sabato 30 giugno 2018

Fasti e nefasti della destra post-fascista
No,  ora ci si mette pure Luigi Iannone…




Stimo  Luigi Iannone al punto di citarlo in un mio volume (1) come esempio di intellettuale di destra, capace di riflessione, studio,  e soprattutto in grado  di evitare quei luoghi comuni della destra postfascista , che,  in realtà, tanto postfascista non sembra essere…   
Però, però però… In un  pezzo apparso sui  blog del “Giornale”,  Iannone,  riprende un'idea  di Vittorio Sgarbi, un tempo  erotomane,  qualunquista rapsodico, storico dell'arte d’ingegno.  A quale "pensata" Iannone si riallaccia?  Diciamo a  qualcosa di non proprio originale:   far ospitare i Rom a casa (o nei pressi)  dei ricchi e famosi.  Gli stessi personaggi,  insomma, che  tuonano, un giorno sì l’altro pure, contro Salvini, contro i razzisti, eccetera, eccetera. Il tono dell’articolo però è sarcastico, schernisce e umilia. Non solo la cosiddetta sinistra al caviale (2).  
Certo, so benissimo, scrivevo corsivi  sulla prima  del "Secolo d'Italia", che  i giornalisti  tendono sempre ad attagliare la penna al contesto  (e sede) di pubblicazione,  per ragioni di cortesia, convenienza, eccetera. Chiamala se vuoi, autocensura.  Non faccio la morale a nessuno. C'è però un limite a tutto.  Io non gradivo suonare il piffero per Gianfranco Fini, così me ne andai (3).  
Ora, si possono scrivere libri, non sempre condivisibili, ma comunque densi (dietro i quali ci sono molti altri libri letti e studiati)   come per l’appunto  fa Iannone,  e poi  uscirsene con tirate del genere? Per me è un mistero. Qualcosa però che mi addolora, sconcerta, inquieta.  
Perché -  penso -  se uno come  Iannone,  che studia, se ne esce con pericolose  scempiaggini di tal fatta, gli altri intellettuali postfascisti (per così dire), che non sono degni  neppure di attraversargli la strada,   non potranno  non andare a ruota libera.  E in  effetti,  basta farsi un giro  tra i Social,  per mettersi le mani nei capelli: sono "ricicciati" (pardon)  tutti, ma proprio tutti,  al canto delle sirene salvinian-stellate. E quel che infastidisce è l'aggressività, per ora verbale,  e il tono saccente di quelli che rivendicano il copyright, anche apertamente,  della "tentazione fascista".      
Iannone ha in uscita un volume, da lui curato, su Nolte (Solfanelli). In passato addirittura, egli intervistò - mostrando grande cultura, quindi non sfigurando, anzi… -  il grande storico tedesco. Perciò,  si tratta  sicuramente  di lavoro pregevole.  Lo dico, di stima: leggetelo.
Però mi chiedo,  e chiedo a Iannone:  Nolte,  in  quello che resta il suo capolavoro,  non  mette in guardia dall’usare -   siamo negli anni che precedono l’avvento di Hitler -  il crudo linguaggio da “guerra civile”?  
Ma lasciamo la parola  a Nolte.

“ La guerra civile, per quanto limitata, non si svolgeva solo negli scontri sulle strade, ma si esprimeva anche e specialmente in saggi teorici, in opuscoli polemici e in bellicosi articoli di giornale. Come guerra civile intellettuale essa non cominciò con il governo Brüning, ma si accese piuttosto fin dagli inizi della repubblica, lontano dai normali contrasti fra i  partito che reggevano lo stato, come reciproca negazione del diritto all’esistenza fra comunisti e anticomunisti militanti” (4).  

E di esempi,  di un   linguaggio, da  “guerra civile” virtuale,  sarcastico,  crudo, che rischia di spalancare le porte alla violenza vera,  fisica,   Nolte  ne offre in abbondanza.  E proprio nei termini di una escalation, per così dire, dalle parole ai fatti,   processo che, ovviamente, riguardava, con pari responsabilità, i comunisti e gli anticomunisti. I due estremi, nemici dell'ordine liberale weimariano.
Ora, ripeto,  come  è possibile, che un intellettuale, colto e civile,  come Iannone, che, tra l’altro, dovrebbe conoscere il libro di Nolte a memoria, sposi una causa del genere?      

Carlo Gambescia  

(1) Carlo Gambescia, Passeggiata tra le rovine. Sociologia della decadenza, Edizioni Il Foglio, Piombino (LI) 2016, p. 151.
(3)Carlo Gambescia (con Nicola Vacca) , A destra per caso. Conversazioni su un viaggio, Ediziono Il Foglio, Piombino (LI) 2010 .
(4) Ernst  Nolte, Nazionalsocialismo e bolscevismo. La Guerra civile europea 1917-1945, Bur, Milano 1996, p. 143.

    

venerdì 29 giugno 2018

         Le ragioni della nostra opposizione al governo giallo-verde
I parenti  li sceglie Dio, gli amici pure…



Per quanto riguarda  i mass media, in particolare i giornali, si sono schierati apertamente  contro il governo Salvini-Di Maio, in ordine di tiratura,  diciamo, “La Repubblica”, “Il Manifesto”, “Il Foglio”. Nei Social, dove prevale  il discorso populista, se non dichiaratamente fascista,  gli oppositori ai giallo-verdi hanno scarsa risonanza.  Se si facesse un censimento politico ne uscirebbero sconfitti.
Nel quadro delle opposizioni, tra le quali includiamo, immodestamente, anche il nostro  blog, sembrano prevalere, grosso modo,  due approcci:  quello del sono fascisti  tout court e quello del lo sono, ma solo tendenzialmente.  
Diciamo che la prima posizione rinvia a “Repubblica” e “Manifesto”, la seconda  al “Foglio”. Invece,  sul piano delle soluzioni,  tutti e tre i quotidiani  appaiono ancorati  alla logica dell’appello antifascista, o comunque dell'appello contro il partito dell'incultura.  In sintesi, dei barbari alla porte.  Più divergente,  il contrasto sugli immigrati: “Repubblica” e “Manifesto”, sono per l’accoglienza, senza eccezioni,  “Il Foglio”, invece,  per un realistico controllo dei  flussi, senza  eccessi  razzisti. 
Come si può capire, piaccia o meno, sono posizioni, a prescindere dalla loro fondatezza o meno,  politicamente piuttosto deboli.  Infatti,  stando ai sondaggi, il tema dell’antifascismo  ormai  è di scarso richiamo politico,  quanto all’accoglienza e alla regolazione dei  flussi, gli italiani sembrano preferire  il cartellino rosso; chiudersi in casa e buttare la chiave.  Quanto all’Europa, “Il Foglio” la difende a spada tratta,  “Repubblica” e “Manifesto” meno  (senza però mai  ricadere nell’euroscetticismo delle destre).  Anche su questo punto, come provano i sondaggi,   gli italiani si sono espressi in termini molto critici, sia sull'euro, sia sulla permanenza.    
Diciamo che al momento, la sinistra, nelle sue varie sfumature,  riformiste e radicali,   e  certa  destra liberale,  forbita, ragionatrice, eccetera, non sono  in sintonia con il resto del  Paese.  Come non lo è quello zoccolo duro di tecnici eurocrati, definiamoli così,  che vede nell’Europa, dispiace dirlo, una specie di riduttiva società di revisione dei bilanci.  Il che non significa,  che l' Italia  vada nella giusta direzione. Però, per ora è così. Torneremo sul punto più avanti.
“Repubblica”, che accoglie nelle sue file, riformisti, radicali ed eurocrati, sembra  non aver assolutamente capito  dove porti, al momento, la pancia degli italiani.   È di questi  giorni, un appello intellettuale, promosso da una sconosciuta studentessa bolognese di lettere classiche, Margherita Ciancio ( nella foto), subito raccolto da “Repubblica” che,  pur  di provare, che  non  tutti i  giovani sono dalla parte di Salvini e Di Maio,  ha  finito però  per dare  risalto - almeno secondo la  sintesi che abbiamo letto (*) -   a uno schema  politico-mentale anni  Sessanta-Settanta,  di grande   arretratezza culturale,  che non può portare da nessuna parte, se non quella di rendere ancora più ridicola una sinistra che, non sapendo che pesci pigliare, si affida a ciò che crede essere  -  sbagliando -  un evergreen ideologico,   che appaga la sua  autostima,  ne corona il finalismo da  "progressive sorti",   ma  che difficilmente riuscirà a muovere un voto. Almeno nell’immediato.
Un amico liberale, Corrado Ocone, ci ha rimproverato di scrivere più o meno le stesse cose di “Repubblica” e  del “Foglio”.  In effetti, anche noi scorgiamo  pericolose  potenzialità fasciste, se si preferisce fascistoidi,  nella cultura (chiamiamola così) del governo giallo-verde, però - ecco la differenza -   ci guardiamo bene  dall’indicare nell’antifascismo un collante politico, spendibile, to cash.  La nostra  critica al fascismo, e di tipo epistemologico,   rinvia alla critica cognitiva, ad esempio di Hayek, a ogni forma di costruttivismo sociale. Il che non ci rende ideologicamente simpatici - ovviamente, quando riescono a capire dove andiamo a parare -   a leghisti  e pentastellati, ma neppure agli occhi dei fascisti duri e puri, nonché  di una  sinistra che, nelle sue varie sfumature, non ha mai cessato di adorare lo stato, attribuendogli compiti etici e correttivi in tutti i campi. Insomma, il vecchio schema azionista: il fascismo degli antifascisti. Quello della democrazia  a calci in culo (pardon). O meglio di ciò che un gruppo di illuminati, politici e intellettuali, ritiene sia meritevole perseguire anche a pedate. Per la serie "Noi sappiamo cosa è bene per te".  Forma mentis pericolosa,  perché anche Hitler, riteneva di sapere, cosa fosse bene per i tedeschi.  Tradotto: il fascismo dei fascisti.
Diciamo però  che anche la nostra posizione, appena si scelga di volare più basso,  rivela alcune contraddizioni. Ad esempio,  come diminuire il ruolo dello stato e al tempo stesso  controllare i flussi migratori? Come conciliare  libertà di movimento e lavoro con  barriere all’ingresso di potenziali lavoratori stranieri?  Come conciliare un’ Unione Europea più snella con la necessità di favorire un unione politica più stretta e dunque, almeno in parte,  più centralizzata?
Insomma,  un minimo di costruttivismo risulta necessario.  Senza però impregnarlo dell' etica statolatrica, tipica di quell'intellettuale illuminato (un tempo si diceva "laico, democratico e antifascista") che vuole fare dello stato una specie di "serbatoio" dell'umanità - stato proprio nel senso di articolazioni amministrative  -  così come l'intellettuale  nazista  voleva trasformare lo stato  in "serbatoio" della razza. Nei  due casi, a coloro che restavano e restano fuori, era ed è comunque negata, in quanto nemici di entità astratte (umanità e razza) qualsiasi  attributo di umanità reale. Anche qui, riemerge l'illuminismo applicato del vecchio schema azionista: il fascismo degli antifascisti,  "Noi sappiamo cosa è bene per te".   L'altra faccia del medaglia del fascismo dei fascisti.   
Parlavamo, però,  di  un minimo di costruttivismo: è  questa la direzione (ripetiamo, minimale) verso cui si muove il sovranismo populista?  No.   Di qui, la nostra necessità di restare all’opposizione. Un’opposizione, che per ora,  non trova riscontri, sul piano politico,  in un Pd, sempre più su posizioni costruttiviste, né in un fronte liberale unito, che in pratica non  esiste. E che non può essere al momento rappresentato da Forza Italia (per non parlare di Fratelli d’Italia…).  Infatti,  che senso può avere, come lo stesso Ocone consiglia, cercare di capire,  di  comprendere?  Oppure come asseriscono altri,   "di aspettare e vedere"?   Magari puntualizzando ogni volta sui singoli provvedimenti, usando la penna rossa o blu? Quando, come nel caso di Lega e Cinque Stelle,  le basi cognitive  non ci sono?  E comunque sia, sono costruttivisti, quindi  di liberale non c'è nulla?  E neppure si  interrogano sui limiti del costruttivismo. Come  noi, invece, ci interroghiamo, su quelli del liberalismo.  Insomma, che c'è da comprendere?  E poi in che senso capire e  comprendere? Quello di perdonare coloro che sbagliano? Anche in politica, dove gli errori costano cari? Collettivamente cari? 
Certo,  la politica non è un'accademia. Forse voliamo  alto. Troppo.  Resta anche  il fatto, che nel nostro ruolo di oppositori, non siamo in  buona compagnia.  Ma così stanno le cose.  C’è un proverbio che dice:  “I parenti li sceglie  Dio, gli amici li scelgo io”.  Qui,  purtroppo, sebbene  di parenti sia difficile se non impossibile parlare, anche  gli amici, gli alleati insomma,  li seleziona Dio…  

Carlo Gambescia




                                                              

giovedì 28 giugno 2018

La dublinite impazza
Dal "buongiorno dotto' " alle "tempeste d’acciaio"



“Buongiorno dotto’, ha visto Salvini che culo je sta’a fa’ ”. La dublinite impazza.  Pure i portinai hanno in bocca il  Regolamento di Dublino (anche quelli "bangra", romanizzati, di seconda generazione:  "bonciorno dottole, ha fisto Salvine che culo je staafà").   E ne parlano, tutti insieme  guardando di traverso,  il negretto (pardon), reinventatosi netturbino, che buono buono, per pochi centesimi, spazza la strada -  lavoro che invece dovrebbe fare lui, il portinaio bilingue -  davanti al portone del condominio. A dire il vero, le strade di Roma   dovrebbe spazzarle l’Ama, ma da quando Cinque Stelle - il partito dei liberatori incorruttibili  -   ha conquistato il Municipio,   le cose vanno  sempre peggio, con i sindacati che fanno il bello e il cattivo tempo.  Ma questa è un’ altra storia.
Si è riusciti a far passare l’idea,  grazie agli stessi mass media che secondo i complottisti di estrema destra  dovrebbero essere  al soldo di Soros,  che  la colpa sia degli altri paesi europei: i cattivoni, che non vogliono  occuparsi dell’identificazione e dello smistamento dei  disperati che provano ad approdare  in Italia  via Mediterraneo. Ultimamente -  ma non si dice  -  quattro gatti.
Si amplifica un fenomeno, quello dell’immigrazione clandestina,  per giocare sulla paura e conservare un  potere, di fresco acquisito, addossando le  nostre deficienze burocratiche  a Francia e Spagna, che già ne hanno, di immigrati, clandestini e non,  molti più di noi.  E poi che ci vuole?  Perché dobbiamo soccorrerli noi?  A Lampedusa si gira a sinistra, stretto di Gibilterra, si prende  la direzione per il Golfo di Biscaglia,  e via verso   il Mare del Nord. Una  bella passeggiata di salute. Che fa bene a gestanti e neonati. Quando si dice il  genio italico...    
Battute a parte (forse fuori luogo…),  il vero punto è questo:   se le identificazioni, procedono, se ci  si passa l’espressione  “ai due all' ora”,  la colpa non è della Francia,  ma di chi pretende, l’Italia,  che gente senza documenti e priva di  status preciso  tenti  di entrare “ a gratis”  nell’Esagono. 
Siamo assolutamente sicuri -   ammesso e non concesso che si riesca a “ redistribuire” queste benedette  quote -    che anche con un numero inferiore di immigrati da “testare”,  quindi pari quasi a zero, la tempistica italiana a passo di lumaca  delle identificazione e attribuzioni di status  non  muterebbe velocità. “ Buongiorno, il Bar?  Due caffè, due cappuccini, una ciambella, una pure per il negretto, sopra da noi,  all’Ufficio Identificazioni. Grazie”…
Però,  volete mettere, come esempio di sovranismo (oggi il fascismo si chiama così),  rispetto a un Gentiloni qualunque,   il  gonfiare il petto, di Conte, Salvini e Di Maio? Volete mettere  l’estetica jüngeriana  -  questa è per la Meloni,  alla quale però andrà spiegata  -   racchiusa  nel   mobilitare i portinai d’Italia contro Dublino?   Senza dimenticare, come oggi  spiattella  un Censis populisticamente addomesticato,   che i portinai  dopo una certa età, vorrebbero pure la pistola per difendersi…  Chi l’avrebbe mai pensato? Dal  “Buongiorno dotto’ ”  alle    “tempeste d’acciaio”.
Purtroppo,  viene da lontano  il vizietto di nascondere sotto il tappetino della retorica nazionalista la polvere di certa inettitudine italiana.   
Il Duce voleva la pace.  Furono  britannici e  francesi a tradirlo rifiutandogli l’Acqua di Colonia.  Il Duce  entrò in guerra?  Sì,  ma auspicava un mini-conflitto. Indolore. Fu Hitler, quel bad guy, afflitto da mania di grandezza,  a tradirlo. E così via.
I nazionalismi, pardon i sovranismi, specie se fascisti, sono abilissimi nel mobilitare i portinai. Ciò che  gli "anti-italiani" - ovviamente... -   chiamano pancia del paese.  La si evoca  sempre contro qualcuno:  il classico  capro espiatorio. Oggi tocca all’Unione Europea.  Del resto,  Conte, Salvini e Di Maio  sono per la giustizia. E per la patria. Ci mancherebbe altro...  

Carlo Gambescia

                 

mercoledì 27 giugno 2018

Scuola, eliminata la chiamata diretta, firma Miur-sindacati

“Quel cavalier che del colpo, non  accorto, andava pugnando ed era morto”  

  


Pur  di andare contro non tanto ( o non solo)   Renzi e la “Buona Scuola”,  ma contro qualsiasi principio meritocratico, dunque liberale, perché fondato sulla preparazione e sulla responsabilità individuale,  si è abolita,  tra squilli di  tromba e tamburi rullanti, la chiamata diretta degli insegnanti nelle scuole. 
Sapete, cari lettori, che cosa  continuerà  a regolare,   in ultima istanza,  nelle graduatorie di istituto, a parità di punteggio, le precedenze?  L’anzianità anagrafica. 
E sapete perché, cari amici,  nonostante, le centomila  assunzioni (quello che fu il lato assistenzialistico della “Buona Scuola”), quasi nessun  preside si avvalse  del sistema a chiamata diretta?  Perché era previsto che l’operazione dovesse avvenire in piena estate,  non  rispettando  il sacrosanto  “diritto alle ferie”…
Pertanto, si abolisce, in nome di avvilenti  pregiudizi burocratici,  ovviamente difesi dal sindacato, padre e  madre di tutti i corporativismi italiani,  un’isola -  quella della chiamata diretta -  che  non c’era…
Diciamo però  che  come  tutte le "controrivoluzioni" italiane,  e  ora tocca a quella populista,  ci si batte contro un nemico che non esiste.  Si rivendicano  fantomatici  diritti sociali   che in realtà  nessuno ha mai messo  in discussione,  a cominciare da presidi, le cui nomine sono frutto di processi altrettanto antimeritocratici.  E che quindi, difficilmente, possono andare  contro le stesse regole che li privilegiano.
Ora qualche osservazione generale. 
I report sociologi indicano che la scuola pubblica nel Dopoguerra, in particolare dopo il Sessantotto, ha promosso al suo interno  una considerevole mobilità sociale immettendo nei ruoli  docenti di estrazione sociale modesta. Il che avrebbe dovuto portare, sangue fresco, volontà di riscatto, dedizione a un lavoro considerato gratificante, anche  perché veicolo di promozione sociale.  A differenza, per esempio,  dei professori universitari in cui il censo sociale (di provenienza), pur con qualche eccezione,  è rimasto elevato   
Niente di tutto questo. Sia dove  si è imposta  la mobilità sociale dei docenti (scuola di primo e secondo grado), sia dove ha dominato  la tradizionale cooptazione (università),  la qualità di docenti, professori  e  dell’insegnamento è  addirittura peggiorata rispetto all’Anteguerra.
Ad esempio,  nella prima metà del Novecento -  quanto stiamo per riferire, tra gli addetti ai lavori, sfiora il  luogo comune  - quasi tutti i professori  universitari  provenivano da un  non breve periodo di  insegnamento nelle scuole superiori.  Il che prova l’alto livello di preparazione, ad esempio di un docente liceale di allora,  nonché il bagaglio esperienziale, di un professore universitario  degli anni Cinquanta.       
Che cosa non ha  funzionato?  Difficile dire. Probabilmente,  si tratta di questione strutturale. La macchina dell'istruzione pubblica, tuttora predominante,  non ha  retto  alle gigantesche e arrembanti ondate delle generazioni del baby boom.  Si è passati così   da una scuola ( e università)  d'élite ( o quasi) a una scuola (e università) di massa,  senza introdurre alcun filtro meritocratico. In pratica, si sono consegnate scuola e università, anche sull’onda della contestazione sessantottina, al sindacato e ai docenti e professori sindacalizzati.  In fondo, si è scelta la via più semplice: quella del consenso sociale, non negando una cattedra, e se necessario, una laurea e  un diploma. Quindi anche la politica ha le sue pesanti responsabilità  nel  promuovere socialmente con una mano, regalando titoli di studio, e nel bocciare, sempre socialmente, con l'altra, distruggendo la (futura)  reputazione professionale di studenti impreparati, e la (presente) deferenza sociale verso professori,  poco qualificati e demoralizzati.
Si dirà: però il numero dei laureati italiani e dei diplomati, tutto sommato, rispetto ad altri paesi europei, è rimasto basso.  Certo. Si è trattato però di  un vero  un colpo di fortuna. Altrimenti, il sistema sarebbe del tutto crollato sotto i colpi di un’ignoranza galoppante e globale (docenti e studenti): un'invasione di barbari  alla quale la burocrazia avrebbe potuto porre rimedio, sempre per ragioni di consenso, estendendo ulteriormente il criterio antimeritocratico, ossia  promuovendo tutti, professori e studenti. Una specie di grado 0 oppure +  1.   E, se ci si passa la battuta, "two  is megli che uan...". 
Si dirà: però, in fondo,  si è speso poco per la scuola e per l’università pubbliche.   Non è forse vero, che siamo gli ultimi da sempre in Europa?  Probabilmente per la spesa in conto capitale. Non per quella in stipendi (il 90 per cento del totale).  Insomma,  sono cose che accadono quando  non c’è filtro meritocratico, e tutto viene lasciato nelle mani di burocrazie sindacalizzate, prontissime a dividersi bottino dei finanziamenti.  Invece, per dirla brutalmente,  meno soldi pubblici girano, più si riducono le famigerate  tentazioni che  fanno  l'uomo ladro... 
Concludendo, la storia  della chiamata diretta  assomiglia, per dirla con il  Berni (se ricordiamo bene),  a  “quel cavalier che  del colpo, non  accorto, andava pugnando  ed era morto”. 
Metafora che può estesa alla scuola e all’università. Che, a dire il vero,  forse neppure  combattono più.  Insomma,  ripetiamo,  se controrivoluzione c'è,  è "contro" una  "rivoluzione"  che mai c'è stata.   

Carlo Gambescia    

                       

martedì 26 giugno 2018

Povertà in Italia?
Ma mi faccia il piacere...





Oggi l’Istat  ha comunicato  facendo la gioia dei populisti  che in Italia povertà relativa e povertà assoluta di famiglie e individui,  rispetto al 2016,   sono cresciute, di poco,  ma cresciute (*).  E tutti giù a strapparsi in capelli e, di nascosto,  cominciando da Di Maio e Salvini,  a suonare la trombetta.  
Quel  che ci interessa segnalare  per evidenziare  i limiti di una statistica che ignora il tenore di vita, e soprattutto il cammino sociale  percorso dall'Italia,  sono le cifre al di sotto delle quale un soggetto è considerato, qui da noi,  povero in senso assoluto. Argomento sul quale la stampa  di solito non si sofferma,  dando per scontato che il nostro mondo sia peggiore dei mondi possibili (**).
Concentriamoci allora sulla povertà in senso assoluto, quella - in teoria -  più grave. Ora, secondo l’Istat, si è poveri in senso assoluto con un valore di spesa per consumi rapportata a un   paniere di  beni e servizi ( affitto, bollette, prodotti alimentari, abbigliamento, spostamenti, svaghi) che,  nel contesto italiano, vengono considerati  essenziali  per conseguire, sul piano della famiglia,   uno standard di vita minimamente accettabile. Si parla di una cifra media, per individuo, di  710,00 euro, 23 euro circa al giorno (per difetto).  Moltiplicabili, con l’uso di correttivi, per i membri occupati della famiglia. 
Ora,  secondo la Banca Mondiale,  il livello di povertà assoluta, ruota nel mondo  intorno a  una cifra media di  2 dollari,  pari a 1,79 euro  per individuo,  60 dollari al  mese,  pari a  circa   54,00  euro mensili.  Altro che bollette,  alimenti, affitto e svaghi…
Povertà in Italia? Di che cosa stiamo parlando?  Forse andrebbero riformulati, non tanto gli attuali panieri di spesa quanto le aspettative dei colleghi sociologi.  I quali  hanno completamente perduto di vista la realtà di un paese ricco,  dove la soglia di povertà, anche quella assoluta,  permette di fruire di beni e servizi, che i poveri,  quelli veri,  in altre nazioni,  neppure sognano. Oppure -  parliamo sempre dei poveri autentici - immaginano, eccome:  il che spiega perché preferiscono, giustamente, vivere da  poveri qui e non dove sono nati.
Andrebbe perciò  introdotto un coefficiente di “buona vita”,  da calcolare, sulle differenze  dei consumi di spesa,  su base annua,  tra il 1945 e il 2005,  anno in  cui l’Istat ha fatto ripartire le serie storiche (apportando alcune modifiche tecniche, se ricordiamo bene, come l’inserimento delle  famiglie con quattro persone, che ovviamente ha aumentato, rispetto al passato,  il numero dei poveri individuali). I poveri, diminuirebbero d'incanto e il quadro d'insieme sarebbe più realistico. 
Le metodologie statistiche ci sono.  I concetti operativi si possono elaborare. Probabilmente,  è  la voglia di tradurli  in corposi report  che manca.  Chissà per quale ragione?  Forse perché la sociologia si è tramutata in scienza ausiliaria del welfare state?  E il povero, che poi non è tale, come abbiamo visto, porta finanziamenti, occupazioni e  cattedre. 
Insomma, dispiace dirlo, pure i sociologi devono vivere.  Meno uno.  Indovinate chi?                    

Carlo Gambescia     


(*)  Per il testo integrale qui:   https://www.istat.it/it/archivio/217650  
L'ideologia comune a Lega e Cinque Stelle
Il  blocco d’ordine




C’è  una linea tendenza negli studi politici, che chiameremo  “nuovismo”, che consiste nel vedere in un fenomeno politico e sociale solo  ciò che c’è di nuovo.
Per fare qualche esempio italiano (quando si dice il caso…). Salvini e la Lega, secondo i nuovisti,   non sarebbero  fascisti,  ma rappresentano qualcosa di nuovo:  un’ansia di partecipazione politica, democratica, ignota, si legge,  all’elitismo, di una classe politica corrotta; ansia, sanissima,  che  gli elettori avrebbero colto.  Anche  il Movimento Cinque Stelle, sempre secondo la vulgata nuovista,  sarebbe figlio dei tempi nuovi: saremmo  dinanzi  a   una  nuova sinistra,  post-ideologica, che risponde ai bisogni, diversamente di sinistra,  materiali e  immateriali,  dell’elettorato, che anche in questo caso avrebbe capito tutto.
Il nuovismo, purtroppo,  porta a sottovalutare  il “vecchio”,  quel  che  c’è di permanente in un fenomeno politico, per sopravvalutare ciò che appare come "nuovo". Naturalmente il  nuovismo  viene particolarmente apprezzato dai sostenitori -  anche giornalisti e intellettuali  - di queste forze politiche, nonché dai mass media, condannati, per ragioni  istituzionali (nel senso dei meccanismi di produzione delle notizie, improntati al nuovismo, per non annoiare il pubblico), a privilegiare  tutto ciò che  è o  appare  nuovo.
Di qui, la difficoltà, per gli studiosi,  in particolare per coloro che invece credono nelle regolarità della politica,  ossia  nel ripetersi di certe forme - denominate da chi scrive metapolitiche -  di farsi ascoltare. Ci spieghiamo  meglio.
Intanto, il nuovismo, non è che una versione di quello che  Pareto, chiama  “istinto delle combinazioni”:  mettere insieme, combinare, mescolare fatti diversi, per presentarli come nuovi.  Però si dirà, sempre rifacendosi a Pareto, che la ricerca delle costanti e regolarità, così amate dai “vecchisti” rinvia alla “persistenza degli aggregati”, altra potente forza sociale, che  spinge gli uomini a e vedere e attribuire linee di continuità storica, politica, eccetera, anche dove non vi sono.
Il che è giusto.  Però  dal punto di vista  metapolitico, più generale, la distinzione paretiana,  può essere ricondotta nell’alveo di una  precisa regolarità metapolitica, quella tra progressisti ("istinto delle combinazioni") e  conservatori ("persistenza degli aggregati"). Di conseguenza,  lo studioso serio (a "guardia dei fatti")  deve   prendere  atto   della distinzione, non parteggiare per una delle due costanti. Da questo punto di vista, allora,  qual è  il fattore, o se si preferisce la costante o regolarità metapolitica che accomuna Lega e Cinque Stelle?  E ne spiega anche la convergenza? Che, sia detto per inciso, il nuovista non spiega, anzi egli parla addirittura di futuro (nuovo) bipolarismo, tra una Lega di destra e un Movimento Cinque Stelle di sinistra.  Mah...
Per tornare sul punto,  "istinto delle combinazioni" o  "persistenza degli aggregati"? Conservatorismo o progressismo? Diciamo che nelle due forze politiche prevalgono elementi di conservatorismo sociale. Semplificando: Dio, Patria, Famiglia la triade (rigorosamente con la maiuscola) dei moderni conservatori, ripetiamo,  soprattutto economico-sociali. Del sovranismo è inutile parlare.  E' un cavallo di battaglia leghista  che si sposa perfettamente con l'antieuropeismo pentastellato. 
Non è tutto. Si pensi a un fenomeno, tutto sommato minore ma significativo, come quello della reintroduzione del riposo domenicale (appoggiata anche dalla Lega).   O alla battaglia per il posto fisso (condivisa anche dalla Lega). Oppure ai provvedimenti economici per le famiglie (condivisi da Lega e Cinque Stelle). Tutte misure che non dispiacciono alla Chiesa. 
Siamo davanti a una specie di ideologia da  blocco d’ordine, qualcosa che non è fascista, ma sicuramente  pre-fascista, diciamo di preparatorio del fascismo regime.  Se poi si aggiungono il razzismo, l’anticapitalismo,  l’antiamericanismo, l’antiparlamentarismo, assai diffusi, sia all'interno della Lega, sia del Movimento Cinque Stelle,  ecco che abbiamo tutti gli elementi, preparatori del fascismo- movimento, l’altra anima storica del fascismo. 
Tecnicamente, siamo davanti a due forze politiche, socialmente  conservatrici dalle potenzialità fasciste, dal momento, per semplificare, che riuniscono in sé le due principali anime del fascismo,  la statolatrica e  la  pseudo-rivoluzionaria. La prima incarnata dalla Lega, la seconda dal Movimento Cinque Stelle, però con travasi ideologici dall’uno all’altro. Quanto ai relitti del neofascismo, la convergenza, nonostante qualche borbottio purista, è pressoché spontanea, diremmo addirittura scontata
Ovviamente, il politologo nuovista  non  può scorgere queste cose. Lontano dalla sostanza metapolitica  delle cose sociali e politiche, il  nuovista è  portato a enfatizzare la superficie dei fenomeni:  il ciò che si dice -   che è importante, ovviamente -  ma va sempre comparato, cosa che i nuovisti  trascurano, con ciò che  si fa.   
Ad esempio, nelle analisi dei nuovisti   assumono  rilievo spropositato  le cosiddette  "istanze morali" di rinnovamento, le dichiarazioni di voler cambiare tutto, l’accenno a un mondo nuovo, eccetera, eccetera. Assume importanza, insomma,  ciò che può essere chiamato l’immaginario, ossia quel che queste forze politiche, dichiarano  per colpire l’ immaginario dell’elettore.  Si  sfrondi invece  l’albero demagogico  dalle  dichiarazioni di  Salvini e Di Maio  e si scoprirà che il nocciolo duro del  discorso lega-stellato  è  Dio, Patria e Famiglia.  Il che aprirebbe interessanti piste di ricerca sul fenomeno populista. Ma questa è un'altra storia.
Concludendo, conservatorismo  allo stato puro. Perché, all’occorrenza, come storicamente è avvenuto, il Dio, Patria e Famiglia, la triade, che rappresenta  il volto più sociale del conservatorismo moderno, è una specie di salvacondotto culturale  verso il fascismo.  Altro che “nuovismo”… Che poi  il nuovo fascismo si possa presentare o meno come  una copia originale o contraffatta di quello storico è materia di discussione.
Resta  però il fatto che il conformismo sociale, non rilevato ma celebrato come regola, rappresenta, dal punto di vista delle costanti metapolitiche il pilastro delle  forme di potere autocratico. Un fenomeno, secondo alcuni studiosi, che si estenderebbe dalla Grecia di Dracone all'Italia di Mussolini.  Forse si esagera.  Ma a pensar male, talvolta...                                    
                     Carlo Gambescia      


lunedì 25 giugno 2018

Salvini vince e  i liberali  giocano con le figurine…





A che serve studiare  scienze politiche e sociali? A che serve la  speranza, quando e se corroborata da prove scientifiche,  di poter prevedere, prevenire, evitare  gravi errori politici?     
A questo pensavo, a proposito di Salvini,  che,  dinanzi a una vittoria elettorale, che chiunque studi politica, seriamente, non può che deprecare, ha dichiarato “che più la sinistra ci insulta più vinciamo”. Come dire,  “Preparatevi italiani, che ne vedrete delle belle”.   Diciamo brutte: aumento della conflittualità intraeuropea, isolazionismo crescente, dissoluzione dell’Unione Europea, razzismo diffuso,  spesa pubblica alle stelle, catastrofica uscita dall’Euro,  assalti ai conti correnti, chiusure delle banche, fughe di capitali, crisi di  liquidità, disoccupazione,  ritorno al baratto, crollo dell’ordine pubblico, bande armate di cittadini che si autodifendono  e confliggono per le residue risorse, guerra civile,  spezzettamento dell’Italia come  in Libia, con capi militari che si contendono il potere… 
Esageriamo? Ovviamente, non sono eventi  che possono susseguirsi  nei ristretti tempi di  una settimana. Richiedono tempo, forse qualche anno.    
Le premesse però ci sono tutte:  si pensi all’atteggiamento bellicoso verso l’Ue, verso l’economia di mercato, all’odio per il denaro e il lavoro,  all’invito a comprare armi per autodifendersi,  alle proposte di censimento etnico  e alla grande disumanità  verso i pochi  immigrati che nell’ ultimo mese hanno tentato di attraversare il Mediterraneo.
Sono tutti sintomi piuttosto seri, aggravati  dalla  crescente  stupidità di un  elettore (non c’è altra parola  migliore),  ridotto a una specie talpa  impaurita.  La  gente  comune sembra ormai essere  prigioniera  di una falsa rappresentazione della situazione italiana. Insomma,   siamo tra i dieci paesi più  ricchi del mondo. Il nostro tenore di  vita è invidiato ovunque. E  un coglione (pardon), senza arte né parte, va in Europa a parlare delle povertà italiane… E tutti gli italiani, lì ad applaudire e  piangersi addosso.
Pertanto le scienze politiche e sociali servono. Altroché. Magari hanno pochi allievi.  Perché dicono sempre la verità. Anche quelle sgradevoli, come in questo caso: dove le scienze spiegano che la democrazia, quando  esce dal seminato del liberalismo, non tanto dando la parola al cretino (siamo in democrazia),  quanto   sopravvalutandola ( anche per colpa dell’irresponsabilità mediatica), accantona  il filtro meritocratico liberale. In questo modo viene  cancellata  qualsiasi  distinzione politica tra ciò che è possibile e ciò che è impossibile. Si perde quel che si  chiama  senso della realtà.    
Una qualità  che credo manchi a Corrado Ocone, filosofo liberale, il quale,  invece di rispondere a una mia lettera pubblica, continua a  giocare  sulla sua pagina Fb con  le figurine del pensiero liberale.  Il momento è gravissimo, i  cretini, cretini pericolosi, macinano voti e minacciano sfracelli,  e i liberali, anche quelli non banali come Ocone,  scambiano  quattro figurine di  Cavour contro una di Tocqueville.
Accadde già  una volta,  nel 1922-1926,  e i liberali non ne uscirono bene.   Ora, si potrebbe rimediare. O comunque tentare.     E invece…. Per dirla fuori dai denti,  Pacciardi e  Sogno, liberali "destri", come si professa Ocone,  si  rivolteranno nella  tomba...  
Un lettore, giorni fa,  commentando, un  mio articolo  ripreso da Alessandro Litta Modignani, ironicamente mi chiedeva: “ Se i cretini di massa, fossero una reazione agli imbecilli d’élite?”. Giusto.

Carlo Gambescia             

                                  

domenica 24 giugno 2018

Diego Fusaro,  un cretino che piace



Un lettore  mi  ha chiesto un giudizio  su Diego Fusaro,  “incoronato” da  “Le  Figaro”  come  consigliere informale di Salvini e Di Maio (*).  
Gli ho risposto, parafrasando il giudizio di Croce sulla decadenza italiana nel Seicento ("decadenza che si abbracciava ad altra decadenza", quella spagnola),  magari in modo meno elegante: un cretino che abbraccia altri due cretini…
L’intervista  del “giovane filosofo” è emblematica. Di che cosa?  Della  grave situazione politica  e culturale che sta attraversando un’ Europa  (con l’Italia in prima linea) a rischio populista. Le ragioni dell’esemplarità  sono almeno due.   
La prima è che Fusaro  (peccato,  sia solo una testimonianza orale di una persona scomparsa,  mi si creda però, ne va del mio onore)  è  “ per ora, un pappagallino, forse crescerà,  forse no, chissà…”.    Diciamo che è rimasto un pappagallo.  Che parla a vanvera, di cose che non conosce, o conosce appena, o fa finta di conoscere. E ripete, ripete, ripete....  E chi parla a vanvera è un cretino, dal momento che la stupidità dei  discorsi di Fusaro, sconfina nell’assurdo. Perché, parliamo di assurdità
Si prenda, come esempio, il seguente passaggio  dell’intervista.

"Sì, assolutamente. Nel nostro tempo, quello del capitalismo finanziario, la vecchia dicotomia destra-sinistra è stata sostituita dalla nuova dicotomia alto-basso, padrone-schiavo (Hegel). Sopra, il padrone ha il suo posto, vuole un mercato più deregolamentato, più globalizzazione, più liberalizzazione. Sotto, il servo "nazionalsocialista" (Gramsci) vuole meno commercio libero e più stato nazionale, meno globalizzazione e difesa dei salari, meno Unione Europea e più stabilità esistenziale e professionale. Il 4 marzo in Italia non è stata la vittoria della destra, né della sinistra: il basso vince, il servo. Ed è rappresentato dal M5S e dalla Lega, le parti che il padrone globale e i suoi intellettuali diffamano come "populisti", vale a dire i vicini del popolo e non l'aristocrazia finanziaria (Marx). Se sono populisti, bisogna dire che le parti del padrone sono decisamente demofobe, odiano la gente".

Assurdo è ciò che è  contrario a ogni evidenza logica (e filologica, benché  il terreno filologico sia accidentato, ci si pesca quel che si vuole: Cacciari, purtroppo docet). E assurdo è  l’uso che Fusaro fa di pensatori come Hegel, Gramsci e Marx.  Ne dà un’ interpretazione talmente elementare, da bignamino,   che  l’indeterminatezza regna sovrana.  E ciò che è indeterminato resta né vero nel falso. Esiste dio? Chi lo sa? Se uno ci crede, eccetera, eccetera. Se uno non ci crede eccetera, eccetera.  Detto in breve, ciò che è indeterminato  è  fuori di ogni evidenza logica.  Tradotto:  Hegel, Gramsci e Marx, secondo Fusaro.  Esiste il dio Fusaro? Sì, allora eccetera, eccetera…  Non esiste, allora, eccetera, eccetera.  Atti fede. Di primo livello, nella divinità Fusaro, come pensatore, e di secondo livello, in quella di Hegel Gramsci e Marx (secondo, ovviamente,  il divinpensiero del "giovane filosofo").  
La seconda cosa,  è che, se le cose stanno così, nel senso che più si dicono cose assurde più si è “influenti” (come si legge nell’intervista),  Fusaro parla però  lo stesso confuso e feroce  linguaggio della  Guerra Civile Europea (leggersi Nolte sull’incandescente dialettica politico-mediatica degli anni Venti del Novecento). I contenuti del  discorso pubblico  di Fusaro sono  pre-fascisti e pre-nazisti (né destra né sinistra, nazionalismo, statolatrismo, anticapitalismo, antiamericanismo) e comunque sia, come per ogni buon demagogo, Fusaro non nasconde simpatie per le forme di governo autoritarie, come si legge qui.

"Sì, Salvini e Di Maio stanno guardando alla Russia. E questa è una buona cosa. La Russia di Putin è ora l'unica resistenza contro l'imperialismo del dollaro, cioè contro l'americanizzazione del mondo, conosciuta anche come globalizzazione. È meglio avere un mondo multipolare, come diciamo in questi giorni, invece dell'incubo della "monarchia universale" (Kant), vale a dire di un singolo potere che invade il mondo intero. L'Italia dovrebbe emergere dalla NATO, liberarsi dalle oltre 100 basi militari statunitensi e cercare di riguadagnare la propria sovranità monetaria, culturale ed economica, aprendosi alla Russia e agli stati non allineati".

Naturalmente, poiché siamo davanti ad assunti di tipo indeterminato, Fusaro,  quando si deve difendere,  gioca la carta dell’obscurum per obscurius, come ad esempio qui.

“Assolutamente. Non bisognava correre rischi. L'Italia, come tutti i paesi europei, vive sotto una perenne dittatura finanziaria dei mercati. Ovvero un totalitarismo glamour, il totalitarismo del mercato capitalista. I mercati chiedono, i mercati sono nervosi: sono divinità che decidono dall'alto […]”.

Ora, resta da capire come si può  definire un sistema sociale, fondato sulla libertà individuale, anche economica, di mercato,  totalitario…  Detto altrimenti:  per Fusaro -  ammesso e non concesso che, in teoria,  la dittatura politica sia uguale a quella dei mercati -  non c’è alcuna differenza, neppure di fatto,   tra le schutzstaffel  e  gli  assicuratori.  
Risulta evidente l’enorme stupidità di una impostazione del genere, per giunta nobilitata scomodando le figure  di Hegel, Marx e Gramsci, ovviamente liberamente  reinterpretate, secondo una retorica dell’indeterminatezza. Non per questo  meno scevra da una intransigenza, per chiamare le cose con il loro nome, degna del Mein Kampf
Ora, che un intellettuale, mediocre e fazioso, come Fusaro, sia visto, a torto o ragione, all’estero,  come “influente”, al punto, come si legge,   di dettare la linea ideologica a Salvini e Di Maio è abbastanza grave. Ma all’estero si possono anche sbagliare, talvolta fuori d’Italia, nelle redazioni, in fondo come da noi (tutto il mondo è paese),  si  orecchia, per lavorare di meno, eccetera, eccetera.  
Inoltre, che Salvini e Di Maio, non smentiscano  è altrettanto grave.  Ma si tratta di due cretini. Infine, risulta però più grave, di ogni cosa, che un cretino  come Fusaro, cretino pericoloso, attenzione,  faccia opinione in Italia. Potenza dei mass media? Soprattutto televisivi, che, sconsideratamente,  lo invitano?  Può darsi.  Ma le tv  ragionano in termini di ascolti.  Diciamo quindi che è un cretino che piace a una massa di cretini. Poveri noi.    

Carlo Gambescia       

sabato 23 giugno 2018

Caro Corrado Ocone,
con i populisti, il modello Westminster non serve…



Caro Ocone,  ho letto il tuo articolo (*),  dove  si  consiglia come "sopravvivere" alla situazione politica che si è creata  in Italia (non da sola, ovviamente, ci sono  cause e responsabili). "Sopravvivere" da liberali, of course.  Nel titolo si propone   un “manuale di sopravvivenza liberale”.
Che si riduce a che cosa?  A una “cultura liberale

attenta solo a che siano rispettate le regole del gioco:[che] vigila a che nessuno, non avendo in tasca la Verità assoluta, pretenda di sopraffare l’altro nel gioco politico, che è per sua natura di composizione e mediazione di interessi.

Ti dico subito, se mi passi la battuta (poi mi farò più serio), che  parlare agli italiani di rispetto delle regole è come consigliare a Dracula di succhiare latte.  Nel pezzo  parli dell'importanza del liberalismo teorico prima che politico. Concordo. A meno che non si trasformi in dottrinario. Inoltre non vedi la necessità, che è anche impossibilità di un partito liberale. Concordo. Inoltre, poni l’accento, delineando un liberalismo che ritieni possibile, dunque realistico,  sulla  centralità dell’individuo. Concordo.   Insisti pure sul dovere di  evitare attacchi preconcetti agli avversari, perché nessuno di noi ha la “verità in tasca”.   Mai "delegittimare" l'avversario ( il lettore si appunti quest'ultimo termine).  Infatti,  sostieni che  
  
 “non si può  [...]  delegittimare moralmente l’avversario politico prima ancora che si metta all’opera, dimenticando che questo governo non ha alternative ed è composto da forze politiche che hanno avuto la maggioranza dei consensi democraticamente espressi. Si provi piuttosto a costruire un’alternativa credibile per il futuro, controllando e criticando ovviamente questo governo in ogni suo atto ma senza spostare il discorso, come era già avvenuto con Berlusconi, sul terreno ad esso non consono della morale (o dell’estetica!). Fra l’altro, è un’atteggiamento che non paga nemmeno politicamente”.

Mi dispiace, ma sul punto non concordo.  Qualche anno fa  scrissi un libro (**), dove  -  da liberale assiduo di tutti gli ambienti politici-  rimproveravo  ai liberali di  non aver capito la grande lezione del  realismo politico (non tutti, ovviamente).  Alla presentazione ebbi l’onore di averti tra i relatori.  Noto, purtroppo,  che si persevera.   
Che senso ha parlare di delegittimazione dell’avversario, quando l’agenda è fissata d'imperio morale dall’avversario stesso? Insomma, quando essa non si fonda su un orizzonte politicamente comune?  Che senso ha perciò  parlare di regole quando è l’ avversario il primo a travisarle e  calpestarle?      
Nel mio libro, ponevo alla base di un liberalismo archico, politicamente realista,  la distinzione amico-nemico,  attingendo a pensatori come  Burke, Freund, Tocqueville, Pareto, Mosca, Ferrero, Croce Weber, Ortega,  De Jouvenel, Röpke, Aron e Berlin.  In sostanza, nel libro scrivevo questo: attenzione,   realismo politico non è passiva accettazione dei fatti compiuti, ma distinzione tra nemico e avversario, per comportarsi di conseguenza. Se l’agenda politica è fissata dal nemico, sebbene regolarmente votato  -   non dall’avversario, attenzione -    che non ci rispetta e che  ci vuole distruggere,  chiedere, o peggio ancora implorare,  il rispetto delle regole da un nemico ( ripetiamo, non un avversario che le condivida con noi) è patetico, pericoloso, autodistruttivo. Certo, il confine è sottile. Però è qualcosa, se non si è feticisticamente dottrinari, che si può avvertire nell'aria. Insomma, Salvini e Di Maio, non sono sicuramente né liberali né riformisti. Dicono cose, che non dispiacerebbero a Mussolini e Hitler.  Sono nemici, non avversari. 
Tu, caro Ocone,  con il tuo liberalismo dottrinario,  delle regole, ottimo per i salotti di Elena Croce,  ma pessimo per le piazze e i social,  terreno di caccia di pericolosi arruffapopoli (di più, il primo) come  Salvini e Di Maio,  rischi di finire stritolato, e con te rischiano di essere sbriciolati gli italiani che disgraziatamente  dovessero seguire i  consigli racchiusi nel  tuo “manuale di sopravvivenza”.
Rispetto delle regole?  Nei riguardi di chi?   Verso chi cinicamente gioca al subbuteo  con i barconi dei disperati nel Mediterraneo?  Verso chi insulta - o tace, peggio -   uno scrittore nel mirino della camorra e della mafia, antipatico quanto vuoi,  ma sacrosanto simbolo della libertà di pensiero?  Verso chi non capisce che i cugini francesi, hanno pagato, e stanno pagando al terrorismo islamista  un tributo altissimo? Che noi neppure ci sogniamo? E che  nelle loro periferie hanno centinaia di migliaia di possibili  nemici interni? Verso chi ha messo in agenda, creando un clima politico surreale,  la lotta ai vaccini? Il vivere, asserviti, a spese dello stato?   Il nazionalismo e il protezionismo?  Verso il sovranista che però  ci vuole vendere al piccolo  zar Putin?   E potrei continuare.  Insomma,  siamo dinanzi  non al  partito laburista o socialdemocratico, ma al purissimo  e velenoso distillato di una cultura profondamente antiliberale e antiriformista. Costoro, ripeto, non sono avversari, sono nemici.  Se poco poco si consolidano elettoralmente e istituzionalmente, altro che democrazia dell'alternanza...  Altro che modello Westminster...       
Mi sarebbe perciò,  fin troppo facile citare il precedente del fascismo e dei fascisti, scambiati quasi tutti dai  liberali di allora, per liberali dalle mani lunghe, che dopo avere fatto pulizia, sarebbero tornati all’ovile.  Finì, come  sappiamo.
Certo, mi potresti rispondere,  che non è così, che non ci sono gli squadristi, e che è nel  Dna italiano, come hai scritto,  vedere fascisti ovunque eccetera, eccetera.   Diciamo per ora. Concedo.   
Però se questo governo, che tu vuoi contrastare in stile Westminster, con una pistola ad acqua,   dovesse fallire,  i "governanti"  che verranno dopo potrebbero essere addirittura ancora più pericolosi. Non dimentichiamo  che  il populismo di Tangentopoli,  alla prima (secondo la logica della potenze matematiche),  ha prodotto  Berlusconi, populista alla seconda,  che a sua volta  non ha prodotto Monti (un puro e semplice "intermezzo tecnico"), bensì il successivo populismo  alla terza  di Renzi,  nonché  il populismo alla quarta di Salvini e Di Maio.  La tendenza è  rialzo. Si prepara un'esplosione atomica.  E proprio  in caso di fallimento, un secondo "intermezzo tecnico", potrebbe essere  ancora più duro di quello montiano.   Il  che determinerebbe, inevitabilmente, un populismo alla quinta  potenza.  Un nuovo fascismo? Dna o non Dna,  caro Ocone, ragionaci sopra. 
Certo, si può  anche ironizzare  sulla nostra teoria matematica del populismo. Però i fatti non cambiano: aspettare, nascosti dietro Westminster, per vedere l’effetto fa, come cantava Jannacci, è inutile, sciocco  e  pericoloso.  
Qui, serve invece  un appello a tutte le residue  forze non populiste,  nel Parlamento,  nella società, nelle istituzioni, anche non civili, per una concentrazione, possibilmente anche di governo, emergenziale, ma liberale e riformista,  che si  stringa a  Bruxelles  e punti  sull'aiuto delle forze antipopuliste presenti  in  Europa e in tutte le sedi internazionali. La democrazia liberale va protetta dai suoi nemici. Se ne cade una, per effetto domino,  possono cadere tutte.  Ecco il messaggio, forte e chiaro, che deve partire dal  Paese.   
Prima che sia troppo tardi, l’Italia deve mettere in agenda se stessa. E presentarsi  agli occhi  del mondo,  come baluardo contro il populismo internazionale. Certo, l'Italia non è il Venezuela, è un paese ricco. Ma proprio per questo la sua caduta sarebbe ancora più grave.        
Caro Ocone, altro che rispetto delle regole, aspettare e vedere. E giunto il  momento in cui  la libertà va difesa con la spada. Ripeto,  prima che sia troppo tardi. Si chiama, liberalismo archico. 

Carlo Gambescia  

         
             
(*)  Pubblicato sull’ “Intraprendente”:  http://www.lintraprendente.it/2018/06/manuale-di-sopravvivenza-liberale/

(**) Carlo Gambescia, Liberalismo triste. Un percorso. Da Burke a  Berlin, Edizioni Il Foglio, Piombino (Li), 2012 -  https://www.edizioniilfoglio.com/copia-di-oreste-del-buono-6

venerdì 22 giugno 2018

Il cretinismo populista,  nuova lebbra di massa
Macron ha sempre (più) ragione




I lettori più eruditi, quelli che apprezzano, quando  scriviamo  di argomenti alti (teoria politica e sociologica),  devono avere pazienza.  Rischiamo di essere ripetitivi.  Però  non possiamo  esimerci dal criticare,  quasi quotidianamente,  le pericolose stupidaggini a gogò  di un governo che rischia di rovinare l’Italia.  È un dovere civile. Alcuni si sottraggono,  per andare a caccia di farfalle. Altri invece hanno perso addirittura la  testa per i populisti.   Infine, ci sono quelli, in cerca di rivincite, che credono di scorgere  nel governo giallo-verde una testa di ponte verso una specie di fascismo del XXI secolo. Noi invece stiamo  con Macron.  Parigi o cara.  Consapevoli del fatto che non siamo i primi né saremo gli ultimi a guardare verso la Francia come faro di libertà.  Quest'ultima frase un tempo ci appariva  retorica.  Ora non  più. Comprendiamo perfettamente il tormento degli antifascisti, un tempo, costretti a emigrare. Purtroppo. 
Pertanto non possiamo non apprezzare l’atteggiamento del Premier francese.  Macron sta alzando, giustamente,  i toni,  perché ha intuito  tutto.  In particolare,  non è  sfuggita  alla sua già notevole attenzione per le questioni europee, il profilarsi  di certa  acquiescenza  politica  alle grossolane minacce  del governo giallo-verde italiano.  Sì,  concordiamo:  il populismo è una lebbra  che si chiama  stupidità di  massa.
In Italia, come dicevamo,  molti hanno  perso la testa.  Del resto del fascismo che cosa si ricorda?  Non la mancanza di libertà (roba da “signori”,   per gli “anti-casta” e i  "forconi" nostrani),  ma  la cassa mutua e le altre misure sociali.  E quali sono piatti forti del governo in carica? Reddito di cittadinanza, servizi sociali a gogò, ma “solo per gli italiani”,  interventi pubblici a pioggia, posto fisso, chiusura domenicale degli esercizi commerciali, e via folleggiando.  Chi pagherà? Boh... Tra l’altro si vogliono pure ridurre i tributi.   
Patetica, inoltre,  l’evocazione delle “povertà” italiane del  Vicepresidente del Consiglio Luigi  Di Maio  al suo primo appuntamento sociale in Europa. Siamo tra le nazioni più ricche del mondo è parlare della povertà italiana  è semplicemente ridicolo. Se esiste,  è un fenomeno sotto controllo.  E, tutto sommato, fisiologico:  la curva di  Pareto docet .
Stupido invece, l’atteggiamento dell’altro Vicepresidente del Consiglio, Matteo Salvini. A parte il clima di conflittualità permanente da lui inaugurato, si pensi al suo atteggiamento da guappo  - non troviamo altro termine -  sulla questione scorte.  Ora,  Saviano potrà anche  essere antipatico, potrà anche essere mediocre scrittore, potrà essere, di negativo, tutto quel si desideri.  Ma, ecco il punto,  è noto in tutto il mondo.  L’Italia, piaccia o meno,  mediaticamente,  esporta due cose:  la Mafia e il dottor  Saviano.  Giocare perfidamente, a colpi di twett, sulla possibilità di ritirargli la  scorta, non aiuta a far bella figura  all’estero. E favorisce l'idea che al governo ci sia la Piovra che vuole liberarsi di uno scrittore scomodo, mondialmente scomodo.  Ma così sono fatti i nazionalisti, pardon i sovranisti.  Se ne fregano. Come i guappi.   Fino a quando qualcuno non presenti loro  il conto.  Talvolta,  salatissimo, come nel 1945.
Pertanto  i nostri populisti sono patetici, stupidi e per questo pericolosi. Perché imprevedibili. Di qui, quel  timore, che facciano altri danni, soprattutto all’ idea europea. Che ha favorito, come deve aver intuito Macron, un atteggiamento di acquiescenza -  da ultima la Merkel, per non parlare di politici minori -  alle “sparate” di Matteo Salvini e alle melensaggini di Luigi Di Maio.  Quindi, ben fa, ripetiamo, Macron, a parlare di lebbra e contagio. Lebbra della stupidità politica.  Il caso è grave, epocale,  inusitato,  altro che quote, Ventimiglia,  redistribuzione degli immigrati. E spieghiamo perché.
Per la prima volta dal 1945, con l’ascesa al potere dei giallo-verdi,   è  entrato nelle stanze di  Palazzo Chigi  il cretino di  massa.  Non parliamo dell' "uomo dimenticato" ( "forgotten man")  che ha portato al potere Trump. Negli Stati Uniti,  "uomini dimenticati" e  "uomini non dimenticati" sono in perfetto accordo sui principi del capitalismo. Si discute solo  di come gestire  una "macchina",  comunque ritenuta, da ogni americano, una delicata fonte di benessere.  E poi, protezionismo o meno, risorse e posizione dominante degli Usa,  non sono quelle dell’Italia.  Quindi, gli americani,  non sono né stupidi né patetici. Trump ha macinato miliardi di dollari, non parole in libertà come Salvini e Di Maio. Il primo conosce e apprezza il capitalismo, i secondi, al massimo, hanno giocato qualche volta, da bambini,  a Monopoly. Senza neppure divertirsi.  
Per venire al cretino di massa  diciamo che  è  solo preoccupato del proprio benessere, ma nel modo sbagliato,  perché - ecco la differenza con gli Stati Uniti -   non si sente solidale  con le cause di questo benessere.  In Italia,  ma anche in Europa, dove vincono i populisti, si  vuole il capitalismo senza il capitalismo; si vuole il denaro senza le banche; si vuole lo stipendio senza lavorare; si  vuole la democrazia senza il liberalismo;  si vuole l’unità Europea senza l’unità Europea.  E così via.
Siamo dinanzi a un cretino, e per giunta di massa, come prova l’ultimo voto (non solo in Italia, ripetiamo),  che non  è in grado di capire, da dove viene, dov’è,  dove va.  Pronto a inseguire il primo demagogo che promette  la Luna, senza  fare i sacrifici per arrivare sulla Luna.  
Per fare un esempio classico, il cretino di massa, si comporta alla stregua del  popolo (meglio plebe) nelle antiche sommosse per il pane.  Come cercava di procurarselo? Svuotando  e distruggendo forni e  mulini. Manzoni, da perfetto sociologo ante litteram ha scritto pagine indimenticabili.  
Per farla breve: il cretino di massa non capisce  che la civiltà  può essere mantenuta solo a prezzo di grande impegno( anche come necessaria difesa dell' ingentilimento e dell' umanità nei costumi),  sicché, a torto,  per bocca di Salvini e Di Maio (Conte non Conta), il cretino di massa  ritiene invece che la propria funzione sia quella di esigere perentoriamente, quasi fosse  diritto imprescrittibile,  quel che invece è frutto di secoli di lavoro, sforzi  e cautele. Tutto ciò, qualcuno lo ricordi ai nostri eroi populisti, si chiama anche "civiltà delle buone maniere".
Macron, che per preparazione e dirittura politica, forse più della Merkel (che studiava il russo nella DDR, la lingua franca per fare carriera all'Est),  capisce perfettamente la brutta china presa dagli eventi. Perciò non può non tacere. E per giunta ha ragione, perfettamente ragione.  Il tono è duro. Ma la gravità della situazione lo impone.  
Concludendo,  Macron ha sempre (più) ragione.


Carlo Gambescia      
"Governo del cambiamento"?  Si cominci allora dall’inversione 
dell’onere della prova per le obbligazioni  tributarie
O con Einaudi o con i suoi nemici
    di Teodoro Klitsche de la Grange





Salvini – ma tutto il “governo del cambiamento” lo sostiene – dice che è necessario abrogare l’inversione dell’onere della prova per alcune obbligazioni tributarie. L’intenzione, condivisibile, riduce comunque solo la punta dell’iceberg dei privilegi (sostanziali e processuali) della P.A. nei confronti del privato, spesso del tutto ingiustificati rispetto alle reali necessità pubbliche, come ai diritti dei cittadini.
A tale proposito, e sintetizzando, circa un secolo fa scriveva un grande giurista francese, Maurice Hauriou che nello Stato il diritto e la giustizia erano duplici: c’erano un diritto disciplinare e un diritto comune, cui corrispondevano una giustizia disciplinare (Temi) e una giustizia comune (Dike).
Ambedue le specie di diritto, istituzionale e comune, sono necessari, perché la società politica e quella economica non sono “praticamente separabili l’una dall’altra”; nella concezione di Hauriou, ai due diritti sostanziali corrispondono analoghi diritti processuali, caratterizzati dall’eguaglianza/e non eguaglianza delle parti e dal connotato di un rapporto (tra le stesse) gerarchico o meno.
Nell’ordinamento italiano vigente la posizione di non parità tra P.A. e privato deriva da una serie di “privilegi” e “disparità” a favore del potere pubblico, in parte riflettentisi nelle procedure giudiziari amministrative e tributarie (meno in quella ordinaria) quali:
1) Il carattere intrinsecamente esecutorio del provvedimento amministrativo (anche eseguibile ed esecutivo) cui, ovviamente, non corrisponde analoga situazione del privato.
2) Di conseguenza il potere pubblico non deve adire il Giudice per realizzare una pretesa, almeno negli ordinamenti “continentali”. Il privato si,
3) Anche se il giudice emette una sentenza o comunque un provvedimento a favore del privato e a carico della pubblica amministrazione, la pronuncia del Giudice non corrisponde alla pienezza dello jussum  tra  privati. Alcune statuizioni, sono del tutto vietate, come la revoca o modifica degli atti amministrativi
4) Determinate azioni non possono essere proposte (o proposte solo in casi determinati) nei confronti delle PP.AA. (possessorie e non solo).
5) Quello che è peggio è che lo stesso decisum ed anche se giudicato, non è, ove ad esser debitore è la P.A., trattato allo stesso modo che se ad esserlo è un privato. Esiste infatti una folta (ed apparentemente) disordinata legislazione[1] volta ad impedire – o almeno a ritardare – la soddisfazione delle pretese nei confronti della P.A., particolarmente diffusa negli ultimi venticinque anni e che è il caso di rivedere radicalmente. La legislazione suddetta vieta determinate azioni esecutive verso pubbliche amministrazioni (spesso di settore); istituisce termini dilatori a loro favore; talvolta impone ai Giudici la nomina di Commissari ad acta dipendenti delle stesse PP.AA. debitrici e così via. Tutte norme derogative di quanto prescritto per i privati[2].
E si potrebbe proseguire a lungo. È chiaro comunque che esistono differenze sostanziali, ripetute e crescenti tra il diritto applicato ai rapporti privati e quello tra P.A. e privati. Temi e Dike non sono mai state così distanti, come nell’ordinamento italiano della “seconda” Repubblica.
Tutti tali privilegi e disparità sono stati di nessuna utilità, anzi spesso hanno svolto la funzione di moltiplicatori dello sfascio burofinanziario nazionale. Negli ultimi venticinque anni il prelievo fiscale è aumentato; il debito pubblico non è calato; la spesa per il personale pubblico aumentato (dal 1980 al 2005 da € 21.822,00 a € 155.533,00) di circa 7 volte (fonte Eurispes), anche se, depurato dall’inflazione, detto aumento è molto meno drammatico; l’efficienza della P.A. (addotta spesso come ragione di privilegi e poteri) continua ad essere bassa e molto inferiore agli altri paesi europei continentali dotati cioè di un diritto amministrativo simile al nostro. Segno che tra poteri reclamati dalla burocrazia e efficienza della medesima non c’è quel rapporto virtuoso che viene sbandierato.
Attualmente in Italia nel processo tributario non sono ammessi giuramento, interrogatorio formale (è dubbio) e prova testimoniale; in quello amministrativo la prova per testi è ammissibile, il giuramento e l’interrogatorio formale no. La P.A. non ha necessità di chiedere al Giudice un titolo esecutivo, ma lo forma da se (privilegio decisivo); l’atto amministrativo gode della presunzione di legittimità; l’azione giudiziaria del privato non sospende l’esecutorietà dell’atto, ma questa dev’essere richiesta e disposta dal Giudice, e così via. Quando poi malgrado tutto ciò, il privato ottiene ragione, comincia la via crucis dell’esecuzione della sentenza, tra espedienti dilatori, trabocchetti e quant’altro, per lo più dovuti all’acuto senso dello stato di burocrati e politici della “seconda” Repubblica.
Si chiedeva il mio insegnante di diritto amministrativo Massimo Severo Giannini oltre cinquant’anni fa, quando la disparità tra privato e amministrazione era meno drammatica di oggi, in relazione al più semplice diritto inglese “l’ordinamento inglese, in cui nessun geniale giurista inventò il diritto amministrativo… è giunto più avanti degli ordinamenti continentali. Sulla distanza il diritto amministrativo «continentale» si è rivelato una complicazione ed un impaccio. Che sia arrivato il tempo di distruggerlo?”.
Per cui speriamo che una delle missioni del “governo del cambiamento”  non sia (solo) di rivedere l’inversione dell’onere probatorio, ma molto di più: di ripristinare, salvo casi eccezionali (guerre, disastri naturali e così via) la posizione di parità tra le parti (più Dike e meno Temi), o meglio di ridurne le distanze. L’efficienza della P.A. non ne subirebbe nocumento, ma la libertà ne avrebbe da guadagnare.
Silvio Spaventa e Luigi Einaudi sarebbero d’accordo.
Teodoro Klitsche de la Grange

Teodoro Klitsche de la Grange è  avvocato, giurista, direttore del trimestrale di cultura politica “Behemoth" (  http://www.behemoth.it/ ). Tra i suoi libri: Lo specchio infranto (1998), Il salto di Rodi (1999), Il Doppio Stato (2001), L'apologia della cattiveria (2003), L'inferno dell'intellettuale (2007), Dove va lo Stato? (2009),  Funzionarismo (2013).





[1] Il disordine è apparente, perché lo scopo di tutte le norme è lo stesso: impedire o ritardare i pagamenti dei creditori della P.A..
[2] Tale legislazione è spesso giustificata con la situazione di emergenza della finanza pubblica. Ma è chiaro che, come sa qualsiasi bonuspaterfamilias, il modo migliore per ridurre il disavanzo pubblico è pagare i debiti e non procrastinarli (quindi perpetuarli) nel tempo.