Il caso delle Molinette
Medici o Sciamani?
TORINO - È uno dei più noti cardiochirurghi italiani ma ora è accusato di aver effettuato un trapianto di cuore su una paziente clinicamente morta per nascondere un letale errore del suo assistente. Mauro Rinaldi, primario del Reparto di Cardiochirurgia dell'ospedale Molinette di Torino, è indagato per omicidio colposo insieme al suo assistente, il dottor Massimo Boffini, e a quattro membri della sua équipe. La vicenda su cui stanno indagando i magistrati del pool Pubblica Amministrazione della Procura di Torino, coordinati dall'aggiunto Andrea Beconi, risale al maggio dell'anno scorso e pare tratta da un film dell'orrore. É in quel periodo che Pasqualina Amodeo, classe 1941, viene ricoverata nel reparto di Cardiochirurgia delle Molinette. La donna è da tempo cardiopatica e come recita la sua cartella clinica è "affetta da stenosi valvolare aortica". I medici decidono di sottoporla ad un intervento di sostituzione della valvola aortica con una endoprotesi. Non è un'operazione particolarmente ardua per un team chirurgico abituato a delicati trapianti cardiaci. Qualcosa però, durante l'intervento effettuato il 20 maggio dal dottor Massimo Boffini, va storto. Secondo l'accusa il chirurgo commette un errore che si rivelerà fatale: occlude il tronco comune della coronaria sinistra provocando così un infarto del miocardio. Il team però si accorge del danno fatto soltanto tre giorni dopo quando ormai l'elettroencefalogramma rivela che Pasqualina Amodeo è clinicamente morta. Stando a quanto raccolto dagli investigatori dei carabinieri Nas è a questo punto che interviene il professor Mauro Rinaldi, effettuando il 27 maggio un trapianto di cuore alla paziente. Trapianto che avrebbe avuto un unico scopo: espiantare il "vecchio" cuore per far sparire l'endoprotesi impiantata con il primo intervento e che sarebbe stata causa dell'infarto miocardico. In effetti il cuore espiantato è stato ritrovato nel reparto di Anatomia Patologica. L'endoprotesi invece è misteriosamente scomparsa.
(http://www.repubblica.it/2009/06/sezioni/cronaca/trapianto-torino/trapianto-torino/trapianto-torino.html )
.
Crediamo che questo non sia solo l’ennesimo caso di “malasanità”. Ma che vi sia dell’altro. E che soprattutto rappresenti un'occasione per fare una riflessione più generale sul potere medico.
Si tratta di un caso che rivela la profonda distanza che
separa le persone comuni dai medici come gruppo sociale chiuso, perché
depositario di un sapere molto raffinato, se non ermetico, che sconfina nel
diritto di vita e di morte. Si pensi solo alle condizioni psicologiche e
conoscitive in cui i familiari della signora torinese hanno concesso
l’autorizzazione a un trapianto inutile…
Distanza che si esprime in termini di status sociale, di potere decisionale, di linguaggio, (estremamente professionalizzato).
Di qui la difficoltà per il paziente (e per i loro familiari) di comprendere la natura della propria malattia e delle terapie da intraprendere. E, di regola, quel conseguente “rimettersi ai medici”: una fiducia, dunque socialmente obbligata”, che talvolta può risultare malriposta.
Oggi si parla molto di “alleanza terapeutica”, tra medico e paziente. In realtà che alleanza può esservi tra diseguali? Se non quella dove uno dei piatti della bilancia pende dalla parte del più forte: il medico nel caso. Certo, spesso lo status sociale del paziente può giocare un ruolo determinante: la persona ricca e istruita può farsi curare meglio (è noto, ad esempio, che le prestazioni altamente specialistiche del servizio sanitario nazionale, sono utilizzate principalmente dalle persone a medio-alto reddito e con titolo di studio universitario, o comunque medio-superiore). Ferme però restando le distinzioni decisionali in relazione alle eventuali terapie da intraprendere: il paziente, anche se ricco e istruito, si troverà sempre davanti a scelte terapeutiche precostituite (A o B), “dettate” dal medico. Al malato resta dunque solo la scelta tra vita e morte, o quella tra una condizione progressivamente inabilitante e il poter continuare a vivere secondo gli standard esistenziali pre-malattia.
Se poi a queste “costanti sociologiche” va ad aggiungersi una deficienza nel medico di qualità morali, come sembra avvenuto a Torino ( caso sul quale ovviamente spetterà alla magistratura decidere: nessuno può essere giudicato presuntivamente colpevole), il rischio di vita per i pazienti risulta francamente eccessivo.
Purtroppo alla “democratizzazione” della medicina è di ostacolo la natura di "corpo" chiuso del gruppo sociale medico: chiuso perché legato, come accennato, a un tipo di sapere estremamente specifico e soprattutto coinvolgente, in termini decisionali, i destini ultimi dell’uomo (vita e morte). In realtà il potere del medico è più esteso di quello del religioso, perché ogni sua decisione -seppure ufficialmente presa dal paziente... - riguarda “l’al di qua” ( il qui e subito) e non “l’al di là”. Di riflesso la difficoltà, se non l’impossibilità, di “democratizzarlo”.
Fermo restando un fatto: che la “corporazione” potrebbe, anzi dovrebbe, vigilare meglio sulle qualità morali e sul comportamento deontologico dei suoi membri.
Come insegna l’antropologia culturale, nelle società "tribali" quando uno sciamano risulta indegno, viene allontanato dal villaggio e spinto a vagare in zone inospitali…
E li chiamano popoli incivili.
Distanza che si esprime in termini di status sociale, di potere decisionale, di linguaggio, (estremamente professionalizzato).
Di qui la difficoltà per il paziente (e per i loro familiari) di comprendere la natura della propria malattia e delle terapie da intraprendere. E, di regola, quel conseguente “rimettersi ai medici”: una fiducia, dunque socialmente obbligata”, che talvolta può risultare malriposta.
Oggi si parla molto di “alleanza terapeutica”, tra medico e paziente. In realtà che alleanza può esservi tra diseguali? Se non quella dove uno dei piatti della bilancia pende dalla parte del più forte: il medico nel caso. Certo, spesso lo status sociale del paziente può giocare un ruolo determinante: la persona ricca e istruita può farsi curare meglio (è noto, ad esempio, che le prestazioni altamente specialistiche del servizio sanitario nazionale, sono utilizzate principalmente dalle persone a medio-alto reddito e con titolo di studio universitario, o comunque medio-superiore). Ferme però restando le distinzioni decisionali in relazione alle eventuali terapie da intraprendere: il paziente, anche se ricco e istruito, si troverà sempre davanti a scelte terapeutiche precostituite (A o B), “dettate” dal medico. Al malato resta dunque solo la scelta tra vita e morte, o quella tra una condizione progressivamente inabilitante e il poter continuare a vivere secondo gli standard esistenziali pre-malattia.
Se poi a queste “costanti sociologiche” va ad aggiungersi una deficienza nel medico di qualità morali, come sembra avvenuto a Torino ( caso sul quale ovviamente spetterà alla magistratura decidere: nessuno può essere giudicato presuntivamente colpevole), il rischio di vita per i pazienti risulta francamente eccessivo.
Purtroppo alla “democratizzazione” della medicina è di ostacolo la natura di "corpo" chiuso del gruppo sociale medico: chiuso perché legato, come accennato, a un tipo di sapere estremamente specifico e soprattutto coinvolgente, in termini decisionali, i destini ultimi dell’uomo (vita e morte). In realtà il potere del medico è più esteso di quello del religioso, perché ogni sua decisione -seppure ufficialmente presa dal paziente... - riguarda “l’al di qua” ( il qui e subito) e non “l’al di là”. Di riflesso la difficoltà, se non l’impossibilità, di “democratizzarlo”.
Fermo restando un fatto: che la “corporazione” potrebbe, anzi dovrebbe, vigilare meglio sulle qualità morali e sul comportamento deontologico dei suoi membri.
Come insegna l’antropologia culturale, nelle società "tribali" quando uno sciamano risulta indegno, viene allontanato dal villaggio e spinto a vagare in zone inospitali…
E li chiamano popoli incivili.
Carlo Gambescia