*********************senza "metapolitica" si finisce sempre per fare cattiva "politica"*******************
domenica 31 dicembre 2006
sabato 30 dicembre 2006
L'esecuzione di Saddam
L' ombra dell'impiccato
Con l’esecuzione, sembra all'alba di oggi, di Saddam
Hussein, gli Stati Uniti hanno raggiunto alcuni obiettivi di tipo deterrente.
Risultati, che piacciano o meno, vanno comunque presi in considerazione.
In primo luogo, l’esecuzione dell’ex rais indica, agli altri leader mediorientali, ostili all’America, che opporsi ai disegni Usa, implica una condanna a morte, magari in contumacia. Ma che prima o poi viene eseguita. D’ora in poi, perciò, anche per le alte sfere, opporsi all’America significherà rischiare di essere condannati a sparire fisicamente. Il messaggio è piuttosto rozzo, ma comunque efficace, soprattutto sui pavidi.
In secondo luogo, la condanna a morte mediante impiccagione, implica la degradazione simbolica del condannato. Saddam, che comunque apparteneva a una casta militare e guerriera, è stato perciò trattato come un criminale comune. D’ora in poi, chi si opporrà agli Stati Uniti, soprattutto se capo di stato, sa che tribunali, ovviamente istituiti ad hoc, non terranno assolutamente conto dello status politico dello sconfitto. Anche questo è un messaggio piuttosto rozzo, ma efficace, soprattutto su coloro che temono di perdere onori e prebende politiche.
In terzo luogo, sarà interessante scoprire dove, e se, verranno sepolte le spoglie mortali, dell’ex rais. Di sicuro, da parte degli americani, si cercherà di evitare qualsiasi tentativo di “sacralizzazione” del “corpo” di Saddam. Il pericolo maggiore per gli Usa è quello della trasformazione dell’ex presidente iracheno in un martire politico. Di qui l’interesse per quel che accadrà ai suoi resti mortali. E’ la prima volta che Gli Stati Uniti si trovano ad affrontare un fatto del genere. Le “procedure” che verranno adottate in questo caso avranno perciò valore di esemplarità per il futuro. E dunque di monito per gli attuali avversari dell’America.
Infine, con la morte di Saddam, si chiude simbolicamente un ciclo politico-militare (certo parziale, perché riguarda il “contenzioso” Stati Uniti-Iraq, apertosi nel 1991), ma probabilmente se ne apriranno altri, ad esempio con l’Iran.
Sui quali però, dall’alba di oggi, grava, come un macigno, la lunga ombra oscillante del corpo di un impiccato.
In primo luogo, l’esecuzione dell’ex rais indica, agli altri leader mediorientali, ostili all’America, che opporsi ai disegni Usa, implica una condanna a morte, magari in contumacia. Ma che prima o poi viene eseguita. D’ora in poi, perciò, anche per le alte sfere, opporsi all’America significherà rischiare di essere condannati a sparire fisicamente. Il messaggio è piuttosto rozzo, ma comunque efficace, soprattutto sui pavidi.
In secondo luogo, la condanna a morte mediante impiccagione, implica la degradazione simbolica del condannato. Saddam, che comunque apparteneva a una casta militare e guerriera, è stato perciò trattato come un criminale comune. D’ora in poi, chi si opporrà agli Stati Uniti, soprattutto se capo di stato, sa che tribunali, ovviamente istituiti ad hoc, non terranno assolutamente conto dello status politico dello sconfitto. Anche questo è un messaggio piuttosto rozzo, ma efficace, soprattutto su coloro che temono di perdere onori e prebende politiche.
In terzo luogo, sarà interessante scoprire dove, e se, verranno sepolte le spoglie mortali, dell’ex rais. Di sicuro, da parte degli americani, si cercherà di evitare qualsiasi tentativo di “sacralizzazione” del “corpo” di Saddam. Il pericolo maggiore per gli Usa è quello della trasformazione dell’ex presidente iracheno in un martire politico. Di qui l’interesse per quel che accadrà ai suoi resti mortali. E’ la prima volta che Gli Stati Uniti si trovano ad affrontare un fatto del genere. Le “procedure” che verranno adottate in questo caso avranno perciò valore di esemplarità per il futuro. E dunque di monito per gli attuali avversari dell’America.
Infine, con la morte di Saddam, si chiude simbolicamente un ciclo politico-militare (certo parziale, perché riguarda il “contenzioso” Stati Uniti-Iraq, apertosi nel 1991), ma probabilmente se ne apriranno altri, ad esempio con l’Iran.
Sui quali però, dall’alba di oggi, grava, come un macigno, la lunga ombra oscillante del corpo di un impiccato.
Carlo Gambescia
venerdì 29 dicembre 2006
Chiesa Cattolica
Tra istituzione e movimento
Vogliamo andare oltre le polemiche attuali e parlare
della Chiesa Cattolica in termini sociologicamente più profondi?
Bene, molti osservatori applicano alla Chiesa Cattolica gli schemi che di solito si usano per interpretare le strategie di una multinazionale della fede. Ora, indubbiamentela Chiesa
è anche questo, ma non può assolutamente essere “solo questo”. In occasione
dell’ ultimo Conclave, quasi si trattasse di un consiglio di amministrazione,
si parlò della Chiesa, e soprattutto sulla stampa, esclusivamente in questi
termini.
L’elezione del nuovo papa, Benedetto XVI, venne perciò presentata come la nomina di una specie di nuovo amministratore delegato. Come del resto tuttora accade a ogni nomina di alti prelati, come nuovi “consiglieri”, nuovi “funzionari al centro di chissà quali nuove strategie aziendali…
Indubbiamente vi è del vero.La
Chiesa è istituzione: è “struttura”. E quindi necessita di
forme organizzative: diciamo che ha bisogno, come tutte le istituzioni sociali,
di uomini “vocati”, quadri, risorse, strategie, e soprattutto di un “vertice”
all’altezza della situazione. Pertanto ogni nuovo Papa, non può non fare i
conti con la dura realtà di ogni istituzione: reperire risorse, gestirle e
aumentarle. Se un istituzione non si sviluppa, non cresce ma regredisce,
rischia di sparire o comunque di contare sempre meno.
Quindi ogni Papa (e a maggior ragione Benedetto XVI, vista la carenza di risorse materiali e umane della Chiesa attuale), deve innanzitutto essere un buon organizzatore, o comunque in grado di circondarsi di capaci amministratori. Di qui il ruolo che indubbiamente può essere giocato nella vita della Chiesa da quei gruppi più strutturati, e dotati sotto il profilo organizzativo di mezzi, uomini e risorse. E qui basti ricordare l’influenza di cui dispongono il ricco cattolicesimo americano e organizzazioni molto ben strutturate come l’Opus Dei.
Mala Chiesa ,
come già abbiamo detto, non è solo una multinazionale della fede:
un’istituzione sociale, politica, economica, eccetera, ma è anche una forza o
un “movimento“ (storico, o metastorico, secondo i punti di vista…), che
risponde, come dire, alla fame di fede e ubbidienza, insita negli uomini. In
che senso? In primo luogo, lo è in senso dottrinario. In due millenni di storia
ha mostrato di essere capace di propugnare un principio ideale, restandovi
fedele, e al tempo stesso di saper innovare, e perciò di aprirsi o“muoversi” in
senso discendente, andando incontro alle aspettative di fedeli affamati di
purezza, secondo un piano d’azione più generale. E qui basti pensare alla
cosiddetta Riforma Cattolica, come “movimento” di recupero teologico e pastorale,
durato alcuni secoli, che ha preceduto e superato, la Riforma protestante. Lo
stesso conflitto, che ritorna spesso nella storia della Chiesa, tra innovatori
e tradizionalisti, non è che il segno più evidente della sua vitalità
“movimentista“. In secondo luogo, la
Chiesa è anche movimento in senso strettamente sociologico. E
qui sia sufficiente ricordare i numerosi movimenti socio-religiosi, affamati di
ubbidienza a un ordine spontaneo, puro e senza leggi, che spesso hanno
storicamente favorito il rinnovamento “istituzionale” della Chiesa. E nulla
impedisce, che in futuro, vista la grande partecipazione, che il “wojtylismo”
dei giovani possa trasformarsi in un movimento di “riforma” o comunque in uno
dei tanti importanti gruppi di pressione interni alla Chiesa.
A questo punto ci si chiederà: con Bendetto XVI prevarranno le ragioni delle istituzioni o del movimento? Indubbiamente è presto per dare un giudizio sul suo pontificato, appena gli inizi. Si possono però fornire gli strumenti per capire. Di sicuro, come altre volte nella storia, anche con Benedetto XVI sussiste la possibilità di giungere a una sintesi di entrambe le tendenze. Tra i movimenti che invocano la purezza e le istituzioni che devono purtroppo “sporcarsi” le mani, pur tra alti e bassi, se persiste un’unità di fondo, prima poi si finisce sempre per trovare un punto di accordo. Ma può accadere anche il contrario: tutto dipenderà da quel che farà il nuovo Papa. E Ripetiamo: è ancora presto per giudicare.
Se mostrerà di essere un capace “organizzatore“, prevarranno gli interessi delle istituzioni: avremo una Chiesa più allineata ai potenti, in particolare agli Stati Uniti e alle linee guida dell’economia capitalistica. Questo non significa però più conservatrice sotto il profilo teologico, tuttavia nemmeno lo si può esclude completamente. Una Chiesa troppo “organizzata” potrebbe aumentare le sue risorse materiali, ma anche perdere quel patrimonio spirituale rappresentato dai fedeli, e da quel che risveglio, o fame di ubbidienza, che oggi si nota soprattutto tra i giovani.
Se invece mostrerà di essere un Papa “movimentista”, avranno la meglio gli interessi dei movimenti: avremo una Chiesa più spiccatamente pacifista, meno allineata agli Stati, e al “capitale”, ma probabilmente con minori risorse e mezzi economici. Anche la scelta movimentista non implica però, in modo automatico, scelte progressiste sotto il profilo teologico e pastorale. La realtà dei movimenti ecclesiali è piuttosto diversificata: tutto è possibile, dalla scelta tradizionalista a quella, per così dire, no global.
Quel che occorre è un Papa che sia al tempo stesso organizzatore e movimentista: uomo delle istituzioni e uomo dotato di grande carisma. Come movimentista, dovrà essere capace di rappresentare “tutte” le diverse realtà, e come organizzatore dovrà reperire risorse e gestirle, edificare, evangelizzare, eccetera, senza transigere sui principi.
Di sicuro - e ammesso che Benedetto XVI lo desideri - gli sarà difficile imitare Wojtyla: un Papa così capace di fondere in sé e rappresentare le ragioni delle istituzioni e dei movimenti. Sotto questo aspetto il suo è stato un pontificato straordinario: al centro politico, in senso alto. Comunque sia, resta particolarmente pericoloso per ogni Papa privilegiare solo una delle due ragioni. Da questo punto di vista non vanno sottovalutate anche le forti pressioni esterne. Può apparire, molto “dietrologico“, ma gli Stati Uniti, che non rimpiangono affatto Paolo Giovanni II, stanno sicuramente cercando di fare il possibile, tra le quinte, per influenzare Benedetto XVI in senso filoamericano.
Il terzo rischio perciò, per Bendetto XVI, oltre a quello di trasformarsi in Papa solo organizzatore o solo movimentista, è quello, e mi scuso per l’espressione forte, di indossare le sacre vesti del cappellano di Bush, o comunque del prossimo presidente degli Stati Uniti.
Un problema di “politica estera”, che purtroppo, riguarda tutti, anche gli atei, e perfino i neo-pagani. La cui soluzione è probabilmente più importante, dei pur non secondari problemi, legati alla questione dei pacs o dell’eutanasia.
Bene, molti osservatori applicano alla Chiesa Cattolica gli schemi che di solito si usano per interpretare le strategie di una multinazionale della fede. Ora, indubbiamente
L’elezione del nuovo papa, Benedetto XVI, venne perciò presentata come la nomina di una specie di nuovo amministratore delegato. Come del resto tuttora accade a ogni nomina di alti prelati, come nuovi “consiglieri”, nuovi “funzionari al centro di chissà quali nuove strategie aziendali…
Indubbiamente vi è del vero.
Quindi ogni Papa (e a maggior ragione Benedetto XVI, vista la carenza di risorse materiali e umane della Chiesa attuale), deve innanzitutto essere un buon organizzatore, o comunque in grado di circondarsi di capaci amministratori. Di qui il ruolo che indubbiamente può essere giocato nella vita della Chiesa da quei gruppi più strutturati, e dotati sotto il profilo organizzativo di mezzi, uomini e risorse. E qui basti ricordare l’influenza di cui dispongono il ricco cattolicesimo americano e organizzazioni molto ben strutturate come l’Opus Dei.
Ma
A questo punto ci si chiederà: con Bendetto XVI prevarranno le ragioni delle istituzioni o del movimento? Indubbiamente è presto per dare un giudizio sul suo pontificato, appena gli inizi. Si possono però fornire gli strumenti per capire. Di sicuro, come altre volte nella storia, anche con Benedetto XVI sussiste la possibilità di giungere a una sintesi di entrambe le tendenze. Tra i movimenti che invocano la purezza e le istituzioni che devono purtroppo “sporcarsi” le mani, pur tra alti e bassi, se persiste un’unità di fondo, prima poi si finisce sempre per trovare un punto di accordo. Ma può accadere anche il contrario: tutto dipenderà da quel che farà il nuovo Papa. E Ripetiamo: è ancora presto per giudicare.
Se mostrerà di essere un capace “organizzatore“, prevarranno gli interessi delle istituzioni: avremo una Chiesa più allineata ai potenti, in particolare agli Stati Uniti e alle linee guida dell’economia capitalistica. Questo non significa però più conservatrice sotto il profilo teologico, tuttavia nemmeno lo si può esclude completamente. Una Chiesa troppo “organizzata” potrebbe aumentare le sue risorse materiali, ma anche perdere quel patrimonio spirituale rappresentato dai fedeli, e da quel che risveglio, o fame di ubbidienza, che oggi si nota soprattutto tra i giovani.
Se invece mostrerà di essere un Papa “movimentista”, avranno la meglio gli interessi dei movimenti: avremo una Chiesa più spiccatamente pacifista, meno allineata agli Stati, e al “capitale”, ma probabilmente con minori risorse e mezzi economici. Anche la scelta movimentista non implica però, in modo automatico, scelte progressiste sotto il profilo teologico e pastorale. La realtà dei movimenti ecclesiali è piuttosto diversificata: tutto è possibile, dalla scelta tradizionalista a quella, per così dire, no global.
Quel che occorre è un Papa che sia al tempo stesso organizzatore e movimentista: uomo delle istituzioni e uomo dotato di grande carisma. Come movimentista, dovrà essere capace di rappresentare “tutte” le diverse realtà, e come organizzatore dovrà reperire risorse e gestirle, edificare, evangelizzare, eccetera, senza transigere sui principi.
Di sicuro - e ammesso che Benedetto XVI lo desideri - gli sarà difficile imitare Wojtyla: un Papa così capace di fondere in sé e rappresentare le ragioni delle istituzioni e dei movimenti. Sotto questo aspetto il suo è stato un pontificato straordinario: al centro politico, in senso alto. Comunque sia, resta particolarmente pericoloso per ogni Papa privilegiare solo una delle due ragioni. Da questo punto di vista non vanno sottovalutate anche le forti pressioni esterne. Può apparire, molto “dietrologico“, ma gli Stati Uniti, che non rimpiangono affatto Paolo Giovanni II, stanno sicuramente cercando di fare il possibile, tra le quinte, per influenzare Benedetto XVI in senso filoamericano.
Il terzo rischio perciò, per Bendetto XVI, oltre a quello di trasformarsi in Papa solo organizzatore o solo movimentista, è quello, e mi scuso per l’espressione forte, di indossare le sacre vesti del cappellano di Bush, o comunque del prossimo presidente degli Stati Uniti.
Un problema di “politica estera”, che purtroppo, riguarda tutti, anche gli atei, e perfino i neo-pagani. La cui soluzione è probabilmente più importante, dei pur non secondari problemi, legati alla questione dei pacs o dell’eutanasia.
Carlo Gambescia
giovedì 28 dicembre 2006
Pena di morte
Perdono, giustizia, vendetta
Gaetano Gandolfi ( 1734-1802) , "Caino uccide Abele". |
La condanna a morte di Saddam risponde a motivazioni di
tipo politico, interne ed esterne all’Iraq. In sostanza, per dirla bruscamente,
siamo davanti a un vero e proprio regolamento di conti. Con gli Stati Uniti che
hanno praticamente preteso dalla magistratura irachena la testa dell’ ex rais.
Ma non è di questo trionfo dell’ipocrisia politica che desideriamo parlare. Vorremo invece riflettere sul problema della pena di morte in quanto tale.
Si tratta di una domanda antica quanto l’uomo: è giusto uccidere chi ha ucciso? La risposta altrettanto antica, non è mai stata univoca. Per quale ragione? Perché la società ha leggi e dinamiche proprie, e soprattutto differenti, da quelle morali: la società si difende, invece la morale perdona. Di qui quel ricorrente conflitto che spesso divide società e individuo (morale) sulle scelte valoriali.
Dobbiamo però ora spiegare le ragioni di questa asserzione.
Può sembrare politicamente scorretto, ma sotto l’aspetto sociologico la pena di morte, in qualsiasi tipo di società (antica o moderna), rappresenta (oggettivamente) il momento dell’autodifesa: come un organismo malato, o che tema di ammalarsi, ogni società respinge, eliminandoli, i microrganismi patogeni. Certo, si tratta di persone, e non di “microbi”, ma il meccanismo è analogo. Eliminando chi si è reso colpevole, la società si autodifende. In modo animalesco o istintivo, protegge se stessa e, di riflesso, con la repressione cerca di impedire, penalizzandoli, la diffusione di comportamenti devianti tra i suoi membri. Può piacere o meno, ma alla base della pena di morte vi è un fortissimo “residuo” sociologico (se ci passa l’espressione, si tratta di una specie di “richiamo della foresta” collettivo). Una “residualità” che ne spiega la persistenza, anche nelle società “evolute”. E di solito, i fautori della pena capitale invocano l’argomento sociologico della spontanea autodifesa sociale.
Sotto l’aspetto morale le cose però mutano completamente. Qui è posto in primo piano l’individuo. E viene perciò sacralizzata la vita dell’individuo e non quella della società. In ogni epoca, spesso in nome di valori culturali e morali differenti se non opposti, alcuni uomini e donne si sono battuti contro il potere sociale di vita e di morte. Secondo questa impostazione, non sociologica ma culturale e morale, l’ ultima decisione, di volta in volta, sarebbe storicamente spettata agli dei, a Dio, e infine a uomini sacralizzati o “costituzionalizzati” (dai re ai moderni legislatori, magistrati e capi di stato). In questo modo, si è cercato di proteggere l’individuo (rispetto alla società), che come auspicano, pur su basi diverse, le tradizioni cristiane e illuminista, oggi maggioritarie in Occidente, va rieducato e reinserito nella vita sociale. E di solito, l’argomento culturale e morale viene utilizzato da chi è contrario alla pena capitale.
A questo punto è evidente che il problema della liceità o meno della pena di morte riguarda il contrasto tra individuo e società, o se si preferisce, tra cultura morale (individuale) e società: tra derivazioni e residui, per dirla con Pareto ( senza però assegnare alle derivazioni, in quanto ideologie o razionalizzazioni sociali, alcun significato negativo, e dunque senza seguire il grande sociologo fino in fondo …).
Per quel che ci riguarda siamo contrari alla pena di morte perché favorevoli, come dire, alla triade individuo- cultura- morale.
Tuttavia non bisogna mai dimenticare che la società ha le sue leggi o costanti. E’ un dato col quale dobbiamo fare i conti. Ma, chi scrive, se si tratta di vita o di morte, preferisce stare sempre dalla parte dell’ individuo. Per quale ragione?
Perché - e ci sembra sia provato (ecco un’altra “costante”) - l’uomo può modificare (magari lentamente, e con ricadute allo stato ferino), se stesso e la società in cui vive. Certo, il “residuo” sociologico di cui sopra, ha un suo “peso”, e non potrà mai essere eliminato completamente, pena la scomparsa di ogni traccia vita sociale, ma può essere governato e “ingentilito”. Del resto, e questa è ancora un’altra “costante” sociologica, la vita è conflitto tra individuo e società, tra valori morali e istituzioni sociali, tra perdono e vendetta.
Ma sta a noi scegliere.
Ma non è di questo trionfo dell’ipocrisia politica che desideriamo parlare. Vorremo invece riflettere sul problema della pena di morte in quanto tale.
Si tratta di una domanda antica quanto l’uomo: è giusto uccidere chi ha ucciso? La risposta altrettanto antica, non è mai stata univoca. Per quale ragione? Perché la società ha leggi e dinamiche proprie, e soprattutto differenti, da quelle morali: la società si difende, invece la morale perdona. Di qui quel ricorrente conflitto che spesso divide società e individuo (morale) sulle scelte valoriali.
Dobbiamo però ora spiegare le ragioni di questa asserzione.
Può sembrare politicamente scorretto, ma sotto l’aspetto sociologico la pena di morte, in qualsiasi tipo di società (antica o moderna), rappresenta (oggettivamente) il momento dell’autodifesa: come un organismo malato, o che tema di ammalarsi, ogni società respinge, eliminandoli, i microrganismi patogeni. Certo, si tratta di persone, e non di “microbi”, ma il meccanismo è analogo. Eliminando chi si è reso colpevole, la società si autodifende. In modo animalesco o istintivo, protegge se stessa e, di riflesso, con la repressione cerca di impedire, penalizzandoli, la diffusione di comportamenti devianti tra i suoi membri. Può piacere o meno, ma alla base della pena di morte vi è un fortissimo “residuo” sociologico (se ci passa l’espressione, si tratta di una specie di “richiamo della foresta” collettivo). Una “residualità” che ne spiega la persistenza, anche nelle società “evolute”. E di solito, i fautori della pena capitale invocano l’argomento sociologico della spontanea autodifesa sociale.
Sotto l’aspetto morale le cose però mutano completamente. Qui è posto in primo piano l’individuo. E viene perciò sacralizzata la vita dell’individuo e non quella della società. In ogni epoca, spesso in nome di valori culturali e morali differenti se non opposti, alcuni uomini e donne si sono battuti contro il potere sociale di vita e di morte. Secondo questa impostazione, non sociologica ma culturale e morale, l’ ultima decisione, di volta in volta, sarebbe storicamente spettata agli dei, a Dio, e infine a uomini sacralizzati o “costituzionalizzati” (dai re ai moderni legislatori, magistrati e capi di stato). In questo modo, si è cercato di proteggere l’individuo (rispetto alla società), che come auspicano, pur su basi diverse, le tradizioni cristiane e illuminista, oggi maggioritarie in Occidente, va rieducato e reinserito nella vita sociale. E di solito, l’argomento culturale e morale viene utilizzato da chi è contrario alla pena capitale.
A questo punto è evidente che il problema della liceità o meno della pena di morte riguarda il contrasto tra individuo e società, o se si preferisce, tra cultura morale (individuale) e società: tra derivazioni e residui, per dirla con Pareto ( senza però assegnare alle derivazioni, in quanto ideologie o razionalizzazioni sociali, alcun significato negativo, e dunque senza seguire il grande sociologo fino in fondo …).
Per quel che ci riguarda siamo contrari alla pena di morte perché favorevoli, come dire, alla triade individuo- cultura- morale.
Tuttavia non bisogna mai dimenticare che la società ha le sue leggi o costanti. E’ un dato col quale dobbiamo fare i conti. Ma, chi scrive, se si tratta di vita o di morte, preferisce stare sempre dalla parte dell’ individuo. Per quale ragione?
Perché - e ci sembra sia provato (ecco un’altra “costante”) - l’uomo può modificare (magari lentamente, e con ricadute allo stato ferino), se stesso e la società in cui vive. Certo, il “residuo” sociologico di cui sopra, ha un suo “peso”, e non potrà mai essere eliminato completamente, pena la scomparsa di ogni traccia vita sociale, ma può essere governato e “ingentilito”. Del resto, e questa è ancora un’altra “costante” sociologica, la vita è conflitto tra individuo e società, tra valori morali e istituzioni sociali, tra perdono e vendetta.
Ma sta a noi scegliere.
Carlo Gambescia
mercoledì 27 dicembre 2006
Il libro della settimana: Carl Schmitt, La dittatura, a cura di Antonio Caracciolo, Edizioni Settimo Sigillo, Roma 2006, pp. IV.340, Euro 35,00
http://www.libreriaeuropa.it/scheda.asp?id=4760 |
Il titolo può apparire politicamente scorretto. Inoltre,
è purtroppo nota, la “leggenda nera” che aleggia intorno all’opera schmittiana.
Non è nostra intenzione sfatarla in poche righe. Ci limitiamo a rinviare, il
lettore di buona volontà, alle eccellenti analisi chiarificatrici di Carl
Schwab, Joseph W. Bendersky e Gianfranco Miglio. Parleremo perciò solo del
libro.
La nuova edizione de La dittatura di Carl Schmitt (Edizioni Settimo Sigillo - ordini@libreriaeuropa.it – http://www.libreriaeuropa.it/ ), uscita per la prima volta nel 1921, quando almeno in Germania di fascismo ancora non si parlava, costituisce un importante evento culturale. Almeno per due ragioni.
In primo luogo, per gli specialisti. Rispetto al testo pubblicato per i tipi di Laterza nel 1975, quello attuale è molto più ricco e completo. Innanzitutto perché offre a corredo un ampio indice analitico (pp. 311-334). Va perciò subito riconosciuto al suo curatore, Antonio Caracciolo - apprezzatissimo studioso e traduttore italiano del corpus schmittiano - di aver svolto un autentico lavoro di cesello. Di più: il testo curato da Caracciolo, oltre alla revisione della traduzione laterziana (rivista con l’aiuto di Carmelo Geraci), introduce alcune parti omesse nell’edizione del 1975. Infatti, la nuova edizione è condotta sulla quarta tedesca, quella del 1978, e si avvale in appendice di due testi molto interessanti: lo scritto schmittiano sulla dittatura del Presidente del Reich, prevista nella costituzione weimariana, aggiunto da Schmitt alla seconda edizione tedesca, 1927, (pp. 248-301); la voce “Dittatura”, scritta dal pensatore tedesco nel 1926, per lo Staatslexikon (pp. 303-310). Si segnala, infine, che La dittatura, apre la collana “Idola et Arcana”, diretta dalla stesso Caracciolo. Dove vedranno luce altri interessanti lavori di e su Schmitt, nonché dei principali esponenti del grande realismo politico europeo novecentesco. Perciò auguri di buon lavoro al professor Caracciolo, il quale è docente di Filosofia del Diritto nell’Università di RomaLa
Sapienza.
I n secondo luogo, si tratta di un libro importante per il
lettore curioso di questioni politiche. Infatti il testo offre un prezioso e chiaro
excursus sul concetto di dittatura, dagli antichi Romani a Lenin. Il nodo
concettuale del libro ruota intorno alla differenza tra “dittatura commissaria”
e “dittatura sovrana”. La prima non punta alla creazione di un nuovo ordine, ma
risponde alla logica giustificativa della transitorietà volta al ristabilimento
dell’ordine preesistente (messo in discussione da un guerra, una sommossa,
eccetera): non innova. Si pensi alla figura del dictator repubblicano
presso i Romani. Invece la seconda forma di dittatura, che si consolida verso
il finire del XVIII secolo, sullo sfondo dei primi bagliori rivoluzionari
francesi e poi nelle assemblee nazionali otto-novecentesche, designa nel
“dittatore” non solo un “commissario”, ma un “commissario" diretto del
popolo. Le masse - trasfigurate in arsenale democratico - sono perciò viste
come indirettamente facitrici di un nuovo “potere costituente”: la dittatura,
come espressione di una volontà comunitaria di ritornare all’ordine antico, si
trasforma così nella volontà sovrana di creare un nuovo ordine
post-rivoluzionario, esercitata da pochi eletti in nome dei tanti chiamati. E
qui sono di particolare interesse le pagine schmittiane dedicate al concetto di
“dittatura del proletariato", dove sembrano mescolarsi antico e moderno...
Scrive Schmitt: “ Ora, questo Stato proletario vuole essere non qualcosa di
definitivo, ma una fase transitoria. Recupera così tutta la sua importanza un
aspetto essenziale che nella pubblicistica borghese era rimasto nell’ombra: la
dittatura è un mezzo per conseguire un determinato obiettivo; dal momento che
il suo contenuto è determinato unicamente dall’interesse per il risultato da
conseguire, non la si può definire in generale come una soppressione della
democrazia. D’altro canto anche dalle argomentazioni di parte comunista si
comprende che la dittatura, essendo per essenza una fase transitoria, deve
subentrare come eccezione e per la forza degli eventi. Anche questo rientra nel
suo concetto: tutto sta a sapere rispetto a che cosa si fa eccezione” (p. 8).
Ecco, l' "eccezione" quali rinunce implica.... La questione non è secondaria, perché, in fin dei conti, la vera domanda che attraversa La dittatura, riguarda le origini, la natura e gli sviluppi (anche futuri) della democrazia dei moderni e di altre forme “liberatorie” di regime politico: la democrazia (liberale, proletaria, eccetera) può essere introdotta dall’alto (si pensi a quel che ora sta accadendo in Iraq…), anche imponendo la dittatura?
Nel libro di Schmitt non è possibile trovare una risposta definitiva alla domanda. Ma è invece possibile - dopo che lo si è letto attentamente - riuscire almeno a formularla correttamente.
Il che non poco.
La nuova edizione de La dittatura di Carl Schmitt (Edizioni Settimo Sigillo - ordini@libreriaeuropa.it – http://www.libreriaeuropa.it/ ), uscita per la prima volta nel 1921, quando almeno in Germania di fascismo ancora non si parlava, costituisce un importante evento culturale. Almeno per due ragioni.
In primo luogo, per gli specialisti. Rispetto al testo pubblicato per i tipi di Laterza nel 1975, quello attuale è molto più ricco e completo. Innanzitutto perché offre a corredo un ampio indice analitico (pp. 311-334). Va perciò subito riconosciuto al suo curatore, Antonio Caracciolo - apprezzatissimo studioso e traduttore italiano del corpus schmittiano - di aver svolto un autentico lavoro di cesello. Di più: il testo curato da Caracciolo, oltre alla revisione della traduzione laterziana (rivista con l’aiuto di Carmelo Geraci), introduce alcune parti omesse nell’edizione del 1975. Infatti, la nuova edizione è condotta sulla quarta tedesca, quella del 1978, e si avvale in appendice di due testi molto interessanti: lo scritto schmittiano sulla dittatura del Presidente del Reich, prevista nella costituzione weimariana, aggiunto da Schmitt alla seconda edizione tedesca, 1927, (pp. 248-301); la voce “Dittatura”, scritta dal pensatore tedesco nel 1926, per lo Staatslexikon (pp. 303-310). Si segnala, infine, che La dittatura, apre la collana “Idola et Arcana”, diretta dalla stesso Caracciolo. Dove vedranno luce altri interessanti lavori di e su Schmitt, nonché dei principali esponenti del grande realismo politico europeo novecentesco. Perciò auguri di buon lavoro al professor Caracciolo, il quale è docente di Filosofia del Diritto nell’Università di Roma
I
Ecco, l' "eccezione" quali rinunce implica.... La questione non è secondaria, perché, in fin dei conti, la vera domanda che attraversa La dittatura, riguarda le origini, la natura e gli sviluppi (anche futuri) della democrazia dei moderni e di altre forme “liberatorie” di regime politico: la democrazia (liberale, proletaria, eccetera) può essere introdotta dall’alto (si pensi a quel che ora sta accadendo in Iraq…), anche imponendo la dittatura?
Nel libro di Schmitt non è possibile trovare una risposta definitiva alla domanda. Ma è invece possibile - dopo che lo si è letto attentamente - riuscire almeno a formularla correttamente.
Il che non poco.
Carlo Gambescia
sabato 23 dicembre 2006
Intervista a Babbo Natale
Caro
Babbo Natale mi consenta di ringraziarla per avermi concesso qualche minuto del
suo preziosissimo tempo…
Ma chi è lei? Come si permette? Chi l’ha fatta entrare…. Vigilanza! Vigilanza!
Stia calmo. Ho un salvacondotto del governo danese…
Buoni quelli. Mi hanno confinato qui in Groenlandia, con un contratto a tempo determinato. Ho la schiena a pezzi. Lavoro tutto l’anno, ma mi pagano solo ottobre-novembre-dicembre….
Certo, non è carino… Ma pensi all’onore di ricevere, da tutto il mondo, le letterine dei bambini…. E poi di leggerle mentre fuori nevica... Pura poesia.
E chi se ne frega….
Come?
Sì, sì, chi se ne frega. Sono stufo di servire questi mostriciattoli… Una volta si accontentavano di un trenino di legno, quattro soldatini di piombo, una bambolina di pezza. Oggi invece vogliono la play station, e altri giocattoli supertecnologici…
E allora?
Allora, allora…. Costano. E non potendo comprarli in Europa, perché gli industriali del giocattolo non mi facevano più sconti da un pezzo, mi sono rivolto ai cinesi. Che però mi vendono sottocosto giocattoli di merda….
Che linguaggio…
Allora, ci tratti lei, coi cinesi. Sembrano buoni buoni… Ma sono certi paraculi…
La prego, si moderi i bambini ci leggono. E poi, scusi, ci sono sempre gli americani…
Ah! Quelli te li raccomando…
Perché?
Mi hanno solo usato per fa crescere i consumi, come mi spiegò un professore universitario, mi pare, un certo Claude Lévi-Strauss. Pensi, negli Stati Uniti, una città dell’Indiana ha perfino ricevuto il mio nome: Santa Claus. Ebbene, la sua attività consiste nella promozione commerciale del suo santo patrono, che sarei io… Da bravi mercanti, i residenti si sono inventati una “scuola” di Santa Claus, che forma dei “Babbi Natale” professionali per i grandi magazzini... Ma vaffan…
Stia zitto, per carità …. Però grazie al genio commerciale americano, lei è diventato famoso in tutto il mondo…
Certo, ma allora fatemi un contratto a tempo indeterminato, pagato anche dal governo Usa.. E invece sto’ cazzo di modello danese, incensato dagli economisti, mi condanna a fare a una vita da precario…
Mi scusi, ma non era olandese il modello che piace tanto agli economisti?
Olandese, danese. Ammazza, ammazza è tutta una razza. E non rompa pure lei, no…. E poi che ci fa lei ancora qui. Vigilanza! Vigilanza!
La prego, solo un’ultima domanda…
Va bene, chieda pure
Qual è il suo più grande desiderio?
Farla finita coi regali di Natale.
Ma poi la mettono in mobilità…
E chi se ne frega. Ho un cognata, già in pensione da un pezzo, che mi ospiterebbe a casa sua. E’ bruttarella e scalcagnata, ma cucina bene…
E come si chiama ?
Befana. E adesso basta. Vigilanza! Vigilanza!
Ma chi è lei? Come si permette? Chi l’ha fatta entrare…. Vigilanza! Vigilanza!
Stia calmo. Ho un salvacondotto del governo danese…
Buoni quelli. Mi hanno confinato qui in Groenlandia, con un contratto a tempo determinato. Ho la schiena a pezzi. Lavoro tutto l’anno, ma mi pagano solo ottobre-novembre-dicembre….
Certo, non è carino… Ma pensi all’onore di ricevere, da tutto il mondo, le letterine dei bambini…. E poi di leggerle mentre fuori nevica... Pura poesia.
E chi se ne frega….
Come?
Sì, sì, chi se ne frega. Sono stufo di servire questi mostriciattoli… Una volta si accontentavano di un trenino di legno, quattro soldatini di piombo, una bambolina di pezza. Oggi invece vogliono la play station, e altri giocattoli supertecnologici…
E allora?
Allora, allora…. Costano. E non potendo comprarli in Europa, perché gli industriali del giocattolo non mi facevano più sconti da un pezzo, mi sono rivolto ai cinesi. Che però mi vendono sottocosto giocattoli di merda….
Che linguaggio…
Allora, ci tratti lei, coi cinesi. Sembrano buoni buoni… Ma sono certi paraculi…
La prego, si moderi i bambini ci leggono. E poi, scusi, ci sono sempre gli americani…
Ah! Quelli te li raccomando…
Perché?
Mi hanno solo usato per fa crescere i consumi, come mi spiegò un professore universitario, mi pare, un certo Claude Lévi-Strauss. Pensi, negli Stati Uniti, una città dell’Indiana ha perfino ricevuto il mio nome: Santa Claus. Ebbene, la sua attività consiste nella promozione commerciale del suo santo patrono, che sarei io… Da bravi mercanti, i residenti si sono inventati una “scuola” di Santa Claus, che forma dei “Babbi Natale” professionali per i grandi magazzini... Ma vaffan…
Stia zitto, per carità …. Però grazie al genio commerciale americano, lei è diventato famoso in tutto il mondo…
Certo, ma allora fatemi un contratto a tempo indeterminato, pagato anche dal governo Usa.. E invece sto’ cazzo di modello danese, incensato dagli economisti, mi condanna a fare a una vita da precario…
Mi scusi, ma non era olandese il modello che piace tanto agli economisti?
Olandese, danese. Ammazza, ammazza è tutta una razza. E non rompa pure lei, no…. E poi che ci fa lei ancora qui. Vigilanza! Vigilanza!
La prego, solo un’ultima domanda…
Va bene, chieda pure
Qual è il suo più grande desiderio?
Farla finita coi regali di Natale.
Ma poi la mettono in mobilità…
E chi se ne frega. Ho un cognata, già in pensione da un pezzo, che mi ospiterebbe a casa sua. E’ bruttarella e scalcagnata, ma cucina bene…
E come si chiama ?
Befana. E adesso basta. Vigilanza! Vigilanza!
Agli amici lettori,
i più cari
auguri di Buon Natale!
venerdì 22 dicembre 2006
Nuove Manie
La laurea ad honorem
Il ministro Mussi, titolare dell’Università e della
Ricerca, ha detto basta. Alla centesima laurea ad honorem in sei mesi,
finalmente, ha preso posizione. La lista dei neodottori famosi è piuttosto
lunga, e include i nomi persino di Peppino di Capri, Vasco Rossi, Arrigo
Sacchi, Valentino Rossi. E poi tanti, troppi imprenditori: magari nomi non
molto conosciuti, ma che, guarda caso, di solito finiscono per contribuire
finanziariamente a qualche progetto universitario, privato o pubblico…
Insomma, come al solito si è ecceduto. E probabilmente si è toccato il fondo nel giugno scorso col discorso postdottorale di Valentino Rossi: uno spot per l’Università di Urbino (in fondo un marchio di birra, pardon universitario, come un altro…) con tanto di grazie alla mamma, ai professori e agli amici per essere arrivato primo. Mancava solo un bel “viva la foca” conclusivo…
Ma perché si eccede? In primo luogo, conferire una laurea ad honorem al personaggio famoso, significa richiamare attenzione mediatica sull’università che addottora. In secondo luogo, come ho già accennato, i rapporti con le imprese sono importanti, soprattutto in tempi di strisciante privatizzazione dell’università. E un imprenditore laureato (ad honorem) è un imprenditore mezzo comprato… Non nel senso corruttivo e penale del termine, ci mancherebbe. Nel 99,99 per cento dei casi si tratta di lauree già guadagnate sul campo del lavoro. Ma la laurea serve sicuramente a mettere il neodottore nelle condizioni di spirito giuste per sviluppare, come si legge in un recente studio, quelle “cospicue sinergie tra mondo della cultura e delle professioni”.
E poi c’è una terza ragione. Siamo italiani e molto borghesi: il titolo di dottore, non solo piace, ma entusiasma… Amiamo la pompa, il tocco, le toghe, i fotografi, le televisione, la presenza di mamma e papà, se ancora vivi e vegeti. Vuoi mettere quel mezzo minuto di gloria, che non dispiace neppure a chi la gloria o magari una laurea l’ha già raggiunta da un pezzo…
Ma così cresce anche il mercato delle illusioni… Perché, stando alle statistiche, laurea ad honorem o meno, quattro laureati su cinque trovano lavoro solo grazie alle conoscenze familiari. E probabilmente proprio per questo sette laureati su dieci, di estrazione alto-borghese, continuano la professione paterna…
Insomma, come al solito si è ecceduto. E probabilmente si è toccato il fondo nel giugno scorso col discorso postdottorale di Valentino Rossi: uno spot per l’Università di Urbino (in fondo un marchio di birra, pardon universitario, come un altro…) con tanto di grazie alla mamma, ai professori e agli amici per essere arrivato primo. Mancava solo un bel “viva la foca” conclusivo…
Ma perché si eccede? In primo luogo, conferire una laurea ad honorem al personaggio famoso, significa richiamare attenzione mediatica sull’università che addottora. In secondo luogo, come ho già accennato, i rapporti con le imprese sono importanti, soprattutto in tempi di strisciante privatizzazione dell’università. E un imprenditore laureato (ad honorem) è un imprenditore mezzo comprato… Non nel senso corruttivo e penale del termine, ci mancherebbe. Nel 99,99 per cento dei casi si tratta di lauree già guadagnate sul campo del lavoro. Ma la laurea serve sicuramente a mettere il neodottore nelle condizioni di spirito giuste per sviluppare, come si legge in un recente studio, quelle “cospicue sinergie tra mondo della cultura e delle professioni”.
E poi c’è una terza ragione. Siamo italiani e molto borghesi: il titolo di dottore, non solo piace, ma entusiasma… Amiamo la pompa, il tocco, le toghe, i fotografi, le televisione, la presenza di mamma e papà, se ancora vivi e vegeti. Vuoi mettere quel mezzo minuto di gloria, che non dispiace neppure a chi la gloria o magari una laurea l’ha già raggiunta da un pezzo…
Ma così cresce anche il mercato delle illusioni… Perché, stando alle statistiche, laurea ad honorem o meno, quattro laureati su cinque trovano lavoro solo grazie alle conoscenze familiari. E probabilmente proprio per questo sette laureati su dieci, di estrazione alto-borghese, continuano la professione paterna…
Insomma, la società italiana è bloccata e classista più
che mai. E se non si appartiene alla classe giusta la laurea da sola non basta.
Ma questa è un'altra storia.
Carlo Gambescia
giovedì 21 dicembre 2006
Anche i presepi
Politicamente corretti?
La prendo da lontano.
Ricordo, un amico, che trafficava, in libri vecchi, molto più grande di me, che ogni volta che tentavo di tirare sul prezzo di un testo, mi rispondeva, scherzando, in romanesco: “Aoh, guarda che qui mica è arrivato er tempo in cui i foderi combattono le sciabole resteno attaccate… Mica so’ micco [stupido]”.
Ora, alcuni conservatori, quando si parla loro, di matrimoni gay, assumono lo stesso atteggiamento: non si può “rovesciare il mondo”, le spade guerreggiano e i foderi devono invece restare ben stretti lungo il fianco dei cavalieri “antiqui”. Per contro, i progressisti ritengono invece - per dirla con Günther Anders (primo marito della Arendt, visto che si parla di famiglie) - che “l’uomo sia antiquato”. Non nei riguardi della tecnologia, ma verso certe cose che una volta si chiamavano famiglia, con mogli e figli, nonni, e anche zie, di quelle che piacevano tanto al regista Samperi. Insomma, secondo i progressisti, ci si deve armare di foderi…
Ora chi scrive, non si è mai scandalizzato più di tanto. Il mondo è vario. E nessuno è “perfetto”. Anche perché bisognerebbe prima definire, in modo univoco, l’idea di perfezione. Il che è impossibile, almeno suo piano sociologico e storico. L’amico di cui sopra era uno con il simpatico “vizietto”, che in tempi non sospetti, viveva tranquillamente la sua sessualità, come si direbbe oggi. Colto, ottima persona, non si sentiva perseguitato, e soprattutto, mai si sarebbe sognato di trasformarsi in moralista di segno contrario: vivi e lascia vivere, era il suo adagio preferito. Insomma, una persona libera, priva di pregiudizi, che da vero conservatore-anarchico, mai avrebbe chiesto nulla allo stato: dalla pensione all’ attestato matrimoniale.
Invece le suorine laiche radicali - già note per il loro strabismo occidentalista - la pensano in modo diverso. Vogliono tutto: pensione, assegni familiari, e ora, per parità di diritti, persino il presepe, politicamente corretto, con le pacs-statuine. Ma non erano anticlericali? E che c’è di più “clericale” di un presepe esposto all'interno di un Parlamento Repubblicano?
Per metterla sul sociologico, si può dire, che “l’istituzionalizzazione” di certa controcultura sessuale anni Sessanta, sia ormai in rigoglioso sviluppo. E che, come capita sempre, ai vecchi tabù sessuofobici se ne siano sostituiti nuovi. Fino a certo punto però: perché i gay che chiedono di sposarsi, sposano anche una vecchissima idea borghese di famiglia. Quale? Quella della famiglia come rifugio privato in un mondo (il pubblico), sempre più arido. Una scelta di vita “a rate da pagare”, che ricorda quella delle famigerate “mille lire al mese, un casettina in periferia, una mogliettina, eccetera”…. Cavallo di battaglia canoro del fascismo rosa anni Trenta.
L’unico aspetto nuovo è rappresentato dall’ individualismo democratico. Che ha un suo fondamento, ma che "esibizioni" come quella radicale mettono in ridicolo…
C’è poi un altro aspetto. E’ nota la storia dei perseguitati che si trasformano in persecutori, e così via… ( si pensi, ad esempio, ai templi “pagani” chiusi dai cristiani vittoriosi). Ora, tutte le società, e in particolare le moderne (così rapide nel “consumare” valori), sono soggette a saturazione: una volta raggiunto un certo limite voltano le spalle ai valori dominanti. E guardano altrove.
Perciò non esistono marce storiche trionfali di questo o quel valore culturale: altrimenti oggi saremmo ancora tutti “pagani” o cristiani. E la stessa sorte potrebbe toccare alla cultura gay, una volta pienamente istituzionalizzata.
Ciò non significa “remare contro”, ma più semplicemente, fare buon uso di certo sano scetticismo sociologico.
E’ il sale della tolleranza.
Ricordo, un amico, che trafficava, in libri vecchi, molto più grande di me, che ogni volta che tentavo di tirare sul prezzo di un testo, mi rispondeva, scherzando, in romanesco: “Aoh, guarda che qui mica è arrivato er tempo in cui i foderi combattono le sciabole resteno attaccate… Mica so’ micco [stupido]”.
Ora, alcuni conservatori, quando si parla loro, di matrimoni gay, assumono lo stesso atteggiamento: non si può “rovesciare il mondo”, le spade guerreggiano e i foderi devono invece restare ben stretti lungo il fianco dei cavalieri “antiqui”. Per contro, i progressisti ritengono invece - per dirla con Günther Anders (primo marito della Arendt, visto che si parla di famiglie) - che “l’uomo sia antiquato”. Non nei riguardi della tecnologia, ma verso certe cose che una volta si chiamavano famiglia, con mogli e figli, nonni, e anche zie, di quelle che piacevano tanto al regista Samperi. Insomma, secondo i progressisti, ci si deve armare di foderi…
Ora chi scrive, non si è mai scandalizzato più di tanto. Il mondo è vario. E nessuno è “perfetto”. Anche perché bisognerebbe prima definire, in modo univoco, l’idea di perfezione. Il che è impossibile, almeno suo piano sociologico e storico. L’amico di cui sopra era uno con il simpatico “vizietto”, che in tempi non sospetti, viveva tranquillamente la sua sessualità, come si direbbe oggi. Colto, ottima persona, non si sentiva perseguitato, e soprattutto, mai si sarebbe sognato di trasformarsi in moralista di segno contrario: vivi e lascia vivere, era il suo adagio preferito. Insomma, una persona libera, priva di pregiudizi, che da vero conservatore-anarchico, mai avrebbe chiesto nulla allo stato: dalla pensione all’ attestato matrimoniale.
Invece le suorine laiche radicali - già note per il loro strabismo occidentalista - la pensano in modo diverso. Vogliono tutto: pensione, assegni familiari, e ora, per parità di diritti, persino il presepe, politicamente corretto, con le pacs-statuine. Ma non erano anticlericali? E che c’è di più “clericale” di un presepe esposto all'interno di un Parlamento Repubblicano?
Per metterla sul sociologico, si può dire, che “l’istituzionalizzazione” di certa controcultura sessuale anni Sessanta, sia ormai in rigoglioso sviluppo. E che, come capita sempre, ai vecchi tabù sessuofobici se ne siano sostituiti nuovi. Fino a certo punto però: perché i gay che chiedono di sposarsi, sposano anche una vecchissima idea borghese di famiglia. Quale? Quella della famiglia come rifugio privato in un mondo (il pubblico), sempre più arido. Una scelta di vita “a rate da pagare”, che ricorda quella delle famigerate “mille lire al mese, un casettina in periferia, una mogliettina, eccetera”…. Cavallo di battaglia canoro del fascismo rosa anni Trenta.
L’unico aspetto nuovo è rappresentato dall’ individualismo democratico. Che ha un suo fondamento, ma che "esibizioni" come quella radicale mettono in ridicolo…
C’è poi un altro aspetto. E’ nota la storia dei perseguitati che si trasformano in persecutori, e così via… ( si pensi, ad esempio, ai templi “pagani” chiusi dai cristiani vittoriosi). Ora, tutte le società, e in particolare le moderne (così rapide nel “consumare” valori), sono soggette a saturazione: una volta raggiunto un certo limite voltano le spalle ai valori dominanti. E guardano altrove.
Perciò non esistono marce storiche trionfali di questo o quel valore culturale: altrimenti oggi saremmo ancora tutti “pagani” o cristiani. E la stessa sorte potrebbe toccare alla cultura gay, una volta pienamente istituzionalizzata.
Ciò non significa “remare contro”, ma più semplicemente, fare buon uso di certo sano scetticismo sociologico.
E’ il sale della tolleranza.
Carlo Gambescia
mercoledì 20 dicembre 2006
Lo scaffale delle riviste/10
A chi fosse interessati al dibattito
(meta)politico contemporaneo consigliamo vivamente la lettura di “Conflits
actuels. Revue d’étude politique” (http://www.conflits.actuels.com/
). Si tratta di una pubblicazione che affronta in modo rigoroso i principali
nodi storici, e dunque “conflittuali”, che segnano il mondo contemporaneo. La
rivista è diretta da Arnaud Hurel. E ha come redattore-capo lo storico
Christophe Réveillard. I membri del consiglio scientifico sono Francis Balle,
François Doumenge, Roland Drago, Jacques Dupâquier, Yves Durand (+) Lucien
Israël, Henry de Lumley. Finora sono usciti 17 fascicoli. Ogni numero ruota
intorno a un dossier. Mentre nella seconda parte (Chroniques),viene
dato spazio a interessanti note di lettura, recensioni e interventi vari. Tra i
temi trattati negli ultimi numeri: Vertiges de la modernité
(n. 12 - 2003, articoli di Frédéric Guillaud, Anne Henry, Marc de Launay,
Michel Bastit, Paolo Pasqualucci e altri); France, Europe, Etats-Unis,
n. 13 - 2004, articoli di Éric Werner, Olivier Dassault, Thomas Flemming, Paul
Gottfried e altri); Regard sur la peur, n. 14 - 2004, articoli di
Frédéric Guillaud, Franck Dardenne, William Naphy, Christophe Réveillard e
altri); Aspects de l’Islam (n. 15 - 2005, articoli di Jean Alcader.
Jacques Frémeaux, Michel De Jaeghere e altri); Réflexions sur la démocratie
(n. 16 - 2005, articoli di Frédéric Guillaud, Jean Baudouin, Miguel Ayuso,
Kostas Mavrakis e altri); Controverses (n. 17 - 2006, articoli di
Frédéric Guillaud, Élie Barnavi, Christian Combaz, Bernard d’Espagnat e altri).
Sempre in lingua francese va segnalato l’uscita del fascicolo n. 6 (novembre 2006) della rivista Contre-poisons. Si tratta di una pubblicazione nata e cresciuta come voce della Ligue Vaudoise, e viene perciò edita dai “Cahiers dela
Renaissance Vaudoise ” (Case postale 6724 -1002 Lausanne –
Suisse). Contre-poisons interpreta le istanze di un interessante e
vivace localismo, interno alla Svizzera ( e perché no all’Europa?), che si
batte per l’ autogoverno e la libertà cantonale. Siamo perciò davanti a un
percorso politico di critica dello statalismo tutto da scoprire… Questo
fascicolo ospita scritti di Olivier Delacrétaz, Nicolas de Araujo, Laurence
Benoit, Olivier Klunge, Julien Le Fort, Denis Ramelet, Antoine Rochat,
Jean-Blaise Rochat, Pierre-Françoise Vulliemin. Jean-François Cavin. Tutti
molto giovani e tutti molto bravi.
Interessante (e combattivo) come sempre l’ultimo numero di “Comunitarismo” (n. 1 - anno IV – 2006 – info@comunitarismo.it – http://www.comunitarismo.it/ ). Oltre all’ editoriale di Maurizio Neri (Lotta anti-Tav. Una lotta comunitarista, pp. 4-5), ricordiamo il notevole dossier curato da Giancarlo Paciello (Hamas, un ostacolo per la pace? L’unico vero ostacolo:occupazione militare e colonie, pp. I-XIV), e la recensione di Costanzo Preve al libro di Stefano Calzolai e Mimmo Porcaro, L’invenzione della politica (pp. 60-68).
Ai cultori di Vilfredo Pareto si segnala l’articolo di Lorenzo Beltrame, Verità e utilità sociale. La teoria dell’azione di Pareto e la sociologia della scienza ( “Rassegna Italiana di Sociologia - n. 3/2006, pp. 381-409 - www.ilmulino.it/rivisteweb ). Dove la sociologia paretiana viene utilizzata per dimostrare, come in molti conflitti socio-epistemologici, tra scienziati e gruppi politici e sociali, “l’impiego di strategie che rivendicano il possesso della verità sperimentale [ basate sul valore assoluto della scienza], avviene nei momenti di forte conflitto; nei momenti di negoziazione, invece, gli scienziati preferiscono far leva sui residui [ o sentimenti] e sulle dimostrazioni di utilità” (p. 406).
Notevole anche il dossier sulla democrazia (“Materiali per un lessico politico europeo”) pubblicato nell’ultimo fascicolo di “Filosofia Politica” (n. 3/2006, pp. 359-475 – http://www.mulino.it.rivisteweb/ ). Con scritti di Giuseppe Duso, Gaetano Rametta, Adone Brandalise, Bruno Karsenti, Jean-François Kervégan, José Luis Villacañas.
Sull’ultimo numero de “Le Monde diplomatique il manifesto” (n. 12, anno XII, dicembre 2006 - www.ilmanifesto.it/MondeDiplo/ ) si segnala in particolare l’articolo di Alexander Cockburn (11 settembre, il complotto che non ci fu, p. 3). Dove l’autore, riconduce le teorie complottiste” nell’alveo della paccottiglia di tipo “spiritista, già condannata da Theodor Adorno nei Minima Moralia. "La moda dello spiritismo – scriveva Adorno - è il segno di una regressione della coscienza, che ha perduto la forza di pensare l’incondizionato e di sopportare il condizionato”. In sostanza, secondo Cockburn “le ossessioni relative al ‘complotto’ [americano] dell’ 11 settembre (…) sviano l’attenzione dalle mille e una malefatte reali del sistema di dominio attuale”. A chi non condivide del tutto questa tesi, consigliamo la lettura dell’avvincente libro di Antonio Mazzucco ( 11 settembre 2001. Inganno globale (Macro Edizioni 2006, pp.134, in omaggio il primo
DVD italiano sull’11 settembre, euro 11,90 – http://www.macroedizioni.it/ ). Un
testo, come dire, possibilista e non “spiritista” (nel senso di
Adorno-Cockburn), che si propone “come una ‘guida ragionata’, rivolta
soprattutto a chi conosce meno l’argomento, all’interno di un dibattito ormai a
tutto campo, che si sta trasformando in una jungla di informazioni falsate,
distorte, imprecise, errate o comunque del tutto ininfluenti”.
Si segnala, infine, l’uscita dell’ultimo numero di “Italicum”, rivista diretta da Luigi Tedeschi, (novembre-dicembre 2006 – http://www.centroitalicum.it/ - posta@centroitalicum.it ). Di particolare interesse l’editoriale di Mario Porrini (Il governo del nostro scontento), che spazia a tutto campo tra i disastri della politica italiana. Tutto da leggere anche il focus, intitolato Siamo tutti democratici? ( pp. 3-8, scritti di Adriano Segatori, Luca Leonello Rimbotti, Francesco Massa, Luigi Tedeschi, Enzo Cipriano, Costanzo Preve). Da non perdere la ricostruzione, storiograficamente controcorrente, che Enrico Landolfi offre del pensiero di Filippo Buonarroti (1761-1837): “ alto esponente del socialismo nazionale popolare, o perché no, del comunismo nazionale libertario” (p. 13).
Sempre in lingua francese va segnalato l’uscita del fascicolo n. 6 (novembre 2006) della rivista Contre-poisons. Si tratta di una pubblicazione nata e cresciuta come voce della Ligue Vaudoise, e viene perciò edita dai “Cahiers de
Interessante (e combattivo) come sempre l’ultimo numero di “Comunitarismo” (n. 1 - anno IV – 2006 – info@comunitarismo.it – http://www.comunitarismo.it/ ). Oltre all’ editoriale di Maurizio Neri (Lotta anti-Tav. Una lotta comunitarista, pp. 4-5), ricordiamo il notevole dossier curato da Giancarlo Paciello (Hamas, un ostacolo per la pace? L’unico vero ostacolo:occupazione militare e colonie, pp. I-XIV), e la recensione di Costanzo Preve al libro di Stefano Calzolai e Mimmo Porcaro, L’invenzione della politica (pp. 60-68).
Ai cultori di Vilfredo Pareto si segnala l’articolo di Lorenzo Beltrame, Verità e utilità sociale. La teoria dell’azione di Pareto e la sociologia della scienza ( “Rassegna Italiana di Sociologia - n. 3/2006, pp. 381-409 - www.ilmulino.it/rivisteweb ). Dove la sociologia paretiana viene utilizzata per dimostrare, come in molti conflitti socio-epistemologici, tra scienziati e gruppi politici e sociali, “l’impiego di strategie che rivendicano il possesso della verità sperimentale [ basate sul valore assoluto della scienza], avviene nei momenti di forte conflitto; nei momenti di negoziazione, invece, gli scienziati preferiscono far leva sui residui [ o sentimenti] e sulle dimostrazioni di utilità” (p. 406).
Notevole anche il dossier sulla democrazia (“Materiali per un lessico politico europeo”) pubblicato nell’ultimo fascicolo di “Filosofia Politica” (n. 3/2006, pp. 359-475 – http://www.mulino.it.rivisteweb/ ). Con scritti di Giuseppe Duso, Gaetano Rametta, Adone Brandalise, Bruno Karsenti, Jean-François Kervégan, José Luis Villacañas.
Sull’ultimo numero de “Le Monde diplomatique il manifesto” (n. 12, anno XII, dicembre 2006 - www.ilmanifesto.it/MondeDiplo/ ) si segnala in particolare l’articolo di Alexander Cockburn (11 settembre, il complotto che non ci fu, p. 3). Dove l’autore, riconduce le teorie complottiste” nell’alveo della paccottiglia di tipo “spiritista, già condannata da Theodor Adorno nei Minima Moralia. "La moda dello spiritismo – scriveva Adorno - è il segno di una regressione della coscienza, che ha perduto la forza di pensare l’incondizionato e di sopportare il condizionato”. In sostanza, secondo Cockburn “le ossessioni relative al ‘complotto’ [americano] dell’ 11 settembre (…) sviano l’attenzione dalle mille e una malefatte reali del sistema di dominio attuale”. A chi non condivide del tutto questa tesi, consigliamo la lettura dell’avvincente libro di Antonio Mazzucco ( 11 settembre 2001. Inganno globale (Macro Edizioni 2006, pp.
Si segnala, infine, l’uscita dell’ultimo numero di “Italicum”, rivista diretta da Luigi Tedeschi, (novembre-dicembre 2006 – http://www.centroitalicum.it/ - posta@centroitalicum.it ). Di particolare interesse l’editoriale di Mario Porrini (Il governo del nostro scontento), che spazia a tutto campo tra i disastri della politica italiana. Tutto da leggere anche il focus, intitolato Siamo tutti democratici? ( pp. 3-8, scritti di Adriano Segatori, Luca Leonello Rimbotti, Francesco Massa, Luigi Tedeschi, Enzo Cipriano, Costanzo Preve). Da non perdere la ricostruzione, storiograficamente controcorrente, che Enrico Landolfi offre del pensiero di Filippo Buonarroti (1761-1837): “ alto esponente del socialismo nazionale popolare, o perché no, del comunismo nazionale libertario” (p. 13).
Carlo Gambescia
martedì 19 dicembre 2006
Prodi e Berlusconi
Zero in condotta (politica)
C’è un principio che nobilita la politica. Quale? Quello
dell’esemplarità. Il politico, soprattutto se di altissimo livello, come un
(ex) Presidente del Consiglio, deve rappresentare, o comunque sforzarsi di
rappresentare, un esempio “edificante” di comportamento. Insomma, un modello
positivo da emulare. Perfino Machiavelli, riteneva, che anche il famigerato
Principe, dovesse comportarsi come tale. Ed essere, anche a costo di fingere,
un esempio per il popolo…
In Italia - e limitiamoci per ora alla Seconda Repubblica - siamo ben lontani da ogni modello di “esemplarità” politica. Anzi, trascurando le seconde e terze file del mondo politico, sembra proprio che i suoi massimi protagonisti, si preoccupino soltanto di dare in pasto agli italiani il peggio di se stessi.
Due esempi.
Il fatto che Berlusconi sia andato negli Stati Uniti per un piccolo intervento, al quale, tutto sommato, poteva sottoporsi anche in Italia, è prova di una totale mancanza di esemplarità. D’ora in avanti ogni italiano si sentirà autorizzato a recarsi all’estero per ragioni di salute. Perché - ecco il cattivo esempio - Berlusconi, col suo ridicolo “viaggio della speranza”, ha screditato ( oppure finito di) il sistema sanitario italiano. Ma quanti italiani si possono (e potranno) permettere economicamente di farsi “correggere l’aritimia” negli Usa? Pochi. E questo è l’altro aspetto sgradevole della questione: Berlusconi, se ci passa l’espressione, ha di nuovo sbattuto in faccia agli italiani la sua ricchezza…
Il fatto che Prodi nel 2003 abbia donato ai figli 870mila euro per acquisizioni immobiliari, sfruttando le inique detassazioni approvate dal governo di centrodestra, è un’altra prova di assoluta assenza di esemplarità. Perché, non basta dire - per difendersi - che si è agito "secondo quanto prevede la legge” (dalla lettera di Romano e Flavia Prodi all’Informazione di Reggio Emilia, vedi http://www.corriere.it/ ) Un politico, e soprattutto un ex Presidente del Consiglio, deve rappresentare un esempio: se una legge è iniqua non la si sfrutta per fini privati. Dal momento che un comportamento del genere rischia sempre di favorire nella gente comune analoghi atteggiamenti di tipo opportunistico. Il famigerato: “perché lui sì, io no…” C’è poco da aggiungere. Quanto a esemplarità politica, siamo messi proprio male. Povera Italia.
In Italia - e limitiamoci per ora alla Seconda Repubblica - siamo ben lontani da ogni modello di “esemplarità” politica. Anzi, trascurando le seconde e terze file del mondo politico, sembra proprio che i suoi massimi protagonisti, si preoccupino soltanto di dare in pasto agli italiani il peggio di se stessi.
Due esempi.
Il fatto che Berlusconi sia andato negli Stati Uniti per un piccolo intervento, al quale, tutto sommato, poteva sottoporsi anche in Italia, è prova di una totale mancanza di esemplarità. D’ora in avanti ogni italiano si sentirà autorizzato a recarsi all’estero per ragioni di salute. Perché - ecco il cattivo esempio - Berlusconi, col suo ridicolo “viaggio della speranza”, ha screditato ( oppure finito di) il sistema sanitario italiano. Ma quanti italiani si possono (e potranno) permettere economicamente di farsi “correggere l’aritimia” negli Usa? Pochi. E questo è l’altro aspetto sgradevole della questione: Berlusconi, se ci passa l’espressione, ha di nuovo sbattuto in faccia agli italiani la sua ricchezza…
Il fatto che Prodi nel 2003 abbia donato ai figli 870mila euro per acquisizioni immobiliari, sfruttando le inique detassazioni approvate dal governo di centrodestra, è un’altra prova di assoluta assenza di esemplarità. Perché, non basta dire - per difendersi - che si è agito "secondo quanto prevede la legge” (dalla lettera di Romano e Flavia Prodi all’Informazione di Reggio Emilia, vedi http://www.corriere.it/ ) Un politico, e soprattutto un ex Presidente del Consiglio, deve rappresentare un esempio: se una legge è iniqua non la si sfrutta per fini privati. Dal momento che un comportamento del genere rischia sempre di favorire nella gente comune analoghi atteggiamenti di tipo opportunistico. Il famigerato: “perché lui sì, io no…” C’è poco da aggiungere. Quanto a esemplarità politica, siamo messi proprio male. Povera Italia.
Carlo Gambescia
lunedì 18 dicembre 2006
Il caso Welby
Lasciarli morire, tutti?
Quel che sta accadendo a proposito di Piergiorgio Welby
suggerisce alcune riflessioni.
Partiamo da due constatazioni.
In primo luogo, la nostra società nega e nasconde la morte. Ai bambini si
spiega che i nonni spariscono tra i fiori. I malati terminali spesso muoiono,
isolati dal mondo, in apposite strutture ospedaliere. L’anzianità e la
vecchiaia, ancora nell’’Ottocento, erano vissute come graduale preparazione
alla morte, mentre oggi sono negate in nome di un ridicolo “giovanilismo
eternista”. L’uomo attuale è perciò impreparato ad affrontare, come si diceva
un tempo, una “una buona morte”, quale naturale conclusione della vita, o
comunque, come passaggio a un’altra vita. Il che del resto è scontato - senza
per questo voler dare giudizi di valore - in una società, come questa, che nega
l’Aldilà. E dove, di conseguenza, morire significa quasi sempre sparire e
perdere le “dolcezze” consumistiche della vita: se il “paradiso” è in questo
mondo, la morte non può non essere vissuta come un’ingiustizia ( e negata, o
quanto meno scacciata )... Ecco però, che di colpo, Piergiorgio Welby, col suo
corpo dolente, richiama tutti alla nuda e atroce realtà della morte.
In secondo luogo, la nostra società è profondamente segnata
dall’individualismo. Ma da un individualismo di tipo particolare, da alcuni
definito “assistito” o “protetto” Nel senso che i diritti individuali devono
essere ( e sono) garantiti da strutture pubbliche: dal potere sociale.
L’individuo è libero di decidere ma all’interno di un “percorso” istituzionale
e societario obbligato. Che in certo senso, finisce per condizionare, spesso
pesantemente, la decisione del singolo. Si pensi alla tutela del diritto al lavoro,
alla salute e all’istruzione, affidata per legge ai controlli di occhiute e
impersonali burocrazie. Si può perciò parlare di diritti individuali
“vincolati” al riconoscimento di un potere sociale o pubblico, talvolta
inefficiente, che si manifesta e concretizza attraverso leggi, regolamenti e
funzionari. Ecco però, che all’improvviso, Piergiorgio Welby, rivendica
esplicitamente, davanti a una società che si illude di essere libera, il
diritto individuale di morire, rifiutando mediazioni politiche e burocratiche
di qualsiasi tipo.
Quali conclusioni? La miscela tra rifiuto della morte e individualismo
assistito, potrà condurre, prima o poi, solo a qualche cattiva legge, approvata
magari in fretta, che riconoscerà a burocrazie legali e mediche l’ultima parola
sulla vita di uomini e donne. Si pensi, ad esempio, alle difficoltà insite
nella strutturazione stessa di protocolli medici “sicuri” in materia. Oppure al
rischio di “routinizzazione” dell’ iter di accertamento medico-legale dei
requisti per aver “diritto” alla “morte assistita” o “protetta” (il termine non
è nostro, ma dei sostenitori di una legge in materia). Ma, allora, che fare?
Difficile dire. Purtroppo, la sola scelta, è quella tra l’attuale divieto di
darsi da soli una morte liberatoria e l’approvazione di una legge che deleghi a
notai, giudici e medici un potere di vita e di morte sugli individui.
Molti penseranno meglio una cattiva legge che nulla… Certo, ma può essere
definito libero un individuo la cui sorte finale rischia di dipendere dal potere
sociale o pubblico?
Carlo Gambescia
Partiamo da due constatazioni.
In primo luogo, la nostra società nega e nasconde la morte. Ai bambini si spiega che i nonni spariscono tra i fiori. I malati terminali spesso muoiono, isolati dal mondo, in apposite strutture ospedaliere. L’anzianità e la vecchiaia, ancora nell’’Ottocento, erano vissute come graduale preparazione alla morte, mentre oggi sono negate in nome di un ridicolo “giovanilismo eternista”. L’uomo attuale è perciò impreparato ad affrontare, come si diceva un tempo, una “una buona morte”, quale naturale conclusione della vita, o comunque, come passaggio a un’altra vita. Il che del resto è scontato - senza per questo voler dare giudizi di valore - in una società, come questa, che nega l’Aldilà. E dove, di conseguenza, morire significa quasi sempre sparire e perdere le “dolcezze” consumistiche della vita: se il “paradiso” è in questo mondo, la morte non può non essere vissuta come un’ingiustizia ( e negata, o quanto meno scacciata )... Ecco però, che di colpo, Piergiorgio Welby, col suo corpo dolente, richiama tutti alla nuda e atroce realtà della morte.
In secondo luogo, la nostra società è profondamente segnata dall’individualismo. Ma da un individualismo di tipo particolare, da alcuni definito “assistito” o “protetto” Nel senso che i diritti individuali devono essere ( e sono) garantiti da strutture pubbliche: dal potere sociale. L’individuo è libero di decidere ma all’interno di un “percorso” istituzionale e societario obbligato. Che in certo senso, finisce per condizionare, spesso pesantemente, la decisione del singolo. Si pensi alla tutela del diritto al lavoro, alla salute e all’istruzione, affidata per legge ai controlli di occhiute e impersonali burocrazie. Si può perciò parlare di diritti individuali “vincolati” al riconoscimento di un potere sociale o pubblico, talvolta inefficiente, che si manifesta e concretizza attraverso leggi, regolamenti e funzionari. Ecco però, che all’improvviso, Piergiorgio Welby, rivendica esplicitamente, davanti a una società che si illude di essere libera, il diritto individuale di morire, rifiutando mediazioni politiche e burocratiche di qualsiasi tipo.
Quali conclusioni? La miscela tra rifiuto della morte e individualismo assistito, potrà condurre, prima o poi, solo a qualche cattiva legge, approvata magari in fretta, che riconoscerà a burocrazie legali e mediche l’ultima parola sulla vita di uomini e donne. Si pensi, ad esempio, alle difficoltà insite nella strutturazione stessa di protocolli medici “sicuri” in materia. Oppure al rischio di “routinizzazione” dell’ iter di accertamento medico-legale dei requisti per aver “diritto” alla “morte assistita” o “protetta” (il termine non è nostro, ma dei sostenitori di una legge in materia). Ma, allora, che fare? Difficile dire. Purtroppo, la sola scelta, è quella tra l’attuale divieto di darsi da soli una morte liberatoria e l’approvazione di una legge che deleghi a notai, giudici e medici un potere di vita e di morte sugli individui.
Molti penseranno meglio una cattiva legge che nulla… Certo, ma può essere definito libero un individuo la cui sorte finale rischia di dipendere dal potere sociale o pubblico?
venerdì 15 dicembre 2006
(Meta)poltical comics
Romano Prodi e il doktor Spengler
Spengler e vivo e lotta insieme a noi (sì quello del Tramonto
dell’Occidente).
Che vogliamo dire? Un po’ di pazienza…
Innanzitutto che il dibattito sulla “fase due” (quella delle riforme liberiste) è legato a doppio filo a quello sul declino italiano… Un declino da fermare a ogni costo: anche al prezzo di licenziare tutti. Così scriveva ieri Giavazzi-Cavallo Pazzo sul Corriere.
Si tratta di un tormentone che risale all’ultima fase del passato governo Berlusconi. Ci si accapiglia - e ci si accapigliava - su mezzo punto in meno o in più di Pil o di tasse. C’è chi vorrebbe più licenziamenti e concorrenza. Chi più America nell’economia, Chi meno tasse, eccetera.
Ma tutti ripetono pappagallo: Ripresa-economica-ripresa-economica-ripresa-economica… Oppure Fase due-fase due- fase due… O ancora: Riforme-riforme-riforme… Come se parlassero a macchine e non a uomini e donne vivi e vegeti ( e pure incazzati..): facendo finta di ignorare che, se proprio di declino si deve parlare, il declino è culturale e non economico.
Ci spieghiamo.
Punto primo, gli economisti, come Giavazzi, Boeri e company, quando sentono pronunciare la parola cultura ( a meno che non si parli di “filosofia delle vendite”), se avessero una pistola la userebbero subito. Ad esempio, per l’economista medio, un tasso di disoccupazione del 4-5 % è fisiologico o “frizionale” (frutto della spontanee “frizioni” del mercato… Spontanee? Ma de che aoh???). Mentre per il lavoratore che è “dentro” quel 4-5 % è un casino. Perdere il lavoro in una società, come la nostra, malata di successo e avvelenata da denaro e ratei, significa essere considerati “culturalmente” falliti. Ma gli economisti, come detto, guardano altrove. Quel che conta è la crescita del Pil, e se poi qualcuno è mandato a spasso, “ma che ce frega, ma che ce importa…”
Punto secondo, i politici pendono dalle labbra degli economisti. Di che si discute in questi giorni? Di tasse. Chi la vuole cotta, chi la vuole cruda… Ma nessuno parla di investimenti sociali. Qui, di nuovo, quel che conta è la crescita economica, per fermare il “declino produttivo” . Appunto. Ammesso pure che vi riescano… Se poi uno chiede, ad esempio, un’ università all’altezza dei tempi. Anche il politico, guardando altrove, si mette a canticchiare “ma che ce frega, ma che ce importa...”.
Ecco questo “menefreghismo” per la “geeente”, quella in carne e ossa, e non quella del mezzo pollo a testa dei grafici di Boeri, è un autentico segno di declino: culturale. Perché crescere, moltiplicando le fratture economiche e il numero dei socialmente incazzati non porta da nessuna parte. Significa solo chiudere la porta in faccia alla cultura della socialità.
Però attenzione: c’è pure la possibilità che la “geeente” esasperata possa, all’improvviso svegliarsi e intonare in coro, indovinate un po’? “Ma che ce frega, ma che ce importa…”. E, questa volta, all’indirizzo di economisti e politici. Invocando il castigamatti. Come appunto sosteneva il vecchio doktor Spengler, quando parlava del "Cesarismo", come stazione d’arrivo dell’autobus Occidente, proveniente da Roma antica con destinazione Berlino (Porta di Brandeburgo)…
Il che, tuttavia sarebbe spiacevole per tutti.
Che vogliamo dire? Un po’ di pazienza…
Innanzitutto che il dibattito sulla “fase due” (quella delle riforme liberiste) è legato a doppio filo a quello sul declino italiano… Un declino da fermare a ogni costo: anche al prezzo di licenziare tutti. Così scriveva ieri Giavazzi-Cavallo Pazzo sul Corriere.
Si tratta di un tormentone che risale all’ultima fase del passato governo Berlusconi. Ci si accapiglia - e ci si accapigliava - su mezzo punto in meno o in più di Pil o di tasse. C’è chi vorrebbe più licenziamenti e concorrenza. Chi più America nell’economia, Chi meno tasse, eccetera.
Ma tutti ripetono pappagallo: Ripresa-economica-ripresa-economica-ripresa-economica… Oppure Fase due-fase due- fase due… O ancora: Riforme-riforme-riforme… Come se parlassero a macchine e non a uomini e donne vivi e vegeti ( e pure incazzati..): facendo finta di ignorare che, se proprio di declino si deve parlare, il declino è culturale e non economico.
Ci spieghiamo.
Punto primo, gli economisti, come Giavazzi, Boeri e company, quando sentono pronunciare la parola cultura ( a meno che non si parli di “filosofia delle vendite”), se avessero una pistola la userebbero subito. Ad esempio, per l’economista medio, un tasso di disoccupazione del 4-5 % è fisiologico o “frizionale” (frutto della spontanee “frizioni” del mercato… Spontanee? Ma de che aoh???). Mentre per il lavoratore che è “dentro” quel 4-5 % è un casino. Perdere il lavoro in una società, come la nostra, malata di successo e avvelenata da denaro e ratei, significa essere considerati “culturalmente” falliti. Ma gli economisti, come detto, guardano altrove. Quel che conta è la crescita del Pil, e se poi qualcuno è mandato a spasso, “ma che ce frega, ma che ce importa…”
Punto secondo, i politici pendono dalle labbra degli economisti. Di che si discute in questi giorni? Di tasse. Chi la vuole cotta, chi la vuole cruda… Ma nessuno parla di investimenti sociali. Qui, di nuovo, quel che conta è la crescita economica, per fermare il “declino produttivo” . Appunto. Ammesso pure che vi riescano… Se poi uno chiede, ad esempio, un’ università all’altezza dei tempi. Anche il politico, guardando altrove, si mette a canticchiare “ma che ce frega, ma che ce importa...”.
Ecco questo “menefreghismo” per la “geeente”, quella in carne e ossa, e non quella del mezzo pollo a testa dei grafici di Boeri, è un autentico segno di declino: culturale. Perché crescere, moltiplicando le fratture economiche e il numero dei socialmente incazzati non porta da nessuna parte. Significa solo chiudere la porta in faccia alla cultura della socialità.
Però attenzione: c’è pure la possibilità che la “geeente” esasperata possa, all’improvviso svegliarsi e intonare in coro, indovinate un po’? “Ma che ce frega, ma che ce importa…”. E, questa volta, all’indirizzo di economisti e politici. Invocando il castigamatti. Come appunto sosteneva il vecchio doktor Spengler, quando parlava del "Cesarismo", come stazione d’arrivo dell’autobus Occidente, proveniente da Roma antica con destinazione Berlino (Porta di Brandeburgo)…
Il che, tuttavia sarebbe spiacevole per tutti.
Carlo Gambescia
giovedì 14 dicembre 2006
Conferenza revisionista di Teheran
Ahmadinejad
e la teoria del complotto
La conferenza di Teheran sull’Olocausto va vista
essenzialmente per ciò che rappresenta: una sfida politica di Ahmadinejad agli
Stati Uniti e ai suoi fedeli alleati, tra i quali, ovviamente, Israele. Si
tratta di un confronto politico che ha come posta il conseguimento da parte
dell’Iran dello status di potenza egemone in Medio Oriente.
Fin qui, dal punto di vista del realismo politico, non vi sarebbe nulla male. La politica internazionale, non ammette vuoti di potere. Ed è noto quanto l’Iran di Ahmadinejad, punti a sostituire politicamente l’Iraq, ormai fuori da ogni gioco politico attivo.
Il male invece è nel tipo di strumenti culturali ai quali l’Iran ricorre. Che di razionale hanno ben poco o nulla. Infatti, sollevare la questione dell’Olocausto, e per giunta in termini sfacciatamente politici, segna un ulteriore imbarbarimento della vita politica internazionale. Che attenzione, si regge anche su idee-forza: si pensi al mito degli Stati Uniti, Esportatori di Libertà, oppure a quello contrario del vecchio Internazionalismo Proletario, patrocinato dall’Unione Sovietica… Però con una controindicazione: che non si consenta mai all’idea-forza di trasformarsi in “materiale culturale” per la costruzione di una teoria del complotto. Dal momento che una volta superata la soglia, diciamo così, della “razionalità”, si precipita rapidamente nella barbarie del voler creare “a tavolino” un nemico assoluto, da sradicare dalla faccia della terra.
In questo momento due sono le principali teorie complottiste che inquinano la vita politica internazionale: da una parte quella che scorge terroristi islamici ovunque, e ovviamente al servizio di una congiura “islamico-fascista”; dall’altra quella che vede nello stato di Israele, un mostruoso polipo, insediatosi fin dentrola
Casa Bianca.
No n è facile stabilire, quando, come e perché un’idea forza
rischia di trasformarsi in idea “complottistica”. Non esistono teorie o modelli
politologici e sociologici in proposito. Pertanto potrebbe trattarsi solo di
una questione di senso politico… E, purtroppo, stando alle dichiarazioni di
capi di stato, politici, commentatori, e studiosi schierati con l’una o l’altra
parte, oggi siamo ben oltre la soglia di sicurezza. Infatti è molto concreto il
rischio che la situazione possa all’improvviso precipitare verso il muro contro
muro, o se si preferisce, in direzione della logica dello scontro tra due
nemici assoluti. Al punto in cui siamo, basterebbe un nulla.
Ela Conferenza
sull’Olocausto voluta fortemente da Ahmadinejad e le reazioni - scontate - dei
suoi nemici interni ed esterni, rappresentano un altro, e decisivo passo, verso
questa direzione.
Fin qui, dal punto di vista del realismo politico, non vi sarebbe nulla male. La politica internazionale, non ammette vuoti di potere. Ed è noto quanto l’Iran di Ahmadinejad, punti a sostituire politicamente l’Iraq, ormai fuori da ogni gioco politico attivo.
Il male invece è nel tipo di strumenti culturali ai quali l’Iran ricorre. Che di razionale hanno ben poco o nulla. Infatti, sollevare la questione dell’Olocausto, e per giunta in termini sfacciatamente politici, segna un ulteriore imbarbarimento della vita politica internazionale. Che attenzione, si regge anche su idee-forza: si pensi al mito degli Stati Uniti, Esportatori di Libertà, oppure a quello contrario del vecchio Internazionalismo Proletario, patrocinato dall’Unione Sovietica… Però con una controindicazione: che non si consenta mai all’idea-forza di trasformarsi in “materiale culturale” per la costruzione di una teoria del complotto. Dal momento che una volta superata la soglia, diciamo così, della “razionalità”, si precipita rapidamente nella barbarie del voler creare “a tavolino” un nemico assoluto, da sradicare dalla faccia della terra.
In questo momento due sono le principali teorie complottiste che inquinano la vita politica internazionale: da una parte quella che scorge terroristi islamici ovunque, e ovviamente al servizio di una congiura “islamico-fascista”; dall’altra quella che vede nello stato di Israele, un mostruoso polipo, insediatosi fin dentro
No
E
E chi esulta per gli uni o per gli altri, probabilmente,
non si rende conto del vicolo cieco in cui oggi si è cacciata politica
mondiale.
Carlo Gambescia
martedì 12 dicembre 2006
Pacs
Legge o sanatoria?
Non è facile affrontare il problema dei Pacs. Troppi
pregiudizi ideologici nell’uno e nell’altro senso impediscono un’analisi
oggettiva, sotto l’aspetto sociologico. Comunque sia, vale la pena di tentare.
In primo luogo, va liberato il campo da quasiasi posizione di tipo normativo ( “devi” oppure “non devi”). Imporre, o proporre, schemi morali e religiosi non cambia la sostanza economica e sociale della questione. Ma di quale questione? La nostra società, quella scaturita dal cosiddetto riflusso verso il privato degli anni Ottanta, è segnata da due processi: uno di individualizzazione ( nel senso che si tende in tutti i campi a privilegiare l’individuo rispetto al gruppo sociale); e un altro di socializzazione coattiva (nel senso che l’individuo, oltre una certa soglia di resistenza, non può fare a meno di chiedere aiuto al gruppo sociale). Si tratta di un fenomeno che oggi segna in particolare l’economia: si pensi alla precarizzazione del lavoro e al tentativo di regolarla socialmente. Ad esempio, parlare, come accade oggi, di “stabilizzazione dei precari”, significa riconoscere che l’individuo da solo non può farcela. Di qui la necessità se non di intervenire, di fare comunque qualcosa (poi però vedremo come...).
In secondo luogo, la precarizzazione riguarda tutti i rapporti sociali, inclusi quelli legati al “fare famiglia”. Per una serie di ragioni - in primis economiche - ci si sposa sempre meno. Lo sposarsi (ma anche il divorziare…) oggi implica "costi di gestione" elevati. E così risulta difficile fare progetti, quando un giovane su quattro ha un lavoro precario, e due su quattro rischiano di essere licenziati. Di qui la scelta di convivere: più economica, ma fino a un certo punto. Dal momento, che tale scelta può provocare problemi di tipo previdenziale, assistenziale, eccetera, soprattutto se si decide di mettere al mondo dei figli. Certo, un eventuale divorzio non costa nulla… Comunque sia, il fattore economico spiega a sufficienza perché due giovani su quattro (tra i 25 e i 35 anni, la stessa fascia di età colpita da un elevato tasso di precarizzazione) convivono, o hanno avuto, esperienze del genere, anche se di breve durata (spesso meno di un anno).
In terzo luogo, la precarizzazione della vita familiare, ha finito per imporre, come in ambito economico, un progetto “stabilizzazione”. Che è appunto rappresentato dal disegno di legge sui Pacs, del quale si discute in questi giorni. Diciamo, allora, che come nel caso della “stabilizzazione dei precari” si tratta del solito provvedimento legislativo che risponde alla logica dell’emergenza. E spesso le leggi varate in tutta fretta sono pessime leggi.
In quarto luogo, il vero punto della questione è rappresentato dalla precarizzazione economica. Se non si mettono le persone - e soprattutto i giovani - nella condizione socio-economica di scegliere liberamente tra famiglia e coppia di fatto (legalmente riconosciuta), la legge sui Pacs assume il brutto aspetto di una specie di sanatoria, se ci si passa la battuta, che deve porre riparo all' ”abusivismo matrimoniale” (che poi abusivismo non è…). Che non risolve nulla.
In quinto e ultimo luogo, qui non si mette in discussione, il diritto soggettivo delle persone di scegliere, ma semplicemente si richiama l’attenzione su come in realtà, in una società che al tempo stesso predica l’individualismo e priva l’individuo delle necessarie risorse economiche, nessuno sia libero di scegliere. Il che significa che nel tempo (probabilmente basterà una generazione) i rapporti sociali si faranno sempre più precari, e nonostante la retorica individualistica imperante, le persone si sentiranno sempre più sole e a rischio. E la vita di coppia - sotto qualsiasi veste legale - non potrà non risentirne seriamente.
Per riassumere: è il sistema economico che deve fare un passo indietro. Le leggi da sole non bastano.
Ecco il vero problema.
In primo luogo, va liberato il campo da quasiasi posizione di tipo normativo ( “devi” oppure “non devi”). Imporre, o proporre, schemi morali e religiosi non cambia la sostanza economica e sociale della questione. Ma di quale questione? La nostra società, quella scaturita dal cosiddetto riflusso verso il privato degli anni Ottanta, è segnata da due processi: uno di individualizzazione ( nel senso che si tende in tutti i campi a privilegiare l’individuo rispetto al gruppo sociale); e un altro di socializzazione coattiva (nel senso che l’individuo, oltre una certa soglia di resistenza, non può fare a meno di chiedere aiuto al gruppo sociale). Si tratta di un fenomeno che oggi segna in particolare l’economia: si pensi alla precarizzazione del lavoro e al tentativo di regolarla socialmente. Ad esempio, parlare, come accade oggi, di “stabilizzazione dei precari”, significa riconoscere che l’individuo da solo non può farcela. Di qui la necessità se non di intervenire, di fare comunque qualcosa (poi però vedremo come...).
In secondo luogo, la precarizzazione riguarda tutti i rapporti sociali, inclusi quelli legati al “fare famiglia”. Per una serie di ragioni - in primis economiche - ci si sposa sempre meno. Lo sposarsi (ma anche il divorziare…) oggi implica "costi di gestione" elevati. E così risulta difficile fare progetti, quando un giovane su quattro ha un lavoro precario, e due su quattro rischiano di essere licenziati. Di qui la scelta di convivere: più economica, ma fino a un certo punto. Dal momento, che tale scelta può provocare problemi di tipo previdenziale, assistenziale, eccetera, soprattutto se si decide di mettere al mondo dei figli. Certo, un eventuale divorzio non costa nulla… Comunque sia, il fattore economico spiega a sufficienza perché due giovani su quattro (tra i 25 e i 35 anni, la stessa fascia di età colpita da un elevato tasso di precarizzazione) convivono, o hanno avuto, esperienze del genere, anche se di breve durata (spesso meno di un anno).
In terzo luogo, la precarizzazione della vita familiare, ha finito per imporre, come in ambito economico, un progetto “stabilizzazione”. Che è appunto rappresentato dal disegno di legge sui Pacs, del quale si discute in questi giorni. Diciamo, allora, che come nel caso della “stabilizzazione dei precari” si tratta del solito provvedimento legislativo che risponde alla logica dell’emergenza. E spesso le leggi varate in tutta fretta sono pessime leggi.
In quarto luogo, il vero punto della questione è rappresentato dalla precarizzazione economica. Se non si mettono le persone - e soprattutto i giovani - nella condizione socio-economica di scegliere liberamente tra famiglia e coppia di fatto (legalmente riconosciuta), la legge sui Pacs assume il brutto aspetto di una specie di sanatoria, se ci si passa la battuta, che deve porre riparo all' ”abusivismo matrimoniale” (che poi abusivismo non è…). Che non risolve nulla.
In quinto e ultimo luogo, qui non si mette in discussione, il diritto soggettivo delle persone di scegliere, ma semplicemente si richiama l’attenzione su come in realtà, in una società che al tempo stesso predica l’individualismo e priva l’individuo delle necessarie risorse economiche, nessuno sia libero di scegliere. Il che significa che nel tempo (probabilmente basterà una generazione) i rapporti sociali si faranno sempre più precari, e nonostante la retorica individualistica imperante, le persone si sentiranno sempre più sole e a rischio. E la vita di coppia - sotto qualsiasi veste legale - non potrà non risentirne seriamente.
Per riassumere: è il sistema economico che deve fare un passo indietro. Le leggi da sole non bastano.
Ecco il vero problema.
Carlo Gambescia
lunedì 11 dicembre 2006
Prodi fischiato al Motor Show
E il peggio deve
ancora arrivare
l
La situazione politica italiana rischia di farsi sempre
più seria. I fischi bolognesi dovrebbero far riflettere tutti sulle ragioni più
generali e profonde di una crisi. Che è soprattutto crisi di legittimità. E che
perciò va oltre le figure di Prodi e Berlusconi. Cerchiamo di spiegare perché.
Innanzitutto bisogna prendere atto che la crisi di legittimità apertasi con
Tangentopoli non si è mai conclusa. Dal 1994 in poi si sono alternati governi di
centrodestra e centrosinistra che hanno sempre puntato, apertamente o meno, sul
disconoscimento politico reciproco.
Che vogliamo dire? Che prima di Tangentopoli la classe politica si riconosceva nella Costituzione repubblicana. O comunque in uno scenario politico che escludeva per qualsiasi destra (che si presentasse come tale) un riconoscimento politico e costituzionale: perché ritenuta forza potenzialmente fascista e antidemocratica.
Di conseguenza, nel 1994, con la partecipazione di An al primo governo di centrodestra, si aprì una crisi di legittimità: la presenza di ex fascisti al governo metteva in crisi la legittimità antifascista sancita dalla Costituzione repubblicana. E di conseguenza, a Berlusconi, si rimproverava - e si continua a rimproverare - il fatto di aver “sdoganato” Fini e così inquinato la purezza della costituzione repubblicana. Il primo governo Berlusconi, fu allora tolto di mezzo ricorrendo a una crisi extraparlamentare pilotata da Scalfaro. Per il centrodestra - e non importa se vero o meno - fu un mezzo di colpo di stato.
Negli anni successivi, si è proceduto più o meno nello stesso modo: a colpi di delegittimazione reciproca. Senza entrare nei fatti, basti qui ricordare, gli appelli all’antifascismo del centrosinistra e all’anticomunismo del centrodestra. E le reciproche accuse di brogli elettorali, venute fuori di recente, non fanno che aggravare la crisi in atto della legittimità repubblicana.
Da una situazione del genere non è facile uscire. Solo due sono le strade possibili.
La prima consiste nell’accettazione dell’avversario politico e nel mantenimento ("allargato" a destra) della legittimità repubblicana instaurata costituzionalmente nel 1948. Ma come? Ad esempio smettendo di puntare - a prescindere dalla consistenza o meno delle accuse - sulla questione dei brogli elettorali, a destra come a sinistra. Il che non è facile perché l’antifascismo (e il conseguente vedere ovunque trame “nere”) è un “collante” piuttosto forte, e in certo senso obbligato per una Costituzione “nata dalla Resistenza”. Tuttavia i conflitti permanenti sui “principi fondamentali” fanno malissimo alla democrazia, e rischiano di alimentare rigurgiti di tipo qualunquista e autoritario. E di fare il gioco del centrodestra, che, a sua volta, denuncia, con pari isteria, il pericolo di “trame rosse”.
La seconda consiste nel disconoscimento totale dell’avversario politico (in termini schmittiani). In questo caso però la lotta politica deve essere condotta a fondo e senza esclusione di colpi: perché si tratta di eliminare un nemico mortale, e non di mettere fuori gioco temporaneamente un semplice avversario... E soprattutto, il conflitto deve essere basato su un’idea precisa del tipo di legittimità repubblicana che si vuole imporre o riproporre. Vecchia o nuova non importa. L’unica cosa che conta è che sia “una” e condivisa dal blocco sociale e politico “vincente”. O comunque capace di conferire stabilità al paese, isolando politicamente i pochi e residui oppositori.
L’unica cosa da evitare - e questo dovrebbe valere per Prodi e Berlusconi - è continuare a scontrarsi su tutto, senza avere alle spalle un’idea precisa di legittimità repubblicana.
O altrimenti detto: vivere alla giornata.
Che vogliamo dire? Che prima di Tangentopoli la classe politica si riconosceva nella Costituzione repubblicana. O comunque in uno scenario politico che escludeva per qualsiasi destra (che si presentasse come tale) un riconoscimento politico e costituzionale: perché ritenuta forza potenzialmente fascista e antidemocratica.
Di conseguenza, nel 1994, con la partecipazione di An al primo governo di centrodestra, si aprì una crisi di legittimità: la presenza di ex fascisti al governo metteva in crisi la legittimità antifascista sancita dalla Costituzione repubblicana. E di conseguenza, a Berlusconi, si rimproverava - e si continua a rimproverare - il fatto di aver “sdoganato” Fini e così inquinato la purezza della costituzione repubblicana. Il primo governo Berlusconi, fu allora tolto di mezzo ricorrendo a una crisi extraparlamentare pilotata da Scalfaro. Per il centrodestra - e non importa se vero o meno - fu un mezzo di colpo di stato.
Negli anni successivi, si è proceduto più o meno nello stesso modo: a colpi di delegittimazione reciproca. Senza entrare nei fatti, basti qui ricordare, gli appelli all’antifascismo del centrosinistra e all’anticomunismo del centrodestra. E le reciproche accuse di brogli elettorali, venute fuori di recente, non fanno che aggravare la crisi in atto della legittimità repubblicana.
Da una situazione del genere non è facile uscire. Solo due sono le strade possibili.
La prima consiste nell’accettazione dell’avversario politico e nel mantenimento ("allargato" a destra) della legittimità repubblicana instaurata costituzionalmente nel 1948. Ma come? Ad esempio smettendo di puntare - a prescindere dalla consistenza o meno delle accuse - sulla questione dei brogli elettorali, a destra come a sinistra. Il che non è facile perché l’antifascismo (e il conseguente vedere ovunque trame “nere”) è un “collante” piuttosto forte, e in certo senso obbligato per una Costituzione “nata dalla Resistenza”. Tuttavia i conflitti permanenti sui “principi fondamentali” fanno malissimo alla democrazia, e rischiano di alimentare rigurgiti di tipo qualunquista e autoritario. E di fare il gioco del centrodestra, che, a sua volta, denuncia, con pari isteria, il pericolo di “trame rosse”.
La seconda consiste nel disconoscimento totale dell’avversario politico (in termini schmittiani). In questo caso però la lotta politica deve essere condotta a fondo e senza esclusione di colpi: perché si tratta di eliminare un nemico mortale, e non di mettere fuori gioco temporaneamente un semplice avversario... E soprattutto, il conflitto deve essere basato su un’idea precisa del tipo di legittimità repubblicana che si vuole imporre o riproporre. Vecchia o nuova non importa. L’unica cosa che conta è che sia “una” e condivisa dal blocco sociale e politico “vincente”. O comunque capace di conferire stabilità al paese, isolando politicamente i pochi e residui oppositori.
L’unica cosa da evitare - e questo dovrebbe valere per Prodi e Berlusconi - è continuare a scontrarsi su tutto, senza avere alle spalle un’idea precisa di legittimità repubblicana.
O altrimenti detto: vivere alla giornata.
Carlo Gambescia
giovedì 7 dicembre 2006
Dibattiti.
Si può imporre la virtù per legge?
Per alcuni si può imporre. Ad
esempio, l’idea del Ministro della Sanità Livia Turco, di far pagare un ticket
più elevato a chi beve e fuma, perché in termini terapeutici “costerebbe” di
più allo Stato, è un esempio tipico di tale mentalità. Che, a dire il vero,
lascia alquanto perplessi e preoccupati.
Perciò per una volta potremmo essere d’accordo con Piero Ostellino, che sul Corriere
della Sera, di sabato scorso, critica l’atteggiamento “moralista e
dirigista” della Turco. Tipico, secondo l’editorialista liberale, di una
“sinistra vecchia, ancora prigioniera di un’artificiosa contrapposizione fra
interessi privati, empiricamente individuabili - e passibili di dover
sottostare solo alla regola di non ledere al libertà di ciascuno di perseguire
i propri interessi come meglio crede - e interesse collettivo alla cui
definizione e al cui perseguimento non presiede mai un criterio ‘oggettivo’,
bensì provvede la volontà di chi detiene il potere in quel momento”.
Potremmo. Ma in realtà anche Ostellino, che da buon liberale, confida totalmente nelle capacità di scelta dell’individuo, non ci convince completamente.
Qual è il vero punto della questione. Il bere, il fumare, ma a rigore anche il drogarsi, sono libere scelte? Oppure scelte che dipendono da un modello culturale, come l’attuale, che indica nel consumo individuale di beni e merci l’apoteosi della soddisfazione individuale?
Noi condividiamo la seconda ipotesi. Anche se non siamo portati a trascurare le responsabilità individuali del “cittadino (una volta) informato” . Soprattutto penali.
Tuttavia, se si è d’accordo sul fatto che si tratta di un modello culturale, allora è il modello stesso che va cambiato. Come? Attraverso la prevenzione, e non la repressione (fiscale), come invece auspicala Turco. Ma l’individuo
non va neppure abbandonato a se stesso, come invece sostiene Ostellino.
Insomma, quel che non va fatto è seguire (anche in alternativa) le due strade,
dello statalismo (fiscale) e di certo rigido individualismo liberale che
considera tutti gli uomini, di per sé, maturi e capaci di scegliere.
Ritorniamo ora alla questione iniziale: la virtù può essere imposta per legge? No, ma deve penetrare lentamente nella società attraverso la graduale evoluzione dei costumi: la libera scelta, deve giungere alla fine di un lento processo di maturazione individuale e sociale. Si pensi solo all’importante ruolo che oggi svolgono i media in ambito pubblicitario. Perché, allora, non potenziare (come del resto in parte già avviene) il settore della cosiddetta “pubblicità-progresso”? Oppure, perché non puntare maggiormente sull’educazione pre-scolare e scolare? In fondo, sono scelte sociali ragionevoli e praticabili.
Va però tenuto presente, che una percentuale di “refrattari” esisterà sempre: si tratta di un fatto, come dire, sociologicamente fisiologico: ci sono uomini e donne, che per le più varie ragioni non si “piegano”… E in questo senso la vera libertà - e qui ha ragione Ostellino - consiste nel rispettare il volere (anche se autodistruttivo) di chi non voglia assolutamente “piegarsi” ( a prescindere ovviamente, come detto, dalle ricadute penali, che vanno sempre punite). Tuttavia, non fare nulla, in termini di prevenzione sociale, sarebbe altrettanto sbagliato. E qui, per certi aspetti, ha ragione anchela Turco , la quale tuttavia
sopravvaluta il ruolo dello Stato, valorizzando la repressione, e sottostimando
quello educativo ( e preventivo) della società e del costume.
In certa misura, siamo davanti a due forme di provvidenzialismo rovesciato di tipo illuminista: quello della Turco, che al posto della Provvidenza divina, mette lo Stato, e quello di Ostellino, che a Dio e Stato sostituisce l’individuo “sovrano”.
Per quanto ci riguarda, crediamo nel lento e profondo lavorío della società su se stessa, e dunque nell’influenza preventiva dei costumi sull’uomo. E se proprio deve esistere un disegno provvidenziale, sicuramente non può dipendere da noi.
Altrimenti che disegno provvidenziale sarebbe.
Potremmo. Ma in realtà anche Ostellino, che da buon liberale, confida totalmente nelle capacità di scelta dell’individuo, non ci convince completamente.
Qual è il vero punto della questione. Il bere, il fumare, ma a rigore anche il drogarsi, sono libere scelte? Oppure scelte che dipendono da un modello culturale, come l’attuale, che indica nel consumo individuale di beni e merci l’apoteosi della soddisfazione individuale?
Noi condividiamo la seconda ipotesi. Anche se non siamo portati a trascurare le responsabilità individuali del “cittadino (una volta) informato” . Soprattutto penali.
Tuttavia, se si è d’accordo sul fatto che si tratta di un modello culturale, allora è il modello stesso che va cambiato. Come? Attraverso la prevenzione, e non la repressione (fiscale), come invece auspica
Ritorniamo ora alla questione iniziale: la virtù può essere imposta per legge? No, ma deve penetrare lentamente nella società attraverso la graduale evoluzione dei costumi: la libera scelta, deve giungere alla fine di un lento processo di maturazione individuale e sociale. Si pensi solo all’importante ruolo che oggi svolgono i media in ambito pubblicitario. Perché, allora, non potenziare (come del resto in parte già avviene) il settore della cosiddetta “pubblicità-progresso”? Oppure, perché non puntare maggiormente sull’educazione pre-scolare e scolare? In fondo, sono scelte sociali ragionevoli e praticabili.
Va però tenuto presente, che una percentuale di “refrattari” esisterà sempre: si tratta di un fatto, come dire, sociologicamente fisiologico: ci sono uomini e donne, che per le più varie ragioni non si “piegano”… E in questo senso la vera libertà - e qui ha ragione Ostellino - consiste nel rispettare il volere (anche se autodistruttivo) di chi non voglia assolutamente “piegarsi” ( a prescindere ovviamente, come detto, dalle ricadute penali, che vanno sempre punite). Tuttavia, non fare nulla, in termini di prevenzione sociale, sarebbe altrettanto sbagliato. E qui, per certi aspetti, ha ragione anche
In certa misura, siamo davanti a due forme di provvidenzialismo rovesciato di tipo illuminista: quello della Turco, che al posto della Provvidenza divina, mette lo Stato, e quello di Ostellino, che a Dio e Stato sostituisce l’individuo “sovrano”.
Per quanto ci riguarda, crediamo nel lento e profondo lavorío della società su se stessa, e dunque nell’influenza preventiva dei costumi sull’uomo. E se proprio deve esistere un disegno provvidenziale, sicuramente non può dipendere da noi.
Altrimenti che disegno provvidenziale sarebbe.
Carlo Gambescia
mercoledì 6 dicembre 2006
Il libro della settimana: Sergio Ricossa, La fine dell'economia. Saggio sulla perfezione, Rubbettino - Leonardo Facco 2006, pp .232, euro 15,00.
http://www.store.rubbettinoeditore.it/la-fine-dell-economia.html |
Ci sono due tipi di economisti: quelli che con l’economia
hanno un rapporto di amore-odio, e quelli che invece laicamente vi convivono.
Nell’Ottocento Marx, che economista in senso stretto non era ( ma fa lo
stesso), pur di liberarsi dall’economia, paradossalmente ridusse la realtà alla
sola componente economica. Pareto, qualche decennio più tardi, pur provenendo
dall’amata economia pura, si accorse che da sola non bastava. Di qui il suo
crescente interesse per la sociologia.
Si dirà, che significa questo volo pindarico… Presto detto: Marx, con la nobile
scusa di seppellire l’economia, spinse i suoi epigoni a privilegiare la mano
visibile dello Stato nel campo della redistribuzione dei redditi. Mentre
Pareto, lungi dal demonizzare produzione e scambio di beni, fu portato nel
tempo a sopravvalutare, come sociologo, il ruolo della mano invisibile delle
passioni collettive (anche l’interesse è una passione…), nell’ambito del
mercato, portando acqua al mulino del neoliberismo.
E così, tanto per fare un esempio, l’attuale dibattito tra socialdemocratici e liberisti, o se si preferisce tra chi vuole più o meno tasse, rinvia al duello ideale tra Marx e Pareto : i socialisti vogliono tassare chi ha di più, per poi ridistribuire attraverso la mano visibile dello Stato, mentre i liberisti vogliono ridurre le tasse per produrre di più, e dare così più spazio alla mano invisibile delle passioni umane. Insomma, al mercato come armoniosa macchina redistributrice.
Come vedremo, Sergio Ricossa, uno degli economisti italiani più originali, non sta con gli uni né con gli altri: cerca una via propria. Come Adam Smith, apprezza il mercato ma non deifica vizi e passioni. Quindi detasserebbe ma con juicio, senza favorire ingordi e ignavi. E’ vero che Ricossa è un liberale vicino alle costruzioni, talvolta astratte, della Scuola Austriaca, ma non disconosce le concrete lezioni della storia. Nato a Torino nel 1927, vi ha trascorso tutta la sua carriera universitaria, fino a diventare professore emerito. E’ socio della Mont Pelerin Society, Accademico dei Lincei e membro dell'Accademia di Agricoltura. I suoi articoli sono apparsi su famose riviste scientifiche. Ma ha anche collaborato con importanti quotidiani: dal Giornale alla Stampa. E’ tra i fondatori ed animatori del CIDAS di Torino. Ha scritto testi importanti come il Dizionario di Economia (Utet) e tra gli altri, è anche autore di un piccolo gioiello, come I grandi classici dell’economia. Cento Trame (Bompiani), dove genialmente sintetizza le opere che hanno innervato e vivificato l’economia moderna. Un altro suo libro molto interessante, che andrebbe letto come contraltare alla Ragione aveva torto? di Massimo Fini, è Storia della fatica (Armando), dove cifre alla mano, dimostra, se ci si passa il gioco di parole, che si stava peggio quando si stava peggio…
Un’ottima occasione per approfondirne il pensiero è leggere La fine dell’economia. Saggio sulla perfezione ( Rubbettino - Leonardo Facco 2006 , prefazione di Enrico Colombatto, pp. 232, euro, 15,00), uscito in prima edizione nel 1986 (Sugarco), ora riedito nell’interessante collana “Mercato. Diritto e Libertà”, promossa dall’Istituto Bruno Leoni - www.brunoleoni.it ). Un libro dove la dicotomia da noi tracciata, per così dire, tra economisti “puri” ed economisti “impuri”, si interseca, integrandola, con quella tra “perfettisti” e “imperfettisti”.
Ma diamo la parola a Ricossa: “Per intenderci, diremo perfettismo ogni dottrina che predichi un regno mondano di perfezione, senza il dominio dell’economico; e imperfettismo [ogni dottrina] che ritenga il perfetto indesiderabile, più che impossibile, e l’economico un aspetto come gli altri della nostra vita, non un ramo della demonologia” (p. 12). Il che significa, per tornare a noi, che Marx era un perfettista e Pareto un imperfettista. Marx sognava la fine dell’economia e l’avvento della società perfetta, mentre Pareto vedeva nell’economia, uno strumento di regolazione, spesso imperfetto, di una società imperfetta e, soprattutto, destinata a rimanere tale. Se il primo aspirava a cambiare tutto, il secondo non voleva mutare nulla.
Ma Ricossa a chi è vicino, o quasi? Ovviamente a Pareto e agli impefettisti: “Chi scrive queste pagine - nota - è tendenzialmente un imperfettista: lo confessa subito, e non pretende che il suo lavoro sia perfettamente oggettivo e neutrale (tanto meno completo e senza errori). Egli riconosce di schierarsi con la minoranza, poiché è invece il perfettismo, nelle sue molteplici varianti, che domina nella nostra cultura e costituisce una tradizione ininterrotta da Platone a Keynes, verso la quale anche i pochi avversari imperfettisti trovano un rispetto ammirato” (p. 13).
Rispetto, che in realtà, Ricossa non nutre affatto. Come ogni buon piemontese tira dritto per la sua strada. L’intero libro è una dissezione, ma a colpi di ascia del perfettismo (ed è lo stesso Ricossa ad ammettere di non poter fare a meno di “semplificare e schematizzare” una materia altrimenti ingestibile): uno dopo l’altro, da Platone a Marx e anche dopo, cadono sotto i suoi colpi, tutti i costruttori di impossibili Città del Sole.
Ricossa, in particolare, si accanisce su Keynes, al quale oppone Luigi Einaudi, altro piemontese… Il passo è interessante: se Keynes sostiene che gli uomini grazie allo sviluppo tecnologico lavoreranno sempre meno, “Einaudi (…) in polemica col perfettista Keynes scriverà nel Problema dell’ozio : ‘Se la macchina libererà gli uomini dalla fatica di produrre i beni usuali delle vita…, altri beni saranno inventati dagli uomini e li indurranno alla fatica… Venga meno lo stimolo al lavoro: e in poche generazioni il livello di vita dell’uomo medio discenderà rapidamente, ben più rapidamente di come si è innalzato… Il lavoro inutile? Non dice il proverbio che l’ozio è il padre di tutti i vizi?’ ” (p. 86). La sinistra pauperista è perciò avvisata…
Da novello aristocratico, il perfettista odia il lavoro, cosicché non può essere un vero liberale. Il quale invece scorge nel lavoro, la più alta forma di libertà individuale e morale. In questo senso “Einaudi era un liberista [mentre] Keynes non lo era” (p. 87).
Ora, il libro di Ricossa è un buon vaccino, contro ogni forma di utopia, oltre che un’introduzione al ricco pensiero di un economista, che oggi sembra condurre vita appartata, lontano dai clamori, provocati dai liberisti di fresca nomina… In effetti, un libro è così denso di citazioni, stimoli e spunti, rappresenta un’ autentica e insostituibile enciclopedia critica dell’utopismo economico. Ma quando Ricossa passa alla teorizzazione dell’imperfettismo, cui dedica l’ultimo capitolo, risulta meno convincente, probabilmente perché si inerpica troppo in alto, lungo i tortuosi sentieri della filosofia morale. Scelta, probabilmente obbligata, perché l’autore diffida pure del perfettismo liberista. “La “smithiana mano invisibile - scrive - divenne il simbolo di un meccanismo deterministico, che portava a un immancabile equilibrio tutti gli operatori di mercato, il cui comportamento si faceva quindi prevedibile, non appena fossero conosciute le loro preferenze (…). Il ramo austriaco della scuola neoclassica tentò di restituire agli operatori di mercato un libero arbitrio meno limitato, affrancando il più possibile la loro condotta da cause predeterminabili, e attribuendo loro delle finalità soggettive (…). Ma pure così restava talvolta qualche eccessiva semplificazione della nostra psicologia, mentre occorreva mirarne tutta la complessità per arrivare all’uomo imperfettistico, imprevedibile perché suscettibile di errori, irrazionalità, esitazioni, pentimenti, conflitti fra esigenze alternative (tra il dovere e il piacere e il dovere per esempio)” (p.192). La destra neoliberista ed economicista è avvisata…
E allora? Secondo Ricossa non resterebbe che puntare sul libero arbitrio dell’uomo e dunque sul fatto “che gli uomini si sentano individualmente, moralmente responsabili” , Ma di che cosa? Delle proprie scelte anche se sbagliate… Per imparare dai propri errori. “Sulla scia di Hayek assegniamo una responsabilità alle persone non per asserire che esse avrebbero potuto scegliere diversamente, ma per renderle differenti, per cambiare le persone stesse” (p.193).
Ora, Marx voleva cambiare l’uomo, Pareto conservarlo così com’era, il Ricossa “filosofo morale”, almeno così ci sembra, cambiarlo e conservarlo al tempo stesso.
Probabilmente un po’ troppo. Ma comunque sia, auguri sinceri, professore.
E così, tanto per fare un esempio, l’attuale dibattito tra socialdemocratici e liberisti, o se si preferisce tra chi vuole più o meno tasse, rinvia al duello ideale tra Marx e Pareto : i socialisti vogliono tassare chi ha di più, per poi ridistribuire attraverso la mano visibile dello Stato, mentre i liberisti vogliono ridurre le tasse per produrre di più, e dare così più spazio alla mano invisibile delle passioni umane. Insomma, al mercato come armoniosa macchina redistributrice.
Come vedremo, Sergio Ricossa, uno degli economisti italiani più originali, non sta con gli uni né con gli altri: cerca una via propria. Come Adam Smith, apprezza il mercato ma non deifica vizi e passioni. Quindi detasserebbe ma con juicio, senza favorire ingordi e ignavi. E’ vero che Ricossa è un liberale vicino alle costruzioni, talvolta astratte, della Scuola Austriaca, ma non disconosce le concrete lezioni della storia. Nato a Torino nel 1927, vi ha trascorso tutta la sua carriera universitaria, fino a diventare professore emerito. E’ socio della Mont Pelerin Society, Accademico dei Lincei e membro dell'Accademia di Agricoltura. I suoi articoli sono apparsi su famose riviste scientifiche. Ma ha anche collaborato con importanti quotidiani: dal Giornale alla Stampa. E’ tra i fondatori ed animatori del CIDAS di Torino. Ha scritto testi importanti come il Dizionario di Economia (Utet) e tra gli altri, è anche autore di un piccolo gioiello, come I grandi classici dell’economia. Cento Trame (Bompiani), dove genialmente sintetizza le opere che hanno innervato e vivificato l’economia moderna. Un altro suo libro molto interessante, che andrebbe letto come contraltare alla Ragione aveva torto? di Massimo Fini, è Storia della fatica (Armando), dove cifre alla mano, dimostra, se ci si passa il gioco di parole, che si stava peggio quando si stava peggio…
Un’ottima occasione per approfondirne il pensiero è leggere La fine dell’economia. Saggio sulla perfezione ( Rubbettino - Leonardo Facco 2006 , prefazione di Enrico Colombatto, pp. 232, euro, 15,00), uscito in prima edizione nel 1986 (Sugarco), ora riedito nell’interessante collana “Mercato. Diritto e Libertà”, promossa dall’Istituto Bruno Leoni - www.brunoleoni.it ). Un libro dove la dicotomia da noi tracciata, per così dire, tra economisti “puri” ed economisti “impuri”, si interseca, integrandola, con quella tra “perfettisti” e “imperfettisti”.
Ma diamo la parola a Ricossa: “Per intenderci, diremo perfettismo ogni dottrina che predichi un regno mondano di perfezione, senza il dominio dell’economico; e imperfettismo [ogni dottrina] che ritenga il perfetto indesiderabile, più che impossibile, e l’economico un aspetto come gli altri della nostra vita, non un ramo della demonologia” (p. 12). Il che significa, per tornare a noi, che Marx era un perfettista e Pareto un imperfettista. Marx sognava la fine dell’economia e l’avvento della società perfetta, mentre Pareto vedeva nell’economia, uno strumento di regolazione, spesso imperfetto, di una società imperfetta e, soprattutto, destinata a rimanere tale. Se il primo aspirava a cambiare tutto, il secondo non voleva mutare nulla.
Ma Ricossa a chi è vicino, o quasi? Ovviamente a Pareto e agli impefettisti: “Chi scrive queste pagine - nota - è tendenzialmente un imperfettista: lo confessa subito, e non pretende che il suo lavoro sia perfettamente oggettivo e neutrale (tanto meno completo e senza errori). Egli riconosce di schierarsi con la minoranza, poiché è invece il perfettismo, nelle sue molteplici varianti, che domina nella nostra cultura e costituisce una tradizione ininterrotta da Platone a Keynes, verso la quale anche i pochi avversari imperfettisti trovano un rispetto ammirato” (p. 13).
Rispetto, che in realtà, Ricossa non nutre affatto. Come ogni buon piemontese tira dritto per la sua strada. L’intero libro è una dissezione, ma a colpi di ascia del perfettismo (ed è lo stesso Ricossa ad ammettere di non poter fare a meno di “semplificare e schematizzare” una materia altrimenti ingestibile): uno dopo l’altro, da Platone a Marx e anche dopo, cadono sotto i suoi colpi, tutti i costruttori di impossibili Città del Sole.
Ricossa, in particolare, si accanisce su Keynes, al quale oppone Luigi Einaudi, altro piemontese… Il passo è interessante: se Keynes sostiene che gli uomini grazie allo sviluppo tecnologico lavoreranno sempre meno, “Einaudi (…) in polemica col perfettista Keynes scriverà nel Problema dell’ozio : ‘Se la macchina libererà gli uomini dalla fatica di produrre i beni usuali delle vita…, altri beni saranno inventati dagli uomini e li indurranno alla fatica… Venga meno lo stimolo al lavoro: e in poche generazioni il livello di vita dell’uomo medio discenderà rapidamente, ben più rapidamente di come si è innalzato… Il lavoro inutile? Non dice il proverbio che l’ozio è il padre di tutti i vizi?’ ” (p. 86). La sinistra pauperista è perciò avvisata…
Da novello aristocratico, il perfettista odia il lavoro, cosicché non può essere un vero liberale. Il quale invece scorge nel lavoro, la più alta forma di libertà individuale e morale. In questo senso “Einaudi era un liberista [mentre] Keynes non lo era” (p. 87).
Ora, il libro di Ricossa è un buon vaccino, contro ogni forma di utopia, oltre che un’introduzione al ricco pensiero di un economista, che oggi sembra condurre vita appartata, lontano dai clamori, provocati dai liberisti di fresca nomina… In effetti, un libro è così denso di citazioni, stimoli e spunti, rappresenta un’ autentica e insostituibile enciclopedia critica dell’utopismo economico. Ma quando Ricossa passa alla teorizzazione dell’imperfettismo, cui dedica l’ultimo capitolo, risulta meno convincente, probabilmente perché si inerpica troppo in alto, lungo i tortuosi sentieri della filosofia morale. Scelta, probabilmente obbligata, perché l’autore diffida pure del perfettismo liberista. “La “smithiana mano invisibile - scrive - divenne il simbolo di un meccanismo deterministico, che portava a un immancabile equilibrio tutti gli operatori di mercato, il cui comportamento si faceva quindi prevedibile, non appena fossero conosciute le loro preferenze (…). Il ramo austriaco della scuola neoclassica tentò di restituire agli operatori di mercato un libero arbitrio meno limitato, affrancando il più possibile la loro condotta da cause predeterminabili, e attribuendo loro delle finalità soggettive (…). Ma pure così restava talvolta qualche eccessiva semplificazione della nostra psicologia, mentre occorreva mirarne tutta la complessità per arrivare all’uomo imperfettistico, imprevedibile perché suscettibile di errori, irrazionalità, esitazioni, pentimenti, conflitti fra esigenze alternative (tra il dovere e il piacere e il dovere per esempio)” (p.192). La destra neoliberista ed economicista è avvisata…
E allora? Secondo Ricossa non resterebbe che puntare sul libero arbitrio dell’uomo e dunque sul fatto “che gli uomini si sentano individualmente, moralmente responsabili” , Ma di che cosa? Delle proprie scelte anche se sbagliate… Per imparare dai propri errori. “Sulla scia di Hayek assegniamo una responsabilità alle persone non per asserire che esse avrebbero potuto scegliere diversamente, ma per renderle differenti, per cambiare le persone stesse” (p.193).
Ora, Marx voleva cambiare l’uomo, Pareto conservarlo così com’era, il Ricossa “filosofo morale”, almeno così ci sembra, cambiarlo e conservarlo al tempo stesso.
Probabilmente un po’ troppo. Ma comunque sia, auguri sinceri, professore.
Carlo Gambescia
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