venerdì 29 febbraio 2008

La morte dei  fratellini Gravina, dal giallo alla tragedia...

 La vera giustizia non  è di questo mondo




Non siamo mai riusciti a seguire, soprattutto in tv, la triste storia dei fratellini di Gravina, conclusasi qualche giorno fa in modo tragico. Probabilmente per una specie di pudore che abbiamo sempre provato verso coloro che soffrono. Di qui la nostra impossibilità, quasi fisica, a ingerire cibo o chiacchierare, davanti a un televisore acceso, dove si parli di delitti e altri fatti di sangue. Eccessivo rispetto per le persone? Forse.
Vorremo però comunque fare una riflessione più generale sulla vicenda, riallacciandoci a quanto ha scritto l’amica blogger Cloro qui: http://www.cloroalclero.com/?p=373#comments. E in particolare partendo da questo suo significativo passo:

“La magna quantità di dati sul delitto, prodotta dalla tecnologia, non riesce a mettere l’umano al riparo dal pregiudizio che ha ragioni profonde e manifesta bisogni che denotano un’inquietudine epocale: il bisogno di capri espiatori, più rassicuranti, quanto più l’orribile è confinabile dentro “una certa” famiglia” In fondo le ragioni del razzismo stanno anche in questi meccanismi da stupidi animali (con l’intelligenza dei parameci, quali siamo) che prevalgono nella nostra compagine sociale in questo periodo storico. I potenti non sono da combattere perchè sono malvagi. Ma perchè contrabbandano stupidità. Che va sempre a svantaggio dei molti.Ci vuole un’evoluzione. L’oltre-umano” [ i corsivi sono nostri].

Ecco “il pregiudizio”. Si tratta di un concetto particolarmente interessante, e ben esplicitato da Cloro. Ma per quale ragione è interessante? E proprio in questo caso?
Perché una povera famiglia è stata subito liquidata, “pregiudizialmente”, come un caso classico di “familismo amorale”. Di riflesso le indagini hanno subito preso una certa direzione nei riguardi di un padre, che non poteva non essere, a sua volta, che un “Padre Padrone”.

Cosicché anche dopo il ritrovamento in fondo a una cisterna dei corpi dei fratellini, polizia e magistratura, nonostante la possibilità di una disgrazia, a questo punto più che evidente, sembra vogliano ancora puntare sulla tesi della colpevolezza, più o meno diretta del “Padre Padrone”… E così ora viene avanzata l’ipotesi che i due fratellini fuggissero dalle violenze paterne , ovviamente “familistiche”.
Crediamo che il compito di chi indaga e giudica debba essere quello di perseguire la verità, anche a prezzo di cadere in contraddizione e dunque di mettersi in discussione professionalmente. Quando è in gioco la vita di un uomo i pregiudizi vanno messi da parte.
Ma quei magistrati e poliziotti ne saranno capaci? O, come fa intuire, l’amica blogger Cloro, la vera giustizia non appartiene a questo mondo?

Carlo Gambescia

giovedì 28 febbraio 2008

Il libro della settimana: Augusto Del Noce, Modernità - Interpretazione transpolitica della storia contemporanea, introduzione di Giuseppe  Riconda, Morcelliana, Brescia 2007, pp. 96,  euro 8,00.  

http://www.morcelliana.it/or?uid=morcelliana.main.index&oid=23349


Veramente lodevole l’idea di riproporre a distanza di venticinque anni, in unico testo, due lavori di Augusto Del Noce (Modernità. Storia e valore di un’idea e L’interpretazione transpolitica della storia), egregiamente introdotti da Giuseppe Riconda, acutissimo studioso del pensiero delnociano (Morcelliana).
Augusto Del Noce (1910-1989), oggi viene "liquidato", in sede non accademica, o come bieco integralista o come aureo tradizionalista cattolico. Magari senza aver letto una riga delle sue riflessioni. Mentre in ambito universitario, a parte alcune lodevolissime eccezioni, si preferisce glissare.
Questi due saggi, come nota Riconda nell’introduzione “contengono in nuce l’intero pensiero di Del Noce, il contribuito essenziale con cui ha arricchito il nostro ambiente filosofico e culturale” (p. 5). Di qui la possibilità di confrontarsi con un pensiero ricco, sinuoso e difficile da classificare. Ma non antimoderno. Anzi, attento a privilegiare quei lati della modernità, da Cartesio in poi, aperti a una visione personalistica, razionale ma al tempo stesso creaturale dell’essere umano.
Sotto questo profilo per Del Noce restava fondamentale criticare quell’interpretazione filosofica (“transpolitica”) della storia contemporanea, tuttora predominante, come marcia vittoriosa di un benefico e inarrestabile processo di secolarizzazione. In certo senso nella sua opera rinveniamo un eccellente lavoro di “demistificazione”, per usare un termine di cui sicuramente avrebbe sorriso, dell’ideologia progressista. Attenzione: non del progresso come giustificato anelito dell’uomo al miglioramento delle proprie condizioni materiali e spirituali. Ma del progressismo, come visione (socialmente radicata), del progresso in quanto tale: non un progresso, meditato, scelto e deciso dall’uomo, ma una ideologia del progresso, dotata di forza propria, e dunque capace di imporsi all’uomo, anche grazie all’opera dei suoi profeti; tutti seguaci di certo modernismo ieri totalitario, oggi consumista. Ma sempre prevaricatore.
Abbiamo, ovviamente spiegato, semplificandolo, un aspetto del suo pensiero, lasciando al lettore il piacere di scoprire gli altri, leggendo questa (piccola) summa delnociana.
Infine, quanto alle accuse di integralismo religioso, a nostro avviso prive di fondamento, riproduciamo qui un passo, tratto da un suo testo degli anni Sessanta del Novecento, dove Del Noce chiarisce bene la sua impostazione politica, tutt’altro che reazionaria:

“Per me invece la possibilità del male è identica in ogni momento della storia e può essere vinta, in quel dato punto dello spazio, in quel dato momento del tempo, soltanto dall’individuo, a cui perciò lo stato deve dare le condizioni migliori per il suo perfezionamento. Concezione politica [la mia] fondata sul postulato del peccato, anziché su quello del progresso, dunque concezione cristiana; concezione fondata sulla centralità dell’individuo, dunque, liberale, ma conciliabile anche con certo socialismo perché implicante l’idea che alla concezione della giustizia per cui essa sarebbe la garanzia delle libertà per tutti nelle condizioni sociali storicamente date, si debba sostituire quella secondo cui la giustizia è la costituzione delle condizioni sociali tali da dare a ognuno la possibilità esterna di realizzarsi come persona; di realizzarsi, direi, nella sua ‘ciascunità’. Concezione, del resto, a cui si avvicina il principio ideale della socialdemocrazia nella misura in cui in essa il motivo kantiano tende sempre di più a prevalere su quello marxista. Ed è, a mio giudizio, quella conciliazione di cristianesimo, di liberalismo e di socialismo etico a cui mirava il maggior teorico del liberalismo non perfettistico e cattolico, Rosmini".
[A. Del Noce, I cattolici e il progressismo, Leonardo, Milano 1994, pp. 61-62].


In conclusione, un filosofo cattolico difficilmente classificabile, e soprattutto ancora da scoprire o riscoprire. Magari iniziando dalla lettura di questa preziosa sintesi del suo pensiero. 

Carlo Gambescia

mercoledì 27 febbraio 2008

Elezioni, economia, società

Giustizia distributiva o redistributiva? 




Sia Veltroni che Berlusconi spesso hanno accennano, e particolarmente in questi giorni di campagna elettorale, alla giustizia distributiva. Sarebbe perciò il caso di fare un minimo di chiarezza non solo su questo concetto ma anche su quello di giustizia redistributiva. E come? Il lettore non si spaventi: contestualizzandoli sociologicamente.
Certo, in tempi come questi, nei quali la pratica della chirurgia estetica di massa, gestita dal mercato, va sempre più diffondendosi, per la gioia dei borghesi piccoli piccoli, non è facile parlare di giustizia distributiva e redistributiva. Nessun timore: chi scrive non è improvvisamente impazzito, perché, come vedremo, tra questi due fatti in apparenza lontani, vi è un collegamento. Ma cerchiamo di essere più chiari: i due termini benché possano sembrare simili, in realtà hanno significati profondamente diversi. Vediamo quali,
La giustizia distributiva si concretizza con l’assegnazione a ciascuno di ciò che gli spetta secondo un certo principio valevole per tutti. La giustizia redistribuitiva, invece, si realizza correggendo (pur con intensità e modalità storiche diverse) le ingiustizie sociali. La giustizia distributiva privilegia la sfera dell’utilità o della funzionalità, mentre la giustizia redistribuitiva quella della moralità sociale o del consenso. Ma vediamo ora che cosa significa nella nostra società questa suddivisione concettuale.
Nella società capitalistica la giustizia distributiva è opera del mercato che, come spesso si legge, dà a ciascuno secondo le proprie capacità. Mentre quella redistribuitiva, ci dicono, è messa in atto dallo stato, che con la fiscalità finanzia i servizi sociali, dando a ciascuno, secondo bisogni fondamentali, spesso sanciti costituzionalmente.
Nelle democrazie occidentali del secondo dopoguerra il pendolo distribuzione/redistribuzione per circa trent’anni (dal 1945 al 1975: i“Gloriosi Trenta”) ha oscillato verso il polo della giustizia redistribuitiva, per poi cambiare direzione all’inizio degli anni Ottanta, volgendosi verso quello della giustizia distributiva e quindi del mercato. Con questo non vogliamo assolutamente sostenere che i “Gloriosi Trenta” siano stati l’apoteosi della socialità e della moralità sociale, il capitalismo è quel che è: nessuno dà nulla per nulla. Ma più laicamente, crediamo, che il mix pubblico-privato, tipico delle economie tardo-capitalistiche, in quegli anni, si tradusse in qualche briciola di benessere in più per i lavoratori, soprattutto negli anni Sessanta.
Il vero punto è invece un altro: di qui a qualche anno rischiano di sparire anche le briciole. Perché quanto più si estende la sfera del mercato – come sta avvenendo – tanto più si favorisce il predominio dell’utilità e della giustizia distributiva. Ognuno di noi rischia perciò di vedersi assegnato solo ciò che gli spetta sulla base (ecco il principio valevole per tutti) del proprio“peso” o utilità economica rispetto al funzionamento della “macchina capitalistica”. Che funziona male, o comunque per cicli (spesso con ricadute speculative); che moltiplica intorno sé la diseguaglianza, e che infine viene considerati, e non solo dai suoi esegeti, indistruttibile ed eterna.
Ecco perché oggi si parla sempre meno di giustizia redistribuitiva. La sfera del mercato, estendosi, va erodendo quella dello stato: la sfera della giustizia redistribuitiva e della moralità sociale, come criterio che consolida i rapporti tra classi e ceti sociali diversi. sono ridotte.
Del resto se l’unica forma ammessa di giustizia resta quella del mercato, o dell’utilità, e se solo attraverso il mercato – come proclamano i media– è possibile dare forma e concretezza ai propri diritti, che senso ha invocare la giustizia redistribuitiva?
Dal momento che grazie al mercato, e alla divisione“capitalistica” del lavoro, ciascuno di noi avrebbe quel che merita (attenzione, essere contro questo tipo di divisione non significa essere contro la divisione del lavoro come criterio sociologico).
Insomma, siamo davanti alla logica spietata della società come "impresa totale". Dove "nessun pasto può essere gratis", come scriveva provocatoriamente Milton Friedman. Di più: secondo i profeti del mercatismo neoliberista è giusto che i ricchi divengano più ricchi e i poveri più poveri. Perché i primi sono quelli che contribuiscono maggiormente alla crescita del sistema economico, mentre i secondi sarebbero solo di peso.
Ovviamente i politici si guardano bene dal dichiarare pubblicamente tutto ciò. Magari parlano di giustizia distributiva con riferimento al mercato, come avviene in questa campagna elettorale, dando per scontato che nessuno degli elettori riuscirà a capire il reale ( e terribile) significato delle loro parole. Che qui invece noi tentiamo di spiegare.
Anche perché la melassa mediatica che ci sommerge, cerca di nascondere i lati più ripugnanti della povertà. Si preferisce parlare della chirurgia estetica di massa, come conquista sociale (e così veniamo al nostro apparentemente strampalato quesito iniziale). Un “traguardo” che si può tagliare (guarda caso) solo a patto di essere “attivi su” e "flessibili" su un mercato, di cui devono però accettare preventivamente le ingiuste regole distributive. Se ci si passa la battuta, siamo davvero al “credere, obbedire e combattere”, ma questa volta per se stessi, e di riflesso, per il mercato capitalistico. Perché solo un lavoro sicuro consente il possesso di quel pugno di euro per sottoporsi all’intervento che finalmente ci farà belli come quei saltimbanchi e buffoni che animano, si fa per dire, le domeniche televisive a reti unificate.
Come se ciò non bastasse, si continua a celebrare il mercato capitalistico come la più alta forma di meritocrazia. E qui pensi ai continui accenni di Berlusconi e Veltroni a proposito del "necessario ritorno della meritocrazia". Omettendo però di ricordare due cose fondamentali.
In primo luogo, i meriti sono stabiliti in base a una scala di valori (efficienza, produttività, flessibilità, ecc.) fissata non da chi è in fondo o al centro della piramide sociale, ma da un grumo di occhiuti “custodi”del capitalismo: monopolisti, alti burocrati privati, avvocati d’affari, membri influenti delle grandi famiglie del capitalismo, ex capi di stato, economisti e politologi a gettone, speculatori finanziari, ecc.
In secondo luogo, quanto più si decantano le virtù del mercato, tanto meno si criticano i suoi vizi, che sono tanti, forse troppi. E, soprattutto, si rinuncia a correggerne le ingiustizie, attraverso politiche redistribuitive. Di quale tipo?
Introducendo, ad esempio, un “limite” all’arricchimento o comunque un’imposta, in ambito nazionale e (perché no?) continentale, sui grandi patrimoni e sui capitali borsistici speculativi. I cui proventi andrebbero a finanziare opere di utilità sociale (scuole, università, istituzioni culturali e di ricerca, poli sanitari, infrastrutture, ecc.)
Di solito alle nostre tesi vengono rivolte le seguenti critiche: per alcuni le politiche redistribuitive rischiano di uccidere il mercato; per altri si dovrebbe invece puntare su una giusta miscela di pubblico e privato. Insomma il trucco consiste – così ci spiegano – nello “spremere” senza uccidere lagallina dalle uova d’oro: il capitalismo.
Le cose però non sono così semplici.
Da un lato, la crisi delle politiche redistribuitive implica la crisi del consenso al sistema: più crescono le distanze sociali, più la società si disgrega, rischiando l' ingovernabilità. Mentre una saggia politica redistribuitiva imporrebbe una accorta riduzione delle distanze sociali.
Dall’altro lato, il capitalismo si è fatto talmente arrogante da meritare una lezione. E, crediamo, che solo dopo che avrà espulso le sue tossine speculative, si potrà cominciare a ragionare sul giusto mix di pubblico e privato. In tempi duri, niente mezze misure: probabilmente è giunto il momento di opporre all’utilitarismo distributivo del mercato, l’antiutilitarismo redistribuitivo dello stato o comunque di identità politiche capaci di tenere testa alla “rapacità” di pochi, ma potenti predoni.
Le grandi ricchezze e l’uso speculativo che ne viene fatto sui mercati finanziari mondiali offendono gli uomini, soprattutto i più poveri. Di qui la necessità di una nuova parola d’ordine per quei movimenti politici e sociali che aspirino a sfidare il principale tabù del nostro tempo, la ricchezza: "Lotta alle grandi fortune speculative e accorciamento delle distanze sociali!".
Una parola d'ordine nella quale Veltroni e soprattutto Berlusconi non si riconosceranno mai...

Carlo Gambescia 

lunedì 25 febbraio 2008

Perché Beppe Grillo continua a ignorare le “costanti” del politico?




Le “costanti” del politico.
Il “Monnezza Day” di Napoli?   Un altro successo di "folla".  Ma i media italiani lo hanno snobbato o ridotto a serata comico-folkloristica, dandone notizia in poche righe o secondi. Perciò questa volta, a differenza del “Vaffa Day”, sembra si sia preferito “silenziare” l’evento. Il che è tanto preoccupante quanto la precedente sovraesposizione mediatica del settembre 2007. Gli estremi finiscono sempre per congiungersi. Purtroppo.
Sul piano umano e intellettuale riteniamo che Grillo sia in perfetta buona fede. E soprattutto, come si diceva un tempo, preoccupato per il bene dell’Italia… Il che è nobile. Riteniamo però che sulle “costanti” del politico non abbia ancora idee precise. Il che ci dispiace, perché si tratta di un uomo intelligente e di valore. Ci permettiamo perciò di offrigli alcuni consigli.
Quelli gratuiti, a volte, sono i migliori, perché disinteressati.
Ma di che cosa parliamo? Quali sono le “costanti” del politico? E qui non possiamo non farci aiutare da Gianfranco Miglio: Ubi major, minor cessat. Si chiamano “costanti” del politico, perché sono regolarità comportamentali (non comportamentiste), sotto l'aspetto politico, che si ripetono storicamente. A prescindere dal regime politico, dai principi morali condivisi o meno, e dalle stesse circostanze. Sono le “leggi”che regolano la politica effettiva. E con le quali chi vuole fare politica deve misurarsi. E dunque, volente o nolente, anche Beppe Grillo.
Scrive Gianfranco Miglio:

E’ ormai possibile tentare - con una ipotesi più generale circa la struttura e la dinamica della ‘sintesi politica’ - l’unificazione, in un solo e comprensivo sistema, delle ‘verità parziali’ di Tucidide (la ‘regolarità’ delle ricerca del dominio ‘esterno’), di Machiavelli (la ‘regolarità’ degli egoismi concorrenti), di Bodin (la ‘regolare’ presenza in ogni sistema politico del capo decisivo), di Hobbes (il ‘regolare carattere fittizio di ogni comunità, e la radice ultima della rappresentanza politica), di Mosca e Pareto (la ‘regolarità’ della ‘classe politica’), di Tönnies (la ‘regolarità’ dell’antitesi Comunità-Società), di Weber (la ‘regolarità’ delle forme ideologiche di legittimazione), e infine di Schmitt (la ‘regolarità’ della contrapposizione ‘amicus-hostis’).
[Presentazione a Carl Schmitt, Le categorie del ‘politico’, il Mulino, Bologna 1988, p. 13].

Alcuni esempi
E ora veniamo a Grillo, facendo due esempi in argomento.
In primo luogo, gridare ai napoletani “Fate come il Kosovo, staccatevi da Roma” è ingenuo e pericoloso. Perché è un esplicito invito ad accrescere la frammentazione geopolitica, in una fase dove la politica - se si vuole contare qualcosa sul piano internazionale - richiede invece la nascita di grandi blocchi o spazi politicamente ed economicamente autocentrati. La vera politica e anche l'unica pace possibile si fondano sull'equilibrio tra più blocchi contrapposti e non sul dominio tirannico di una sola potenza su tutte le altre: in politica il pluralismo è sempre preferibile al monismo. Il che significa che si deve giudicare infondata e pericolosa, perché strumentalizzabile dalle formazioni politiche precostituite e più aggressive (come mostra la storia), quell'idea di instaurazione di un qualche “Regno della Pace Universale sulla Terra”. E quanto più ci si appella a un'idea monistica di umanità, tanto più il nemico che si oppone viene considerato "fuori dell'umanità" e dunque passibile di essere eliminato con qualsisi mezzo, anche il più feroce.

Comunque sia, dal punto di vista delle “costanti” politiche, crediamo che Grillo, a nostro modesto parere, debba invece cominciare a porsi il problema del rafforzamento di un blocco europeo (magari escludendo la Gran Bretagna...), come essenziale fattore geopolitico di un mondo pluralistico e non ridotto a provincia di un "nuovo ordine mondiale" a guida americana.
Dal momento che un’unità politica è tanto più capace di competere all’esterno quanto più è coesa e organizzata al suo interno. In caso contrario, la frammentazione, soprattutto se eccessiva, rischia di farsi funzionale al classico divide et impera, che finisce per fare il gioco delle entità politiche maggiormente organizzate e coese sul piano internazionale. Come, ad esempio, è accaduto nell’ex Jugoslavia.
In secondo luogo, la battaglia ecologista di Grillo è condivisibile. Tuttavia il suo elogio alla “lotta dei napoletani” contro i termovalorizzatori, anche se giusto, incoraggia un impolitico particolarismo ecologico. In che senso? La transizione, diciamo così, a un’economia verde, pur auspicabile, implica una preventiva opzione per la lotta politica e per la conquista del potere in quanto tale, ovviamente in chiave democratica. Per farla breve: la “gente” da sola, soprattutto se marginalizzata sul piano locale, non può farcela. Perché chi detiene le leve del comando ha i mezzi politici e mediatici, per impedire che esperienze di trasformazioni economiche nate in basso, possano crescere autonomamente fino al punto di sostituirsi, creando strutture economiche alternative, a quelle dominanti. Pertanto il localismo deve fare un salto di qualità, se vuole contare politicamente. Ed è quindi sbagliato incoraggiarlo a manifestarsi come tale.
Dal momento che un’unità politica può tanto più imprimere una direzione precisa ai processi economici e sociali, quanto più il suo potere è coeso e organizzato. Insomma, le esperienze collettive dal basso, se non vengono per tempo ricondotte nell’alveo di un disegno politico unitario e strutturato in alto, sono destinate a soccombere di fronte a entità politiche, come dire, già verticalizzate e più dinamiche. E qui si pensi, ad esempio alla “politica del carciofo” (del mangiare l’avversario, debole e disunito, foglia dopo foglia) che ha distinto storicamente i processi di formazione dei grandi sistemi politici.

La forma-partito
Ci siamo limitati a indicare solo due punti. Probabilmente Grillo, sottovaluta questi aspetti, perché crede che il politico possa essere superato, nei fatti, dalla pura e semplice partecipazione collettiva. Forse ritiene che le società, possano autoperpetuarsi e rinnovarsi, per vie interne senza alcun bisogno del comando e del conflitto politici
In realtà, la partecipazione diretta è importante nelle prime fasi, ma in quelle successive allo "stato nascente", ogni movimento collettivo, se vuole durare e soprattutto incidere “politicamente”, deve strutturarsi istituzionalmente in forme di rappresentanza, tra le quali va ricordata la moderna forma-partito. Perché delle due l'una: o il movimento riesce a strutturarsi in partito, o il potere politico dominante si impossessa del movimento, seguendo strategie di repressione o captazione riformista. Consideriamo valida la forma-partito, perché resta ancora oggi, la migliore “forma” di rappresentanza e partecipazione politica comunemente accettata da tutti. E comunque adatta a contenere quella derive plebiscitarie, spesso implicite nell’uso eccessivo della democrazia diretta. Di qui però, una volta scelta la forma-partito, la necessità per Grillo, di accettare alcune sfide “politiche” (nel senso della “costanti” di cui sopra), capaci di fare la differenza nei contenuti, tra il “Partito Grillista” e gli altri partiti.

Vediamo quali:
a) individuazione e "trattamento" del nemico.
b) organizzazione sul territorio secondo una precisa catena di comando.
c) definizione del proprio programma, partendo da una visione globale della società che si auspica.

Il nemico
Grillo designa come nemico interno l’intera classe politica: la "casta" Si tratta di una scelta moralmente giustificata, ma poco produttiva sul piano della politica reale: quello dei rapporti di forza, cui si deve sottostare, per riuscire ad “agguantare” il potere. Dal momento che di regola, una classe politica ostracizzata, come del resto oggi sta accadendo, appena viene attaccata, reagisce subito, per farla breve, “remando contro” il nuovo arrivato. Invece le “costanti” del politico, ferma restando la scelta del nemico (la "casta"), imporrebbero un altro comportamento, soprattutto se inizialmente si è forza politica di minoranza: quello di blandire e dividere il nemico, per poi “spegnerlo” senza tanti complimenti, appena i rapporti di forza iniziano a cambiare. Naturalmente sempre in termini di lotta politica democratica.
Quanto al nemico esterno, Grillo non lo ha ancora indicato, se non nella veste di alcune lobbies economiche internazionali. In realtà, la lotta politica, implica sempre l’indicazione della bandiera politica avversaria (anche quando eventualmente si nasconda dietro un disegno apparentemente economico...). Altrimenti resta il rischio che il nemico esterno ci sia indicato da altri: in genere, come accade, da chi è più forte di noi. Si pensi, ad esempio, alle attuali spedizioni militari europee, in conto terzi, per favorire una globalizzazione economica che danneggia, in primis, proprio l’Europa.

Organizzazione e programma
Quanto all’organizzazione, questa è sempre in funzione del nemico (esterno e interno). Di qui la necessità di puntare su un’organizzazione coesa e capace di competere adeguatamente con l’avversario, soprattutto in termini di catena di comando e rapidità di decisione. Sotto questo aspetto la blogosfera può giocare un ruolo importante come veicolo comunicativo e di collegamento. Tenendo però presente che una classe dirigente alternativa può formarsi solo sul campo: confliggendo e/o cooperando, sempre democraticamente, con altre forze politiche. E soprattutto, laddove possibile, amministrando. La blogosfera, spesso enfatizzata da Grillo, può perciò avere un ruolo informativo, di dibattito e anche di veloce collegamento, ma l’esperienza politica sul campo resta insostituibile.
Quanto al programma, crediamo si debba puntare, come prerequisito ideologico, su un’idea globale di società. Nel caso di Grillo, così attento alla questione ecologica, si pensi solo alll'importante ruolo programmatico che potrebbe giocare l'idea di società della decrescita, che qui ci limitiamo a indicare come modello (per alcuni aspetti programmatici, concreti, rinviamo all'interessante post di Carlo Bertani http://carlobertani.blogspot.com/2008/01/storia-di-lucidatori-di-sedie.html). Del resto si tratta di un'idea, quella di decrescita, già molto apprezzata dallo stesso Grillo. Alla quale andrebbe però conessa la critica sistematica del "Signoraggio sulla moneta", oggi imposto dai poteri bancari e finanzari
Di qui però la necessità di puntare su una trasformazione generale, diremmo forte, che possa auspicabilmente riguardare non solo l’Italia, ma l’Europa nel suo insieme, riallacciandosi appunto alla visione geopolitica, già ricordata di un blocco economico autocentrato (probabilmente, come già ricordato, escludendo la Gran Bretagna…).

Il rischio del “profeta disarmato”

Ma innanzi tutto crediamo che il "movimento grillista” - senza mezzi termini - debba imporsi di “conquistare il potere politico” in Italia (sappiamo benissimo quanto quest'ultima espressione sia oggi politicamente scorretta nella melliflua Italia del veltrusconismo...). Ma per riuscirvi Grillo deve prima cimentarsi teoricamente con le “costanti” del politico: farle proprie. E così capire l'importanza di trasformare il suo movimento in partito.
Un partito certamente democratico, ma come abbiamo visto, diverso dalle altre formazioni. Inutile dire che la nostra "perorazione" non riguarda le prossime elezioni di aprile... Anche perché i tempi sono troppo ristretti. Ma quelle che potrebbero venire dopo, e probabilmente anche a breve scadenza.
Del resto non vediamo altre possibilità. Ma solo il rischio per Beppe Grillo, come ogni profeta politicamente disarmato, di soccombere e sparire.

Carlo Gambescia



P.S. Domani non pubblicheremo il consueto post. Questo per consentire al lettore la "metabolizzazione" del post di oggi, piuttosto lungo e denso. Ma anche per favorire la riapertura su questo blog, del dibattito sulla "questione Grillo"

sabato 23 febbraio 2008


Il sabato del villaggio (6)




McLuhan per pontefici
Gli strumenti dello scomunicare.

Conflitto di interessi
Rifare l’Italia? No, il Milan.

Previsioni geopolitiche
Dopo-Castro = Pre-Stati Uniti

Ritorno alle origini
De Gennaro,
San Gennaro,
De Gennaro.

Umberto Eco
Da zero all’infinito. E ritorno.

Spengleriana
Ciriaco De Mita: il declino del presidente.
Clemente Mastella: il declino dell’attendente.


                                         Carlo Gambescia

venerdì 22 febbraio 2008

 Successione e carisma

Addio Fidel, e dopo?



L’addio di Fidel Castro alla politica attiva, soprattutto per evidenti ragioni di salute, apre anche un notevole problema sociologico dai rilevanti risvolti politici. Quale? Quello della sostituzione di un leader carismatico. Ovvero: è possibile passare in modo indolore e senza conseguenze per il regime stesso, da un sistema politico a base carismatica a un sistema politico razionale a base burocratica?
Ovviamente, come i lettori sanno, la nostra analisi esulerà da qualsiasi giudizio politico sul regime cubano. Anche se principalmente basata, in termini di valori, sul rifiuto di quella formuletta politologica, oggi molto in voga tra i "mercatisti", che dà per necessario, immediato e indolore il passaggio dalle diverse forme di dittatura alla democrazia liberale basata sul mercato.
Il carisma di Fidel Castro va perciò visto come dato analitico di fatto. Per capirne l'importanza, basta dare uno sguardo a qualsiasi sua biografia, anche indipendente: avvocato dei poveri, leader rivoluzionario indiscusso e ispiratosi a un socialismo di tipo nazionalista, nonché fiero, fervido e visionario politico. Il potere carismatico di un leader politico, di regola, deriva dall’essere considerato come dotato di forze e proprietà eccezionali non accessibili agli altri, soprattutto in virtù di una biografia, come quella appena accennata. E attenzione: si tratta di un elemento trasversale a tutti i regimi politici, democratici e socialisti. Insomma siamo davanti a una costante sociologica. Ma questa è un'altra storia...
Ora, la figura di Castro ha sempre svolto un ruolo politicamente determinante. Si potrebbe parlare di una specie di plusvalore politico. Come risulta evidente dal fatto che, nonostante la dissoluzione dell’Unione Sovietica, Cuba, pur trovandosi in precarie condizione economiche, dopo diciassette anni, come dire, sia ancora lì. Indubbiamente, un ruolo certamente deprecabile, è stato giocato dall’apparato di polizia. Ma ridurre la questione della “longevità” politica ed economica cubana alla componente burocratico-poliziesca è ingenuo e riduttivo.
In realtà, come in una specie di esperimento sociale “in provetta” solo ora, e ancora di più dopo la sua morte, si potrà misurare il peso specifico del carisma di Fidel Castro riguardo al passato: per differenza con quello che accadrà a Cuba in futuro.
Di regola dopo la scomparsa del fondatore carismatico, prima un regime entra in una fase di intensa lotta per la successione. Poi, se non emergono altri leader capaci di raccogliere il carisma, in genere la "residua" macchina burocratica viene a patti con il mondo: si inizia così a passare da una struttura politica, economica e sociale incentrata sui fini (l’ideologia, nella fattispecie il comunismo, rivissuta attraverso la presenza quotidiana, fisica e carismatica, del suo fondatore), a una struttura basata solo sui mezzi organizzativi (priva perciò di carisma, e ridotta a puro organismo burocratico). Di riflesso il sistema finisce, di regola, per accettare alcune riforme, soprattutto economiche (e dunque organizzative). Ma sempre entro certo limiti: perché le riforme rischiano comunque di mettere in discussione la leadership della macchina burocratica, in genere gestita dal partito unico, privandolo così silenziosamente del suo potere.
Ad esempio nella Cina post-maoista la transizione è ancora in atto. E sta avvenendo, appunto perché non è ancora emerso alcun nuovo capo carismatico, solo su basi organizzative (mezzi) e non valoriali (fini). La partita, probabilmente, è ancora aperta. Nella Russia comunista invece la transizione dal potere carismatico al potere razionale, apertasi dopo la morte di Stalin, si è prolungata per quasi quarant’anni. E si può dire che, nonostante il passaggio dal comunismo alla democrazia, il potere sia ancora in bilico tra carisma e razionalità: tra fini e mezzi. Probabilmente si tratta di una "regolarità" legata alle tradizioni messianiche ed autoritarie russe. La storia non sempre si può cancellare con un colpo di spugna.
Ovviamente, nelle fasi di transizione sono in gioco anche altri fattori: la presenza di istituzioni politiche e religiose, oltre a quelle del partito unico (ad esempio le forze armate, le chiese, le tecnocrazie, ecc.). Ma contano anche le pressioni esogene (delle potenze nemiche, dell’economia mondiale, ecc.) ed endogene ( le dimensioni demografiche, geografiche, economiche, il peso delle tradizioni culturali, ecc.). Tutti fattori che mescolati insieme possono giocare un ruolo determinante.
E Cuba, di fatto, come ogni regime monopartitico si è retta e si regge, sostanzialmente, sulla coesione della dirigenza del partito, nella fattispecie quello comunista. E sul consenso sincero o meno, che esso riuscirà a conservare intorno a se stesso, dopo la scomparsa del plusvalore carismatico "emanato" da Castro. E fin quando questo consenso durerà, soprattutto di fronte alle avversità esterne ( e qui si pensi solo alle possibili "pressioni" statunitensi), l’ ”eredità” politica di Fidel Castro continuerà a vivere. Anche senza il suo carisma.
Ma un comunismo cubano (alcuni preferiscono il termine "socialismo") basato sui “mezzi” (solo organizzazione, e purtroppo coercizione) e privo di fini (carismatici), potrà ancora essere considerato tale?

Carlo Gambescia 

giovedì 21 febbraio 2008

 La Libreria Remainders di Roma  rischia la  chiusura!





In prima battuta, visto che la libreria romana Remainders di Rodolfo Giammona, vive e lotta insieme a noi, bibliofili e bibliomani, dal 1965, potremmo anche parlare, in chiave sentimental-gaddiana, di un altro “pasticciaccio brutto”. Ma non di via Merulana bensì piazza San Silvestro. Nel cuore di Roma, a due passi da Fontana di Trevi, dove ha sede la libreria,
Perché “pasticciaccio brutto” ? Secondo Rodolfo Giammona, l’affabile e colto gestore, che come un palombaro da quarant’anni recupera galeoni editoriali pieni di tesori cartacei perduti, si sa solo che dovrà chiudere baracca e burattini, come si dice a Roma, il 31 marzo 2009. Perché la società proprietaria - “Milano Novanta” - si è finora limitata, come del resto era ed è suo diritto, a non rinnovare il contratto e a comunicare solo la data di “riconsegna dei locali”: 31 marzo 2009. Evitando, a quanto finora è dato sapere, qualsiasi contatto personale con il gestore. Quel che stupisce è il silenzio delle istituzioni, nonostante si sia già occupato in gennaio della cosa il bravissimo Armando Torno, sulle pagine romane del Corriere della Sera.
Insomma, sta per chiudere un’altra libreria del centro storico, e per ragioni apparentemente misteriose. Ma non è ancora metaforicamente spuntato fuori alcun Don Ciccio Ingravallo, come nel romanzo di Gadda. Pronto ad assumersi il compito di dipanare “quer pasticciaccio brutto de piazza San Silvestro”…
Bisogna fare qualcosa. Il nostro valga come appello. Anche perché, sul piano personale, Remainders è un bel pezzo della nostra vita di accaniti lettori e ricercatori di libri. Soprattutto scienze sociali. Molti testi della nostra biblioteca sono passati per i suoi scaffali. E crediamo che la stessa cosa possa valere per molti altri “ammalati di libri” come noi (la definizione è di una persona a noi molto vicina…).
E qui, inevitabilmente rischiamo di essere sommersi da una marea di titoli-ricordi: i “classici della democrazia moderna” editi dal Mulino negli anni Sessanta, venti volumetti antologici con le copertine a vistosi rigoni gialli, neri, bianchi e verdi: Locke, Montesquieu, Hume, Kant, eccetera. Numerosi testi Vallecchi e Sansoni dello stesso periodo, finemente stampati e dottamente scritti. E poi, negli anni Ottanta-Novanta: Einaudi, Laterza, Editori Riuniti... La Riva Gauche dell’editoria italiana, all’epoca in debito di ossigeno ideologico. E non solo.
Di più. Attraverso la libreria Remainders, si potrebbe scrivere una storia della cultura politica nostrana. Ci spieghiamo meglio.
Negli anni Settanta ricordiamo l’acquisto della Società libera di Friedrich Hayek, pubblicato da Vallecchi: un classico del liberalismo contemporaneo, finito però, in tempi di ortodossia marxista, tra i fondi di magazzino. Ma scampato miracolosamente al macero, grazie ai palombari del libro di Piazza San Silvestro.
Negli anni Ottanta e Novanta, toccherà invece proprio ai marxisti e neomarxisti, pubblicati nei decenni precedenti in quantità industriali da Einaudi e Laterza, Editori Riuniti. E così giungerà l’ora fatale di Marx e Lenin…. Però prontamente salvati, da chi scrive. Soprattutto alcuni notevoli titoli minori. Ma anche perché, diciamola tutta: davanti al nobile nemico caduto in ginocchio, si deve sempre mostrare un’anima grande…
Ecco perché, per noi sarebbe un grande dispiacere assistere alla chiusura di una libreria che ha assolto e può ancora assolvere un ruolo fondamentale: quello di mettere a disposizione di tutti e a prezzi ancora abbordabili, libri di vera cultura. Che, a quanto pare nelle mega-carto-librerie-caffetterie-gingillerie, che ormai hanno invaso Roma ( e l’Italia), rischiano di non trovare più spazio. E così di finire al macero.
Cerchiano allora di difendere la nostra piccola imbarcazione di Piazza San Silvestro, il suo indomito timoniere-palombaro Rodolfo Giammona e l’ equipaggio tutto, compresi gli appassionati frequentatori della libreria. Ecco, il lettore, immagini chi scrive, nel tentativo di aggrapparsi a una scialuppa di salvataggio. Perché non offrirne una anche al Capitano coraggioso, Rodolfo Giammona? Ad esempio, concedendogli una proroga per trovare, non lontano da Piazza San Silvestro, altri locali ?

Carlo Gambescia

P.S.
Oggi intorno alle ore 9, come avviene due volte all'anno, ha inizio la tradizionale vendita di libri al 75 per cento del mese di febbraio (l'altra di solito si tiene a settembre). Un’occasione in più per testimoniare, visitandola, la nostra solidarietà alla libreria Remainders di Piazza San Silvestro.


Infine un appello: amici lettori, soprattutto se romani, riprendete e diffondete sullo spazio web il nostro post di oggi. Grazie.

mercoledì 20 febbraio 2008

Voto utile, ma per chi?




Non c’è che dire, va sempre peggio, politicamente parlando. Come dimostra la spudorata richiesta di un “voto utile”, sia da parte del centrodestra, sia del centrosinistra. Ma in che cosa consisterebbe il "voto inutile"? Nel votare in massa per Veltroni e Berlusconi... Dietro il voto utile, insomma, si nasconde, come i nostri lettori ormai sanno, il veltrusconismo... Ma non è di quest'ultimo che oggi desideriamo parlare.
Una premessa: la democrazia non è solo pubblico dibattito ma anche decisione. A un certo punto si deve decidere. E di regola la decisione “funziona” meglio, se viene presa da forze omogenee in termini ideologici, di programma e di interessi elettorali.
Pertanto si dovrebbe sempre scindere tra il momento del dibattito e quella delle decisione. Ci spieghiamo meglio.
Sotto il profilo del dibattito va sempre data voce a tutte le forze politiche. Ciò significa che sul piano elettorale il sistema proporzionale è quello che assicura la maggiore rappresentatività democratica. Mentre non lo è, purtroppo, sul piano delle decisione, perché implica la necessità di formare coalizioni governativa, che spesso rappresentando componenti politiche diverse, risultano, se ci si passa la battuta, indecise a tutto.
Perciò il punto fondamentale - se vogliamo essere rigorosi - non è quello di non votare per i “partitini”; criterio, a nostro avviso, profondamente antidemocratico, perché uccide il dibattito parlamentare, finendo per alimentare quello extraparlamentare, con gravi rischi per la democrazia. Ma quello di separare istituzionalmente - benché non essendo noi costituzionalisti resta difficile indicare in dettaglio come... - il momento del dibattito da quello della decisione. Permettendo in questo modo, magari attraverso la creazione di una “camera” pubblica di ascolto del Paese (al posto di quella attuale dei deputati), la separazione tra i due momenti. Affinché, il governo in carica (che potrebbe essere eletto su basi maggioritarie), possa, auspicabilmente contare, assumendosi le proprie responsabilità per cinque anni, su una maggioranza fortemente coesa, e così decidere, senza infinite, e spesso inutili, discussioni interne, ma dopo - ecco il punto importante - aver ascoltato tutti, come impone la discussione democratica. Si tratta solo di un'idea, peraltro imperfetta, sulla quale ci piacerebbe che i lettori intervenissero. Perché crediamo che il ruolo di un blog, non sia solo quello di fare giornalismo di informazione e di inchiesta, peraltro utilissimo, ma anche di far circolare contenuti. O comunque, almeno tentare.
Di conseguenza, e concludiamo, insistere sul voto utile maleodora di inganno “politico” e soprattutto di strenua difesa dello status quo. Infatti, come ormai ripetiamo da tempo, i programmi politici del centrodestra e del centrosinistra sono praticamente identici. Pertanto voto "utile". Ma per chi? Di certo non per gli italiani.

Carlo Gambescia

martedì 19 febbraio 2008

Blogosfera
Libertà e controllo sociale 




Come al solito la prendiamo da lontano.
Si è criticato il presentatore Fiorello per alcune sue esternazioni non politicamente corrette. Che qui però non commentiamo. Perché ci interessa un altro aspetto dello questione: quello che la nostra è una società a "libertà limitata" delle parole. In che senso? Semplicissimo. Apparentemente tutti possono parlare di tutto. Da Fiorello al comune cittadino, intervistato per un sondaggio. Ma in realtà esiste, come dire, una griglia di controllo mediatica, che restringe le cosiddette “parole in libertà” a un arco di tematiche giudicate dal potere dominante legittime, perché non pericolose dal punto di vista del controllo sociale e della stabilità “sistemica”.
Non diciamo nulla di nuovo. In argomento esiste una letteratura vastissima. E del resto in ogni società storica vi sono state ( e vi saranno) forme di controllo sociale. Tuttavia nella nostra, nonostante si autodefinisca democratica, questa forma di controllo ha però addirittura assunto un carattere spesso soffocante, anche grazie alla crescente pervasività del suo apparato mediatico.
Si pensi ad esempio a come viene "infiocchettata" la secessione del Kosovo. La si descrive come un atto di democrazia. Oppure all’impossibilità di criticare la democrazia rappresentativa in nome di quella diretta: qualsiasi critica alla "istituzioni parlamentari" viene subito liquidata come cripto-totalitaria. Oppure si pensi al cosiddetto linguaggio “politicamente corretto”. Dove talvolta si sfiora il ridicolo. Eppure, alla fin fine, quasi tutti si attengono alle regole.
Per quale ragione “quasi” tutti? Perché la blogosfera, sotto l’aspetto, dell’ ”impoliticamente corretto”, ha finora rappresentato una bellissima eccezione alla regola. Di qui la necessità di proteggerla, per usare una terminologia forte, da ogni attacco esterno liberticida. Ma anche di esercitare, intelligentemente, da parte dei suoi membri, forme di autocontrollo, evitando ad esempio derive razziste e antidemocratiche.
Si dirà: ma in fondo l’autocontrollo è una forma di controllo indotto, che in termini politici implica l’ accettazione di regole formali, imposte dal potere dominante. Il che non è falso. Ma è possibile indicare un’altra strada? A parte, ovviamente, quella suicida dello scontro frontale con il potere. O, cosa che temiamo ancora di più, la trasformazione della blogosfera, o meglio dei suoi membri(blogger e lettori), nei fondatori di un altro partito politico in cerca di voti.
Il dibattito è aperto.

Carlo Gambescia

lunedì 18 febbraio 2008

Il progetto centrista di  Gianfranco Fini




Che giudizio dare sulla confluenza di An nel Popolo della Libertà?
Le elezioni sembravano fino a qualche giorno fa (prima della rottura con Casini) praticamente vinte dal centrodestra. Di qui la scelta di Fini di sciogliere An e confluire nel nuovo partito del Cavaliere, per dividersi le spoglie del centrosinistra. Scelta che, quanto ad opportunismo, si parva licet componere magnis, ricorda quella di Mussolini quando decise di scendere in campo a fianco di Hitler con la Francia in ginocchio, a guerra apparentemente vinta. E poi sappiamo tutti come finì… E ora, ecco, che Veltroni viene già dato nei sondaggi in rimonta...
Comunque sia, va anche segnalato l’ allineamento dei vertici del partito sulla linea centrista finiana, come risulta dalla Direzione di An dell’altro ieri. Una linea anche culturale, che oltre a essere quotidianamente celebrata sul quotidiano del partito, scivola, e dispiace dirlo, nel grottesco, sulla rivista teoricamente più importante di An, “Charta Minuta”. Ad esempio, nella presentazione dell’ultimo numero ( recuperabile su http://robertoalfattiappetiti.blogspot.com/2008/02/la-vocazione-maggioritaria-sta-nel-dna.html), alcuni politici del vecchio Msi, come Beppe Niccolai e Pino Rauti, per fare solo due nomi, sono cooptati in una galleria di padri nobili missini, costruita ex post per provare l'esistenza di una vocazione centrista (ribattezzata "maggioritaria") sia nel Movimento Sociale Italiano, sia, guarda caso, in Alleanza Nazionale. Partito - si legge - che addirittura per questa ragione (centrista), avrebbe soppresso la dicitura sotto il simbolo "Destra Nazionale"… E qui siamo a livelli di spericolatezza teorica degni dei film di Indiana Jones. Per farla breve: Rauti, l'uomo dello "sfondamento a sinistra", e Niccolai, socialista nazionale, che ora si starà rivoltando nella tomba, ma anche lo stesso Almirante, padre della "Costituente di Destra", vengono promossi a proto-democristiani e iscritti d'ufficio al Partito Popolare Europeo...
Ma torniamo alla scelta politica centrista di Fini.
Il Presidente di An si è però lasciato una porticina aperta: la confluenza vera e propria avverrà in autunno, dopo le elezioni. Il che, tradotto, significa che la vera fusione (funzionale ed organizzativa) tra Forza Italia e Alleanza Nazionale, avverrà solo se il “Popolo della Libertà” vincerà le elezioni. Atteggiamento che prova quanto la sbandierata neo-vocazione centrista di An sia poco più che una protesi ideologica. Dovremo perciò attendere qualche mese, per scoprire cosa si inventeranno le teste d' uovo di “Charta Minuta”, nel funesto caso (per loro) di sconfitta. Se, insomma, le elezioni di aprile dovessero andare male e Alleanza Nazionale fosse costretta a fare marcia indietro, per ricollocarsi a destra, sua sede naturale.
Ora, per entrare nel merito, e ovviamente in termini politologici ( come dire, di parsoniana neutralità affettiva), l’idea della fusione con Forza Italia, oltre a lasciare aperti spazi a una destra a destra di An, divisa, rissosa, ideologicamente confusa e spesso con il "torcicollo", rischia di impedire la nascita di una forza conservatrice, democratica ma di destra, all'insegna, senza tante storie, del "Dio, Patria e Famiglia" e di una sana diffidenza nei riguardi del neoliberismo. Perché questo, piaccia o meno ai vertici centristi di An, è ciò che chiede tuttora l'elettore conservatore tipo. E sarebbe un errore strategico consegnarlo a personaggi stravaganti o forze politiche dell'ultima ora, che scimmiottano i teocon americani.
Inoltre la "svolta" di Fini, rischia di rendere ancora più difficile la ricomposizione storica della destra in Italia in termini elettorali, politici e morali. Dal momento che il costituendo Popolo della Libertà non è una forza di destra ma uno schieramento che si ispira al centro riformista… In questo senso l’Italia rischia di perdere, per almeno un altro decennio, l'occasione di far nascere un partito conservatore, come naturale polo di destra, capace di opporsi democraticamente, ma senza mediazioni, a un partito progressista, altrettanto naturale polo di sinistra. E di finire, per contro, nelle mani di moderati senza alcun ideale, pronti a mettersi d’accordo con i moderati della parte opposta, pur di rimanere a galla. Perseverando così nelle peggiori tradizioni consociative italiane. E uccidendo quel bipolarismo, sostenuto in passato, proprio dal centrodestra.
Difficile dire a quanto possa ammontare l' elettorato puramente conservatore italiano (di destra democratica). Quello in entrata e in uscita dall’astensionismo che potrebbe votare a destra, risulta intorno al 5 per cento dei votanti ( sull'astensionismo in generale e di destra in particolare si veda ad esempio, e a puro scopo ricognitivo, http://brunik.altervista.org/20041209223911.html ). Questi voti potrebbero andare ad aggiungersi, considerando il "bacino" elettorale possibile per la destra intorno al 25 per cento, alla naturale consistenza di Alleanza Nazionale (calcolata per difetto al 12 per cento), dando vita, certo in linea di ipotesi, a una forza politica di "destra", sempre per difetto, di almeno il 18-20 per cento. Che a sua volta potrebbe apparentarsi, con il centro berlusconiano, evitando però di entrare nel partito unico centrista e di annacquare così il bipolarismo destra-sinistra.
Del resto la similarità tra il riformismo alla Veltroni e il nebbioso centrismo di Berlusconi risulta, come abbiamo più volte scritto, da evidenti identità di programma. Pertanto il vero rischio del dopo elezioni, potrebbe essere quello di una "Grande Coalizione" tra Veltroni, Berlusconi e ora anche Fini…
Probabilmente un pareggio sarebbe letto all’interno di An come una mezza sconfitta. E qui pensiamo, per reazione, all’interessante ruolo di contrasto e di recupero dell'identità di destra, che potrebbe giocare un politico di valore come Gianni Alemanno, all’indomani di un insuccesso elettorale. Contestando la leadership di Fini e l’infondata, come riteniamo di aver provato, vocazione centrista, attualmente teorizzata dal Brain Trust di “Charta Minuta” e del "Secolo d'Italia". Per non parlare di quel che potrebbe accadere in caso di netta sconfitta elettorale. Probabilmente Fini sarebbe costretto a dimettersi subito.
In conclusione, come semplici osservatori, non possiamo non notare che l' uomo autenticamente di destra dovrebbe augurarsi una sonora sconfitta del Partito della Libertà. Perciò, paradossalmente, ogni vero conservatore dovrebbe votare Veltroni.

Carlo Gambescia

sabato 16 febbraio 2008

Il sabato del villaggio (5)


Araldica post-democristiana
La Rosa Bianca di Tabacci. Scudo rifiutato.
L’Udeur di Mastella. Scudo perduto.
L'Udc di Casini. Scudo sprecato.

La Cosa Rossa di Bertinotti
Pace e orticello.

Buddismi pratici
"E’ tornato il "Grande Fratello” in tv!" E chi se ne frega.

Jacques Monod per giornalisti
Il redattore delle pagine culturali: erudito per caso.
L’editorialista politico: realista per necessità.

Corrado Augias
L’antifascismo come bon ton.

Daniela Santanchè
Griffata alla meta.

                                                      Carlo Gambescia

venerdì 15 febbraio 2008

La donna di Napoli sotto inchiesta




Sul caso della donna di Napoli sotto inchiesta si dovrebbe riflettere a lungo e seriamente. E non chiudersi, a destra e sinistra, in atteggiamenti di difesa a oltranza o di infuocata scomunica della legge 194. Ferma restando, ovviamente, la condanna circa il comportamento, a dir poco ruvido, della polizia, stando almeno a quanto riportato dai media.
Sotto l'aspetto personale siamo sempre stati favorevoli alla regolamentazione per legge dell’interruzione di gravidanza. Ma, per contro, non abbiamo mai considerato la 194, una luminosa vittoria del progresso sull'oscurantismo religioso. E viceversa, una sconfitta, eccetera.
Inoltre abbiamo sempre creduto che una decisione di tale importanza (quella di interrompere o meno la gravidanza), dovesse essere demandata, fin dove possibile, a entrambi genitori e non a uno solo. E questo, non come spesso si dice, per un nostro eccesso di “maschilismo”, ma, eventualmente, per eccesso di comunitarismo (nel caso familiare). Infine continuiamo a ritenere che le politiche sociali, come è avvenuto anche Italia, fondate esclusivamente - attenzione: esclusivamente - sui diritti individuali, spesso contrapposti per gruppi (diritti delle donne, degli uomini, eccetera), finiscano per costituire fonte di pericolosi, e tutto sommato inutili, conflitti politici e sociali, capaci però di rendere progressivamente ingovernabili ed egoiste le nostre società.
Nel caso della donna di Napoli, siamo rimasti "sociologicamente" colpiti da una sua dichiarazione a Repubblica (mercoledì 13 febbraio, p. 3):

 “Ho 39 anni e mi era sembrato indispensabile sottopormi all’amniocentesi. L’ho fatto alla sedicesima settimana nell’ospedale di Frattamaggiore, non lontano da dove abito. Era il 18 gennaio e il referto con la diagnosi me l’hanno consegnato il 31. Sul foglio c’era scritto “Sindrome di Klinefelter”. Poi mi hanno tradotto il significato, una cosa terribile […] , un difetto dei cromosomi che poteva comportare ritardo mentale, problemi di cuore, diabete e l’assenza di alcuni ormoni […]. Non c’era altra scelta. Appena mi hanno comunicato che mio figlio sarebbe stato un malato per tutta la sua vita, non ho avuto dubbi. Ho deciso al momento d’istinto: abortisco. Anche se sapevo che per me rappresentava una scelta particolarmente dolorosa. Mai avrei messo al mondo, da sola visto che non sono sposata, un bimbo in condizioni così gravi per il resto dei suoi giorni. E per favore che nessuno si permetta di parlarmi di egoismo, la mia è stata una scelta che va nella direzione opposta”.

Non ci piacciono le campagne, probabilmente strumentali, di Giuliano Ferrara. E neppure certo "attivismo" clericale. Ma non possiamo non chiederci, amaramente, andando oltre la stessa questione della legge 194, anche perché, da sociologi, riteniamo che le leggi riflettano la società e non il contrario, che razza di società sia questa... Dove una donna, certo in difficoltà, ma che probabilmente riflette una diffusa condizione sociale di incertezza economica e culturale, considera una scelta altruistica, ciò che in precedenza definisce “una scelta particolarmente dolorosa”. Ammettendo così implicitamente che nel suo "utero" , prima dell'interruzione di gravidanza, non viveva un puro e semplice “feto”. Per cui non può non sorgere spontanea un'altra e terribile domanda : altruistica, ma per chi?

Carlo Gambescia

giovedì 14 febbraio 2008

Il libro della settimana: Valter Binaghi, I tre  giorni all'inferno di Enrico Bonetti cronista padano, Sironi Editore, Milano 2007, pp. 416, euro 17,00.




Vi è mai accaduto di chiudere un libro, dopo averlo letto tutto, e dispiacersi che sia finito? A me ormai succede di rado… Come ho scritto in altre occasioni, leggo principalmente opere di saggistica, spesso mediocri e per dovere, e dunque di solito provo la sensazione contraria: meno male, anche questo è andato… Quanto ai romanzi, devo dire che appartengono alla mia giovinezza, e spesso si tratta di pure e semplici riletture, qui e là, di opere classiche, nei rari momenti di tempo libero…
Ed è quel che ho provato di nuovo, dopo aver finito il libro di Valter Binaghi I tre giorni all’inferno di Enrico Bonetti cronista padano (Sironi Editore ). Un bellissimo romanzo, che oltre a trascinarmi idealmente agli anni in cui leggevo prevalentemente romanzi, mi ha fatto esclamare, dopo l’ultima pagina, quel “Peccato che sia finito!” di cui avevo quasi perso memoria. Ora però devo spiegare anche perché.
A prima vista, per il lettore mordi e fuggi, il libro di Binaghi, scrittore, insegnante e musicista, può essere scambiato (e gustato) per un trilling di valore. Le vicende di Enrico Bonetti, sveglio giornalista di provincia, immerso fino al collo in una pericolosa storia con location alto-lombarda, avvincono e convincono, per usare il linguaggio delle pagine sportive. E questo grazie a un virtuoso tour de force narrativo che riesce a mettere insieme, in un perfetto gioco di incastri, sette sataniche, esorcisti pratici di web, filosofi on the road, prostitute e macrò slavi, suore cuoche che parlano il dialetto di Bossi, idraulici comunisti pre-Bolognina, orfani post-moderni, mefistofelici trafficanti internazionali di organi.
L’intreccio, insomma, regge fino all’ultima pagina. L 'unica (scherzosa) controindicazione riguarda le relazioni familiari del lettore. Che potrebbero essere messe a dura a prova da un lettore, che in preda a un' ipnotica apnea mentale da “come andrà a finire?”, rischia di tagliare ogni rapporto con il mondo esterno, per divorare il libro nel minore tempo possibile. Come è accaduto a chi scrive. Pertanto non entrerò nei dettagli della trama. Non mi piace rovinare la festa a nessuno…
Ma c’è un altro piano di lettura, che non può sfuggire al lettore più agguerrito filosoficamente (e teologicamente). Quello innervato da una sottile teodicea cristiana, volta a battagliare con il male nel mondo. Come scrive Tullio Avoledo nel primo risvolto di copertina, presentando il libro, Binaghi è un "rabdomante del male". Ma aggiungerei: in senso alto, metafisico. Certo, la parola teodicea è complicata e spaventa, soprattutto i laici a tutto tondo. Ma possiamo assicurare i lettori, che i due piani (quello narrativo e quello meta-narrativo) si fondono bene, senza disturbare troppo il lettore che non sia della “parrocchia”. I personaggi hanno una loro consistenza molto umana, direi molto terrena e plasticamente realistica. E del resto il cattolicesimo di Binaghi, pur essendo forte nei giudizi, si risolve in quel buon senso, molto padano (non leghista, anzi…), che lo spinge a confidare, malgrado i rovelli, nella mano misericordiosa del bene divino. Che nel romanzo, una volta almeno, sfiora quella di tutti i personaggi, anche i più biechi. C’è in Binaghi una pietas di fondo, come devozione all'uomo, anche quando cade in errore, che vivifica esseri umani, animali e addiritura cose. E che ben si fonde con una narrazione, stilisticamente fervida, nervosa, spesso perfino pulp nel suo vigoroso realismo figurativo, e dunque aperta, senza indulgere troppo, anche al grottesco, ma senza la mano brusca di un Benni. In Binaghi, per farla breve, convergono e convivono il Diavolo e l’Acquasanta: Manzoni, Chesterton e Tarantino, per fare tre nomi criticamente significativi.
Lo scrittore riveste di modernità dolorosa e sanguigna, senza per questo scivolare nel cinico minimalismo del regista pulp americano, quei temi eterni che ritroviamo in certi dialoghi dei Promessi sposi. Ma anche nel padre Brown, uscito dalla vigorosa penna di Chesterton. Con una differenza: che il protagonista del libro, Enrico Bonetti, non è un pio prete-investigatore, ma un piccolo giornalista, disincantato quel che basta, lasciato dalla moglie e sempre nei guai con le donne, alle quali non sempre riesce a dire di no. Ma non per ragioni puramente carnali. Bensì, come dire, per ragioni di anima: Bonetti è capace di capire e amare il suo prossimo, anche facendo forza su se stesso. E' un uomo, comunque in ascolto: degli altri, di Dio e perfino dei nemici. Non è un cattolico con la spada né un post-comunistello da sacrestia.
Ecco, dicevo, della teodicea come chiave filosofico-teologica del libro. Che cosa fare di un mondo dove la vittoria pare arridere ai cattivi? Uomini mossi dal profitto, che confidano solo in un mercato privo di frontiere capace di comprare tutto, corpi e anime. Basta avere i denari necessari… Sembra che Dio si sia ritirato. E che abbia sdegnosamente abbandonato il mondo alle sue ingiustizie. Per molti oggi prive di senso, e perciò viste come frutto di un meccanico gioco di maligne casualità. Magari da sfruttare a proprio vantaggio.
Il segreto è che si deve seguire la lezione di Bonetti; ecco la teodicea profonda del libro, antica quando il mondo cristiano, e in fondo disarmante, se non addirittura banale: “Aiutati che Dio ti aiuta”. In che modo? “Spronandosi all’ottimismo come un mulo in salita”. E così venire a capo, per quel tanto che ci è concesso, del nostro piccolo e quotidiano male di vivere, perché Dio c’è. E ci tende la mano, come fa con i personaggi del romanzo di Binaghi… E sta a ciascuno di noi afferrarla e stringerla forte. Ma liberamente. Il Male, quello con l'iniziale maiuscola, è sempre una scelta volontaria, come quando si maledice qualcuno, a freddo e senza ragione apparente. Di qui però, per chi senta dentro di sé la chiamata, quella necessità di ricominciare, ogni santo giorno, la buona battaglia con se stessi, ma esercitando la sacra virtù della pazienza con gli altri… La fede, quella che salva, poi verrà piano piano. Ma prima di tutto occorre un'anima grande, proprio come quella di Enrico Bonetti, il nostro cronista padano. Sul quale, spero, Binaghi ritorni con altre storie. Perché un personaggio così lascia il segno. Nella mente e nel cuore dei lettori. E anche dei recensori…

Carlo Gambescia

mercoledì 13 febbraio 2008

Perché Adriano Sofri detesta i blogger?




Ieri Repubblica ha dedicato il “Diario” (tre pagine) alla sciagurata questione della “blacklist” con i nomi e cognomi dei professori israeliti.
Primo punto fermo: le “liste di proscrizione”, vere o fasulle, vanno sempre tassativamente condannate. E soprattutto quando riguardano una comunità come quella israelitica,  capro espiatorio del più bieco razzismo novecentesco. Pertanto, secondo punto fermo, ha fatto bene Repubblica ad approfondire l’argomento attraverso le penne di Adriano Prosperi, Vittorio Zucconi e Adriano Sofri.
Ci dispiace però che quest’ultimo abbia colto l'occasione per criticare tutta la blogosfera come ideale terreno di crescita dell'antisemistismo. Certo in maniera indiretta, riportando, e dunque sottoscrivendo, le dichiarazioni a caldo e perciò comprensibili alla luce della scoperta della ripugnante blacklist, di un importante membro della comunità romana. Comunità, come quella italiana tutta, alla quale va la nostra solidarietà.
In realtà, a Sofri, che di tempo dovrebbe averne avuto, sarebbe bastata una veloce, come dire, web-ricognizione per scoprire che la blogosfera rispecchia tutte le posizioni politiche: dai fondamentalisti religiosi di ogni confessione ai comunisti delle più varie osservanze, passando per i liberali, i radicali e i socialisti democratici o meno. E invece è caduto nella classica fallacia informale dell’ “accidente converso”. O per dirla terra terra: della generalizzazione affrettata. Nel senso che ha esteso alcuni casi eccezionali, seppure gravi, di web-antisemitismo, ecco l’errore argomentativo, a tutto il mondo blogger. Di qui il rischio di squalificare politicamente, come antisemita (un’accusa che oggi uccide civilmente chiunque vi incorra ) la blogosfera nella sua totalità.
E magari, visto che queste cose Sofri le ha enfatizzate, e non a caldo, su Repubblica e non su un giornaletto qualsiasi, va messo anche in conto il rischio di favorire, certo indirettamente, un qualche progetto legislativo capace di chiudere per sempre la bocca a "tutti" i blogger e non solo a quelli antisemiti o razzisti. Ma questo, lo ammettiamo, è un nostro (cattivo) retropensiero…
Per quale ragione Sofri si è comportato così? Probabilmente perché, di regola, viene trattato piuttosto male dai blogger. E qui è inutile entrare nel merito delle web-critiche... Chi vuole approfondire, può fare direttamente una web-ricognizione. E così scoprire che il suo atteggiamento a dir poco supponente verso la blogosfera, probabilmente nasce dalle critiche di blogger, forse troppo ruspanti, a quell' amore esagerato che Sofri ha sempre mostrato di avere per se stesso. Niente di grave: roba da psicanalisti… Gli stessi blogger da lui così detestati, ne siamo sicuri, sarebbero disposti anche ad autotassarsi, pur di vederlo psicologicamente guarito, grazie alla cure di qualche professorone lacaniano... L'uomo è intelligente e merita migliore fortuna.
Se non che Sofri - ecco il punto - ha dato sfogo, e a mente fredda, al narcisismo ferito, se ci si passa l'epressione, "blacklistando" l'intero mondo blogger sulle pagine del più diffuso quotidiano italiano.

Il che sicuramente non è cosa buona né giusta.

Carlo Gambescia 

martedì 12 febbraio 2008

Gruppi di pressione e "democrazia degli interessi"




Preferiamo trattare il problema dei rapporti tra confessioni religiose, società civile e potere politico in termini generali, senza entrare nel merito delle polemiche di questi giorni sugli interventi del Papa. O su altri gruppi religiosi che lamentano il pericolo di una ricorrente e crescente ostilità sociale verso le proprie credenze. Lasciamo perciò che siano i lettori a tirare le somme "politiche"di queste nostre riflessioni teoriche. O come ci piace ritenere "metapolitiche".
Le democrazie contemporanee, istituzionalmente, si reggono sulla dialettica degli interessi. Può piacere o meno ma è così. Semplificando: gli interessi hanno sostituito le passioni. Magari non ancora del tutto, ma comunque in larga parte. Potremmo perciò definire formalmente la democrazia attuale (quella dell’Occidente in particolare) come “democrazia degli interessi”.
Infatti la “regola degli interessi” verte su una (apparentemente) semplice proposizione politica: quanto maggiore è la dialettica tra i gruppi di pressione tanto maggiore è la democrazia. Ovviamente la dialettica implica la trasformazione preventiva, ma in chiave di crescente pluralismo sociale, dei differenti attori sociali in gruppi di pressione economica, sociale e culturale, eccetera. E dunque non di tipo militare.
Si sostiene infatti, ormai anche a livello assiomatico-mediatico, che quanto più una società risulta capace di “contrattare”pacificamente al suo interno i diversi interessi, tanto più riesce a ridurre il rischio del conflitto sociale e politico violento. Di qui però la necessità di fissare preventivamente regole “procedurali” affinché i “contratti” tra i diversi gruppi e le decisioni del potere politico possano avvenire, come si usa dire oggi, in modo "trasparente".
Denunciare un gruppo sociale, religioso, culturale, eccetera, perché si comporta come un gruppo di pressione è perciò in contrasto con qualsiasi democrazia che si regga sulla dialettica dei gruppi di pressione, fondata appunto sul conflitto regolato degli interessi. Dal momento che viene ritenuto normale che i vari gruppi sociali cerchino di influire lecitamente sulla decisione politica, come consentito dalle regole della “democrazia degli interessi”.
La situazione però si complica, quando un gruppo sociale, economico e culturale, vuole partecipare alla dialettica degli interessi, pretendendo però al tempo stesso che gli sia riconosciuto uno statuto giuridicamente superiore rispetto a quello degli altri gruppi di pressione, per ragioni storiche e morali; per farla breve valoriali. E perciò estranee in linea di principio - piaccia o meno - alla democrazia degli interessi.
Tuttavia appena lo statuto di superiorità viene concesso al gruppo in questione, gli altri gruppi sociali, economici e culturali discriminati, passano all’offensiva, invocando, per altrettanti ragioni di tipo storico e morale, l’estensione del riconoscimento e il riequilibrio degli interessi.
La democrazia degli interessi, al contrario di quel che comunemente si ritiene, implica perciò un forte potere politico, capace di imporre e far rispettare “regole” uguali per tutti, senza però limitare la libertà dei singoli cittadini e dei vari gruppi sociali. Il che nella realtà sociale, come è sotto gli occhi di tutti, non sempre è possibile per ragioni legate al carente spirito di autodisciplina dell’uomo, alla disuguaglianza nella distribuzione delle ricchezze, alla diversità culturale delle tradizioni storiche, alla qualità delle élite al potere, eccetera. Di qui il continuo conflitto, non sempre classificabile e "addomesticabile", tra i gruppi sociali e in particolare tra quei gruppi che si muovono sul confine tra gli interessi e i valori. Ma anche le grandi difficoltà di “regolazione”, da parte di un potere politico, che non può essere neutrale, dal momento che, di regola, nelle sue élite, a prescindere dalla qualità delle medesime, rispecchia, gli interessi ma anche i valori storicamente prevalenti, se non proprio dominanti.
Ecco allora che spesso le questioni di interesse, soprattutto dove un gruppo sociale, ad esempio religioso, si qualifica come principale “veicolo" di valori, si trasformano in conflitti, difficilmente “addomesticabili” attraverso il semplice contratto.
Quale soluzione?
Difficile dire. Il ritorno a una democrazia dei valori implica la preventiva comunione pubblica dei valori, non sempre conseguibile, dove sussistono molteplici tradizioni storiche, spesso fortemente conflittuali. Mentre procedere ulteriormente sulla via della democrazia degli interessi comporta il definitivo, e probabilmente coattivo, “raffreddamento” delle ultime isole di “passione” sociale. Il che, considerando che l’uomo non vive di solo di pane, ci sembra difficilmente attuabile, se non a caro prezzo per la libertà di tutti.
Ovviamente, e concludiamo, un potere incerto e sempre in bilico, tra le due forme di democrazia - e qui si pensi alla situazione italiana - perché aspira soprattutto a durare nel tempo, e a qualsiasi costo, contribuisce a rendere la dialettica, più generale, tra interessi e passioni, confusa e soprattutto sempre a rischio di degenerare in una guerra civile senza vincitori né vinti.


Carlo Gambescia