani. E, infatti, il giacobino, per usare una categoria riassuntiva, odia il consumismo, il glamour, il divertentismo, tutto ciò che sia  contrario a quella visione dolente della vita, da grande rottura di palle (pardon), che accomuna  tutti i nemici, da destra e a sinistra, della democrazia dei consumi:  del migliore dei mondi possibili al quale si continua a opporre, il migliore dei mondi impossibili, tratteggiandolo graziosamente con i colori della decrescita, dell'anticapitalismo,  del nazionalismo,   eccetera, eccetera. 
Il punto è un altro: l’assenza una grande  forza, esplicitamente di centro. O comunque di una destra e sinistra, maggioritarie e  per questa ragione  largamente spostate al centro. Sicché,  mancando   una forza politica di questo tipo, il moderato non vota. E continuerà a non votare. 
Per contro,  fluttua invece il voto estremo, degli scontenti della vita e dei "piagnoni",  da destra e sinistra, e fluttua all’interno dell’area del voto: insomma sono sempre gli stessi elettori, che però cambiano casacca.Con la stessa smorfia alla Travaglio martellata sul viso. 
Ma questa è un’altra storia.

Carlo Gambescia           

mercoledì 25 aprile 2018

Lo sport preferito dagli italiani: il processo allo stato

Lo Zio Tom in autostrada



Invito gli amici lettori a notare una cosa.  Basta accendere la televisione in qualsiasi momento della giornata per scoprire che lo sport preferito dagli  italiani è  il processo allo stato: dal terremotato all’esodato, dal disoccupato all’inquinato, dal licenziato al fallito, dalla vittima della mafia alla vittima del lavoro nero, eccetera, eccetera.
Il che, ovviamente,  non significa che il terremotato, l’esodato, il disoccupato, il licenziato, il fallito, il morto ammazzato, lo sfruttato,  se la passino bene, ma indica  che, nell'immaginario collettivo italico, la causa dei loro guai, è automaticamente addebitata sul conto dello stato: che deve ricostruire le case, promuovere la piena occupazione, bonificare tutta l’Italia, sconfiggere  il crimine per sempre, eccetera, eccetera. Fino a edificare un' Italia perfetta, "più grande e più bella che pria". 
Questa cosa, ripetiamo,  si chiama processo allo stato.  E funziona in due tempi (semplifichiamo, naturalmente).
Prima si idealizza, addirittura platonizza, il ruolo dello stato,  soprattutto con l’aiuto dei politici,  che promettono  - tutti, indistintamente -   mari e monti pur di essere rieletti ( ma non solo per questo motivo, come vedremo più avanti). Dopo di che, dal momento che la perfezione (promessa) non è di questo mondo,  si scatena  tra i cittadini,  davanti alle inevitabili contraddizioni tra il dire e il fare,  il processo allo stato. Uno sport nazionale che si trasmette  di padre in figlio. I cui "diritti di diffusione" fanno oggi  la  gioia e la ricchezza delle gogne televisive.  E anche di un gioco al rialzo politico che rischia di farsi  sempre più pericoloso.     
Attenzione, si tratta di un processo allo stato non  di tipo liberale,  ma di derivazione collettivista:  nel senso che si critica lo stato, non perché fa, ma perché non fa.  Pertanto, almeno in Italia, la critica allo stato porta con sé -  sviluppa insomma -   una specie di socialismo straccione, dove l’automobilista, chiuso, fermo da un’ora  sull’autostrada,  percorsa  liberamente per farsi i cazzi suoi (pardon), pretende la bottiglietta d’acqua gratuita.  Portarsela da casa, no?
Si dirà, che sono stupidaggini.  In realtà, siamo davanti a qualcosa di  più del volgare sintomo. L’uomo  dell’acqua dal cielo, che magari di bottiglietta gratuita ne arraffa  più di una perché non si sa mai…, è uno statalista a spese degli altri.  Perché premurarsi, se poi qualcuno pensa comunque a te? 
Si dice, degli Stati Uniti, che siano un paese duro. È vero. Dove non c’è scampo per il fallito sociale . Lo stato non ti soccorre, però funzionano  il muto aiuto   e il privato sociale, privato  vero,  filantropico, non finanziato dallo stato.  
Sicché  - ecco la lezioncina -   l'aiuto pubblico  finisce sempre per  sotterrare quello  privato e favorire il free rider (il socialista con il sedere degli altri...).  Per fortuna, vale però anche il contrario: la   mancanza della carità  di stato favorisce la moltiplicazione delle reti di auto-aiuto. Per contro, ripetiamo, lo statalismo alimenta la cultura del pianto e della critica.   Tra i cittadini Usa, chi si lamenta di più del sistema americano?  I neri, in particolare. Quelli che, per senso di colpa, sono stati aiutati più di tutte le altre comunità.  Ergo,  più hanno, più pretendono.
Ciò significa, per estensione, che alle radici  del processo allo stato, qui in Italia,  esiste  un senso di colpa storico  verso i cittadini,  da parte della  classe politica.  Alimentato da chi?  Dalla sinistra, ma anche dalla destra.  Solo che gli italiani le catene ai piedi non le hanno mai portate. Se non nell’immaginario degli stessi partiti che continuano  tuttora a compiangere il povero Zio Tom in autostrada che pretende la bottiglietta gratuita.  E come per l'acqua, tutto il resto. 
Salvo poi, per rimanere in tema,  una volta finita la cosiddetta emergenza autostradale, rimettere  in moto e  andarsene per i cazzi (pardon) propri. 

Carlo  Gambescia



martedì 24 aprile 2018

I Dieci Punti di 5 Stelle
Ma quale Contratto…




Il Contratto  in dieci punti  (1) che 5 Stelle  vuole  sottoporre ai possibili alleati  (Lega e Partito Democratico), al di là del taglio da "brevi cenni sull'universo",  dal punto di vista del tasso di  riformismo reale,   è  più soft  dei programmi che distinsero i governi di  Centro-Sinistra nella prima metà degli anni Sessanta e i governi di Unità Nazionale, con l’appoggio del  Partito Comunista, nella seconda  metà degli anni Settanta. 
Nel primo caso, ad esempio, ci si accordò sulla nazionalizzazione dell’energia elettrica, nel secondo venne istituito il servizio sanitario nazionale (per ricordare solo due  misure  di grande impegno per la spesa pubblica). 
Ciò  però non significa che, per le tasche dell’Italia degli anni Dieci del Duemila, il Contratto di  5 Stelle  sia meno oneroso. A occhio  e croce  -  e il documento  glissa sull’abolizione della  Fornero...  - la spesa per l’attuazione dei dieci punti (2),  gira intorno ai cento-centocinquanta miliardi di euro all’anno (per un raffronto immediato:  il debito pubblico, che supera il Pil è di  duemiladuecento e rotti miliardi).  E per fortuna che l'autore del Contratto, il  professor Giacinto  della Cananea  (nella foto), viene presentato come  allievo di Sabino Cassese, eccellente  studioso abituato invece a fare i  conti...
Per tornare sul punto:  Dove si prendono questi soldi? Sul mercato, emettendo titoli? O aumentando tributi,  già alti? O tutte e due le cose?  Così, tanto per impoverirsi e  indebitarsi al tempo stesso. Oppure - ideona -  si pensa di uscire dall’Europa, per poter stampare lire a volontà  e distruggere con l’inflazione weimariana l’Italia?
Comunque sia -   e se vogliamo parlare di cose serie -  la prossima finanziaria, a prescindere dal governo in carica, non potrà  non ruotare intorno a una sessantina  di miliardi di euro ( e ci teniamo bassi). Ora, ammesso ( e non concesso) che trenta siano di tagli e di microrecuperi del Pil,  gli altri trenta da qualche parte andranno presi. Dove?  Quindi anche le stupidaggini di Salvini sulla Flat Tax vanno giudicate per quel che valgono: zero.
In quest’ottica  -  e augurandoci ardentemente che Fico fallisca -  l’unica soluzione realistica è quella di   un governo istituzionale, o "del Presidente",  con dentro tutte le forze responsabili e due soli obiettivi:  DEF e  legge elettorale maggioritaria.   Per poi andare a votare nel 2019.
Purtroppo, di responsabili in giro ne vediamo pochi.  Almeno per ora.
Carlo Gambescia      


(1) Per coloro che  fossero  interessati ad approfondire,     il  testo originale del Contratto  è   scaricabile qui:  https://www.ilblogdellestelle.it/2018/04/la_prima_stesura_del_contratto_di_governo_proposto_dal_movimento_5_stelle_.html
(2)I punti, grosso modo,  sono i seguenti: giovani e famiglie, povertà e disoccupazione, ridurre degli squilibri territoriali, sicurezza e giustizia, difesa del servizio sanitario nazionale, protezione delle imprese, nuovo fisco, infrastrutture, salvaguardia dell’ambiente ed efficienza della pubblica amministrazione.            





lunedì 23 aprile 2018

Il nuovo bipolarismo  secondo Luca Ricolfi e Alesssandro Campi
 Intanto in Molise…



Sembra che in Molise  il Centrodestra,   nella sua versione  classica ( allargata come nel 2001),  sia in testa  (45 %), con  Forza Italia  primo partito della coalizione ( 10 vs 9 %, Lega) . Seguono  5 Stelle (37 %), e  Partito Democratico con due punti in meno rispetto alle politiche  (16 %).  
Il risultato perciò potrebbe farsi interessante, per contrasto.  Perché nei giorni scorsi  Luca  Ricolfi, sul  “Messaggero” -  seguito a ruota sulle stesse pagine  dall’assistente  volontario Alessandro Campi, che ora si divide anche con  Prodi -   ha parlato di nuovo bipolarismo, non ovviamente tra Centrodestra (quello del Molise) e Centrosinistra classici,  ma tra una Destra targata Lega  e una Sinistra a traino grillino. Con FI e PD, sulle orme dei nativi americani.
Anche Alessandro  Campi, abilissimo, nel fiutare,  i cambiamenti di vento, e non sempre per ragioni politologiche, sembra credere in  un bipolarismo, nuovo  di zecca.  Che  al momento potrà pure essere nei fatti politici,  ma che -  cosa che non può essere bellamente ignorata -   non sembra incarnare nei contenuti il modello Westminster, perché siamo dinanzi a due forze  populiste,  quindi antieuropee, pro spesa pubblica, pro partito dei giudici,  filoputiane e (soprattutto la Lega) con  più che probabili pendant razzisti.        
Il Molise  sembra invece  provare il contrario, anche sul piano dei fatti:  nel senso che non c’è  crollo definitivo del PD  e che il Centrodestra  avanza.   E, cosa più importante,  Cinque Stelle non sfonda.  Si dirà, il Molise non fa testo.  Può darsi.  A fine mese  si vota anche in Friuli. Il che significa che  è ancora presto per parlare di trend definitivi, di crolli e rinascite. Regola però che deve valere per tutti i trend previsionali.  E non solo per  quelli favorevoli a Salvini e Di Maio.
Questo sul piano analitico, della scienza politica positiva.  Quanto a quello dei desiderata, ogni studioso è libero di pensarla come crede.  Ciò che però  non va assolutamente  fatto  è il voler proiettare, mescolando fatti e desiderata, una luce positiva, come fanno Ricolfi e Campi, su un bipolarismo che trae forza da due partiti estremisti. Nel caso specifico,  è  come  fare il  tifo per un bipolarismo  tra fascisti e comunisti. Altro che Tory e Labour.
Già conosciamo la risposta. Di solito,  come si dice,   quando si va al potere, ci si modera, si matura eccetera. Insomma, si diventa più buoni (sul più capaci le tesi non sono unanimi).  E quindi questo nuovo bipolarismo può essere solo  un bene per l’Italia.  Può darsi.  
C’è però  un’altra questione, che rinvia all’Andreotti di  quando  con un sorrisetto diceva che a pensar male ci si coglie quasi  sempre.  Ora, certe analisi politologiche, come quelle di Ricolfi e  Campi (che tra l'altro non sono i soli...),  nel  momento  in cui sotto i riflettori ci sono Salvini e Di Maio, potrebbero essere interpretate come un endorsement accademico per  5 Stelle e Lega:  un magnifico bonus del filosofo platonico per governare.  Tradotto:   "Signori italiani, tranquilli,  reddito di cittadinanza, simpatie per il piccolo Zar, soldi pubblici a gogò,  lancio del gatto morto contro Bruxelles, tutto normale, tutto normale,  Salvini e Di Maio sono il nuovo bipolarismo ".  Insomma, Ricolfi e Campi, giurano senza che nessuno ancora glielo abbia imposto. Intanto però - ecco il punto politico -   Hitler-Salvini e Stalin-Di Maio,  potrebbero  mettersi d’accordo… Quando si dice nostalgia canaglia.   
Attenzione,  la tesi Ridolfi- Campi,  vale anche al rovescio, nel senso che il tentativo di Fico  verso il Partito  Democratico (se Mattarella consentirà e Renzi, scioccamente cederà)), può venire presentato dai due insigni collaboratori del "Messaggero"  come un passo verso il nuovo bipolarismo  tra Lega  (che fagocita Berlusconi) e  5 Stelle (che si pappa il  Partito Democratico).
Però, intanto, il Molise ci dice che Berlusconi  e i suoi elettori non mollano. Giudici permettendo.

Carlo Gambescia                     

          

sabato 21 aprile 2018

Trattative Stato-Mafia, pesanti condanne per i vertici dei carabinieri del Ros
"Les Centurions" di Palermo


Può anche non piacere. Perché l’immaginario di Jean Latérguy, scrittore e  giornalista,  autore de Les Centurions, appartiene alla destra, quella dei militari,  dei colpi di forza, delle soluzioni radicali quando servono, ma anche dell’onore, del coraggio e dell’amara consapevolezza,  che la guerra  è la prosecuzione della politica con altri mezzi. Attenzione però, anche della politica peggiore, la politica politicante,  che  svuota la legittimità del soldato che combatte, lontano da casa, per valori, che in patria nessuno più difende.  
Per  Latérguy  il soldato francese che combatteva in Indocina, per parafrasare Dante,  era nemico di Dio  (del comunismo) e dei nemici di Dio (gli anticomunisti in pantofole, che sognavano la pace a ogni costo).
Le liberal-democrazie, e questo  è  un  pesante limite per chiunque vi creda come chi scrive,   non tengono in gran pregio  i militari.  Latérguy, piaccia o meno, ha ragione. Tutto ciò che è marziale non è apprezzato,  salvo nei momenti cruciali, ovviamente cruciali  secondo i desiderata del potere politico.  Che cambia  idea spesso, evoca i grandi principi, salvo poi accordarsi sui piccoli. Di qui, quel senso di spiazzamento morale dei centurioni -  magnificamente colto  da Latérguy -  che nel fango si sforzano di combattere il nemico, con tutti i mezzi,  nonostante il paese legale, e  spesso, per pigrizia e paura, quello reale, remino contro.  
A tutto ciò abbiamo pensato ieri, apprendendo della condanna a Palermo degli ex vertici del Ros, tutti carabinieri ovviamente, Mori, Subranni e De Donno, ora  a rischio  di passare dalle  trincee al carcere, e solo per aver fatto il proprio dovere.  Sulle condanne e assoluzioni dei cosiddetti “politici”  non ci pronunciamo. Sarebbe fin troppo facile  individuare le tresche ideologiche che ne sono alle origini.  
Dicevamo di Mori,  Subranni e De Donno, ammesso e non concesso eccetera, eccetera,  che cosa hanno fatto? Quale reato hanno commesso?  Se è vero che c’era una guerra si sono comportati, per quello che erano e sono:  bravi soldati, che tra i mezzi a disposizione, avevano, hanno e avranno anche quello dell’inganno e  della pace armata, provvisoria,  per recuperare,  riunire le forze,  contrattaccare e vincere.
Trattativa quindi,  come passo indietro per farne due avanti. Tutto qui.  Ma  Roma, per usare il linguaggio immaginoso  di Latérguy,   ha usato e buttato via i suoi centurioni.
I difensori dei carabinieri  ora sperano nel Secondo Grado. Andrà diversamente?  Difficile rispondere.
In Italia, anno di grazia  2018,  ci si può augurare solo, visto che si tratta di militari, che sia  il Dio degli Eserciti, quello biblico, ben più longevo degli imperatori quiriti, a fare giustizia per i propri soldati.  Ma nell'Aldilà.         


Carlo Gambescia 

venerdì 20 aprile 2018

Non è  tutto Bolkestein quel che appare... 
Il Re è nudo 
di Teodoro Klitsche de la Grange



La notevole attenzione dedicata dalla stampa all’ “interpretazione autentica” data dall’ex Commissario U.E. Bolkestein (nella foto)  alla direttiva europea indicata col suo cognome (e che tante agitazioni ha provocato in Italia) è un caso emblematico, anche se di sicuro non il più importante, di come una classe dirigente pusilla e decadente si serva dell’Europa per mascherare scelte fatte in Italia spesso in appartati uffici ministeriali.
Ha detto l’ex Commissario europeo (si legge sulla stampa) che le norme di recepimento in Italia della direttiva non corrispondevano né al senso (e alla lettera) della direttiva europea; che altri Stati (come la Spagna) avevano tranquillamente risolto il problema rinviando di decenni l’applicazione della stessa (chiedendo una deroga) e che in conclusione gli italiani devono prendersela con se stessi, e in particolare con i loro “governanti” sia a livello politico europeo che burocratico.
A me capitò, quale professionista, anni orsono, di dare pareri in materia, e conclusi che la direttiva europea era stata distorta con la regolamentazione nazionale di recepimento. Ho quindi una ragione in più di rallegrarmi di quanto ha detto Bolkestein. Ma l’episodio conferma ciò che i media di regime, notoriamente - al contrario di internet (v. fake-news) – oracolo di verità indiscutibili, ci propinano da tanto, cucinato in tantissimi modi, ma sempre uguale nel senso (e nello scopo).
Il primo: “bisogna farlo perché ce lo chiede l’Europa” e varianti sul tema come i “compiti a casa” o “come vivremmo senza l’euro”, e giù condito di De Gasperi, Spinelli (Altiero, non fraintendete), Monnet e chi più europeisti ha, più ne metta. Per lo più inventato perché da un lato (v. Bolkestein) l’Europa non ci ha chiesto nulla, ma una classe dirigente priva di autorità e consenso non ha il coraggio di decidere; e quindi fa finta che a volerlo sia l’Europa, istituzione, fino a qualche lustro orsono, autorevole e dotata di un plebiscitario consenso da parte degli italiani. Ed all’autorità si può applicare quel che Don Abbondio diceva del coraggio (dote anch’essa carente nei “governanti” italiani): che “chi non ce l’ha, non se lo può dare”. E in effetti a dargliela devono essere gli altri, ed è comprensibile, quando manca, che la si sottragga a chi ce l’ha.
Sottrai ora, sottrai domani, l’Unione europea (che diverse colpe le ha, ma molte meno di quanto appaia) alla fine ne è diventata priva, quasi quanto la classe “dirigente” italiana. La quale ha la virtù inversa a quella di Re Mida: tutto (o quasi) quello che tocca si trasforma in pattume: è un parassita (anche) d’autorità.
Ma ci sono altri aspetti della vicenda, meno importanti che ripetono altri “ritornelli”, cui siamo abituati, tra i quali spicca che i sacrificati della normativa di recepimento sono: a) piccoli imprenditori (detti “partite IVA” nel linguaggio prevalente). Cioè evasori fiscali, contributivi, spesso corruttori e soprattutto tarati da una deprecabile tendenza a non votare certi partiti. Quindi vanno puniti, o, quanto meno non (o meno) garantiti (e protetti).
Una qualche sollecitudine (per il commercio ambulante) si segnala comunque, per le “società di capitali regolarmente costituite e cooperative”; le quali potevano così ottenere le autorizzazioni abitualmente date a persone fisiche; nulla di male, ma essendo le autorizzazioni in atto praticamente tutte date a piccolissimi imprenditori e a “termine”, in pochi anni sarà possibile per la grande distribuzione entrare massicciamente un tale tipo di commercio, fruendo della massiccia presenza (sul mercato) di autorizzazioni “scadute” dei vecchi concessionari.
Come in altri casi si è così alimentata una nuova forma di lotta di classe, dato che quella “classica” borghese/proletario è finita e quindi non “rende” più: quella tra piccoli e grandi (nelle leggi bizantini “Penetes” e “Dunatoi”). E le élites si lamentano poi, perché i Penetes, nelle cabine elettorali, li abbiano mandati a casa. E per quale ragione avrebbero dovuti tenerli in poltrona, dato che i Dunatoi vogliono mandare loro a casa? Ricambiano la cortesia.
Infine, come spesso in Italia, il tutto è avvenuto osservando la “legalità”. La quale nel significato inteso da chi ha il potere vuol dire osservando le procedure, ma soprattutto che il precetto sia deciso dall’ufficio competente. Che poi l’ufficio competente decida cose giuste o sbagliate, travalichi dai propri poteri, disattenda (e talvolta stravolga) le direttive superiori è cosa di poco rilievo, purché i timbri siano a posto e i comma in ordine. Alla fin fine la normativa oggetto del contendere è stata decisa non dal Parlamento, ma sostanzialmente da qualche ufficio amministrativo. Il legislateur caro a Rousseau è un direttore generale, con buona pace dei diritti dei cittadini (e anche un po’ della democrazia).
Perciò bisogna essere grati a Bolkestein di quanto ha detto; ha fatto come il bambino delle favole di Andersen, l’unico a vedere tra tanti miopi ed ipocriti che il Re è nudo.
Teodoro Klitsche de la Grange


Teodoro Klitsche de la Grange è  avvocato, giurista, direttore del trimestrale di cultura politica “Behemoth" (  http://www.behemoth.it/ ). Tra i suoi libri: Lo specchio infranto (1998), Il salto di Rodi (1999), Il Doppio Stato (2001), L'apologia della cattiveria (2003), L'inferno dell'intellettuale (2007), Dove va lo Stato? (2009),  Funzionarismo (2013).


giovedì 19 aprile 2018

Il caso del professore di  Lucca, insultato e filmato
Lacrime di coccodrillo




Uno studente di Lucca   minaccia  il professore e  i compagni filmano indifferenti. Sui giornali di oggi tutti si indignano. Che dire?  Lacrime di coccodrillo.  Per giunta, dopo aver visto l’ennesimo sconvolgente  video,  ci si interroga sulla necessità  del ritorno del principio  di  autorità  a scuola. Insomma, che si aspetta, si  dice,  a imporre il   "dovuto rispetto" verso i professori?  O almeno, ammorbidendo i toni,  l' "autorevolezza" del docente...   Certo, come se l'  "autorevolezza", alla stregua di  un caffè, si possa  comprare  introducendo cinquanta centesimi nella  macchinetta… Che ci vuole, insomma...   
Il punto non è la questione  del declino del concetto sociale di autorità e della scarsa considerazione da parte degli studenti per il personale docente. O comunque non solo. Qual è allora? Che tutte le indagini sociologiche  asseriscono che sono gli italiani, per primi, a non voler alcun ritorno del principio  di autorità, neppure nei blandi termini dell'autorevolezza,  perché al settanta-ottanta per cento (secondo le varie indagini) diffidano delle istituzioni in genere e di quelle scolastiche in particolare.  
Altro particolare interessante. Quel che si invoca dopo episodi del genere non è il rispetto del professore, in quanto professore, ma  perché  persona, con una sua dignità eccetera, eccetera. Dell’istituzione-scuola, dal punto di vista dell’autorità, o  almeno dell’autorevolezza "figurativa"  dei professori,   nessuno si preoccupa,  se non nei  termini di puri  interventi umanitari - se si vuole di welfare -   per assistere psicologicamente  le vittime, tutte le vittime, i professori come gli studenti. E come è noto:  se tutti sono colpevoli, nessuno è veramente colpevole. 
Sicché, di regola, come principale responsabile della situazione  viene chiamata in causa la politica, che non investirebbe risorse, eccetera, eccetera. Il che finisce per vincolare l’autorevolezza di un professore  alle ore di  doposcuola e ai bagni funzionanti. 
La  fiducia o meno  nelle istituzioni è qualcosa di profondo e non può dipendere  da un "cesso" (pardon). In Italia  ha giocato in suo sfavore quella sicumera  collettiva (a mezzo servizio però, come vedremo) di  poter fare a meno  di esse. Un comportamento pubblico  che attraversa l’intera storia  dell’ Italia unita.  Certo, con alti e bassi, senza però  smentirsi mai. E che - attenzione -   non implica quella  fiducia in se stessi che rinvia alla sana diffidenza  liberale per lo stato. Ma rimanda a quel tipo di mentalità malata,  cinica e furba, familistica, tipica dell'individualismo protetto, accattone, che consiste nell'afferrare delle istituzioni quel che più conviene. Il ragazzo di Lucca voleva il sei sul registro.     
Il Sessantotto, con le sue pretese di scuola democratica e diciotto politico,  affossò o comunque incise in prospettiva sulla preparazione dei professori, nullificando quella degli studenti. E ridusse i meccanismi della pubblica istruzione a una specie di centro servizi e distribuzione di titoli. Meccanismo che, ovviamente, non poteva funzionare, considerata la particolare composizione di una spesa pubblica in Italia (già ristretta, perché tale),  basata sulle prevalenza delle spese correnti su quelle in conto capitale.  Di conseguenza, quei pochi soldi sono andati a foraggiare  professori inadeguati (con alcune eccezioni ovviamente) e studenti  e famiglie, già storicamente privi di qualsiasi senso delle istituzioni.  Ma non di quell'ethos opportunista che porta ad appropriarsi dei diritti, ignorando bellamente i doveri. 
Concludendo, gli italiani, superficiali, insubordinati,  egoisti, che ora si indignano, tra l’altro evocando - pensiamo ai più acculturati -   ragioni umanitarie, secondo la pedagogia buonista  di oggi,  "del tutti colpevoli nessun colpevole" ( a parte politici e istituzioni, ovviamente), non sono migliori dello studente che ordina al suo professore di inginocchiarsi. Salvo poi, stando ai  mass media, formulare le proprie scuse...  
E così,  tutti  possono continuare a vivere felici e scontenti.

Carlo Gambescia     

                   

mercoledì 18 aprile 2018

Cinque Stelle e i tre punti del Partito Democratico 
Te la do io la Nato...




Grazie a un semplice software di ricerca delle modifiche su Internet, “Il Foglio” ha ben documentato  come i programmi  votati dagli elettori di Cinque Stelle, in particolare la politica estera, siano stati taroccati  a loro insaputa,  da anti a pro Nato.
A dire il vero,  non è una grande scoperta che i partiti, pur di agguantare il potere,  "ingannino" regolarmente  gli elettori.  Dietro i cosiddetti inganni c’è la logica della  trattativa, della moderazione e del compromesso. Che, piaccia o meno,  se si vuole governare, in una democrazia parlamentare,  è la norma.  
Allora si dirà, ma il cittadino non conta niente?  No, conta eccome.  Perché il bello della democrazia dei partiti, rappresentati in parlamento, è che dopo cinque anni, a volte prima,  si va a  votare, e l’elettore, se insoddisfatto, può mandare a casa il partito (o la coalizione) che abbia governato male. 
Si chiama democrazia dell’alternanza, ed è il sale stesso del metodo democratico.  Dove c’è alternanza c’è democrazia. A Cuba, dove da sessant’anni domina la famiglia Castro  non c’è democrazia. Né la favorirà  il voto di un gruppo ristretto di delegati del partito unico comunista, che proprio oggi dovrebbe eleggere  -  udite, udite o rustici... -  un  candidato con un altro cognome.  Però comunista. 
Quel che invece, sembra   sfuggire a molti osservatori con la bocca a cuoricino, in trepidante attesa di veder governare il Movimento Cinque Stelle, è il sì di Luigi  Di Maio ai tre punti "imprescindibili" di politica economica e sociale  avanzati dal Partito Democratico.  
Altro che i  programmi sforbiciati scoperti dal "Foglio"...  I punti sono i seguenti: 1) Allargare il reddito di inclusione per azzerare la povertà assoluta in tre anni; 2) introdurre l'assegno universale per le famiglie con figli; 3) introdurre il salario minimo legale, per combattere il dumping salariale.
Azzerare la povertà assoluta in tre anni... Manco Roosevelt (Franklin Delano)...   Se solo  si provasse a implementare  un programma  del genere,  tra l’altro fondato su una  visione irreale,  pauperista e operaista dell’Italia,  andremmo a far compagnia al Burkina Faso. Resterebbero solo - a noi - gli sbocchi sul mare.  Tradotto:  spesa pubblica alle stelle,  pil in picchiata,  tasse proibitive, fuga di capitali, spread napoleonico, produttività a picco.  Un  Titanic  politico-economico.     
Insomma,  altro che i Pdf  taroccati dei programmi elettorali scoperti dal "Foglio"…  Qui c’è la vera ciccia assistenzialista che tanto piace a Cinque Stelle.  E che il  Partito Democratico  - derenzizzato?  - serve su un piatto d’argento. 
E la cosa più grave è che probabilmente non abbiamo un’opposizione in grado dire  a questi buffoni (non troviamo altro termine) che i tre punti, se attuati, manderebbero a fondo l’Italia.  Purtroppo, Salvini, Berlusconi e Meloni propongono un  grillismo di destra. Giocano demagogicamente al rialzo. Perciò, semplificando: due redditi di inclusione, doppi assegni, due salari minimi, venghino, signori venghino… 
Quindi non si scorge l'alternanza, di cui sopra. Né ora, né tra cinque anni.  Ecco il vero problema. 

Carlo Gambescia
      

martedì 17 aprile 2018

La caccia di  De Magistris ai sottomarini atomici americani
 La politica estera di Masaniello




La storia del Sindaco De Magistris  che a colpi di delibere comunali  vuole portare Napoli  fuori  dalla Nato è degna di un film di Totò.  
Quel che invece non è degno della produzione cinematografica del grande comico napoletano,  è la reazione  delle istituzioni.  A cominciare  dal Comandante della Capitaneria di Porto, Contrammiraglio Arturo Faraone,  che ha riposto al Sindaco, a proposito del presunto sottomarino atomico americano, che prima di bombardare Assad  (cosa da provare), sarebbe passato per il Golfo di Napoli (altra cosa tutta da provare), ricorrendo al più classico degli scaricabarile. In sintesi: "Noi discipliniamo, non autorizziamo, compito che quest’ultimo che spetta al Ministero della Difesa".  Insomma, replica,  tipo "ma che colpa abbiamo noi...".    
E il Ministero della Difesa? Silenzio assoluto. Gentiloni? Forse parlerà oggi. Forse.
Ovviamente i Social, soprattutto quelli dalla parte di Putin e non sono pochi, si sono scatenati nelle ipotesi più fantasiose.  Ma questo fa parte del gioco. Ciò che manca, ma a livello istituzionale, è il coraggio di rimuovere subito  un contrammiraglio, che quasi si è scusato con  De Magistris, accettando la versione di Masaniello.  Del resto un  Governo Gentiloni  che,   fino a qualche  giorno fa,   dichiarava (in sintesi):   "Sì, siamo nella Nato,  ma non mettiamo a disposizione le nostre basi per azioni di attacco", non poteva non reagire come le tre famose scimmiette.
Perciò è ovvio che politici così codardi  poi rispondano alle delibere del Masaniello di turno,  facendo finta di niente.  E Il Ministero della difesa?  In particolare  i tecnici, che ne costituiscono l'ossatura?   Aspettano ordini. Come l’Otto Settembre.  Non ci si muove, dal momento che forse gli americani si sono alleati con i tedeschi… Anzi questa volta con i russi.  Per citare la famosa battuta dell'incredulo  tenente, interpretato da  Alberto Sordi in “Tutti a Casa”.
In realtà,  il rischio che l’Italia di oggi si allei non con i tedeschi, ma con Putin, c’è.  Forze politiche come  Lega e Cinque Stelle, nonostante  il posticcio atlantismo dell’ultima ora dell’onorevole Di Maio,  guardano con favore al piccolo zar moscovita.  E come si dice, da cosa nasce cosa: un sottomarino oggi, qualche sanzione in meno domani,  un gasdotto dopodomani, e così via.      
E di questo problema - ossia del rovesciamento delle alleanze -   come nota oggi Angelo Panebianco sul “Corriere”, Mattarella, nel prosieguo della consultazione,  dovrebbe tenere assolutamente conto. Dovrebbe...  Anche perché in gioco, oltre alla collocazione geopolitica dell’Italia, c’è la difesa di un patrimonio di valori, da quelli liberali a quelli dell’economia di mercato,  nerbo della cultura occidentale.  Non certo dell'insondabile e inquietante anima slava,  Valori di libertà, i nostri, sui quali il Sindaco di Napoli,  balla una tarantella, degna di Masaniello, che però potrebbe finire in modo tragico. Non per lui, ma per gli italiani. Anche perché i napoletani poi  si mettono sempre d'accordo con tutti...
Infatti, la storia è ricca di sorprese, brutte sorprese. Dove non giunsero,nel 1948, i carri armati sovietici, potrebbero giungere, oggi nel 2018, quelli russi,  di Putin,  preceduti però, da consiglieri politici e militari, giornalisti, banchieri e faccendieri. Così per  agevolare...     
Diciamo una cosa complottista…  Una tantum.  Care Procure, sempre così solerti, perché non indagare sui rapporti tra   Salvini, Di Maio,  Casaleggio, Grillo,  De Magistris  e la Russia di Putin? 

Carlo Gambescia
              

         

lunedì 16 aprile 2018

Salvini e Di Maio 
In vino veritas



Salvini e Di Maio non si sono parlati a Vinitaly.  La prima reazione quale potrebbe essere?  Chi se ne frega…  Però, a pensarci bene,  quel che colpisce è l’atteggiamento dei media,  in particolare della stampa a grande tiratura che invece sperava che la strana coppia si parlasse. E che spinge, spinge, spinge per un governo, semplificando, tra missini e comunisti…  Del  vecchio  conio. Quelli fissati, col ritorneremo e  con la terza via, con l’eurocomunismo e la democrazia assembleare.   Cioè  prima di Veltroni e Berlusconi.
Ora, che il popolo bue non capisca,  è nelle cose. Ma chiunque conosca  un poco di storia del liberalismo e del  capitalismo, come può patrocinare un’alleanza tra Salvini-Almirante e Di Maio-Berlinguer?  Un mix di nazionalismo e pauperismo, da paura. 
Tra l’altro,  se si trattasse degli originali,  “passi”, come direbbe  la professoressa alcolista  (visto che siamo in argomento vino) Strabioli Minaccetti, al secolo Paola Minaccioni, ospite di Lillo e Greg (nella foto).  Ma qui siamo davanti a due brutte copie -   populiste e  ignoranti -   di politici di lunghissimo corso, come Almirante e Berlinguer che, nonostante tutto,  sapevano dove fermarsi. 
E invece, niente:  si insiste, con Salvini e Di Maio... Deve nascere il nuovo  governo della rivoluzione…  Non si parla più neppure del Def… Insomma , via  col vento di quello che un tempo si chiamava milazzismo: il fasciocomunismo alla Regione Sicilia  in salsa democristiana. 
Attenzione però. E se dietro questa smania, che sembra pervadere lo stato maggiore del giornalismo italiano, da Sorgi e Mentana,   ci fosse   un’operazione del tipo spingiamoli per bruciarli?  E così favorire la nascita di  un  governo qualunque  per tirare a campare? Sarebbe a dir poco rovinoso. Perché si rischia una specie di caduta dell’Impero Romano (Prodi, forse). E per la semplice ragione che il popolo bue di cui sopra, potrebbe scorgervi un tentativo  di   sòla  magnum  e perciò  accanirsi ancora di più contro la “casta”. Detto altrimenti,  far crescere le aspettative intorno a un governo Salvini-Di Maio, per poi, bruscamente, cambiare strada, significa fare un favore agli  “amis du peuple”. E rendere tutto più complicato, tremendamente complicato.
Il che non vuole dire che un governo in foto(brutta)copia tra un leghista e un grillino  sia la soluzione ideale. Ma non può esserlo  neppure il solito governo  - ammesso che trovi i voti -   del tirare a campare… Soprattutto se  incapace di cambiare  la legge elettorale. Possibilmente, non in peggio.
Concludendo, siamo messi malissimo. L’Italia sembra come  sospesa tra un governo  Salvini-Di Maio e una specie di  governo Gentiloni  al cubo:  tra due rivoluzionari ad aria compressa e una moviola gigantesca, che rallenta i nostri movimenti, come quando si è bevuto troppo.  Insomma,   tra una pistola carica e un fiasco di vino;  tra il suicidio e la sbornia.  Chissà, forse in vino veritas…   Ma dopo, quando ci si risveglia?  La testa  duole… 
Carlo Gambescia

                

sabato 14 aprile 2018

Berlusconi e il berlusconismo secondo Alessandro Di Battista
Vieni avanti cretino!


I Fratelli De Rege negli anni Trenta  (Fonte:  https://it.wikipedia.org/wiki/Fratelli_De_Rege )

La famosa gag dei Fratelli De Rege, un bel pezzo di avanspettacolo degli anni Trenta del Novecento, ripreso poi, anche in tv,  da Walter Chiari e Carlo Campanini, cominciava con il  “Vieni avanti cretino!”, urlato dal nervosissimo Guido all’indirizzo dei baffoni spioventi, sotto il nasone, di Ciccio… E si proseguiva, tra le risate degli spettatori, all’insegna di una comicità fatta di battute surreali. 
Sono trascorsi  novant’anni,  i De Rege sono morti da  un pezzo e purtroppo anche Chiari e Campanini, però il cretino è  più vivo che mai.  Si chiama Alessandro Di Battista e non fa ridere nessuno.  Come si può facilmente evincere da questo florilegio Ansa:    
         

« "Per me non va bene Berlusconi e non va bene Forza Italia. Forza Italia è l'emblema del berlusconismo che va oltre Berlusconi". Così Alessandro Di Battista ha risposto a margine del Festival del Giornalismo di Perugia a chi gli chiedeva se il Movimento 5 Stelle avrebbe accettato il sostegno di Forza Italia, senza Berlusconi, a un loro governo. "Berlusconi è ineleggibile, incandidabile, condannato per frode fiscale, finanziatore di quelli che hanno fatto saltare in aria Falcone e Borsellino - ha detto Di Battista, ribadendo quanto espresso in un post alcuni giorni fa -. Berlusconi ha contaminato la finanza, la politica, lo sport. Questo popolo si deve svegliare. Mi auguro che possa liberarsi dal berlusconismo". Di Battista ha aggiunto che "Renzi e Berlusconi sono la stessa cosa". Un governo con il Pd? "Io non saprei chi chiamare per capire la linea del Pd. Delrio? Franceschini? Martina? Boh". L'ex parlamentare ha quindi ricordato di aver votato il Pd in passato. "Pensavo che fosse antitetico a Berlusconi, poi ho capito che mi sbagliavo".
"Salvini ieri sembrava Dudù, Berlusconi parlava e lui muoveva la bocca. Tutto questo segnala qualcosa che non va in questo paese. Mi auguro che questo Paese possa liberarsi del berlusconismo", ha detto ancora Di Battista. "Spero che Salvini abbia il coraggio di staccarsi da Berlusconi, ma forse non può farlo - ha aggiunto -. Forse ci sono cose che non sappiamo. Si parla di fideiussioni, di quattrini dati alla Lega...". »



L’unica cosa positiva  è che Alessando Di Battista non è più membro del Parlamento.  Non se ne sentirà la mancanza.  Ovviamente il discorso non può chiudersi qui. Quanto riportato dall’Ansa,  fa pensare  -   certo,  bisogna aver letto Nolte -   alla forma mentis  nazionalsocialista:  dal padre fondatore all’ultima SS.   Di Battista  parla di “contaminazione”,  termine che i nazisti usavano  per gli ebrei.
Di più: l' ex onorevole grillino auspica  una specie di  soluzione finale,    di “liberazione”,  non solo  da  Berlusconi, ma anche da  coloro che lo hanno votato scegliendo  Forza Italia: i berlusconiani.  Dulcis in fundo,  le leggi sulla razza pura grillina, come si può leggere, sono estese anche a   Renzi  e renziani.  Insomma,  Berlusconismo e Renzismo  vanno sradicati a  tutti i costi. Come? Vengono i brividi.
Delle altre farneticanti accuse -  in particolare quella di aver fatto  saltare per aria Falcone e Borsellino  - si occuperanno gli avvocati del Cavaliere.  Ciò  che va sottolineato  è il preoccupante disegno psichico,  rivelato da esternazioni del genere: quello di un  ossesso, una specie di malato  mentale,  capacissimo  di tutto, se riuscisse a mettere le mani, fisicamente, sui nemici impuri.  
E tutto questo  a prescindere  dagli errori politici (e non) del Cavaliere, che pure ne ha commessi tanti, troppi. Intanto però,  nel dubbio, che poi non c'è affatto, Di Battista spara, per ora  parole all'acido muriatico.  Dopo si vedrà.
In realtà, a Berlusconi non si perdona la crocifissione del Comunismo e l'adorazione del Vitello d'Oro Capitalista. Sotto  l’odio puro  per il  Cavaliere-Mammona, si nascondono, e malamente, i secolari rigurgiti velenosi della società chiusa: una forma mentis,  da ultimo, incarnata dal  nazionalsocialismo, come si accennava all'inizio.
Dicevamo  però del cretino.  Negli anni Venti, si rideva,  anche allora,  delle cretinate di  Hitler. Poi è finita, come tutti sappiamo.  In Italia, a dire il vero,  alle cretinate dell’ ex onorevole   Di Battista, tra l’altro rilasciate nel corso del  prestigioso Festival  del Giornalismo di Perugia,  nessuno ha risposto  con una risata liberatoria. Ma neppure è seguita  alcuna  critica,  a cominciare dal professor Alessandro Campi, perugino doc, di solito pronto a mettere becco su tutto.  Insomma,  potremmo essere entrati nelle fase del silenzio-assenso.  
Come nel 1933.                                

Carlo Gambescia