giovedì 30 novembre 2017

Il capitalismo secondo Mario Ajello...
Un compagnuccio della parrocchietta


Certe stupidaggini, seppure colte al volo, rovinano la barba mattutina… E pure la giornata.  In che senso?  Che mentre ci si sta radendo   si   ascolta una cosa così (più o meno testuale):  “Eh sì,  questi lavori post-moderni, da Ikea e Amazon, ricordano,   per  le condizioni in cui si svolgono, quelle dei lavoratori della rivoluzione industriale  ottocentesca”.  E tac, ci  si taglia…  
Chi dice queste  fregnacce (pardon)? O le riferisce, annuendo seriosamente?  Mario Ajello del  “Messaggero”  a  Prima Pagina  su  Rai Radio Tre.  Non parliamo di un giornalista del  “Manifesto”  o di qualche foglio dell’estrema destra anticapitalista,  bensì di un “editorialista di punta” del quotidiano di Francesco Gaetano Caltagirone: quanto di più governativo o quasi (a parte i regolamenti di conti tra costruttori…), esista, eventualmente, su piazza:  tipo Andreotti è vivo e lotta insieme a noi.
Diciamo che Ajello rientra perfettamente nella fenomenologia luogocomunista  del giornalismo  italiano:  un mix di luoghi comuni,  negativi of course,  sul capitalismo,  nemmeno  di ascendenza comunista,  perché “Loro” studiavano”.  Ajello  no, o almeno non più.  
Offendiamo? Neppure tanto. Dal momento che chiunque  abbia  letto, o anche solo sfogliato,  il famoso saggio di Engels sulla  situazione della classe operaia inglese, anno di grazia 1845,  dovrebbe evitare, e accuratamente,  di dire stupidaggini.  
Che cazzo c’entra (pardon) il lavoro minorile negli stabilimenti Wood a  Bradford, anno domini 1842, con i giudici del lavoro italiani, anno di grazia 2017, che nel 95 per cento dei casi  sentenziano a favore dei dipendenti ?  Che c’entrano le fumose fabbriche di Manchester con gli ariosi  magazzini Ikea?
Eppure Ajello, come per riflesso condizionato, appena suona il campanello-capitalismo, comincia a salivare.  Proprio come papa Bergoglio. E spara  fregnacce (di nuovo, pardon). Altro che politicamente scorretto... 
Ajello non è un compagno - se  fosse così, lo scuseremmo (o quasi).  Diciamo che è un compagnuccio della parrocchietta. 

Carlo Gambescia
                         

mercoledì 29 novembre 2017

  Elogio del sindaco incapace   
Virginia  Raggi ci salverà?



La prendiamo da lontano. Quindi un poco di pazienza.
Salvini se n’è uscito con una della sue:  “Più di una buona morte, dichiara, mi preoccupa garantire una buona vita”.  La pubblica opinione (parola grossa, di questi tempi)  si  è subito divisa.  Il solito teatrino tra i difensori della buona morte, dalla parte del testamento biologico, e i difensori della buona vita,  schierati  da quella delle provvidenze da legge di bilancio. Senza dimenticare coloro che aspirano, “welfaristicamente”  ad assistere il cittadino, dalla culla alla tomba, quindi buona vita e buona morte insieme. Amen.
Quel che non dovrebbe più sorprendere invece, è come in Italia  la politica sia ridotta a un centro servizi:  tutti vogliono qualcosa dallo stato, senza ovviamente dare nulla indietro.  Senso di responsabilità e orgoglio di  farcela da soli sono passati di moda. Ormai,  sulle pensioni i governi rischiano di cadere, come un tempo cadevano  sui patti agrari:  quando nelle campagne i prefetti inviavano i soldati a mietere.  Altro che  orario di lavoro personalizzato...  Questa mattina, sulle prime pagine dei giornali,  un licenziamento, dicesi uno,  tra l’altro motivato, assurge a caso nazionale.    
La politica è al servizio di un individualismo assistito, esigente, egoista,  e piagnone. Sicché i partiti si adeguano e lo stato pure:  Berlusconi, che si dichiara liberale, promette di aumentare le pensioni, Renzi, il riformista Renzi,  punta sul reddito di inclusione,   Grillo, Casaleggio jr,  Di Maio, il nuovo che avanza, celebrano il reddito di cittadinanza. Quanto a Salvini e Meloni, sì alle provvidenze, ma solo ai titolari di  pedigree italiano, roba da veterinari.
Dove si troveranno i soldi?  Che sia il caso di spiegare agli italiani l' impossibilità di  aumentare le pensioni senza aumentare, conseguentemente, le   tasse?   Tra l'altro, già elevate?  Non sia mai. 
Però, a questo punto,  spezzeremmo una lancia per Virginia Raggi. Roma, praticamente,  è senza sindaco da un anno abbondante:  i Cinque Stelle non governano, è  come se in Campidoglio non ci fosse nessuno (turisti a parte...).  Eppure Roma, fin dalle strade, spazzate benissimo, via per via, da micro-imprenditori extracomunitari del pulito,  va avanti lo stesso, puntando sull’individualismo puro, non assistito, dei romani, che per secoli si sono arrangiati da soli. E, naturalmente,  degli immigrati, che hanno subito capito tutto, provando di essere  più liberali di Berlusconi.
Laissez faire, laissez passer. Che sia la ricetta giusta? Governare il meno possibile. Viva i sindaci incapaci.

Carlo Gambescia        


martedì 28 novembre 2017

Fake news
Abbassare i toni, no?




In linea di principio  non esistono  fake news,  esistono  rappresentazioni "mediatiche" delle notizie, rappresentazioni che rinviano a interpretazioni dettate da pre-assunti conoscitivi ideologici e materiali. Semplificando, da pre-giudizi:  dalle idee politiche alle simpatie umane,  dagli interessi economici  ai sociali, eccetera, eccetera.
Si dirà, tra pregiudizi e false  notizie  costruite a tavolino c'è comunque una differenza. Certamente. Tuttavia  la classica  distinzione tra fatti e notizie, spesso giustamente evocata,   rinvia  a una visione etica del  giornalismo, al dover essere delle cose non  al come sono, e perciò sta ai giornali, purtroppo,  come i dieci comandamenti stanno alla società.
Ciò però non significa che sia una distinzione inutile. L’esistenza di  un’idea regolativa (del giornalismo), trasposta in  norme giuridiche e morali,  e la presenza  di un gruppo sociale (i giornalisti)  che se ne fa interprete e garante, sono  due  fenomeni  comuni  a ogni sfera sfociale, dalla politica all'economia, dalla religione alla cultura:  società, istituzioni,  gruppi  si auto-organizzano,   per ragioni funzionali e così garantire un'ordinata (o quasi) prassi sociale.  Regole e organizzazioni mitigano i conflitti. Che comunque non possono essere espunti con colpo di bacchetta magica. Diciamo che è una questione di misura:  di intensità del conflitto che, seguendo le regole dell' escalation,  rischia sempre di  trasformare il pregiudizio, che esiste socialmente a prescindere,  in costruzione e diffusione di false notizie per danneggiare  un avversario tramutato in nemico, talvolta assoluto.  
Sotto quest'ultimo aspetto, il fenomeno delle  fake news, non è nuovo. Chi conosce la storia del giornalismo, sa benissimo  come sia costellata di episodi che illustrano  i tentativi di danneggiare gli avversari politici.   Le false notizie, secondo un celebre studio di Marc Bloch, storico francese, toccano il punto  massimo, nei periodi di alta conflittualità, come le guerre.  
Qual è allora la differenza tra le "classica"  falsa notizia  e le "moderne"  fake news?  Crediamo sia principalmente dettata da tre fattori: 1) il ritorno di una conflittualità politico-sociale, che assomiglia molto a quella bellica; 2) la potenza delle nuove tecnologie mediatiche, che azzera ( o quasi), sul piano veicolare,  ogni distanza tra  gruppi professionali e  il resto della società; 3) il pericoloso dilatarsi, per le ragioni tecnologiche al punto due,  di una credulità di una massa che ha  radici  nel comportamento sociale dell’uomo, contraddistinto, soprattutto a livello di grandi collettività emulative, più  dal credere che dal capire
Esistono rimedi?  Probabilmente, se la politica, che di norma,  e per fortuna,  è fatta da pochi, e che quindi dovrebbe trarre alimento più dal capire che dal credere,  si ponesse il problema di  ridurre i livelli di conflittualità, il “valore”  polemico  delle fake news diminuirebbe immediatamente.  
Invece, oggi,  siamo al punto, che, spesso, le false notizie sono usate, e largamente,  da quella stessa politica,  che dovrebbe “capire”, e perciò tenersi alla larga dalle bufale. Che, mai dimenticarlo, sono armi a doppio taglio: perché le fake news rischiano di  minare insieme  alla credibilità  del diretto avversario politico il buon nome del sistema politico stesso.  Sicché,  il “vincitore”  al gioco "del chi le spari più grosse",  rischia  alla fine di  ritrovarsi  sprofondato tra le macerie…   
Non crediamo però che i divieti possano funzionare.  Anzi su di essi,   i  “facitori”  di fake,  per effetto di trascinamento mediatico,   costruirebbero   subito  la  “falsa notizia” di un "complotto del sistema" contro la libertà,  che rimbalzando da un lato all’altro dell’etere,  minerebbe la residua credibilità delle istituzioni liberali, che sono alla base della libertà di stampa e di opinione.  E perciò anche di quella  del cretino complottista. 

Carlo Gambescia                    

lunedì 27 novembre 2017

 Berlusconi da Fazio 
Rieccolo!


Berlusconi, il vecchio mago  della pioggia,  è tornato. E si dice sicuro di vincere.  Il succo del programma  è semplicissimo: aumentare le pensioni, diminuire le tasse. Evviva il Paese di Bengodi!
Per venire alle cose serie,  il punto  è  che con  la legge elettorale in vigore servirebbe un miracolo. Per quale ragione?  Perché, sulla carta ( torneremo però sul punto),  nessun partito  sembra essere  in grado di conquistare in toto, i 231 seggi, alla Camera e i 101 al Senato,  della quota uninominale (sorta di sotterraneo premio di maggioranza), che sommati a quelli del proporzionale,  potrebbero garantire una maggioranza di governo. 
Abbiamo detto partiti: Pd, Fi, Lega, eccetera. E una coalizione?  Il  centrodestra “coalizzato”, potrebbe  farcela?   In teoria sì.  Ed è su questo che probabilmente conta Berlusconi… 
Dicevamo in teoria però.  Perché?  Per  la semplice ragione che  la vittoria  nell’uninominale impone un patto di ferro: nel senso che all’interno della coalizione, sulla base di patti di desistenza, gli elettori  leghisti dove necessario, dovrebbero votare i candidati forzisti, post-finiani, post-democristiani e viceversa. E questo dal Nord al Sud.
Cosa difficilissima, se non impossibile, da perseguire, perché i rapporti  interni al centrodestra, non sono buoni, dal momento che la Lega di  Salvini intende contendere il primato a Forza Italia, tornata ad essere più Berlusconiana che mai. Da questo punto vista, vanno anche esclusi -  a maggior ragione -   patti di desistenza, per così dire  repubblicani,  con il Pd, per impedire che nei collegi uninominali, vincano  candidati del M5S.  E qui c'è un altro rischio. Quale?  Che l’accesa concorrenza interna al centrodestra (con o senza coalizione) ed esterna con il Pd, partito che, tra l’altro, deve misurarsi a sinistra con avversari esterni ed interni,  finisca per favorire, anche per la quota uninominale,  il M5S.
Purtroppo, il tutti contro tutti,  rischia di  avvantaggiare il movimento pentastellato, che invece si presenta compatto  e con una proposta politica, priva di contenuti, ma dalle forme propagandistiche ben definite  intorno  all’idea-madre dell’antipolitica,  idea  che piace molto agli italiani.
Non comprendiamo perciò come il vecchio mago della pioggia possa ribaltare questa situazione. I suoi  possibili  “alleati”  non intendono  essere superati elettoralmente da FI.  Ciò significa, che se Forza Italia, da sola,  riuscisse  ad arrivare prima (al proporzionale),  non avrebbe i voti (uninominali) per governare: con il venti-venticinque per cento (di più sarebbe irrealistico), non si va nessuna parte. Lo  stesso discorso vale  per le altre forze di centrodestra. La questione, politicamente parlando, è di vita o di morte:  quanto più  Berlusconi accresce il suo peso relativo, tanto più diminuisce il peso delle altre forze di centrodestra e viceversa.  Quindi inevitabilmente, coalizione  o meno, ogni partito di centrodestra cercherà di togliere più voti possibili ai concorrenti:  la gara non è rivolta  tanto al vincere quanto al far perdere  il vicino di casa.   Altro che patti di desistenza.
Il Rosatellum, con il ritorno del proporzionale,  ha reso impossibile,  di “fatto”,  le alleanze,  e al tempo stesso, per quel che riguarda l’uninominale, non favorisce vittorie nette. E, cosa più grave, considerate le gravi divisioni tra le forze moderate (di destra e sinistra), rischia di facilitare,  nell' uninominale,  il movimento  pentastellato, che naviga da solo tra  30/35 per cento. E che così, una volta fatto il pieno di voti  e seggi,  potrebbe tagliare il traguardo per primo. Con tutte le conseguenze del caso…

Carlo Gambescia

venerdì 24 novembre 2017

       Laurea honoris causa per il regista e comico romano
  Verdone erede 
di Alberto Sordi?  





Ieri Carlo Verdone ha ricevuto dall’Università di Tor Vergata la laurea honoris causa in Beni culturali. Auguri.  Va ricordato  che ne aveva già una “vera” in Lettere. Subito però il nostro pensiero è andato ad Alberto Sordi.   E spieghiamo perché.  
Non è sbagliato supporre, come si dice,  che il regista e attore romano sia l’erede di “Albertone”.  Con  una differenza, non da poco, però:  Verdone ha una patina culturale che Sordi non aveva. Patina: qualcosa di superficiale, tra l’orecchiato, nelle frequentazione familiari e successive,  i resti di svogliati studi universitari, comunque condotti a termine, il tutto mescolato  agli idola  di certa  sinistra alto-borghese, cinica senza darlo a vedere, che si riconosce in Gentiloni piuttosto che in Renzi. Insomma,  Verdone non è colto, è istruito. E la  cultura, quella vera,  è  sensibilità e  curiosità.   
In fondo, se si ripercorre l' intera produzione  di Verdone, ci si  trova sempre davanti lo stesso film “sull’imbranato”: cambiano ruoli e professioni, dal prete al sottoproletario, dal professore al marito separato, ma la musica è sempre la stessa. La comicità, di regola,   ha una pericolosa deriva ripetitiva. E il bello, anzi il brutto, è che il pubblico di massa, quello che paga il biglietto,  non se ne accorge.
Il cinema  di Sordi  risulta invece  più ricco, sia del punto di vista dei personaggi, sia da quello delle contraddizioni morali e dei determinismi sociali. Infatti, non tutti i film di e con Sordi   sono piaciuti al cosiddetto largo pubblico.  L’insuccesso al botteghino, dal punto di vista squisitamente artistico,  non sempre è un cattivo segno.  Insomma, i titoli accademici  e l’ambiente non sempre fanno gli uomini. Sordi, senza essere molto istruito, era  sensibile e curioso. Diversamente colto, si potrebbe dire.  Aveva  una finezza artistica  che Verdone non possiede.  Anche se,  va detto, “Albertone” di lauree ad honorem ne ricevette  due, ma a un anno dalla morte...
Diciamo che Verdone risulta sopravvalutato. Vince al box office,  ma   fa sempre lo stesso film. L’uomo non ha neppure grande acume,  altrimenti avrebbe rifiutato di apparire ne La grande bellezza, per recitare la parte di uno scrittore, quando si dice caso,  “imbranato”.  Sorrentino, per dirla alla romana (pardon),  lo ha preso per il culo… Ed è passato (da Hollywood)  all’incasso.  E Verdone, nemmeno  se n'è accorto. Oppure  ha fatto finta, perché gli conveniva l’effetto band-wagon.  Sordi non era un ingenuo, ma ragionava da battitore libero. 
Politicamente "Albertone"  tifava per la balena democristiana e in particolare per  Andreotti: un Richelieu autentico, altro che Gentiloni…  Sordi non aveva simpatie fasciste.  E neppure comuniste. Era un moderato, assai  lontano dal birignao dei salotti di sinistra che fanno ironia sui salotti di sinistra.
Parliamo di un attore  che ha interpretato, da grandissimo protagonista,  il più bel film sull’Otto Settembre, il comenciniano  “Tutti a casa”:  una specie di “Roma città aperta” con attori professionisti e  un occhio antropologico  all’Italia di De Gasperi, quella della rinascita.  Quando  il tenente Innocenzi (Sordi) si mette alla mitragliatrice e inizia a sparare, chi scrive si commuove regolarmente. 
Verdone un film così,  non lo girerà mai.           
                 Carlo Gambescia

giovedì 23 novembre 2017

La  democrazia secondo Antonio Polito
"Chicken run"



Oggi sul “Corriere della Sera”,  Antonio Polito,  con i suoi interrogativi, rappresenta alla perfezione lo stato confusionale in cui versa l’Italia che pensa e  scrive. E ciò che è peggio, senza rendersi conto delle  disastrose  conseguenze di certe  affermazioni (1).
Per un verso,  Polito  enfatizza  la  crisi della democrazia, dando ragione ai populisti, perché  l’ elettore, per come  vanno le cose, vedrebbe regolarmente disattesi i suoi desiderata.  
Per l’altro, si spezza  una lancia in  favore del liberalismo.  Tutto bene, allora? No. Perché Polito guarda  al  liberalismo democraticista,  macro-archico,  “motorizzato” di tradizione europea  più che anglo-americana, dove invece si confida, giustamente,  nel  rule of law, che è altra cosa.   
Polito sottolinea l’importanza di un ritorno allo stato di diritto - al governo delle leggi, insomma -    per impedire  che a governare siano gli uomini, così pieni di difetti.   
Vale la pena  di  richiamare la dotta distinzione tra rule of law e stato di diritto: il primo è un prodotto sociale, spontaneo,  una sorta di liberalismo vivente, frutto dell'interazione tra singoli;  il secondo, politico, qualcosa che scende dall’alto, a colpi di maggioranze statalizzate,  welfarismo  nella migliore delle ipotesi, collettivismo nella peggiore.                               
Polito, come evidente,  punta sul secondo. Tuttavia mettere insieme il diavolo democratico con l’acquasanta liberale dello stato di diritto è impresa assai pericolosa.   Chi fa le leggi ?  Il Parlamento. Giustissimo. Però, con quali procedure? Della regola di maggioranza. Pertanto,  il nobile  comando  della legge, nelle democrazie a suffragio universale,  rinvia al più prosaico comando  di maggioranze politiche, certo, regolarmente elette,  ma politiche. Quindi di parte. In realtà, il vero problema, non è quello della disaffezione dell’elettore. Prima però dobbiamo fare  due precisazioni. 
In primo luogo,  dal punto di vista liberale, il voto non è un dovere, lo è negli stati totalitari ( o in via di divenirlo),  dove c’è il partito unico e vige la regola plebiscitaria. Nelle democrazie liberali, proprio perché tali, il voto  è un diritto, che in nome della libertà di coscienza, diritto ancora più sacro,  può non essere esercitato.    
In secondo luogo,  se tutti votassero, lo stato di diritto, di cui parla Polito, crollerebbe dopo due minuti, per sovraccarico da domanda (politica). E comunque sia, una politicizzazione intensa, rischia sempre di rendere  tutto più difficile, tramutando la lotta politica in conflitto tra fazioni, pronte a contendersi il potere a colpi, anche proibiti, di maggioranze. Politiche. 
Dicevamo  che il vero problema non è la disaffezione dell’elettore, bensì l’immaturità delle classi dirigenti,  troppo democratiche, poco liberali. Con le quali  Polito, con il suo editoriale democraticista,  attesta  di essere in assoluta sintonia.
Non esiste il cittadino perfetto, che vuole partecipare.   In realtà, la partecipazione,  se  e quando c’è, rimane temporanea e parziale. La gente comune, vuole semplicemente vivere la propria vita, prima in condizioni di sicurezza,  poi  di libertà. Quindi il "buon tiranno" democraticista (imposto dalla "sovranità popolare") è sempre in agguato.  
L’immaturità delle classi dirigenti democratiche consiste invece  nell’idealizzazione della democrazia: nel far balenare davanti agli occhi  dell' elettore  il miraggio di  una democrazia perfetta, dove la corrispondenza  tra i desiderata degli elettori e le scelte di  governo sia assoluta. Una cosetta così, facile, facile...       
Non ci si avvede -  o si fa finta -  che proprio perché si ricorre alla regola di maggioranza, una parte dell’elettorato, vedrà sempre disattesi i suoi desiderata.  Di qui come nota Polito, aggiustando il tiro, la necessità dello stato di diritto, delle regole uguali per tutti. Tuttavia, quelle regole sono fissate da uomini contro altri uomini e implementate da uno stato onnipotente che “motorizza” politicamente il diritto, malgrado le carte costituzionali, in cui confida Polito, enfatizzino  il ruolo super partes dei legislatori (deputati e senatori).
Come uscirne? Governare  e legiferare il meno possibile, quindi  promettere il meno possibile: Stato leggero come una piuma. Si deve  lasciare che gli uomini perseguano liberamente i propri interessi. Al riguardo, bastano  a sufficienza  i codici civile e penale. E il Parlamento?  “Ripopolarlo” di liberali veri  e di socialisti riformisti.  Mai promettere la "luna democratica". Poche parole, e quando occorre, molti fatti. Tutto qui.
Più si pigia sul pedale della democrazia, più diventa difficile, se non del tutto impossibile, il  mantenimento delle promesse e la conseguente governabilità del sistema. Per dirla con Jorge Sánchez de Castro (2),  si rischia di precipitare,  se non ci si arresta in tempo,  nel  dirupo, come gli improvvisati  piloti da corsa  di “Gioventù bruciata”,  vittime della  chicken run,  “la corsa dei polli”…          

Carlo Gambescia 



(2) In spagnolo: “El juego  del gallina”.  Si veda la nostra recensione del libro di Sánchez de Castro, El único paraíso es el fiscal (Isabor 2014): http://carlogambesciametapolitics2puntozero.blogspot.it/2015/01/il-libro-della-settimana-jorge-sanchez.html 

mercoledì 22 novembre 2017

Le radici sociologiche delle molestie 
Flusso e riflusso 





La sociologia quella seria -   ovviamente  non l'ancella dei servizi sociali -   cosa può  scorgere di interessante  nella  vicenda delle molestie sessuali? 
In primo luogo,  la persistenza, attraverso le epoche del “residuo sessuale”, non nel senso ( o non solo) della forza riproduttrice, ma dei comportamenti sessuali come forme di interazione del potere sociale (nei termini del rapporto comando-obbedienza tra individui).  Per essere più chiari,   l’ “atto sessuale” non è mai fine a se stesso, ma continua ad essere fonte, nei secoli,  di potere e  controllo sociale, con effetto di ricaduta sulle  forme in cui queste due sfere si strutturano.  Possono cambiare i titolari del potere (uomini o donne), le retoriche o "derivazioni" che ne giustificano l'esistenza,  ma non può mutare il potere degli uni sulle altre (e viceversa).
In secondo luogo,  le forme  di potere e controllo, che discendono  dal residuo sessuale,  vanno ricondotte concettualmente nell'alveo sociologico  del ricatto:  visto come  rinuncia -  dietro compenso (simbolico e/o materiale) -   alla propria libertà in favore dell’altro/a.  Sicché,  dal punto di vista di una antropologia sociologica, totalmente libera dai valori,  il matrimonio  razionalizza il rapporto sessuale, sostituendo, ma solo apparentemente, al ricatto lo scambio preventivo legalizzato. Perché "apparentemente"?  Per la semplice ragione  che, al di là  della  veste formale, siamo dinanzi, nella sostanza, a un  ricatto una tantum, come ben evidenzia quel sottinteso, ma  minaccioso,  "ricorda però, che se mi tradirai, eccetera, eccetera".  Minaccia,  rivolta  a favorire, per costrizione simbolico-formale (con possibili conseguenze materiali),  la  rinuncia reciproca, per quanto formale, alla propria libertà sessuale.
In terzo luogo, nelle società,  dove il matrimonio, non è che una delle forme di  "gestione societaria" dell’atto sessuale, e dove prevalgono i diritti individuali  sui collettivi, il ricatto puro e semplice, torna ad essere strumento di interazione tra i sessi.  Con questo non si vuole dire che il matrimonio sia una specie di ancora di salvezza sociale, ma più semplicemente, come anticipato,  una forma di legalizzazione preventiva del ricatto,  fondato sulla reciproca  rinuncia “volontaria” alla libertà sessuale.  
Pertanto non c’è da meravigliarsi  del ritorno,  in una società fondata sul  culto di un auto-successo pur apportatore di preziose opportunità,  del  ricatto sessuale, anche nei suoi aspetti più brutali.  E neppure ci si deve stupire del fatto che i rapporti di forza tra i soggetti del potere sociale siano inevitabilmente ricondotti, confondendo i piani di lettura,   a  pre-assunti culturali, tipici del nostro tempo, sul potere maschile, femminile, o paritario: conflitti valoriali, verbali, talvolta addirittura linguistici,  dai quali l'analista sociale non deve farsi distogliere.  Dal momento che il sociologo  non può ignorare  che dove la legalizzazione dello scambio sessuale non assolve il suo ruolo,  il residuo sessuale  torna a esprimersi, ripetiamo, attraverso la forma, pura e semplice,  del  ricatto. E cosa ancora più importante,  prescindendo dai contenuti maschili e/o femminili che caratterizzano  il controllo sociale-culturale. 
Non è un regresso né un progresso, ma soltanto l' alternarsi delle due  forme principali,  una vestita (la legalizzazione del ricatto), l’altra nuda (il  ricatto):  forme, ripetiamo,  attraverso le quali  si manifesta il residuo sessuale. Al massimo, si potrebbe parlare, come per altri fenomeni sociali,  di un andamento ciclico, distinto dal  flusso della legalizzazione del potere di ricatto e dal  riflusso del  puro ricatto. Semplificando:  dal matrimonio romantico, benedetto dallo stato e/o dalla chiesa al rapimento e stupro. E così via, secondo un ritmo  ondulatorio.
Certo,  sul piano dei contenuti (non delle forme),  non è sbagliato parlare, quanto ai titolari del potere, di un  fenomeno a  prevalenza maschile.  Tuttavia, tornando sul piano teorico  e storico - poiché nessuno possiede il segreto della storia  circa i futuri  avvicendamenti del potere tra uomini e donne - nulla può  escludere la possibilità di comportamenti analoghi  ( nelle forme non  nei  contenuti),  dal punto di vista di un  potere femminile stabilizzato, come del resto confermano i classici  della ricerca etnologica sulle società matriarcali (Bachofen, ad esempio).
Ciò significa,  che tutto il resto -  pensiamo alla  retorica moralistica dei mass media e dei social  -  è puro “arredamento etico”, legato allo spirito del tempo: la vera sostanza della questione  è che i rapporti sociali, dal piano individuale al collettivo,   non ammettono  vuoti di  potere (degli uni sulle altre e viceversa).  Insomma, il potere, a prescindere da chi lo eserciti (uomo o donna) si ricostituisce sempre,  anche  nelle  forme di manifestazione del  residuo sessuale (*).


martedì 21 novembre 2017

  Gli errori dei moderati, economia e immigrazione
L’ elettore-bambino-viziato



L’economia tedesca va a gonfie vele,  eppure la Merkel, non ha vinto le elezioni e  non riesce a formare il suo governo  “giamaicano”. L’economia spagnola va anche meglio di quella tedesca, Rajoy, sul piano della moderazione politica da i punti alla Merkel,  eppure i catalani se ne vogliono andare, evocando la  repressione franchista. L’economia francese e italiana, non vanno bene, come la tedesca e spagnola, anche se mostrano segni di notevole ripresa, eppure Macron e Gentiloni, sono contestati dalla destra e dalla sinistra estreme. per contro,  in Italia, i Cinque Stelle, che tutto sono eccetto che moderati, potrebbero vincere le prossime elezioni, portando  il paese allo sfascio.
Si dice  che gli elettori non votino perché stanchi  della corruzione politica “percepita”, come evoca  certa sociologia mediatica a buon mercato. E che, inoltre, l’ “elettore medio”,  tema soprattutto la “calata finale”  degli immigrati.  Di qui,  la scelta politica xenofoba, che moderata non è.
Ad esempio, la famigerata Brexit,  si è giocata tutta, intorno al voto pro Brexit di alcune aree rurali o non urbane,  dove si temeva non tanto la presenza degli immigrati, praticamente bassissima o inesistente, ma il loro eventuale arrivo, “imposto dall’Europa”. 
Insomma,  come vedremo,  puro egoismo, molto infantile,   non verso  qualcosa che si è perduto, ma nei riguardi  di ciò  che si potrebbe perdere, in termini di diritti sociali,  da “condividere” con gli immigrati, come ripetono incessantemente Chiese e sinistra: un mantra umanitario che provoca inevitabili  reazioni xenofobe anche in Italia.  Al riguardo, appare esemplare  il titolo di apertura, di oggi, decisamente   razzista,  del quotidiano “ La Verità”.  
Una questione, quella dell’immigrazione, sulla quale pesa anche l’ombra del terrorismo, pericolo ingrandito  dalla stampa di destra  e minimizzato  da quella di sinistra e del mondo cattolico. Purtroppo, nonostante le strumentalizzazioni il rischio  di "contaminazioni" e  attentati, per giunta a basso costo,  esiste. 
Sembra che gli elettori tedeschi non abbiano apprezzato la politica permissiva della Merkel. Per contro in Italia la sinistra, inclusa quella riformista, quindi moderata, vuole fare dello  ius soli una battaglia di principio, addirittura  prima delle prossime  elezioni.  Il che sarebbe un grave errore,  perché  non è il momento.  In realtà, un vero leader moderato, dovrebbe capire quando  deve giocare di anticipo,  che, si badi,  non significa rincorrere l’avversario, sparandole ancora più grosse, ma più semplicemente, recepire, nei modi dovuti, felpati se possibile, le istanze più pericolose degli avversari,  per “sgonfiarle” dall’interno,  usando   quel tanto di fermezza che la situazione impone: sempre, senza enfasi, ma con giudizio, blandendo, mitigando,  senza mai perdere  di vista lo scopo.  La politica dell’Italia in Libia  e quella di Minniti verso  gli sbarchi  (“il traffico di essere umani”: quel che interessa è la cosa non il nome), sta andando in questa direzione. Meno, le prese di posizione in favore  dello  stesso Ministro nei riguardi dello ius soli: concessione,  ora, inopportuna, elettoralmente inopportuna.  Purtroppo,  il “ popolo sovrano” così è.  Non  si può rompere la testa dell’ “elettore medio” per infilare dentro il manuale del cittadino perfetto. Quindi bisogna adeguarsi, come il sarto che deve cucire l'abito per un gobbo.   
“Socchiudere” (non “sbattere” in faccia),  ora, la porta agli immigrati,  lasciando che,  prima,  la ripresa economica faccia il suo corso (magari  senza porre eccessivi ostacoli fiscali),  significa poter  schiuderla,   dopo,  impiegando gli immigrati, in lavori veri,  come impone la  legge dell’offerta della domanda. E non, come rischia di accadere ora,  facendo loro svolgere lavori socialmente inutili, o peggio lasciandoli ciondolare, mendicare, delinquere. Purtroppo, l'evocazione mediatica dell' immigrazione selvaggia (al di fuori delle leggi di mercato),  come di  un fenomeno monsonico, al quale dobbiamo rassegnarci,  viene percepita, piaccia o meno,  dall’elettore-bambino-viziato come una crescente area di incertezza  che va sviluppandosi  intorno alla fondamentale questione, per lui, "del  pochi giocattoli per tutti".     
Sicché, a causa della complice insipienza dei moderati, di destra e di sinistra, come  Rajoy,  Merkel, Macron, Gentiloni,  gli elettori viziati,  sentendosi comunque in pericolo,  continueranno a fare i capricci come i bambini, che, ancora prima di essere accompagnati  al parco, sul pianerottolo di casa,  gridano, piangendo e strepitando,  di  non voler dividere i propri  giocattoli con cuginetti e amichetti. Come?  Non votando o votando  per quelle forze  anti-sistema che promettono,  velatamente o meno ( in base all'enfatizzazione degli accenti xenofobi),  "giocattolini" solo ai bimbi italiani.  La metafora non è un granché, ma crediamo calzi. E indica il vicolo cieco in cui ci siamo infilati.
In realtà poi, come giustamente sostiene un grande economista,   nessun giocattolo è gratis.  Anche per i bimbi italiani.  Bisogna guadagnarselo. Ma questa è un’altra storia…  

Carlo Gambescia       

lunedì 20 novembre 2017

Arma dei Carabinieri (*)
Nucleo di Polizia Giudiziaria di [omissis]
VERBALE DI INTERCETTAZIONE DI CONVERSAZIONI O COMUNICAZIONI
(ex artt. 266,267 e 268 C.P.P.)
L'anno 2017, lunedì 20 novembre, in [omissis] presso la sala ascolto sita al 6o piano
della locale Procura della Repubblica, viene redatto il presente atto.
VERBALIZZANTE
M.O Osvaldo Spengler
FATTO

Nel corso dell'attività tecnica di monitoraggio ambientale svolta nell'ambito della procedura riservata n. 666/2, autorizzazione CONCISTORO DEGLI INCAPPUCCIATI 7932/3a [Operazione “GRANDE INQUISITORE” N.d.V.] è stato effettuata in data 19/11/2017, ore 11.54, la registrazione delle seguenti conversazioni, tenutesi presso il Cimitero del Verano (Roma).
[omissis]

MORTO UNO: “Sono un po’ stanco.”
MORTO DUE: “Dormito male?”
MORTO UNO: “Dormito?”
MORTO DUE: “Be’, insomma, hai capito.”
MORTO UNO: “Sì, ho passato una notte agitata, c’è questo che continua a parlare, parlare, parlare…”
MORTO DUE: “Chi?”
MORTO TRE: “Io. [a MORTO UNO] Mi dispiace, scusi se l’ho disturbata.”
MORTO UNO: “Non fa niente, non devo alzarmi presto.”
MORTO TRE: “Perché non mi ha detto niente?”
MORTO UNO: “Curiosità. Cercavo di capire che cosa stesse dicendo.”
MORTO TRE: “Pregavo.”
MORTO UNO [pausa]: “Ah sì?”
MORTO TRE: “Sì.”
MORTO UNO [lunga pausa]: “Eee…se non sono indiscreto, in che lingua pregava? Non ho capito una parola.”
MORTO TRE: “Nella mia.”
MORTO UNO: “Ah, lei non è italiano?”
MORTO TRE: “No.”
MORTO UNO: “Però. Parla molto bene la nostra lingua.”
MORTO TRE: “Grazie.”
MORTO UNO [pausa] “E che Dio pregava?”
MORTO TRE: “Il mio.”
MORTO UNO: “Ah. Ce n’è più di uno?”
MORTO TRE: “No.”
MORTO UNO: “Quindi…quindi lei pregava anche il mio Dio.”
MORTO TRE: “No.”
MORTO UNO “Come no?! Se c’è un Dio solo, allora…”
MORTO TRE: “C’è un solo Dio, ma non è il suo, è il mio.”
MORTO UNO: “Be’ ma questa poi…e perché non sarebbe il mio?”
MORTO TRE: “Lei Lo prega?”
MORTO UNO: “No.”
MORTO TRE: “Infatti non l’ho mai sentita pregare. Come volevasi dimostrare: lei un suo Dio non ce l’ha, e dunque non posso pregarlo.”
MORTO UNO [lunga pausa] : “Sa che le dico? Faccio anche senza.”
MORTO TRE: “Contento lei.”
MORTO UNO: “Morto io, morto lei, che differenza c’è con Dio o senza?”
MORTO TRE: “C’è la differenza, eccome se c’è.”
MORTO UNO [pausa] : “Sarebbe?”
MORTO TRE: “Gliela spiegherei volentieri, ma purtroppo devo uscire. Mi stia bene.”
MORTO UNO [ride]: “Buona questa, sa che lei è spiritoso? Da dove viene lei?
[lunga pausa]
                               Scusi? [pausa] Mi sente? [lunga pausa] Ehi! Lei!
MORTO DUE [a MORTO UNO] :“Be’, che mi dici della nazionale?”
MORTO UNO [a MORTO DUE]: “Eh?”
MORTO DUE [a MORTO UNO] :“La nazionale.”
MORTO UNO [a MORTO DUE]: “Non l’hai sentito questo? Ha detto ‘purtroppo devo uscire’.”
MORTO DUE [a MORTO UNO]: “E allora?”
MORTO UNO [a MORTO DUE]: “Non lo si sente più, e se fosse uscito per davvero? Ti rendi conto?”
MORTO DUE [a MORTO UNO]: “Se è uscito buon viaggio. Pensiamo alle cose serie: la nazionale?”


Letto, confermato e sottoscritto
L’UFFICIALE DI P.G.
M.Osvaldo Spengler



venerdì 17 novembre 2017

 Le vedove mediatiche di Totò Riina  
To be continued...



Al  “Fatto” di oggi  quasi quasi dispiace che Totò Riina sia morto (o sul punto di morire). E allora cosa si inventa  per accontentare gli affezionati lettori?  Quelli che senza una puntata  del più grande serial  politico-criminale italiano non riescono a iniziare la giornata?  Che la Mafia è in riunione per eleggere il successore. Elementare, Dottor Travaglio, elementare...
Dove prenda “il Fatto” certe informazioni, non sappiamo. Ci vorrebbe uno specialista in neuro-mafia (come per la neuro-economia). Di sicuro però, il  dispiacere per la dipartita del mafioso n. 1, attenzione da 24 anni in carcere (e questa, in un paese normale,  dovrebbe essere la buona notizia),  spezza il cuore, di larga parte della stampa italiana e di quegli opinionisti  abituati a vivere,  anche benino, sul “romanzo mafia”.
Ciò  non significa che la mafia, quella vera,   non esista, ci mancherebbe altro. Quel che si vuol dire  è che la Mafia ha assunto in Italia la funzione simbolica  svolta da  Satana e accoliti  nella teologia cristiana medievale: una  reductio ad mafium (pardon), cui si accompagna,  nel comiziante di turno, l’espressione accigliata, perché ci si ostina a non scoperchiare la famosa cupola che sarebbe a Roma. E che  di regola, quando si dice il caso,   coincide sul piano politico-umano,  con tutti coloro  che non sono di sinistra:  se un politico  è di destra, o peggio un conservatore,  secondo la vulgata dei professionisti dell’antimafia,  maleodora inevitabilmente di  “Cosa Nostra”. "Concorre, ambientalmente",  a prescindere...
Figurarsi quindi come la morte di Totò-Astaroth  abbia  gettato nello sconforto totale il “Club dell’indagate a Roma”:  Riina avrebbe dovuto vivere 2000 anni, per pentirsi, e svelare i segreti del fantomatico palazzo romano.   Che,  a forza di  identificarlo, senza un cazzo di prova (pardon), con Montecitorio,  ha portato i pentastellati  in Parlamento e Di Maio in viaggio di nozze a Washington. Naturalmente le vedove di Riina, tipo “il Fatto” e compagnia (di sinistra) cantante,  potrebbero rifarsi a breve. Come?  Se il centrodestra vincesse le prossime elezioni,  sarebbe assai facile rispolverare tutti gli stereotipi e individuare tra  gli eredi politici  di Berlusconi  i personaggi secondari  per un atteso e avvincente spin-off.
Sembra già di sentirli i ragazzi del coro: “Riforma delle pensioni? Mafia!”; “Riforma del lavoro? Mafia!”; Riforma dello ius soli (se approvato)? Mafia!”; “Riduzione delle tasse? Mafia”. E così via. fino ai brutti voti a scuola...  Mafia, anche quelli.
Riina è morto.  Arrivederci a  primavera.  To be continued...

Carlo Gambescia       
                  

giovedì 16 novembre 2017

   "Accordo sul clima"
      Cara signora Merkel, 
perché non darsi all'astrologia? 
                


“Quella del clima è una sfida centrale per il mondo, una questione di destino dell'umanità”. Così  Angela Merkel  alla conferenza mondiale del clima dell'Onu.  Di più:  “Il nostro messaggio è che noi vogliamo proteggere il pianeta”.
Se non fosse una cosa seria  - non la  "socio-climatologia"  ma le dichiarazioni della  signora Merkel -  non sarebbe necessario alcun commento.   Ma  qual è il lato serio, se non tragico,  racchiuso in una dichiarazione del genere? La risposta non è facile, perché rinvia almeno a due livelli socio-cognitivi che riguardano la rappresentazione collettiva denominata  "questione climatica". 

Il controllo sociale  della paura
Da un lato, abbiamo  la forza sociale, in sé, delle rappresentazioni collettive,  né vere né false (comunque sia, scientificamente non  provate), che, nonostante ciò  finiscono per influenzare le decisioni politiche sotto la pressione dei  fenomeni di folla, segnati dal contagio psichico, prodotto da stereotipi collettivi. 
Dall’altro, si evidenzia  l’uso strumentale che viene fatto dalle stesse rappresentazioni collettive,  dal punto di vista dell’agenda politica, che  ne capta i contenuti in chiave legislativa, pur di trasformare in consensi e soprattutto voti, una questione, come quella del clima,  scientificamente indeterminata, ma auto-rappresentata collettivamente  come fonte di pericoli per l’umanità.
Questi due fenomeni, della paura (irrazionale)  dal basso,  e del controllo (pseudo-razionale) dall’alto, rischiano però di rafforzarsi vicendevolmente. Come?  Avviando un meccanismo a spirale, dai  pericolosi risvolti totalitari (in prospettiva), dei controlli, delle burocrazie, delle tasse, masochisticamente, accettate dal “popolo sovrano”, per pura paura, come un tempo si evocavano, sempre a livello di auto-rappresentazioni collettive, le punizioni divine. 

Dinamiche sociologiche, non complotti
Ovviamente,  non c'è alcun complotto, siamo davanti a dinamiche sociologiche, innescate dalla pretesa costruttivista di rispondere a una questione promossa "sul campo",  come  "sociale",   nel caso  quella climatica.
Un fenomeno, quello del clima, che dal punto di vista della logica induttiva, statistica, rinvia inevitabilmente a  una base osservativa ristrettissima: i dati numerici, non narrativi, sulle variazioni climatiche sono temporalmente limitati rispetto all’intera storia dell’umanità.  Il  che  non permette alcuna previsione, se non in chiave di modelli matematici, quindi deduttivi, astratti, di scenario, ulteriormente semplificati dai media (come nella foto sopra);  modelli, privi di affidabilità,  perché possono  mutare, per così dire, in base all’impostazione di un algoritmo.  Per dirla, con il grande Pirandello: “Così è (se vi pare)”. 
Certo, si può fare, per così dire, la media della media, ma sempre  non discostandosi da quella base osservativa ristretta, che rispecchia, nella migliore delle ipotesi (ossia depurata da inflessioni ideologiche), il presente.  Una dimensione temporale,  che potrebbe cambiare, proprio perché tale, prendendo direzioni imprevedibili (a prescindere dalla loro positività o negatività) e quindi non facilmente “controllabile” dall’alto, come  presuntuosamente auspica la signora Merkel. 

Costruttivisti e digressione
Ecco perché abbiamo parlato di risposte politiche pseudo-razionali. Non si può controllare tutto. Come invece auspicano i costruttivisti sociali: fascisti, comunisti, socialisti, ecologisti, eccetera. Coloro che si impongono di costruire e ricostruire le società a tavolino.  Questo tipo di logica deduttivista-induttivista  può essere esteso alla cosiddetta sociografia, che a differenza della sociologia che si occupa delle forme sociali costanti, si è trasformata in ancella del welfare state, pretendendo di studiare contenuti sociali, sempre variabili, sulla base di indici statistici di scenario, priva di qualsiasi consistenza reale.  E il peggio è che sulla base di queste inconsistenti categorie statistiche, si varano misure e leggi  che restringono la libertà dei cittadini.
Piccola digressione: un amico Stefano Borselli, tempo fa,  mi chiedeva di interpretare alcuni dati statistici, da lui estrapolati,  sulla  cosiddetta crisi del ceto medio.  Ora, il vero punto è che  basta inserire in un' indagine empirica una  piccola variazione reddituale, per favorire un' interpretazione ottimista o pessimista del fenomeno. Come uscire dall'impasse? Si potrebbe  lavorare  non tanto sui redditi (contenuti, trasformati in cifre, sempre variabili),  ma sugli stili di vita (forme, che invece hanno lunga durata), che, quando si dice il caso,  attestano che il ceto medio invece di sgretolarsi,  vive e lotta insieme a noi.  Fermo restando,  che gli "stili di vita" andrebbero poi  in qualche modo quantificati...  Insomma, trasformati in quantità, sempre  a rischio di manipolazione.  

Molto meglio l'astrologia
Concludendo, paradossalmente, rispetto alla sociografia, anche climatica, rischia di essere più coerente, l’astrologia, alle cui basi vi sono “tipi” (i segni), ovviamente inventati, ma che implicano, la ripetizione, al loro interno. In qualche misura,  l’astrologia è un sapere "rigorosamente" deduttivo, che non oscilla, come  certa climatologia “ambientalista” tra deduttivismo matematico (su basi modellistiche) e  induttivismo statistico (su basi ristrette).
Insomma, si scherza con il  fuoco sociale.  Anche la  signora Merkel,  come il famigerato  apprendista stregone, rischia di assecondare  forze collettive,  totalmente irrazionali,  ben più pericolose di quelle delle natura. Forse farebbe figura migliore se si dedicasse  all'astrologia...  

Carlo Gambescia                      

mercoledì 15 novembre 2017

Pil, il dato tendenziale, pari al +1,8%, risulta il più alto dal secondo trimestre del 2011, ovvero da oltre sei anni
Per fortuna che l’Italia va




Finalmente una bella notizia. Secondo l’Istat,  il Pil  italiano risulta, tendenzialmente, il più alto dal 2011. E i partiti che fanno? Soprattutto quelli di opposizione?  Criticano.  Naturalmente, per un verso fanno il loro mestiere, per l’altro, però,  non capiscono, in particolare il centrodestra, che si dichiara liberale, che l’Italia va avanti,  nonostante, una specie di guerra civile permanente, dove tutti - gli uni contro gli altri -  hanno qualcosa da recriminare o reclamare in nome del "popolo sovrano". 
Per una forza (quasi) misteriosa che si chiama libero mercato,  gli istinti animali  del  capitalismo italiano tornano a  rispondere:  dagli acciai speciali al lusso, dalla ristorazione al turismo e viaggi. Tradotto: la globalizzazione chiama, l’Italia risponde, taratatà... Si guardino i dati del commercio estero, rafforzati, nessuno lo nega,  dalla  ripresa della domanda interna.
In questo quadro positivo, la “Letterina” Ue, non va respinta in nome del nazionalismo economico, bensì recepita come un intelligente  monito.  Di che tipo?   Presto detto: quello di  non causare il raffreddamento della ripresa economica, puntando sulla spesa pubblica, per accontentare statali e sindacato:  la base elettorale del Pd, che però fa gola al  centrodestra e al movimento  pentastellato.
Ovviamente, poiché siamo in fase pre-elettorale, la spesa pubblica sembra necessariamente destinata ad aumentare, per poi però ridursi, altrettanto inevitabilmente, subito dopo le elezioni, come del  resto attestano gli studi sul ciclo elettorale. Pertanto, i  "caporioni"  della  Ue dovrebbero provare,  a loro volta,  di possedere  il buon senso di capire che sotto elezioni,  a meno  che non si vogliano far vincere i populisti, qualche strappo  alla spesa pubblica va tollerato. Salvo poi "rientrare". E doverosamente, Ue o non Ue.
Certo, l’Italia, a differenza di altri  paesi europei, ha tradizioni di finanza allegra. La vecchia Democrazia Cristiana era maestra negli  elargimenti pubblici a scopo elettorale. Come oggi  fa il centrodestra, Ma anche il Partito Democratico, in qualche misura, prosegue sul solco tracciato all'epoca dal Partito Comunista  e difeso con la spada  dal Partito Socialista. Quale? Dell’accontentare i propri elettori con  regalini elettorali: uno scatto per questi, una riduzione per quelli, e così via... 
Resta però il fatto che l’Italia, nonostante tutto,  andava,  va, e andrà, taratatà...
Il segreto come accennato è nell’internazionalizzazione dei mercati, che in ultima istanza, dopo il 1945, ha  permesso  allo Stivale di agganciarsi, ogni volta,  al trend positivo dell’economia mondiale. Certo, vale anche la regola contraria: del contraccolpo negativo.
Se però i cinesi hanno capito che il rischio di  mercato è  bello,  non si capisce perché, solo in Italia, ogni volta, al minimo accenno di crisi di economica, si ritiri fuori Marx e compagnia (funebre) cantante.  Sicché,  l' altro dato importante, anzi fondamentale,  di cui i piagnoni  non fanno cenno, è rappresentato  dalla ripresa, non da oggi, dell'economia  mondiale.  Un fatto, che  spiega la ripartenza, per rimbalzo, dell’economia  aperta italiana. Naturalmente, ci si può sempre chiudere in casa, buttare la chiave e marciare tutto il giorno. A stomaco vuoto. Di regola, il digiuno aiuta la mistica: dalla religiosa alla nazionalista...
Concludendo, per parafrasare il grande Marinetti, " Avanti autocarri!".  Insomma,  ottimismo. Perché farsi male da soli? 

Carlo Gambescia      

                 

martedì 14 novembre 2017

Arma dei Carabinieri (*)
Nucleo di Polizia Giudiziaria di [omissis]
VERBALE DI INTERCETTAZIONE DI CONVERSAZIONI O COMUNICAZIONI
(ex artt. 266,267 e 268 C.P.P.)
L'anno 2017, martedì 14 novembre, in [omissis] presso la sala ascolto sita al 6o piano
della locale Procura della Repubblica, viene redatto il presente atto.
VERBALIZZANTE
M.O Osvaldo Spengler
FATTO
Nel corso dell'attività tecnica di monitoraggio svolta nell'ambito della procedura riservata n. della procedura riservata n. 945/3, autorizzazione NATO n. 219/2a [Operazione “FOLLOW UP” , N.d.V.] è stata intercettata in data 13/11/2017, ore 16,25 la seguente conversazione telefonica tra le utenze 333.***, intestata a FINZI MATTIA, SEGRETARIO DEL PARTITO DEMOCRATICO e 386***, intestata a MISTELLA CLEMENTINO, SINDACO DI MALEVENTUM. Si riporta di seguito la trascrizione integrale della conversazione summenzionata:
[omissis]

MISTELLA CLEMENTINO: “Buongiorno, Mattia. Hai voglia di fare due chiacchiere?”
FINZI MATTIA: “Ho voglia di sapere chi sei.”
MISTELLA CLEMENTINO: “Sono Mistella, Mattia.”
FINZI MATTIA: “Clementino? Clementino Mistella?”
MISTELLA CLEMENTINO: “In persona. Mistella il maneggione democristiano, Mistella l’artista della clientela, Mistella il redivivo.”
FINZI MATTIA: “Allora sì, ho voglia di fare due chiacchiere. Non ci siamo incontrati mai, ma mi interessi.”
MISTELLA CLEMENTINO: “Mi interessi anche tu, Mattia. Ti ho seguito molto, in questi anni.”
FINZI MATTIA: “Ah sì?”
MISTELLA CLEMENTINO: “Sì. Da un canto non avevo niente da fare, dall’altro tu mi piaci. Mi piaci perché sei un ragazzo modesto.”
FINZI MATTIA [ride]: “Modesto io?! Grazie, ma lo pensi solo tu.”
MISTELLA CLEMENTINO: “Lo penso solo io perché gli altri non capiscono una minchia, scusa il francesismo. Tu sei un ragazzo modesto, perché sai di non essere perfetto, impeccabile, superiore. Sei come sei, e lo sai.”
FINZI MATTIA [pausa]: “E come sono?”
MISTELLA CLEMENTINO: “Sei Pinocchio, Mattia, e quindi al tuo livello, sei forse l’ultimo politico veramente italiano che ci sia in Italia. Il penultimo, va’. C’è anche Silvano Bernasconi.”
FINZI MATTIA: “Pinocchio…perché no…”
MISTELLA CLEMENTINO: “Pinocchio, Pinocchio. Però così non ce la fai, a diventare un bambino in carne ed ossa. Lo sai che queste elezioni le perderai, vero?”
FINZI MATTIA: “Lo dici tu.”
MISTELLA CLEMENTINO: “Lo sai, lo sai. E dopo? Dopo cosa farai?”
FINZI MATTIA: “Se perderò continuerò a combattere. Tu mi dovresti capire, no? Sei rimasto nove anni in castigo e non hai mollato.”
MISTELLA CLEMENTINO: “Infatti ti capisco benissimo. Ma vedi: un modo per trasformare la sconfitta in vittoria c’è.”
FINZI MATTIA: “Sarebbe?”
MISTELLA CLEMENTINO: “Finire quel che hai cominciato, Mattia. Rottamare il PD.”
FINZI MATTIA: “E senza un partito dove vado, scusa?”
MISTELLA CLEMENTINO: “Perché, con quel partito dove vai? Cos’è il PD, Mattia? Hanno messo insieme le due parti più stupide della DC e del PCI, e l’hanno chiamato Partito Democratico, che non vuol dire niente perché non siamo in America. Prova a mettere insieme le due parti più intelligenti della DC e del PCI, e poi ne riparliamo. Tutta un’altra musica.”
 FINZI MATTIA: “E quali sarebbero le due parti più intelligenti della DC e del PCI, secondo te?”
MISTELLA CLEMENTINO: “Le parti modeste, Mattia. Le parti che sanno di non essere perfette, impeccabili, superiori. Le parti che sanno di essere italiane. Italiane, bugiarde e simpatiche, come Pinocchio, come te.”
FINZI MATTIA: “Cioè mi dovrei mettere con te?”
MISTELLA CLEMENTINO: “No: sono io che mi devo mettere con te. Silvano ha 81 anni, Mattia, c’è un limite a tutto, anche a lui.”
FINZI MATTIA: “E una volta che ci siamo messi insieme cosa facciamo, Clementino?”
MISTELLA CLEMENTINO: “Il meno possibile, Mattia. Soprattutto, niente zelo. L’Italia è fragile, molto fragile. Noi siamo l’imballaggio, ecco. Maneggiare con cura.”
FINZI MATTIA [pausa]: “Tutto qua?”
MISTELLA CLEMENTINO: “Tutto qua. E’ un programma modesto, lo so. Vedi: se Pinocchio cade, non si rompe; se si brucia i piedi, Geppetto gliene fa di nuovi. Ma quando il burattino si trasforma in ragazzo…”
FINZI MATTIA: “E come lo chiameresti questo imballaggio?”
MISTELLA CLEMENTINO: “Italia democratica.”
FINZI MATTIA: “Senza cristiana?”
MISTELLA CLEMENTINO: “Neanche Dio è più cristiano, lo dice il Papa. Ti piace? Hai colto l’allusione?”
FINZI MATTIA: “Sì, mi piace la cucina fusion. Vediamoci a pranzo, uno di questi giorni.”
MISTELLA CLEMENTINO: “Offri tu.”
FINZI MATTIA: “Facciamo alla romana.”
MISTELLA CLEMENTINO: “Parole sagge, Mattia, parole sagge.”
Letto, confermato e sottoscritto

L’UFFICIALE DI P.G.
M.Osvaldo Spengler

(*) "Trattasi" -   tanto per non cambiare stile,  quello  della  Benemerita...  -   di ricostruzioni che sono  frutto della mia  fantasia di  autore e commediografo.  Qualsiasi riferimento  a fatti o persone  reali  deve ritenersi puramente casuale. (Roberto Buffagni)


Chi è il  Maresciallo Osvaldo Spengler?  Nato a Guardiagrele (CH) il 29 maggio 1948 da famiglia di antiche origini sassoni (carbonai di Blankenburg am Harz emigrati nelle foreste abruzzesi per sfuggire agli orrori della Guerra dei Trent’anni), manifestò sin dall’infanzia intelletto vivace e carattere riservato, forse un po’ rigido, chiuso, pessimista. Il padre, impiegato postale, lo avviò agli studi ginnasiali, nella speranza che Osvaldo conseguisse, primo della sua famiglia, la laurea di dottore in legge. Ma pur frequentando con profitto il Liceo Classico di Chieti “Asinio Pollione”, al conseguimento della maturità con il voto di 60/60, Osvaldo si rifiutò recisamente di proseguire gli studi, e si arruolò invece, con delusione e sgomento della famiglia, nell’Arma dei Carabinieri. Unica ragione da lui addotta: “Non mi piace far chiacchiere .” (Com’è noto, il carabiniere è “uso a obbedir tacendo”). Mise a frutto le sue doti di acuto osservatore dell’uomo in alcune indagini rimaste celebri (una per tutte: l’arresto dell’inafferrabile Pino Lenticchi, “il Bel Mitraglia”). Coinvolto nelle indagini su “Tangentopoli”, perseguì con cocciutaggine una linea d’indagine personalissima ed eterodossa che lo mise in contrasto con i magistrati inquirenti. Invitato a chiedere il trasferimento ad altra mansione, sorprese i superiori proponendosi per la sala ascolto della Procura di ***. Richiesto del perché, rispose testualmente: “Almeno qui le chiacchiere le fanno gli altri.”
***

Roberto Buffagni è un autore teatrale. Il suo ultimo lavoro, attualmente in tournée, è Sorelle d’Italia – Avanspettacolo fondamentalista, musiche di Alessandro Nidi, regia di Cristina Pezzoli, con Veronica Pivetti e Isa Danieli. Come si vede anche dal titolo di questo spettacolo, ha un po’ la fissa del Risorgimento, dell’Italia… insomma, dell’oggettistica vintage...

mercoledì 8 novembre 2017

  Dopo la sconfitta in Sicilia
Il tramonto di Renzi




Ieri sera  in tv Renzi  non è apparso al suo meglio. La batosta siciliana  ha avuto il suo peso. E anche la possibilità, non così  remota,  di un tramonto politico, almeno per ora, dopo solo un quinquennio,  per giunta vissuto pericolosamente.
In realtà, se si vuole discutere sul serio di politica, il vero problema da indagare  resta  un altro:  quanto l’ex premier  abbia creduto nel progetto iniziale di  trasformare il Pd non tanto in una sinistra moderna e normale, idea condivisa anche dai suoi avversari ( Il D’Alema 1998, quando era al governo, diceva le stesse cose del  Renzi  2014),  quanto nella possibilità di ricompattare il Pd intorno a un’idea maggioritaria della dialettica politica destra-sinistra.
La differenza -  se si vuole il capitale iniziale, poi svanito o quasi  -  tra Renzi e i suoi avversari di sinistra verteva  su una importante questione  di  “struttura”.  Ci spieghiamo meglio: tra l’idea renziana di un Pd, forte e compatto, maggioritario, capace di inglobare al suo interno, il centro e la sinistra e l’idea dei suoi oppositori di un’alleanza ulivista, debole e divisa, magari anche vincente, ma poi incapace di governare  mettendo d'accordo tutte le  componenti partitiche. 
Sicché, opponendosi al  disegno unitario renziano,  per ora vittoriosamente, i suoi oppositori, una volta conquistato il partito, rischiano di ritrovarsi  tra le mani una scatola vuota. Con  un' inevitabile corollario nei contenuti politici. Quale? Che,  pur di sopravvivere,  non potranno non  inseguire, giocando al rialzo, il populismo grillino.  E se le cose dovessero andare così, perché  gli ex elettori di sinistra, dovrebbero votare D’Alema, Bersani e Franceschini? Molto meglio l’originale.
Naturalmente Renzi ha commesso  errori, strategici e tattici,  a cominciare da quello gravissimo della personalizzazione, che per un verso poteva  aiutare,  ma per l’altro rischiava, come poi è stato, di tramutarlo in capo espiatorio, consentendo  agli orfani dell’antiberlusconismo di coalizzarsi di nuovo, ma contro di lui. 
Tra gli errori  tattici vanno ricordati,  in primo luogo, il  non essere andato subito al voto dopo la sconfitta referendaria, dimettendosi, ma  "infilando"  moralmente gli avversari di contropiede.
In secondo luogo,  il non aver puntato  su una legge maggioritaria, stroncando le illusioni dei suoi oppositori ulivisti,  proporzionalisti e coalizionisti.  Purtroppo ha  pesato, stando a chi lo conosce bene,  il suo  temperamento femmineo, dai tratti talvolta isterici,  viziato da un egocentrismo, spesso irrefrenabile, che inevitabilmente ha influito sul piano  politico-organizzativo: non è mai bene circondarsi di yes-man, tesi ad appagare il bisogno di apparire a ogni costo "del capo".
Nonché, in terzo luogo, va ricordata, la sua correlativa incapacità, paradossale per un istrione politico, di  dissimulare questi difetti, dote  di grande utilità,  soprattutto a sinistra, dove il tasso di idealismo è ragguardevole  e le forme della retorica politica hanno la loro importanza.
Al nuovo Pd maggioritario, capace di conciliare elettoralmente  moderati e progressisti, ciò che l’ex premier inizialmente aveva in mente,  sarebbe servito  un Renzi decisionista ma dai  modi umili, come Berlinguer. Insomma,  pugno di ferro in guanto di velluto.  E purtroppo gli errori si pagano.


Carlo Gambescia