domenica 31 luglio 2022

Sociologia della passività

 


Il video dell’omicidio del povero nigeriano di Civitanova Marche è agghiacciante. Ma anche occasione, sempre sul web, per commenti sciocchi e inadeguati.

Ieri abbiamo affrontato la questione dal punto di vista di una sociologia della violenza (*), oggi affrontiamo un altro aspetto, altrettanto importante: quello della sociologia della passività.

Ci si chiede come mai non sia intervenuto nessuno dei numerosi presenti o “spettatori”. La risposta, sociologicamente parlando, non è così difficile.

In primo luogo, in episodi del genere il coinvolgimento affettivo è un fattore risolutivo. Si interviene in chiave scalare quanto minore, nello “spettatore”, è la distanza affettiva dall’ attore coinvolto, che magari sta avendo la peggio. Difenderò mia madre, mio fratello, un amico, ma non un estraneo alla mia cerchia sociale e affettiva. Sicché perfino il “conoscente” è a rischio di non intervento (tecnicamente si dice “intervento cooperativo”). Figurarsi perciò quando sono in gioco stereotipi di tipo razziale che non favoriscono la cooperazione.

In secondo luogo, contrariamente a quanto ritiene il senso comune, maggiore è il numero delle persone presenti – gli “spettatori” – minore resta la possibilità di aiuto. Dal momento che esiste un meccanismo di deresponsabilizzazione, che si fonda sul principio che qualcuno interverrà. Di conseguenza, nell’attesa che qualcuno intervenga, nessuno interviene.

In terzo luogo, esiste un altro meccanismo di tipo propriamente cognitivo tra l’azione in sé e il senso logico dell’azione. Le persone presenti ignorano le cause di ciò che sta accadendo. Di qui il venire meno del meccanismo identificativo (“Potrebbe accadere anche a me”) e del conseguente passaggio all’atto. Di riflesso, quanto più rapida è l’esecuzione della violenza, tanto più lo “spettatore” non ne comprende le cause. Oppure, crede di comprenderle, applicando, per fare prima ( il paretiano “bisogno” di risposte, anche mitologiche), degli stereotipi, che non sono altro che pregiudizi per tagliare corto, dal punto di vista cognitivo. Il che spiega, quando il pregiudizio inibisce l’azione, la passività dello “spettatore”.

Riassumendo, il colore della pelle del povero nigeriano ha rappresentato un fondamentale ostacolo di tipo affettivo. Nessuno si spende per uno “straniero”, figurarsi per un “negro” vittima dei peggiori stereotipi e pregiudizi sociali. Il senso di deresponsabilizzazione e l’incomprensione, o la cattiva e “stereotipizzata” comprensione delle ragioni di ciò che stava accadendo, hanno fatto il resto. Semplificando, la gente presente si è detta: “Il negro ne avrà combinata una delle sue”.

Sul web si insiste molto, gridando alla scandalo, sulle riprese con i cellulari. Non c’è da stupirsi. La violenza ha un suo fascino morboso è un moderno cellulare consente di riprodurla ad infinitum soddisfando questo bisogno.

Miracoli della tecnologia…

Carlo Gambescia

(*) Qui: https://cargambesciametapolitics.altervista.org/quando-si-vuole-tutto-e-subito/ .

sabato 30 luglio 2022

Violenza. Quando si vuole tutto e subito

 



Quel che è successo a Civitanova Marche non è che un altro sintomo di una terribile malattia che sembra dilagare nelle nostre società: quella della violenza applicata dal forte sul debole.

Attenzione non parliamo della violenza simbolica e di altre forme di violenza istituzionale, così come sono definite dai venditori di fumo, ma pericolosi, che difendono l’uso della violenza difensiva, quindi giusta, contro le istituzioni e i suoi rappresentanti, che vede i forti opprimere i deboli, bla bla bla.

Ci riferiamo invece alla violenza brutale, fisica, immediata,  insomma “applicata” alla soluzione di “problemi pratici”. Come ieri a Civitanova Marche: del forte contro il debole. Che ha un suo risvolto collettivo – anche se quanto stiamo per dire può sembrare eccessivo – nell’invasione da parte dei russi dell’Ucraina. Ma si pensi anche alla marcia su Washington, e relative devastazioni, dei sostenitori di Trump.

Assistiamo, purtroppo, a un interessante paradosso, più si parla di pace, di rispetto e tolleranza dell’altro, più si moltiplicano i casi violenza individuale e collettiva. Più si teorizza il rispetto dei deboli, meno li si rispetta.

Non disponiamo di accurate statistiche al riguardo, il nostro è un giudizio impressionistico: da vecchia guardia sociologica. Tuttavia crediamo che si possano osservare (il congiuntivo non è usato a caso) due tendenze: semplificando, da un lato i grandi discorsi sul valore di dover essere buoni, dall’altro l’essere sociale, come manifestazione di una violenza subitanea, spesso senza pari.

Si pensi alle foto che mostrano l’assassino di Civitanova Marche uccidere con le proprie mani l’ indifesa vittima, oppure alle foto che mostrano gli edifici civili, scuole e ospedali, distrutti dai missili russi e i poveri morti, invisibili, perché ancora sepolti sotto le macerie . Sono immagini inguardabili. Eppure rinviano a cose che accadono realmente.

Nell’epoca delle buone maniere, del pacifismo istituzionale, del lassismo giudiziario, si continua a uccidere senza tanti complimenti. Insomma, si pratica largamente l’uso della violenza, la più ripugnante, individuale e collettiva.

Cos’è che non va? Difficile dire.

Crediamo però che sul piano della psicologia collettiva, l’ azione violenta possa essere ricondotta alle grandi aspettative, inevitabilmente tradite, perché impossibili da realizzare, di un mondo finalmente pacificato, dove per usare la metafora biblica, “il lupo e l’agnello pascoleranno insieme, il leone mangerà la paglia come un bue, ma il serpente mangerà la polvere, non faranno né male né danno (Isaia, 65:25, Sacra Bibbia, Cei).

In realtà, la sociologia insegna che in ogni società più le aspettative crescono più diventa difficile trattare psicologicamente e sociologicamente le reazioni dei delusi, degli stanchi di aspettare, dei violenti incorreggibili.

Certo, si crede tuttora che educazione e istruzione alla pace e ai comportamenti non violenti possano trasformare gli essere umani in angeli o in qualcosa che vi si avvicini. In realtà, è proprio ciò che si può chiamare violenza da deprivazione dell’ obiettivo che è all’origine di questa situazione.

La discrasia tra tempi sociali (rapidi) ed educativi, (lenti), come pure la frattura tra azioni istituzionali (legate ai tempi delle norme e delle burocrazie) e azioni individuali (condizionate da una dinamica velocissima dei desideri) impone tempi di attesa lunghi. Di qui, per tagliare corto, le reazioni di una violenza inaudita sia sul piano macro, come l’invasione dell’Ucraina e la marcia su Washington, sia su quello micro come nel caso di Civitanova Marche.

Dove probabilmente il colore della pelle della vittima ha giocato un ruolo essenziale nella violenta riappropriazione della propria identità, legata alla considerazione di superiorità razziale da parte del carnefice. Ora, chi ha ucciso vive in una società dove si predicano l’ uguaglianza e la bontà tra gli uomini, eppure…

Ammesso e non concesso, che se importunato, come dichiara l’uccisore, sarebbe bastato rivolgersi a un vigile, proprio per questa ragione siamo davanti a una reazione da deprivazione dell’obiettivo, già sbagliato in sé, della difesa della razza. Di qui il ricorso alla violenza diretta segnata da una ferocia rivoltante.

Si dirà che non basta predicare la pace e la tolleranza, ma che bisogna praticale. Ora, la pratica rinvia per un verso al processo educativo, per l’altro alla certezza della pena e al suo valore espiativo. Sembra però che nelle nostre società sul piano interno alla certezza della pena e al processo espiativo si sia sostituito il processo educativo e su quello esterno la credenza, sempre educativa, di poter trasformare nel tempo il nemico in amico.

Due cose impossibili, perché i processi di socializzazione, oltre a svilupparsi in tempi lunghi, rispetto alla dinamica dei desideri, confliggono con la sfera degli istinti, quindi della sopraffazione del forte sul debole.

Nonostante ciò, si continua a ritenere, in modo fideistico, che a poco a poco le persone, dal singolo cittadino ai capi di stato, capiranno e miglioreranno riducendo se non eliminando del tutto il ruolo degli istinti, per così dire, carnivori. Di qui quell’approccio permissivo che crede nella “conversione culturale” del prepotente. Che però, di fatto, finisce per consegnare mani e piedi legati i deboli ai forti.

Purtroppo, quel che è accaduto ieri a Civitanova Marche e quel che sta accadendo in Ucraina provano che l’educazione non basta. Soprattutto sul piano della funzione della pena e dello sviluppo dei rapporti internazionali. Ma questa è un’altra storia.

Piaccia o meno (a chi scrive non piace), esiste nell’essere umano un’ insopprimibile tendenza a rifiutare la mediazione culturale per rispondere solo ai propri istinti come  cosa più naturale del mondo.

Istinti non solo di territorialità. Perché c’è dell’altro. Semplificando, si può dire che l’essere umano spesso vuole tutto e subito. E uccide.

Carlo Gambescia

venerdì 29 luglio 2022

Giorgia Meloni, tra aspersorio e manganello

 


Inviteremmo gli amici lettori a concentrarsi su un altro aspetto della questione Salvini-Russia. I voti che a destra questo ennesimo scandalo sposterà verso Giorgia Meloni, che in cuor suo gode del nuovo infortunio politico in cui è incorso il leader della Lega.

Giorgia Meloni più affidabile di Salvini? Bah… In realtà, la Meloni sull’invasione dell’Ucraina da parte della Russia ha mantenuto un furbo atteggiamento cerchiobottista. Per capirsi: sì all’invio di armi (non specificando se pesanti o meno), sì e all’aiuto ai profughi, sì alle sanzioni (ma con un occhio alle bollette). In sintesi, la Meloni ha dichiarato, che, in caso di vittoria elettorale, la sua politica verso l’invasione russa dell’Ucraina sarà la stessa del governo Draghi.

Si tratta di una dichiarazione sibillina.  Tipico cerchiobottismo di “copertura”, perché nasconde due fatti:

In primo luogo, che la politica degli Stati Uniti e dell’Unione Europea è attendista, e che quindi per ora esclude impegni militari diretti: si spera insomma che la Russia si stanchi e che con qualche concessione territoriale dell’Ucraina, si giunga “finalmente” alla pace. Un attendismo che al momento, per Fratelli d’Italia, se ci si passa l’espressione, viene proprio a puntino. Il famoso cacio sui maccheroni.

In secondo luogo, che nulla si dice sulla politica estera in generale. Di fatto, Giorgia Meloni, sul punto specifico, ha sempre rivendicato libertà di azione nei riguardi dell’ Unione Europea e degli Stati Uniti. Dietro il suo cerchiobottismo si nasconde un approccio sovranista. E resta assai breve il passo dal sovranismo al nazionalismo – culturalmente parlando – per un personaggio politico che proviene dalla destra neofascista: parliamo di una giovanissima iscritta al Fronte della Gioventù.

Insomma, essere dalla parte dell’Ucraina, come si proclama, non significa nulla. E di certo, le dichiarazioni meloniane non offrono alcuna garanzia politica per il futuro. Insomma, non esiste alcuna certezza circa la fedeltà di Giorgia Meloni ai valori atlantici ed europeisti. Per contro, il partito che rappresenta, parliamo dei quadri, si muove, e decisamente, secondo un’ ottica nazional-conservatrice, distante anni luce da una visione liberale, fiduciosa verso la democrazia parlamentare, i diritti civili e le libertà di mercato. Insomma, la società aperta.

Nei discorsi della Meloni, e qui fa testo l’ultimo tenuto in Spagna, dinanzi al pubblico estremista di Vox, affiora una rabbia verso i valori liberali veramente impressionante. In quel suo libro, l’ultimo, che si dice vendutissimo, non c’ è alcun sincero accenno alla cultura liberale. Si faccia un raffronto con il Gianfranco Fini de Il futuro della libertà: Giorgia Meloni è due, tre passi, forse quattro indietro.

A suo tempo, Fini, pur non essendo politicamente più limpido di "Giorgia",  era circondato da un gruppo di intellettuali che amavano definirsi libertari. Lo fossero o meno ora non è importante. Quel che invece conta è che non erano rabbiosamente nazional-conservatori come l’entourage politico di Giorgia Meloni. Ad esempio, mai le donne del gruppo intellettuale “libertario” avrebbero sottoscritto la definizione di cui ama fregiarsi Giorgia Meloni: “ Donna, madre, cristiana e italiana”.

Tra l’altro, se la Meloni fosse veramente donna, madre e cristiana, nell’accezione universalista di tale triplice terminologia, se si vuole liberale, nutrirebbe un atteggiamento diverso verso le povere madri che affogano con i figlioletti nel Canale di Sicilia. E invece, a suo tempo, “Giorgia” voleva inviare la Marina Militare per respingere con la forza i barconi pieni di disperati.

In realtà, Giorgia Meloni è solo “italiana”, in chiave – e usiamola questa parola… – veterofascista: il suo essere “donna, madre, cristiana” è ricondotto, in termini, nazional-conservatori al suo essere prima di tutto “italiana”. Per capirsi: nel senso dei figli donati dalle “donne” alla patria, più o meno in armi, con il cappellano benedicente. La cultura politica di Giorgia Meloni, per dirla con un quasi dimenticato liberale italiano, Ernesto Rossi, è quella dell’aspersorio e del manganello, quando serve. Una visione arcaica, se non tribale, che si scontra inevitabilmente con il pluralismo liberale.

Dimenticavamo, se si vuole una buona sintesi, del pensiero nazional-conservatore, quindi per capire il senso dei nostri rilievi, si legga il “Manifesto dei conservatori” di Prezzolini, una della cose peggiori che egli abbia mai scritto, in cui si difende "il proprio odore" contro "il puzzo degli stranieri".

Probabilmente, Giorgia Meloni, neppure lo ha letto. Diciamo allora che è nazional-conservatrice per imprinting politico missino. Il che è cosa peggiore. Soprattutto per chi si appresti a governare l’Italia.

Carlo Gambescia

giovedì 28 luglio 2022

Ucraina, servono armi pesanti e controffensiva

 



Il sociologo russo Lev Gudkov, autore con Victor  Zaslavsky di un testo molto interessante sull’involuzione russa dopo le speranze, per quanto tenui, degli anni Novanta (*), si mostra pessimista sulla capacità di reazione alla guerra in Ucraina del popolo russo.

Ma lasciamo la parola a Gudkov, che dirige il più rinomato istituto demoscopico indipendente del Paese, il Centro Levada. Ovviamente boicottato dal governo. E non ancora  intervistato, qui in Italia, da Lucia Annunziata. Almeno a far tempo dall’inizio dell’invasione russa. Quando si dice il caso...

«I russi si sono “rassegnati” alla guerra in Ucraina e continuano a sostenere il presidente Vladimir Putin in una forma di “complicità passiva”, che affonda le sue radici nell’atteggiamento del cittadino sovietico col potere (…)”Se i sondaggi dei giorni subito successivi all’invio dell’esercito, il 24 febbraio, mostravano un’approvazione del 68% per le azioni di Putin, il dato è arrivato all’81% a marzo per poi stabilizzarsi, tra aprile e giugno, intorno al 74-77%”. Non si tratta, spiega Gudkov, di un'”euforia” collettiva come era stato per l’annessione della Crimea, nel 2014, ma piuttosto di “mancanza di resistenza morale”. Rispetto a otto anni fa, questo consolidarsi del consenso avviene in circostanze molto diverse: prima di tutto, quella di un “totale isolamento mediatico”. “Dal 24 febbraio”, ricorda il vicedirettore del Levada, “si stima siano stati vietati 2-3mila siti internet e chiuse circa 180 testate, di cui alcune molto autorevoli come Novaya Gazeta e la radio Eco di Mosca; senza contare che i blogger vengono multati, che si rischia il carcere per l’accusa di fake news e che anche Facebook è stato bloccato. Il sociologo lo definisce “sostegno a bassa intensità”, un sentimento a suo modo contraddittorio: “Da una parte si registrano soddisfazione e orgoglio tra gli intervistati (51%), dall’altra quasi lo stesso numero (il 47%) ammette di sentirsi ‘inquieto’ per la morte sia dei civili ucraini che dei soldati russi”. L’appoggio alla guerra, inoltre, non va di pari passo con la disponibilità a combattere per la propria patria – solo il 2-3% si dice disposto a farlo – né con un senso di responsabilità per le morti civili. “La maggior parte degli intervistati non capisce nemmeno la domanda sulle responsabilità come popolo per quanto sta accadendo”, riferisce il sociologo, “in media solo il 10% avverte un problema di coscienza: è il tradizionale atteggiamento sovietico di esprimere un’approvazione semplicemente dimostrativa verso il potere, senza poi volerne rispondere o partecipare. È il comportamento caratteristico di una società in condizioni di regime totalitario, una complicità passiva coi crimini dello Stato”. Pertanto, conclude Gudkov, “nonostante il calo del tenore di vita, l’inflazione, le sanzioni, la carenza di alcuni prodotti come i medicinali, il livello di soddisfazione generale è aumentato in modo molto evidente e registriamo tutti i segni di un consolidamento di massa del consenso nei confronti del potere” » (**).

Grazie alla passività della popolazione russa, soprattutto se Europa e Stati Uniti, continueranno a inviare armi con il contagocce all’Ucraina, la guerra rischia di durare a lungo. Il prossimo anno potremmo essere ancora a qui a parlare delle stesse cose.

In Occidente ci si illude che la Russia possa fare un passo indietro. Ma non si capisce come e perché dovrebbe farlo, se dispone: a) di armi sufficienti per condurre una guerra, anche a bassa intensità; b) del controllo totale della pubblica opinione interna.

Le guerre si vincono in relazione agli obiettivi prefissati solo se si dispone di forze superiori a quelle del nemico.

Ora, in Occidente, l’unico obiettivo chiaramente prefissato, è quello di non estendere la guerra. Ma anche quello, crediamo, di non voler respingere le truppe russe oltre i confini dell’Ucraina. Cioè non viene preso in considerazione neppure l’obiettivo minimo o se si preferisce quello più realistico.

Di qui l’illusorio ricorso alle sanzioni economiche e l’invio di armi con il contagocce.Insomma  l' Occidente  spera  di cavarsela a buon mercato.

Però quanto afferma Gudkov indica che le sanzioni sui russi sembrano essere ininfluenti. Per contro in Europa, forse più che negli Stati Uniti,  l’opinione pubblica sembra essere  molto divisa sull’invio di armi, in particolare quelle pesanti. Come pure sulle sanzioni economiche: si teme possano incidere sul tenore di vita. Sicché con l’arrivo dell’inverno e di una salatissima bolletta energetica le azioni della Russia rischiano di salire ancora di più.

In Italia, dalle prossime elezioni, tra poco meno di due mesi, potrebbe addirittura uscire vincitore un governo filorusso. Si parla già per l’Italia di “modello Orbán”.

Di qui l’importanza dell’invio di armi pesanti e di una controffensiva ucraina, del resto implorata da Kiev da più di due mesi.  Ma gli Stati Uniti cincischiano e l’ Europa non è da meno. Inoltre in Italia, come osserva il politologo americano Ian Bremmer, presidente di Eurasia Group,

«il terreno è più fertile che altrove in Ue, dove l’opinione pubblica (per ragioni storiche e alla luce dei legami economici) è stata più altalenante. Questo Paese dopotutto non ha memoria di cosa sia un’invasione russa e il sentimento anti-Nato scorre sotterraneo sotto le estreme dell’arco politico» (***).

Se controffensiva deve essere, ora che siamo in  estate è il momento  propizio. Non a ottobre.

Insomma, ogni giorno è prezioso. Però come recita l’adagio, non c’è peggior sordo di chi non vuol sentire.

Carlo Gambescia

(*) Lev Gudkov e Victor Zaslavsky,  La Russia da Gorbaciov a Putin, il Mulino 2010.
(**) Qui l’intera intervista: https://www.agi.it/estero/news/2022-07-26/gudkov-consenso-russi-putin-consolida-17563085/ .
(***) Qui: https://formiche.net/2022/07/draghi-oltre-draghi-bremmer-spiega-come-fermare-lopa-russa/ .

mercoledì 27 luglio 2022

“Fascismo immaginario”, una risposta a Carlo Pompei

 


A proposito del mio articolo di ieri sul “fascismo immaginario” (*) ho ricevuto sulla mia pagina Fb un interessante commento dell’amico Carlo Pompei, uno dei suoi, quindi sempre stimolante (**) . Che va subito letto.

Buonasera.
Dico la mia, ovviamente, opinione.
Innanzitutto per leggere adeguatamente il fenomeno bisogna scinderlo in protofascismo (che va scisso a sua volta, ma è un’altra storia), neofascismo (anni ’50-80), neopostfascismo (anni ’90), neopostpseudofascismo (anni ’00-oggi).
Tralasciando simpatie (o “allopatie” trasversali) berlusconiane e leghiste più o meno di comodo (come dimenticare la stagione Bossi-Fini a confronto con la Turco-Napolitano a proposito di immigrazione?), conosciamo il trasformismo occasionale delle “quote rosa di destra”, dalle donzelle berlusconiane più o meno preparate fino alla “sorella della Garbatella”, come viene chiamata dai duri e puri extraparlamentari, perché, sì, i colonnelli ci sono, ma somigliano a quegli orrendi cagnolini da lunotto diffusi negli anni ’70, quelli che dicevano NO con la testa se percorrevi una curva e dicevano sì se prendevi una buca.
A buon intenditor…
Non sono convinto che il fascismo sia tutto ideologicamente da buttare.
Da buttare senza esito sono i metodi di sempre e la quasi totalità delle interpretazioni del dopoguerra e contemporanee.
Soprattutto le contemporanee, che, sempre secondo me (e secondo molti elettori di destra) con il protofascismo mussoliniano hanno poco o nulla a che fare, se non considerando un’estetica grottesca.

Carlo Pompei

Il commento va suddiviso in tre parti. La prima sulla periodizzazione. La seconda sul leaderismo. La terza sul fascismo “ideologicamente” non “tutto da buttare”, in particolare il protofascismo mussoliniano.

1) Sulle periodizzazioni concordo con l’intelligente proposta di Carlo Pompei. Da sviluppare, certamente. Fermo restando però, almeno dal mio punto di vista, quell’inevitabile meccanismo della “tentazione”, che attraversa, con varia intensità, le varie fasi, quindi la periodizzazione stessa, del fenomeno fascista.

2) Il leaderismo missino e post-missino rinvia al culto del capo, tipico di quel mondo. Quindi anch’esso è inevitabile. Certo, ora, “tocca” a una donna. I tempi sono cambiati ma il succo è lo stesso. Ovviamente al leaderismo si collega la questione del colonnellismo: un leader semi-militarizzato, com’è di regola in quell’ambiente, ha bisogno dei suoi colonnelli, come Napoleone aveva bisogno dei suoi generali.

3) Sul “non tutto da buttare”, va sottolineato che il fascismo è attraversato da certo anarchismo individualistico che rinvia a un’ interpretazione, di derivazione nicciano-dannunziana, dell’intellettuale come “profeta armato” che tenta di contrastare la decadenza. Un approccio che rientra nello schema della tentazione fascista. Va anche detto che l’ anarchismo è una forma, per quanto estrema, di libertarismo. Pertanto è comprensibile, che alcuni spiriti liberi – e Carlo Pompei è tra questi – siano attirati dalla vena libertaria del “protofascismo” che anima in parte il cosiddetto fenomeno del diciannovismo imperniato sul programma di piazza San Sepolcro, quello del “Fasci Italiani di Combattimento”.

Allora perché non parlare apertamente di repubblicanesimo e sindacalismo rivoluzionario? Difficile rispondere.

In realtà, ecco il punto, cosa ci può dire oggi l’anima repubblicana e sindacalista-rivoluzionaria del diciannovismo? Viviamo in una Repubblica, per quando imperfetta, e il sindacalismo non è mai stato libero come ora. A dire il vero, il sindacalismo rivoluzionario, proprio perché tale, non era riformista: sognava una specie di rivoluzione permanente gestita dai sindacati in chiave di socialismo autogestionario. È attuabile oggi? Sospendo il giudizio.

Carlo Gambescia

(*) Qui: https://cargambesciametapolitics.altervista.org/sul-fascismo-immaginario/ .

(**) Qui: https://www.facebook.com/profile.php?id=100008324616777 .

martedì 26 luglio 2022

Sul fascismo immaginario

 


Un’ indagine ci dice che quando si chiede un giudizio su Mussolini agli elettori italiani, si scopre che venti italiani su cento ritengono che il “duce” abbia lasciato un segno positivo nella storia italiana (20 per cento). Certo, come si può vedere, Mussolini è in fondo alla classifica (*), dopo Garibaldi (91.4), Moro (91.3), Mazzini (85), Cavour (76.4), De Gasperi (69.8) e altri ancora. Però…

Inoltre, tredici italiani su cento scorgono nel il fascismo un fenomeno positivo.

L’indagine Demos, coordinata dal professor Diamanti risale al 2011 (*), anno della celebrazione dei centocinquant’anni dell’ Unità d’Italia. Per quando ne sappiamo, non risultano “agli atti” altre inchieste specifiche o comunque aggiornate. Di conseguenza, per il nostro ragionamento, non possiamo non partire da queste cifre.

Cominciamo col dire che il fascismo non è poi un fenomeno immaginario perché esistono italiani, essere umani, concreti, che apprezzano sia Mussolini, che ne fu l’inventore, sia il fascismo stesso. Diciamo che ci sono tuttora italiani che stimano l’idea e il regime.

Su questo zoccolo duro, quindi reale, di fascisti e mussoliniani, si innestano altri fenomeni culturali che in qualsiasi momento possono portare acqua al mulino del fascismo, o più correttamente del neofascismo.

Fenomeni che sono sotto gli occhi di tutti: il disprezzo verso le istituzioni parlamentari e i partiti, le remore acutissime verso il capitalismo, un sentimento di amore-odio, spesso però solo di odio, verso gli Stati Uniti e l’idea di Occidente come patrimonio comune di valori tra le due sponde dell’Oceano.

Pertanto sminuire il pericolo fascista, evocando il fascismo immaginario delle sinistre, giudicato come frutto di pura e semplice propaganda, è segno di grande superficialità politica. Insomma, non è corretto amplificarlo, soprattutto a fini elettorali. Però, ripetiamo, non va neppure sottovalutato.

Del resto, si dirà, non ci sono camicie nere in giro, eccetera. Certamente. Tuttavia, il pericolo neofascista è racchiuso proprio in quel carattere, che un intelligente storico, Tarmo Kunnas, definì come “tentazione fascista”. Che si manifesta in una serie di fattori, come il rifiuto del liberalismo, dei diritti politici ed economici individuali, nella critica dell’idea di progresso e delle conquiste giuridiche della modernità.

Fattori di critica, se si vuole generici, addirittura populisti, se non qualunquisti, ai quali però, per contrasto e rafforzamento, si affianca il culto diffuso di uno stato etico che vede e provvede a tutto: quante volte, si sente tuttora ripetere, davanti alle telecamere, “Dov’ è lo stato?”. Lo si vede come unica entità capace di preservare i valori della patria, di dio e della famiglia, ma anche, e in modo esclusivo, quello della razza: si pensi alle arcaiche reazioni della Lega e di Fratelli d’Italia dinanzi ai migranti.

Nello schema ( e poi prassi) della “tentazione fascista”, il liberalismo in particolare viene giudicato quale portatore di disordine e di confusione morale.

Sono tutte idee che in passato contribuirono a creare quell’atmosfera irrazionalistica che tra Otto e Novecento preparò, insieme ad altre componenti economiche e sociali, l’ascesa al potere, tra le due guerre, dei fascismi. Va detto che la critica al liberalismo accomuna il fascismo al comunismo, critica che inevitabilmente, come provano numerosi studi storici e sociologici, sfocia nello stato dittatoriale o totalitario.

In questo senso si può pertanto parlare di tentazione fascista ogni qualvolta viene chiamato in causa, criticandolo, il liberalismo. Ogni critica al parlamento, ai partiti, alla libertà d’ impresa, ai diritti civili dei singoli, all’idea di progresso, contribuisce a ricreare quel clima da tentazione fascista, o se si preferisce le precondizioni culturali e sociali alla proliferazione istituzionale del fascismo.

Vorremmo infine spendere qualche parola sul revisionismo storico. Ora la storiografia stessa, non può che essere revisionista: nuove scoperte, nuove ricerche, nuovi studi, consentono di approfondire le cause degli eventi storici. Quindi accusare un storico di essere revisionista significa fargli un complimento. Ciò che non va confuso con il revisionismo è il riabilitazionismo, per intendersi, alla Orwell, alla “1984”, nel senso di una riscrittura continua della storia, secondo i desiderata del potere.

Si può, anzi si deve approfondire lo studio del fascismo, ma non per riabilitarlo politicamente. Cioè per farne un uso politico, magari a fini elettorali, contribuendo così allo sviluppo di un clima da “tentazione fascista”.

Ora, se si chiede a Berlusconi, Salvini, Meloni, se il fascismo e Mussolini fecero cose buone. I tre risponderanno di sì. Probabilmente per non perdere i voti di quel venti per cento. Oppure perché ritengono realmente che non tutto del fascismo sia da buttare. O tutte e due le cose insieme. Comunque sia, lo riabilitano. Ne fanno un uso politico.

Che utilizzazione politica si potrà mai fare del fascismo all’interno di una democrazia liberale? Pur con molti difetti ma aperta al mondo e ai diritti individuali? Di solito, per avvalorare la “tesi sociale” si evocano alcune misure del fascismo: dalla Carta del lavoro ai salvataggi degli anni Trenta.

Ma in una democrazia liberale, di queste cose si occupano la socialdemocrazia e il liberalismo sociale. Che c’entra il fascismo? Cosa vogliamo dire? Che non c’è alcun bisogno di rispolverare le presunte (perché non tutti gli storici sono d’accordo) riforme sociali del “duce”. Esistono, allo scopo, i riformatori democratici.

Perciò “gatta ci cova”. Di qui la necessità di vigilare. Con discrezione. Insomma senza eccessi e ipocrisie, come invece usano fare ex e post comunisti, che di scheletri (totalitari) negli armadi ne hanno in quantità industriali. Ma questa è un’altra storia.

Carlo Gambescia

(*)Si veda qui:  http://www.demos.it/a00571.php .

lunedì 25 luglio 2022

A proposito di Calenda

 


Oggi la stampa di destra evoca una “campagna d’odio” prontamente partita che culmina, si dice, nell’ ingiusta accusa di fascismo, o comunque di radici, eccetera, eccetera (*).

Sull’altro fronte invece, Letta dichiara la sua distanza dalla sinistra disarticolata e confusionaria dell’ area grillina. Il “Foglio”, illustra invece le virtù di un centro(-sinistra) moderato, schierato però contro il fronte populista. Diciamo che il punto di riferimento di Cerasa e Ferrara sembra essere Carlo Calenda. Un riformista, un moderato si dice, capace di condizionare Letta.

Il punto è, come però?

Cosa significa essere moderati ? In primo luogo, saper tenere la stessa distanza politica dalla destra e dalla sinistra. Il problema però è che sul piano programmatico, la destra e la sinistra, a parte la differenza sulla questione dei diritti civili, dicono le stesse cose.

Per capirsi: welfare e politiche della spesa pubblica non si toccano, né a destra né a sinistra. L’unica differenza è data dal fatto che la sinistra  estende il welfare  agli immigrati mentre la destra passa la mano. Per non parlare della comune monomania per la transizione ecologica come dell’altrettanto comune ipnosi verso i miliardi del Pnrr Italia: puro assistenzialismo economico che si illude di ricreare a tavolino, con un colpo di bacchetta magica pubblica, i flussi privati  della domanda e dell’offerta.

Ecco, un centro politico, una forza moderata, per differenziarsi dovrebbe parlare un altro verbo, diciamo liberale: meno welfare, meno spesa pubblica. Più libera iniziativa. Non l’attesa messianica del cargo-cult dello stato sociale europeo. Ferma però restando, la difesa dei diritti civili, rivista però in termini di depenalizzazioni, delegificazioni, antiproibizionismo.

Come il lettore avrà intuito un centro politico di questo tipo, non sarebbe più centro: si potrebbe parlare scherzosamente di estremismo di centro. Perché toccare la spesa pubblica in Italia è un atto rivoluzionario.L’esatto opposto di un approccio moderato.

Ora, la cosa buffa è che Calenda, che come dicevamo è il beniamino del “Foglio”, giornale autonominatosi portavoce dei moderati, resta un sostenitore di politiche interventiste. In sintesi, per Calenda, lo stato continua a rimanere la soluzione, non il problema.

È verissimo che con la destra al potere i diritti civili farebbero un passo indietro. Però è altrettanto vero, che se vincesse la sinistra “moderata” o “riformista”, come si dice, alla Calenda, magari alleata a quella di Letta, nulla muterebbe dal punto di vista dello statalismo welfarista.

Come scrivevano ieri, le politiche di redistribuzione corporativa proseguirebbero come prima, magari con qualche lieve taglio, ma all’interno degli stessi quadri cognitivi, quindi  immutati, nel senso dell’approccio conoscitivo alla realtà: prima lo stato poi l’individuo (semplificando).

Si dirà: ma allora i diritti civili? Non sono una grande conquista? Certo, però, anche in tale ambito, come in quello in economico, la sinistra, inclusi i riformisti, legifera troppo: il diritto pubblico tende a prevalere sul diritto privato. E invece si dovrebbe delegificare. Tradotto: si può fare tutto ciò che non è espressamente proibito dalla legge. Di qui la necessità però di depenalizzare, depenalizzare, depenalizzare… Così si promuove l’individuo, lasciandolo libero di scegliere. Senza patteggiare con  quei gruppi sociali che pretendono di rappresentarlo, gli uni contro gli altri armati,  pronti a regolamentare tutto, via leggi dello stato, evocando, direttamente o meno, a difesa della regolamentazione, quel pericoloso “costringere gli uomini a essere liberi”.

Come si può capire, serve un cambio cognitivo. Se ci si passa l’espressione una rivoluzione di centro. Non si dimentichi infine che oggi, per ragioni di spazio, abbiamo lasciato fuori la questione della politica estera, pure fondamentale. Sul punto rinviamo all’articolo di ieri (**).

Ora, Calenda si muove su questa lunghezza d’onda? Non crediamo. Certo, se la si mette sul turarsi il naso eccetera, eccetera, come già sta accadendo, tra Letta e Calenda da una parte, e Salvini, Meloni, Tajani dall’altra, non si può non votare per i primi.

Però, che tristezza…

Carlo Gambescia

(*) Qui: https://www.giornalone.it/ .
(**) Qui: https://cargambesciametapolitics.altervista.org/la-solitudine-dellelettore-atlantista/ .

domenica 24 luglio 2022

La solitudine dell’elettore atlantista

 


Prendiamola da lontano. Che tipo di campagna elettorale si prepara? Intanto cominciamo distinguendo tre livelli: (a) il livello comunicativo; (b) il livello ideologico; (c) il livello dei contenuti programmatici.

Diciamo subito che a livello comunicativo (a), dei messaggi pubblici nelle sedi mediatiche la campagna si preannuncia durissima, perché scendendo al livello (b), quello ideologico, la sinistra agiterà il pericolo fascista e populista-sovranista, mentre la destra evocherà i peggiori luoghi comuni contro la sinistra al caviale che ignora il popolo.
Quanto al livello (c) dei contenuti programmatici destra e sinistra continueranno a muoversi all’interno del patto corporativo-redistributivo (tradotto: nessuno deve scontentare nessuno), che,  come abbiamo più volte detto, si basa sul mix di scambio tra spesa pubblica-pressione fiscale. I professori di sinistra parlano dottamente di trade off.

Tuttavia, essere pro o contro la flat tax, la “tassa piatta” (la destra è favorevole la sinistra contraria) non significa un bel nulla, perché si continua comunque a “mungere” il contribuente giocando con le aliquote. Purtroppo, il vero punto è che lo stato è penetrato così dentro l’economia privata che il volume della spesa sociale e degli interessi sul debito pubblico può sì variare verso l’alto o verso il basso ma soltanto per pochissimi punti percentuali. Quindi come dicevamo “questa” destra e “questa” sinistra, ancorate al patto redistributivo, non sono  in grado di perseguire  neppure il  minimo cambiamento.

Pertanto a un linguaggio infuocato, non seguirà, chiunque vinca, alcune sostanziale mutamento nelle politiche pubbliche ed economiche. Per capirsi: destra e sinistra continuano tuttora a ritenere che lo stato sia la soluzione, non il problema.

Questo è il quadro obiettivo. Diciamo la fotografia. Se poi il lettore desidera una nostra opinione, per così dire quella del fotografo, di chi scatta la foto, non possiamo esimerci. Un parere non si rifiuta mai.

E qui veniamo alla solitudine dell’elettore atlantista.

Si tenga d’occhio la politica estera. Probabilmente, sul piano comunicativo, ideologico e programmatico, nonostante la gravissima crisi ucraina, tutti i partiti, dalla destra alla sinistra non potranno non dichiararsi per la pace. Soprattutto  perché i sondaggi mostrano che gli italiani non vogliono sentir parlare di guerre.

Perciò di guerra, in quanto tale, si parlerà poco per non contrariare l’elettore che, a destra come a sinistra, si rivela deciso a non morire per Kiev.

Però, ecco, crediamo – si tratta solo di una nostra opinione – che la destra in tutte le sue sfumature sia più vicina a Mosca della sinistra. Quindi in contraddizione con le scelte atlantiche che hanno più di settant’anni. Perciò una vittoria della destra – che i sondaggi sembrano preannunciare – potrebbe aprire la porta a un rovesciamento italiano delle alleanze (parola grossa? E sia…). Un cambiamento di casacca con il beneplacito di numerosi elettori che, come detto, non vogliono sentir parlare di scendere in guerra al fianco dell’Ucraina, che appare condannata a perdere, ma che non rifuggono da una certa ammirazione per la Russia e addirittura per Putin, l’uomo forte.

Qui il discorso sarebbe lungo. In Italia è tuttora viva una diffusa opposizione, non solo politica, ma culturale agli Stati Uniti. L’atlantismo – per semplificare – è un fenomeno di élite, attento – e per questo servono studi profondi – alla storica e nobile comunanza di valori tra Europa occidentale e Stati Uniti, pur tra alcune differenze, talora significative, nell’approccio politico ed economico sugli interessi immediati. A dire il vero, anche nella crisi tra Ucraina e Russia, gli Stati Uniti non sembrano aver sposato una politica priva di ambiguità. Accusa che però l’America potrebbe rivolgere anche all’Unione Europea. Ammettiamo onestamente che esiste l’Atlantismo come idea e l’Atlantismo come fatto. E spesso i fatti deludono.

Le masse – sempre per semplificare – nutrono invece verso l’ ”AmeriKa”, nella migliore delle ipotesi, un sentimento di amore-odio. Che però spesso viene raccolto, accentuando i sentimenti negativi, dalle destre come dalle sinistre populiste, dalle radici fasciste e comuniste, semplificando, nazional-comuniste. Altro che atlantismo liberal-democratico…

Riassumendo, la politica estera va perciò tenuta d’occhio. L’Occidente euro-americano non può non restare schierato al fianco dell’Ucraina, invasa proditoriamente dalla Russia, perché guarda con speranza verso l’Occidente. Piaccia o meno Zelensky: gli uomini passano, la religione della libertà resta, come insegnava Croce.

Un’Ucraina che perciò andrebbe adeguatamente armata se non addirittura sostenuta direttamente con truppe e mezzi della Nato. Scelta quest’ultima avversata dalle sinistre pacifiste per ideologia e condannata, per la  stessa ragione  dalla destra filorussa.

Il voto dovrà pertanto andare, e francamente non c’è grandissima scelta, verso le forze politiche autenticamente atlantiste. Almeno come idea… I fatti seguiranno, si spera.

Tutto ciò, spiega, come anticipato, la solitudine dell’elettore liberale e atlantista. Che rischia di non riconoscersi ovviamente nella destra, ma anche nella sinistra per così dire riformista, che si autoproclama atlantista.

A questo proposito, la cosiddetta eredità Draghi, rivendicata dalla sinistra moderata,  in che cosa consiste? Nel mantra della pace verso una Russia sorda invece come non mai, in un modestissimo invio di armi all’Ucraina, oltre al placet sulle sanzioni e ai consueti aiuti umanitari. Bazzecole.

Perciò l’elettore atlantista non deve farsi grandi illusioni, per due ragioni: la prima è che la sinistra, anche quella moderata, non è del tutto affidabile, anche perché, e questa è la seconda ragione, le masse sono per la pace a ogni costo. Sicché la stragrande maggioranza dei partiti, inclusa la sinistra riformista, non può non tenerne conto.

Così funziona la democrazia. Anche contro se stessa.

Carlo Gambescia