lunedì 31 marzo 2008

Il Dal Molin e le "Coop rosse"




Il fatto che l’appalto alla costruzione dell’aeroporto Dal Molin sia stato assegnato a due “cooperative rosse” (si veda http://www.ilmanifesto.it/Quotidiano-archivio/29-Marzo-2008/ ), merita la massima attenzione, proprio per comprendere l’importanza della posta in gioco e delle forze in campo.
La vicenda, infatti, potrebbe essere superficialmente liquidata, come l’ennesima prova della connivenza tra sinistra e interessi economici, come usa fare la stampa di destra. In realtà siamo davanti a qualcosa che va oltre i soli rapporti di potere, all’interno di una sinistra dei “buoni affari”. Il problema è sistemico e contrappone logiche sociali completamente diverse.
Cominciamo col dire che il movimento che si oppone al Dal Molin, si muove coraggiosamente nell’ambito di una razionalità finalizzata ai valori. Nel senso che, per i suoi membri, l’opposizione alla costruzione di un gigantesco aeroporto militare non è razionale rispetto al valore “pace”. Certo, vengono anche invocate ragioni di tipo organizzativo, ecologico, eccetera. Ma la ragione predominante è dettata dal “valore” pace.
Ma esiste anche un altro movimento, quello, semplificando al massimo, delle “cooperative rosse”, che agisce a vari livelli, e anche nell’ambito delle costruzioni come nel caso delle due grosse cooperative, alle quali è stato assegnato l’appalto: la CMC (Cooperativa muratori e cementisti) e il Ccc (Consorzio cooperative costruzioni), entrambi di Ravenna.
Ora, a differenza del "Movimento No Dal Molin", le due cooperative assegnatarie si muovono nell’ambito di una razionalità finalizzata allo scopo. Nel senso che, per i suoi membri, la costruzione di un gigantesco aeroporto militare è razionale rispetto allo scopo societario, che è quello di rispondere agli imperativi economici dell’efficienza e dell’utilità economica (in termini di profitti crescenti per i suoi associati).
Ci si può rispondere che lo scopo delle cooperative, almeno quando nacquero intorno alla metà dell’Ottocento in Gran Bretagna, diffondendosi via via anche in Italia, era quello di difendere “gli spazi sociali stravolti dallo sviluppo capitalistico, [nonché] la costruzione di istituzioni capaci di garantire ‘ai liberi produttori’ una presenza autonoma nel mercato del lavoro”, puntando così su una nuova società, da ricostruire su basi socialiste o comunque mutualiste, non regolata principalmente dalla razionalità rispetto alla scopo (si veda “Movimento Cooperativo” in Enciclopedia della sinistra Europea nel XX secolo, diretta da A. Agosti, Editori Riuniti, Roma 2000, p. 497).
Giustissimo. Ma è proprio questo il punto. Perché aiuta a capire quanto siano cambiate le cose da allora. Per farla breve: l'abbandono degli antichi valori socialisti è frutto di una transizione interna al movimento cooperativo, che noi leggiamo come involuzione, da una razionalità rispetto al valore (legata al cambiamento della società, attraverso lo strumento cooperativistico, che scorge nella pace un valore), a una razionalità legata allo scopo ( esito di una accettazione della logica organizzativa capitalistica, fondata sul profitto, a prescindere dai valori, incluso quello della pace).
Va comunque precisato che nella realtà gestionale, le due logiche tendono sempre a confondersi, pur nel predominio di una delle due forme. E qui entra il gioco la forza sistemica del capitalismo, che in un secolo e mezzo, come la goccia che piano piano erode anche la roccia più resistente, ha praticamente ridotto al lumicino qualsiasi volontà di trasformazione socialista della società italiana, imponendo anche alle "coop rosse" la razionalità rivolta allo scopo. In particolare, questo processo sembra essere diventato più rapido nel corso degli ultimi tre decenni del Novecento, grazie ai processi di crescente deideologizzazione della cooperazione ma anche della politica, principalmente a sinistra. Per un verso è cresciuta nel movimento cooperativo la neutralità rispetto alle tradizionali identità politiche di riferimento. Mentre, per l’altro, gli stessi partiti di sinistra, a cominciare dal Pci, soprattutto dopo la caduta del Muro, hanno smesso, chi più chi meno, di rappresentare una riserva di valori socialisti, spostandosi a destra…
Di qui, purtroppo, quella pressoché scontata volontà delle “cooperative rosse” di fare affari con le forze armate americane, esito, appunto, di una accettazione della razionalità rispetto allo scopo. Ma anche la difficoltà, oggettiva, del "Movimento No Dal Molin", costretto a muoversi sullo scomodo piano della razionalità rispetto al “valore”, in un mondo apparentemente governato dall’utile. E dunque di non poter competere adeguatamente con avversari invece in piena sintonia con una  logica di tipo diverso e soprattutto più potente. 
Chi vincerà? 
Carlo Gambescia

sabato 29 marzo 2008

Il sabato del villaggio (10)

Parabole di economisti
Geminello Alvi: Da Rudolf Steiner a Bernardo Caprotti.

Spengleriana
Giampiero Mughini: il declino del declamante.

Sondaggi
Carla Bruni come Lady Diana? No, peggio.

Riotteide
La canzone più amata da Gianni Riotta: O' Bame mio.

Pericoli per l’Occidente.
Il caffè in lattina.

Le cordate di Berlusconi
Chi Mal Pensa non Pensa Mal.


                                                    Carlo Gambescia

venerdì 28 marzo 2008

Polemiche

A proposito dell'uso giornalistico del termine "casta"



I lettori si saranno accorti da un pezzo, che nei nostri post, soprattutto se legati alla politica italiana, non usiamo il termine “casta”. Perché?
In primo luogo, perché si tratta di un vocabolo che rinvia ad altre situazioni storiche, ad esempio all’India della tradizione indù. Un contesto completamente diverso da quello dell’’Italia repubblicana. Insomma, non ci piacciono, le imprecisioni storico- lessicali. A nostro avviso, i due giornalisti del Corriere della Sera che hanno “lanciato” il termine casta, avrebbero invece dovuto parlare di oligarchia in senso politico e sociologico (dal greco, oligoi, "pochi", più un derivato di arché, "comando"), come di un regime politico in cui il potere è esercitato da pochi, in proprio favore, e a danno della maggioranza dei cittadini. La casta (dal latino castus, "puro"), invece, rinvia concettualmente a una classe ristretta di persone che per razza e/o religione, come nell’India tradizionale, forma un gruppo sociale chiuso con uffici e privilegi particolari.
In secondo luogo, usarlo in quest’ultima chiave, vuol dire assegnare al termine una valenza prepolitica e pre-sociologica: il membro della casta viene automaticamente considerato un razzista. E si sa, oggigiorno i razzisti, per non dire dei “fanatici religiosi, sono praticamente fuori dei giochi politici.
Pertanto parlare di “casta”, a proposito dei politici italiani, significa andare a scandagliare i fondali più pericolosi dell’immaginario collettivo italiano, con il rischio di risvegliare qualche gigantesco mostro marino... Che cosa vogliamo dire? Che il termine casta risveglia negli italiani quell’odio popolare, spesso giustificato, per le classi dominanti e ricorrente nella storia dell’Italia moderna, assumendo talvolta derive ribellistiche e/o giustizialiste, da Masaniello ai movimenti che hanno cavalcato politicamente Mani Pulite. Il che, ovviamente, non implica da parte nostra, il rifiuto di criticare le “oligarchie” economiche e politiche oggi dominanti. Ma solo un invito a non scherzare troppo con il fuoco.
Chissà perché, poi, non si usa il termine “oligarchia”, di sicuro più appropriato? Probabilmente perché meno suggestivo, dal punto di vista della fenomenologia delle idee-forza. E dunque per nulla evocatore di scenari post-coloniali, come il termine casta. Ma anche per un’altra ragione.
La parola oligarchia rinvia a quel brodo culturale prefascista (anti-parlamentare e spiccatamente nazionalista), che tra Ottocento e Novecento, produsse una ideologia antidemocratica di cui si appropriò il fascismo, che amava appunto definirsi, soprattutto a suoi inizi diciannovisti, come movimento politico anti-oligarchico.
Di qui il grande pudore ( o furbizia?) di Stella e Rizzo… I quali si sono appunto ben guardati dall’usare il termine oligarchia, per evitare disdicevoli corrispondenze. Tuttavia la parola casta è entrata nell’uso giornalistico, politico e comune. Sembra infatti molto gradita agli italiani. Perché solletica certo “ribellismo” di fondo.
Il che, come la storia italiana insegna, può essere molto pericoloso.
Carlo Gambescia

Campagna elettorale

Sinistra e idea di patria



Non si può non restare sorpresi a proposito del ritorno di “amor patrio” che sembra animare la campagna elettorale. Soprattutto all’interno di certa sinistra riformista, ben rappresentata da Veltroni. In fondo lo scontro sulla questione Alitalia indica due diverse idee di patria. A destra, di chiusura verso l’esterno; a sinistra, di apertura al confronto. Come dire: nazionalismo (economico) contro spirito di nazionalità (universalista). O se si preferisce: Corradini contro Mazzini. In realtà, le cose sono molto più complesse.
Probabilmente alla base del fenomeno c’è il passato settennato di Ciampi, a dire il vero molto patriottico. Ma anche quello, “in corso” di Napoletano. In realtà il patriottismo “di sinistra” - quello che qui ci intressa discutere - ha sempre avuto motivazioni controverse. Per almeno due ragioni. Vediamo quali.
In primo luogo, la moderna idea giacobina di nazione armata, come momento della verità, dove solo chi va in battaglia, diventa cittadino a tutti gli effetti, arrivò in Italia con le truppe di Napoleone, e scomparve con la sua sconfitta . Il Risorgimento ebbe i suoi patrioti eretici, come ad esempio, Pisacane, Mazzini, e più tardi Battisti e Salvemini. I quali cercarono di conciliare nazione e internazionalismo, privilegiando però l’idea di patria. Mentre il socialismo di Treves e Turati, per non parlare del comunismo togliattiano, rimase largamente internazionalista. Mussolini cercò, a modo suo, di unificare socialismo e nazione, con risultati non proprio esaltanti, soprattutto sul piano di una politica estera, inutile nasconderlo, imperialistica e infine rovinosa.
Ragione per cui, e in secondo luogo, l’idea di patria della sinistra nasce soltanto nel 1948, con la Costituzione Repubblicana. Insieme al mito politico della Repubblica nata dalla Resistenza. Una necessità ben riassunta, sul piano iconografico, anche dal tricolore, che si scorgeva appena, sotto la bandiera rossa con stella, falce e martello, nel vecchio vessillo politico-elettorale del Pci.
Ora, sarebbe lungo discutere del 1943-1945, come la fase storica in cui invece si indebolisce l’idea stessa di nazione italiana. Un principio, quello di patria, che per essere interiorizzato ha necessità di continuità generazionale: servono secoli, non decenni. Se per il Fascismo, l’esperienza del ventennio, doveva essere il coronamento dell’unità italiana, per la Resistenza, nelle sue varie componenti (anche di sinistra), la dittatura fascista avrebbe dovuto rappresentare l’autobiografia negativa della nazione: una “tradizione al contrario”, da seppellire. E così fu. Ma di qui anche la necessità di riconoscersi in una nuova idea di patria, capace di recepire insieme, l’idea di libertà e i valori dell’internazionalismo.
Dietro tale scelta c’era chiaramente l’umanitarismo marxista e cattolico. Che puntò sul culto di una Costituzione capace di conciliare nazione e diritti dell’uomo, ma a danno della prima. Un testo “lungo”, molto sensibile ai diritti sociali e di libertà. Un “dettato” di grande nobiltà di intenti. Che tuttavia, come è facilmente dimostrabile, è stato spesso fonte più di divisioni che di unità. E purtroppo di ipocrisie. Proprio perché privo di radici collettive profonde.
Prendiamo ad esempio il famoso articolo 11 dei Principi Fondamentali: “L’Italia ripudia la guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli e come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali…”. La sinistra, soprattutto quella radicale, lo usa tuttora per criticare qualsiasi scelta di politica estera, che solo lontanamente possa essere riferita a un conflitto. Il punto è che la guerra non può essere eliminata per legge. L’uomo è quel che è… E così, pur di non violare formalmente la Costituzione, il centrodestra ha definito missione di pace il nostro intervento in Iraq. Una forma di ipocrisia accettata anche dalla sinistra, come quando D’Alema appoggiò la guerra Nato nel Kosovo
Allora, come definire l’idea di patria della sinistra? Molta ipocrisia, una tradizione inventata e non interiorizzata da tutti gli italiani, e qualche karaoke politico-sindacale il “1 Maggio”. Invece andrebbero riannodati i fili della storia d’Italia. Tutti. Prendere atto degli errori, delle pagine tristi, ma anche di quelle belle ed eroiche. Ad esempio, sembra che la vittoria italiana nella Prima Guerra Mondiale non sia mai esistita… Insomma, non si può costruire un’idea di patria a metà. Mettere i buoni da una parte e i cattivi dall’altra. E tenerli lì per sempre, in punizione.
Carlo Gambescia

mercoledì 26 marzo 2008

Gabbie d'acciaio

 Il consumo delle droghe in Occidente 



(ANSA) - ROMA, 25 MAR - L'Italia e' il secondo mercato dell'eroina in Europa (dopo l'Inghilterra) ed uno dei primi per la cocaina. Lo evidenzia la Relazione 2007 della Direzione centrale servizi antidroga del Viminale. E aumentano le vittime: sono state 589, 38 in piu' del 2006. Dalla relazione emerge anche un vertiginoso aumento (+193,67%) dei sequestri di droghe sintetiche. In aumento anche i sequestri di eroina (+42,96%) mentre calano quelli di cocaina (-15,32%).
(http://www.ansa.it/site/notizie/awnplus/italia/news/2008-03-25_125179653.html
)

La prendiamo da lontano. Le ragioni per cui l’uomo, in alcune circostanze, ricorra all’uso della droga restano misteriose. Esistono numerose spiegazioni di tipo materialistico, psichico, culturale e perfino cultuale, ma nessuna di esse è soddisfacente.
Purtroppo, per limitarci ai fatti, il vero problema è che nel XX secolo il consumo di sostanze stupefacenti e psicotrope è cresciuto enormemente, soprattutto in Occidente, dove gli stili di vita hanno parallelamente conseguito una straordinaria razionalizzazione ( o standardizzazione), sotto tutti gli aspetti. Probabilmente un ruolo decisivo nella diffusione sociale dell’uso di droghe è stato giocato dalla massificazione che unita alla tecniche capitalistiche di produzione e riproduzione sociale dei beni economici ( e la droga è anche questo), ha messo queste sostanze alla portata di tutti.
Le retoriche sulla liberalizzazione e sulla distinzione tra droghe pesanti e leggere sono successive a questo processo di “massificazione” e di riproduzione sociale dell’uso della droga. Rappresentano, insomma, risposte culturali, politiche e sociali ex post, che qui non possiamo affrontare. Dal momento che il lato più preoccupante della questione è quello ex ante : il nesso sociale tra razionalità formale e irrazionalità sostanziale. Ci spieghiamo meglio.
Come già accennato, l’uso della droga, in quanto legato alla massificazione, riguarda le più diverse classi sociali, e perciò va a situarsi in un contesto sociale, dove spesso una condotta razionale di vita (lavoro, famiglia, amore, vacanze), finisce per includere, razionalmente, anche l’uso sistematico della droga. Che sul piano degli esiti sociali, prescindendo dalla distinzione tra droghe pesanti e leggere, indica una opzione di irrazionalità. Perché l’uso di droghe, alla lunga, può provocare distorsioni nel comportamento razionale e sociale, più o meno gravi.
Tuttavia - ecco il fatto interessante - il punto di sutura sociale tra razionalità e irrazionalità è rappresentato, soprattutto nei giovani, dalla cosiddetta cultura dello “sballo” (per usare un termine giornalistico). Cultura che però va a situarsi razionalmente, nella catena razionale di vita dei giovani (scuola, lavoro, famiglia, eccetera). Dal momento che celebra lo "sballo" come il momento “fisiologico” di una specie di irrazionalità-razionale. Infatti lo "sballo" viene visto come simbolica e momentanea rottura degli schemi “razionali” di vita quotidiana, a patto però di rientravi subito dopo. Ecco l'inderogabile "condizione" sociale che razionalizza l'irrazionale. Purtroppo non tutti i giovani vi riescono...
Di conseguenza, stante questo dispositivo, il crescente uso sociale della droga è praticamente inarrestabile. Perché anch'esso è parte passiva di quel processo di razionalizzazione di tutti gli aspetti della vita sociale che ha segnato il destino dell’Occidente moderno, studiato così bene da Max Weber.
E la riprova di questo fenomeno è nel fatto che l’ uso sociale della droga viene sempre più benevolmente giudicato (si pensi solo a certa cultura musicale mediatica...), come “normale e benefica” occasione di sballo nel quadro di una noiosa vita razionale. E in questo senso il fenomeno rischia di riguardare non solo i giovani. Proprio perché tutti noi siamo “soggetti” alle pressioni di un vita razionale e burocraticamente organizzata. Che tuttavia al tempo stesso favorisce e integra sistematicamente la "trasgressione" prodotta . Questo meccanismo sociale di crescente razionalizzazione dell'irrazionale non ha eguali nella storia umana. E per alcuni è il fiore all'occhiello dell'Occidente. Questione di punti di vista...
Non va perciò escluso, che in un futuro non molto lontano, i diversi tipi di droghe - e non solo il terapeutico metadone, come avviene oggi - possano essere “somministrati ai richiedenti”, direttamente dalle istituzioni, e per ovvie ragioni di consenso sociale. Il che però - attenzione - non è solo un problema di logica del dominio. Ma di sottomissione del potere politico, certo “patteggiata”, a quel gigantesco processo di razionalizzazione della vita sociale, tipico dell’Occidente.
Un processo che, piaccia o meno, non potrà perciò non estendersi, come del resto già sta avvenendo, anche all’uso razionale delle sostanze stupefacenti e psicotrope.
Pertanto chi oggi si droga, vi acconsente.

Carlo Gambescia 

martedì 25 marzo 2008

Con il tibet

Contro il "pensiero unico"





Non essendo noi esperti di politica estera, resta difficile intervenire nel dibattito sulla questione tibetana. Tuttavia quel che ci ha subito colpito è certo “cortese” attendismo verso la Cina attuale, comune alla destra e alla sinistra.
Il punto che però qui desideriamo affrontare, non riguarda tanto la decisione di boicottare o meno le Olimpiadi, quanto certa forma mentis dell’Occidente, e con questo ultimo termine intendiamo Usa, Europa, Giappone. Ma ci spieghiamo meglio.
La decisione di “chiudere” un occhio (se non tutti e due) sulla durissima repressione cinese in Tibet, affonda le radici non solo nel “buonaffarismo” e/o nel realismo politico di grana grossa dell’Occidente (del tipo "Prenditela con i pesci 'piccoli' come Saddam, ma non con quelli 'grossi' come la Cina"), ma in una determinata mentalità culturale.
Quale? Quella che scorge nella mano invisibile del mercato capitalistico uno strumento di eccezionale e inarrestabile progresso economico e civile. Non è forse vero che i politici, gli intellettuali, gli uomini d’affari occidentali ritengono che la forza propulsiva del mercato porterà con sé, “prima o poi”, la trasformazione democratica della Cina? E che di conseguenza questo processo “di mercato” condurrà a una “facile”e “automatica” soluzione della questione tibetana? Per farla breve: a destra come a sinistra (ovviamente, quella filo-mercato) si crede che la forza travolgente del capitalismo spazzerà via ogni residuo totalitario (in Cina) e teocratico (in Tibet).
Sotto quest’ultimo aspetto è però singolare il silenzio di certa sinistra movimentista, dunque non filo-mercato. Magari non tutta, ma comunque….
Perché? Facile: questa sinistra, dal momento che detesta sia il capitalismo che la “teocrazia” tibetana, non può offrire soluzioni concrete. E soprattutto immediate. Di qui il suo silenzio e imbarazzo... Mentre i cinesi continuano, senza alcuna remora ideologica, a massacrare i “teocratici” monaci tibetani.
Dietro questo atteggiamento della sinistra movimentista, c'è sul piano strategico, diremmo ideologico, una profonda incomprensione, probabilmente di derivazione illuministica, per ogni teoria del diritto dei popoli, fondata appunto sul diritto alla differenza da opporre a una ragione livellatrice. Mentre su quello tattico, si ravvisa l’errore di non aver ancora compreso come sia interesse dello stesso movimento internazionale anti- globalizzazione sposare la causa del diritto dei popoli. Proprio per opporsi meglio, e concretamente, alla marcia livellatrice e strumentale del capitalismo globalizzatore.
In conclusione, e qui ci lanciamo in una profezia, il nuovo socialismo, quello del XXI secolo, non potrà non essere comunitario: rispettoso delle libertà individuali ma anche del diritto dei popoli a vivere secondo le proprie tradizioni. Ci piace immaginare un mondo dove un Tibet “teocratico”, se storicamente e culturalmente condiviso dai suoi cittadini, possa finalmente avere lo stesso diritto di vivere, ad esempio, di una Serbia democratica e socialista, e così via.
Ecco perché, oggi, difendere il Tibet significa battersi contro la globalizzazione capitalistica del pianeta. E - si badi bene - non si tratta di un atto d’amore universale, ma solo di autentico realismo politico. Quello fondato, come ogni buon realismo, sulla scelta politica tra ciò che è essenziale e ciò che non è tale. Dal momento che dietro la scelta di difendere il Tibet, se ne scorge un'altra, vitale. E che conta, politicamente, in assoluto. Quale? Quella di battersi, oggi, contro la marcia del “pensiero unico”.

Il primo, vero e solo nemico dei popoli.

Carlo Gambescia

venerdì 21 marzo 2008

Riletture 
The Passion , secondo lo spettatore…



Ripubblichiamo la nostra recensione del film The Passion”di Mel Gibson. Si tratta di un testo che che risale all’aprile del 2004. E dunque inedito per i frequentatori di questo Blog.
Si intona alla giornata e contiene alcune riflessioni, crediamo, ancora interessanti. Buona lettura.

Dopo mesi di polemiche teologiche o meno, ha vinto il botteghino. Il primo giorno di programmazione La Passione di Cristo ha battuto il Signore degli anelli 3. Gesù ha incassato più di Frodo. L’accostamento può infastidire ma il cinema è business. Intellettuali, politici e religiosi possono disquisire quanto vogliono, ma poi sono gli spettatori a dire l’ultima parola sulla base di impulsi elementari. Tra i quali c’è l’obliquo fascino che la violenza esercita sugli uomini. E che Gibson da uomo di cinema ha saputo trasporre abilmente sullo schermo.
Perché (ed è inutile nasconderlo), al di là di una minoranza di addetti ai lavori (religiosi, devoti, ecc.), tutti gli altri spettatori si sono recati al cinema incuriositi da quella truculenza delle immagini enfatizzata dai media.
Piccolo inciso teorico: è inutile scandalizzarsi per la violenza a tratti sadica del film. Perché il cinema, soprattutto quello d’oltreoceano, è fatto così : coinvolgimento emozionale, attraverso il duro, spesso durissimo, linguaggio delle immagini. Con l’avvertenza, che una volta usciti, poiché il coivolgimento è mediato (gli spettatori sanno che si tratta di una finzione), si torna alle solite occupazioni: al coinvolgimento segue sempre il distacco. Del resto, se non fosse così, l’industria cinematografica non esisterebbe: lo spettatore-cittadino è in cerca di brividi, ma per “interposta” persona. E il potere incoraggia indirettamente la violenza “rappresentata”, perché aiuta a sublimare e depotenziare quella reale. Certo, c'è il rischio opposto della banalizzazione. Ma in linea di principio, la crudeltà delle immagini prodotte dall’industria cinematografica è sempre al servizio della disciplina collettiva. Come sottoprodotto, per semplificare, di quel meccanismo bastone-e-carota, su cui si reggono le società. Niente di nuovo sotto il sole… Inciso chiuso.
Pertanto se il cinema, soprattutto hollywoodiano, è strumento di conservazione sociale, difficilmente The Passion provocherà rinascite religiose a sfondo pauperistico o antisemita, come alcuni laicisti pelosamente temono... Ma allora al di là delle morbosità, cosa può aver colpito lo spettatore “medio” di oggi, così poco credente e praticante? Di sicuro la “trama” e la forza “simbolica” di alcuni personaggi. Ci spieghiamo meglio.
In primo luogo, l’uno contro tutti; il Buono: nel “gioco” cinematografico dei buoni contro i cattivi, giganteggia la figura di Gesù, come quella di un uomo ingiustamente perseguitato, che predica l’amore e riceve in cambio frustate, in nome di un irrazionale odio collettivo. E di riflesso nel clima sincretico di oggi, gli spettatori avranno sicuramente sicuramente assimilato Gesù a Gandhi e Madre Teresa.
In secondo luogo, il tutti contro uno; i Cattivi: Pilato e i suoi soldati torturatori, Caifa e le sue folle prezzolate. Il pensiero dello spettatore è certamente andato ad altri occupanti e politici, altrettanto feroci e intriganti che oggi insanguinano il mondo, a ogni latitudine.
In terzo e ultimo luogo, la figura di Maria e il suo rapporto con Gesù. Ogni spettatore è di certo rimasto incantato dallo sguardo di Maria. E da come i suoi occhi cerchino quelli di Gesù. E in che modo? Con la stessa naturale semplicità di chi ama in modo assoluto il "proprio" figlio. Siamo davanti a un rapporto di dedizione totale. Che fa riflettere, più umanamente, su quel sentimento di pietà vera e profonda che può provenire solo da una donna e madre.
Resta poi, ma questo è un elemento remoto, avvertito probabilmente solo da pochi spettatori, predisposti e sensibili oltre la “media”: il fortissimo senso del mistero. Sul perché un “uomo” si sacrifica sulla croce. Perdonando i suoi persecutori. Incredibile. Certo, molti spettatori, come il “ragazzetto in giacca di pelle” intervistato da Repubblica , non hanno capito ed escono scontenti: “Perché in genere al cinema i cattivi alla fine vengono sconfitti e puniti”. Ma se non si trattasse solo di un film? Se non fosse solo una trasposizione pulp della vita di Gesù? O un semplice argomento di conversazione tra amici, come in occasione di tanti altre pellicole made in Usa ?
Ecco perché, in fondo, The Passion rappresenta una sfida al nostro senso comune secolarizzato: il mistero può aprire al sacro e il sacro, a sua volta, al trascendente.

E qui, purtroppo, nasce un problema: chi di noi, attualmente, se la sente di spiccare il volo? 

Carlo Gambescia

giovedì 20 marzo 2008

Il libro della settimana: Franco Ferrarotti, Diplomatico per caso. La Parigi degli anni Cinquanta raccontata da un giovane osservatore. Guerini Studio, Milano 2007, pp. 224, in allegato il Cd: Franco Ferrarotti il pensiero e l’opera, Euro 23,50.

http://www.guerini.it/index.php/diplomatico-per-caso.html


Ecco un libro che potrebbe suscitare in qualche giovane di belle speranze, come dicevano i nostri nonni, una vocazione alla sociologia. Proprio nel momento in cui le “scienze della comunicazione” sembrano giocare nelle università italiane la parte del leone. Ma lasciamo subito perdere queste diatribe disciplinari, per venire al dunque.
Franco Ferrarotti è la sociologia. Punto. Almeno per quel che riguarda la storia di questa disciplina nell’Italia della seconda metà del Novecento. Ed è decisamente felice la sua decisione di far apparire per i tipi di Guerini una serie di volumi dove raccontandosi, se ci si passa il bisticcio di parole, racconta il lungo viaggio della sociologia italiana, e non solo, del dopoguerra. Infatti prima di Diplomatico per caso, sono apparsi Pane e lavoro! (2004), Le briciole di Epulone (2005) e Nelle fumose stanze (2006). Libri godibilissimi e istruttivi, dove Ferrarotti ci introduce, con quello stile spumeggiante ed erudito al tempo stesso, che gli è proprio, alla sua vita, ai suoi incontri, ma anche ai misteri dolorosi della sociologia.
In Diplomatico per caso , dove parla del suo soggiorno a Parigi tra il 1958 e il 1961, come responsabile per l’OECE del settore Social Factors, ricostruisce vivacemente quello che doveva essere (doveva perché poi non è stato...) il ruolo professionale, in senso "weberiano", di ogni vero sociologo, intorno fine degli Anni Cinquanta. Quale? Divenire uno studioso di questioni socioculturali nell’ambito dei problemi dello sviluppo. Insomma grande sociologia. O meglio: macrosociologia ex ante con coraggiose aperture storiche sui temi dell’industrializzazione. Ma anche da vincolare - ecco il punto forte - alla necessità di non imporre a tutti i costi, soprattutto nella aree "meno progredite", uno sviluppo puramente economicista e utilitarista, e dunque distruttore di ogni legame sociale e culturale in contrasto con il dio-sviluppo . L’esatto contrario di quel che poi è avvenuto. Come oggi provano i guasti sociali e ambientali provocati da uno sviluppismo, spesso approvato da certi sociologi, ipnotizzati dalla modernità in quanto tale.
Ma c'è anche dell 'altro. Oggi al sociologo viene chiesto di occuparsi "asetticamente", ed ex post , della gestione sociale del consenso sistemico. In senso astorico e dunque microsociologico (il "nostro" non è il migliore dei mondi possibili? E allora perché discutere di grandi sistemi storici comparati? Ecco, ahinoi, gli interrogativi oggi più in voga... )
Ma in particolare che cosa gli si chiede? Di far accettare alla collettività la crescente frammentazione di vite e lavoro. O per farla breve: la "precarizzazione". Da gustarsi "cinematograficamente" tutti insieme, come esito felice di una benefica globalizzazione economica. Menzogne.
Sotto questo aspetto sono ancora molto significative, sotto il profilo metodologico, soprattutto per la chiave “antiutilitarista” e “antieconomcista” che racchiudono, le appendici I e III, dai titoli molto significativi : “La Sardegna non è la Svezia” (1958); Parlamento e ricerca sociologica” ( 1963). Bene ha fatto Ferrarotti a includerle.
Insomma, giovani virgulti (altra espressione datata…), leggete e innamoratevi della sociologia. Per cambiarla però. Certo, una volta acquisiti gli strumenti euristici di base. Imponendo, finalmente, un coraggioso ritorno alla macrosociologia, ovviamente, fatta di piccole e concrete ricerche sul campo… Ma capace poi di volare alto, riconducendole nell'alveo di una visione sistemico-comparativa, storica e socioculturale, nonché vissuta e rivissuta, secondo la straordinaria lezione di Ferrarotti.
Straordinaria infine la galleria, ma diremmo folla di personaggi, conosciuti e “interagiti” dal Nostro. Non dimentichiamo, infatti, che Ferrarotti ha girato mezzo mondo, da vero sociologo intinerante, e perciò sempre pronto a recarsi "sul campo", come del resto nota lui stesso. E da quanto sappiamo, continua tuttora i suoi pellegrinaggi sociologici. E alla veneranda età di ottantadue anni. Complimenti professore!
Si pensi solo all’eccellente gruppo di lavoro parigino, da lui messo insieme all'epoca: ricco di nomi come quelli di Raymond Aron, Alain Touraine e Ralf Dahrendorf (entrambi all’epoca molto giovani), Michel Crozier, Jean Domenach, Georges Friedmann, Daniel Bell, Martin Seymour Lipset. E ancor più interessanti le osservazioni, spesso appuntite, di Ferrarotti su questo e quello. Ma anche su altri protagonisti della sociologia contemporanea. Ad esempio a proposito di Banfield, autore di un celebre, forse troppo, studio sul familismo amorale di certo Sud italiano, Ferrarotti, riporta una sua lontana conversazione con Leo Strauss. Il quale, d’accordo con lui sulle lacune del libro, osservava: “Ma lei ha visto le fotografie ? Errore averle messe. Sconfessano il libro. Ha visto gli occhi ridenti, consapevole e intelligentissimi di quei bambini? Come si può definire Backward, ritardata o stupida, una società dove ci sono bambini con quegli occhi” (p. 97).
Non solo. Che dire di questi ritratti, diciamo così, estemporanei di Dahrendorf, oggi baronetto d’Inghilterra, nonché di un altrettanto celebrato Bauman? “ Io lo ricordo [Dahrendorf], invece, giovane e magrissimo professore della Akademie für Gemeinde Wirtschaft in una casetta nella parte bassa e umida di Amburgo; dalla stanza accanto veniva, insistente, il pianto di un bambino e Dahrendorf mi parlava di Helmut Schelsky [ noto sociologo tedesco del dopoguerra di orientamento conservatore]. Ma ecco emergere dagli ipogei della memoria un’altra immagine, quella sbiancata di Zygmunt Bauman, a Varsavia, alla corte dell’arrogante Adam Schaff quasi come Paolo di Tarso ai piedi di Gamaliele. Adam Podguresky, valoroso sociologo del diritto, mi diceva, nel 1968, che Bauman era comparso a Varsavia, nel 1945, con l’uniforme del KGB. Ma perché scandalizzarsi? Un ex dirigente del KGB è oggi presidente della Russia?” (p. 127).
Che aggiungere? Compratelo. E magari regalatelo. Soprattutto a quei giovani che sono sul punto di scoprire l’università... 
Carlo Gambescia

mercoledì 19 marzo 2008

Sociologia del senso di colpa collettivo


I popoli sono maggiorenni o minorenni?




Le forme del dominio politico sono esplicite e implicite. Quelle esplicite consistono nel puro e semplice dominio di un’entità politica da parte di un’altra attraverso la forza o costrizione materiale. Quelle implicite riguardano l’uso ideologico, sempre a livello interattivo della forza o costrizione morale. Spesso, nell’agire concreto, le due forme si mescolano.
L’uso ideologico della forza morale rinvia al concetto di senso di colpa collettivo. Che cosa significa? Che un popolo, e non solo le sue élite vengono storicamente giudicati responsabili di determinati atti sociali, spesso consistenti in azioni militari di vario tipo nei riguardi di popolazioni civili inermi.
Ovviamente, come è giusto che sia, il moderno diritto internazionale di guerra, condanna e persegue gli atti di questo genere. Ma qui parliamo di altra cosa: dell’uso ideologico e sociologico del senso di colpa collettivo, che i vincitori hanno da sempre praticato nei riguardi degli sconfitti, per tenerli il più a lungo possibile in una condizione di inferiorità morale, da sfruttare politicamente in termini di dominio. Pertanto il problema del senso di colpa collettivo è squisitamente politico. E sociologico, perché si tratta di una forma di controllo interna e/o esterna al gruppo sociale.
Ma tale questione pone un problema di fondo. Le collettività, sono maggiorenni o minorenni? Non è una battuta. Perché considerarle maggiorenni implica la successiva giustificazione, in caso di guerra, sconfitta, eccetera, di misure, anche severe, da applicare "collettivamente" nei riguardi di un dato popolo: dal Capo dello Stato all’ultimo dei suoi cittadini. Invece, ritenerle minorenni, significa distinguere tra un popolo innocente ed una élite colpevole. Comunque sia, questa seconda posizione, se sposata dai vincitori, si presta meglio a un’opera di preventivo accertamento delle responsabilità individuali. O come si dice giudicamente: soggettive. Ma in genere ciò non accade.
Ora, nelle democrazie moderne, si vota. Di conseguenza i popoli sono ritenuti costituzionalmente, per così dire, maggiorenni.
Ma fino a che punto? Se l'elettore, "ha sbagliato”, votando in favore di un tiranno, presentatosi invece come amico del popolo, è colpevole? Di che cosa? Di essere stato ingannato da un istrione? E coloro che nascono dopo la caduta del tiranno, i figli, possono essere ritenuti colpevoli di un inganno in cui sono caduti i padri? Ma, in questo caso, la colpa collettiva, non diventa essa stessa una forma di inganno, per continuare a tenere, come i “padri”, anche i “figli” sotto tutela? E quei figli, “cresciuti” in un clima moralmente censorio, quale libera capacità di giudizio politico potranno maturare ?
Crediamo che i popoli, al di là delle questioni costituzionali (spesso di mera facciata), non debbano essere considerati né maggiorenni né minorenni, ma più semplicemente studiati e accettati per quello che sono: facili all’errore (che non è sinonimo di colpa), proprio perché entità collettive. Il che però non implica, come insegna la sociologia, l'esistenza di una ragione collettiva. Né questa può essere surrogata, come talvolta si osserva, dalla sommatoria delle singole ragioni individuali: non esiste, infatti, alcuna mano invisibile sociale e/o economica, che vede e provvede, armonizzando interessi e ragioni individuali. E qui ci fermiamo per evitare di mettere troppa carne al fuoco... Un accenno è più che sufficiente.
Inoltre - ma questo è un problema morale, nostro, soggettivo - riteniamo ingiusto che i figli debbano pagare collettivamente le "colpe" dei padri. Anche perché nel mondo moderno - e questo invece è un problema sociologico, oggettivo - i figli, di regola, tendono ad opporsi ai padri, in nome di valori differenti, spesso opposti. E di conseguenza il tentativo di controllare politicamente un popolo nella sua generalità, facendo leva sul senso di colpa, e dunque su alcuni giudizi di valore, può provocare nelle generazioni più giovani reazioni di segno contrario. E dunque ottenere effetti non voluti. Magari di apprezzamento nei riguardi di tiranni morti e sepolti.
Tuttavia il "politico" richiede forme di dominazione implicita. E anche questa forma di controllo implicito dei popoli, attraverso la diffusione di un senso di colpa collettivo, è una costante politica. E storica.
Purtroppo a molti lettori ciò potrà non piacere, ma anche la sociologia politica, come spesso si dice dell'economia, è una scienza triste.

Carlo Gambescia

martedì 18 marzo 2008

Perché non siamo d'accordo con Franco Cardini

Boicottare le Olimpiadi cinesi? Sì, grazie




Non siamo d’accordo con Franco Cardini, che pur stimiamo come medievista. Capita.
Lo storico ha dichiarato di essere contrario al boicottaggio della Cina ( http://www.ariannaeditrice.it/articolo.php?id_articolo=17863). Perché, a suo avviso, la storia dimostrerebbe che “le sanzioni” non funzionano. Dal momento che il boicottaggio rafforza la coesione interna e quasi sempre finisce per essere violato. Come studiosi di scienze sociali non possiamo entrare nel merito storiografico ( si dice così?) delle affermazioni di un valente studioso di storia medievale.
Tuttavia Cardini, spiccando il volo, suggerisce di

“accettare il dialogo, ma pretendere chiarezza, trasparenza, cambio di metodi. Pechino prepara la sua vetrina olimpica ed ha una gran paura che qualcuno gliela sfasci a sassate. La cattiva fama, l’indice di tutto il mondo rigorosamente puntato contro, la ferma e severa pretesa da parte della comunità internazionale che quella che sta apprestandosi a divenire una potenza mondiale cambi metodi e registro. Denunziare senza tregua, accusare in maniera stringente e documentata senza stancarsi mai: non dare quartiere a un governo che non aspetta di meglio che il boicottaggio per giocare alla vittima e puntare sull’indignazione del proprio paese contro gli stranieri […]. Il boicottaggio sarebbe un ridicolo autogol: e i primi a soffrirne sarebbero i tibetani”.

E qui, però, non possiamo non dire la nostra. Dal momento che non si capisce perché “pretendere chiarezza, trasparenza, cambio di metodi” non possa includere "politologicamente" il boicottaggio delle Olimpiadi? Che non è un misura "politica" totale, perché non implica, da subito, quella chiusura “definitiva” e controproducente, così temuta da Cardini. Ma che invece potrebbe incarnare, per citarlo di nuovo, proprio quell’
“indice di tutto il mondo rigorosamente puntato contro, la ferma e severa pretesa da parte della comunità internazionale che quella che sta apprestandosi a divenire una potenza mondiale cambi metodi e registro”.
Purtroppo in politica, soprattutto internazionale, se ci si passa l’espressione, le chiacchiere contano meno di zero. Valgono - e dispiace dirlo - solo i rapporti di forza, nonché il collegamento tra questi e le finalità da perseguire "politicamente". Di conseguenza, se come scrive Cardini, lo scopo dell’Occidente è che la Cina, “cambi metodi e registro” il dialogo, da solo, non può bastare. E perciò va alternato a misure politiche. Per farla breve: si deve ricorrere alla classica politica "del bastone e della carota”. Che implica, vista la gravità di quel che sta accadendo in Tibet, "almeno" il boicottaggio delle Olimpiadi. E in prospettiva - ma solo in prospettiva - il boicottaggio totale.
Escluderlo il linea di principio, come fa Cardini, significa sostituire Socrate a Carl Schmitt. Come dire: il dialogo filosofico che appaga lo spirito di poche anime elette, al conflitto politico che invece innerva naturalmente e realmente la vita dei popoli.
Il che, per dirla sempre in gergo calcistico, non sarebbe altro che un’invasione di campo (politico) della filosofia. 

Carlo Gambescia

sabato 15 marzo 2008

Il sabato del villaggio (9)


Spengleriana
Eugenio Scalfari: il declino del supponente.

Il proverbio più apprezzato da Gianni Riotta

Chi trova un Obama trova tesoro.

La preghiera del mattino di Gianni Riotta
Signore, dacci oggi il nostro Obame quotidiano.

Lo spuntino preferito di Gianni Riotta
Obame e salame.

Il giornale più letto da Gianni Riotta
L’Obama della sera.

Specola luciobattistiana
Emma Marcegaglia: comunque padrona.
                             Carlo Gambescia

P.S. Riotteide

Altro proverbio caro a Riotta
Un Obama al giorno toglie il medico di torno.
(Biz)
La nuova trasmissione di Gianni Riotta

"Obama, Italia".
(Teofilatto)

venerdì 14 marzo 2008

Lo scaffale delle riviste: “Imperi. Rivista Quadrimestrale di Geopolitica e Globalizzazione”, n. 12, anno IV, 2007, Euro 22,90



Probabilmente la principale caratteristica di “Imperi”, interessante rivista di geopolitica, diretta da Aldo Di Lello, di cui già ci siamo occupati in altri post, è l’abilità di collegare le questioni teoriche alla problematiche pratiche. Non solo teoria dunque, ma individuazione concreta dei problemi e delle possibili soluzioni.
Ad esempio, il fascicolo appena uscito ruota intorno al fondamentale problema della “Geopolitica dell’acqua” (“Imperi”, n. 12, anno IV, 2007, euro 22,90 - tel. 06 45.46-86.00 - fax 06 39.73.87.71 ). Si tratta di un dossier di grande qualità, curato da Marco Cochi (L’emergenza del XXI secolo, pp. 11-21). Il quale, da studioso di questioni legate al Sud del mondo, mostra come sia necessario un impegno di tipo globale (ma non globalista), a livello di grandi istituzioni internazionali in onesta collaborazione con i singoli stati interessati, per costruire quelle infrastrutture, soprattutto in Asia e Africa, utili per gestire e tutelarne il patrimonio idrico. “Basterebbe - scrive nella chiusa - creare molti più bacini e riserve d’acqua per far sì che gran parte della popolazione [ivi] residente possa vivere con una minor penuria d’acqua a vantaggio della qualità della vita” (p. 11). Il che richiede, certamente, collaborazione tra i popoli ma, crediamo, anche una qualche forma di controllo politico (e militare?) internazionale, per evitare speculazioni privatistiche, interne ed esterne, di grandi gruppi transnazionali, su un bene di primaria importanza, come l'acqua. Ma chi sarà disposto a impegnarsi in prima persona? E un’Europa, preoccupata solo dei suoi buoni rapporti con gli Stati Uniti, che tipo di ruolo potrà svolgere, soprattutto laddove gli interessi, come in Africa, ci pare di capire, sono divergenti?
Sempre su questo tema intervengono anche Francesco Tajani (Nazioni disunite, sull’acqua, pp. 22-26), Francesco Tortora (La grande sete cinese, pp. 27-37), Roberto Coramusi (L’acqua dietro l’Intifada, pp.38-43), Eugenio Balsamo (La sovranità viene dalle falde, pp. 44-49), Raffaele Cazzola Hofmann (Africa: deserti e conflitti, pp. 50-54).
Un’altra sezione della rivista è dedicata alle “Tensioni Balcaniche”. Si apre con un’interessante riflessione di Antonio Albanese (Bomba a tempo dentro l’Europa, pp. 57-61), che pone l’accento sulla pericolosità per i già precari equilibri locale dell’autoproclamazione di indipendenza kosovara. A suo avviso si svilupperà sicuramente una partita a tre (Ue, Usa e Russia). Per quanto ci riguarda siamo molto pessimisti sul ruolo che potrà giocare l’Europa. Seguono, sempre in argomento, l’approfondito e pittorico articolo di Joseph Pillet ( Bosnia lo Stato che non c’è, pp. 62-80 ), e quelli, altrettanto validi, di Marco Leofrigio (Gli spettri di Serajevo, pp. 81-87), Massimo Ciullo (Il vicolo cieco del Kosovo, pp. 88-96),Andrea Marcigliano (Risiko Macedonia, pp. 97-108), Luca Fantin (La Croazia senza identità, pp. 109-116).
Da segnalare, nella sezione “Osservatore globale” il documentato articolo di Gabriele Natalizia (Russia, le vie della potenza, pp. 117-122), nonché in “Geocultura” l’ avvincente saggio di Teodoro Klitsche de la Grange (Nuove guerre, vecchi tribunali, pp. 133-142). Infine nella sezione "Geosofia" si conclude l’intrigante e dotto viaggio di Barbara Carmignola intorno ai diversi significati, assunti sotto l’aspetto storico-simbolico, dalle figure bibliche di “Behemoth e Leviathan tra medioevo e welfare state” (pp. 159-192). Da non perdere.
Abbiamo lasciato per ultimo quel che invece veniva per primo: l’editoriale di Aldo Di Lello (Il mondo corre, l’Italia è ferma, pp. 5-8). E per una semplicissima ragione: chiudere la recensione con una riflessione-viatico sull’Italia e la globalizzazione selvaggia, che condividiamo totalmente, soprattutto in tempi di elezioni. Scrive Di Lello, in chiara polemica con quei poteri economici transnazionali, soprattutto finanziari, che pretendono di governare l’economia delle nazioni: “ Fino a che punto può essere definita democratica una società in cui chi decide realmente del nostro destino non è vincolato ad alcun mandato dei popoli sovrani? […]. In Italia il problema se l’è posto Giulio Tremonti […] ‘La globalizzazione c’è stata presentata come l’età dell’oro. Ma così nei fatti non è stato’. Al dunque, la sola politica capace di incidere sulla storia è quella che riesce a guardare oltre i confini. In Italia il popolo sovrano continua a correre come in una giostra di criceti, tra riforme che non si fanno e un establishment che si rinnova solo per cooptazione. Il mondo corre e la classe dirigente politica contempla il proprio ombelico. Quanto può ancora durare? Alla fine la giostra si romperà e i criceti correranno via”.
Carlo Gambescia 

giovedì 13 marzo 2008

In memoria di Luigi Roca


"Mi ammazzo perché insieme al lavoro ho perso la dignità". L'"ottava vittima" della Thyssen,[ Luigi Roca] 39 anni, non ha mai lavorato nella fabbrica della morte. Ma la sua azienda, la Berco di Busano Canavese, faceva parte del gruppo tedesco. E il suo contratto, interinale, non è stato rinnovato perché la Thyssen adesso ha 150 persone "da collocare", come si dice terribilmente in questi casi. Come se le persone fossero i pezzi di un incastro. Però Luigi era diventato il pezzo stagliato: di troppo, e già troppo vecchio. Trentanove anni, un'età da matusalemme se cerchi il posto fisso. Ma ci aveva creduto. Dopo quattro anni di rimbalzi, un mese, due mesi in fabbrica e poi a casa, era arrivato un impiego giusto, più solido. "Durerà" .http://www.repubblica.it/2008/03/sezioni/cronaca/operaio-suicida/operaio-suicida/operaio-suicida.html

Eventi come il suicidio di Luigi Roca, indicano quanto oggi sia grande la distanza tra la classe dirigente italiana e la realtà sociale. E non ci vuole grande dottrina sociologica per capirlo.
Da un lato abbiamo una campagna elettorale, intessuta di luoghi comuni, polemiche inutili, protagonismi imbecilli, e dall’altro un uomo di 39 anni, punta di iceberg di un malessere sociale sempre più diffuso, che si suicida, perché “insieme al lavoro ha perso la dignità”.
Il primo impulso, di chi scrive, è quello di gridare in faccia a coloro che governano (o che si apprestano a governarci) una sola parola: vergogna! Ma servirebbe a qualcosa? Chi ci legge crede che, ora, in campagna elettorale, di colpo, “il lavoro riacquisterà centralità”, come spesso si legge? Macché, tutto continuerà come prima.
Dal momento che siamo davanti a quello che si può indicare, usando un linguaggio oggi desueto, come il grande tradimento del “lavoro” da parte del "capitale". Una delle conquiste del capitalismo welfarista è stata quella di attribuire al lavoro, stabile, remunerato, una funzione di “securizzazione” sociale e di consenso democratico. Per una serie ragioni, tra le quali, in primis,  l'ondata  neoliberista, questo patto tra lavoro e capitale è venuto meno. Di qui la crescente diffusione di quella precarizzazione che ha spinto Luigi Roca, che credeva nella dignità welfarista del lavoro, al suicidio.
Perciò questa tragica morte non è frutto di contingenze individuali, ma rinvia causalmente a un preciso fenomeno strutturale. Che tuttavia, alla lunga, dal momento che il capitalismo ha necessità di lavoratori-consumatori, potrebbe innescare una crisi sistemica. Ma si tratta solo di una possibilità. Si pensi, infatti, alla crescente capacità, in particolare dell’apparato informativo e mediatico-simbolico, di raccordare, in chiave di ipocrita leggerezza post-moderna, la precarietà lavorativa a stili di vita liberi, soprattutto moralmente. E basati sulla "manna" del credito al consumo e sulle possibilità di accesso, pur ridotte, a ipnotici beni di status.
Probabilmente Luigi Roca, come lavoratore metalmeccanico, e dunque in certo senso “tradizionale”, avvertiva, come accennato, più di altri lavoratori flessibili ma istituzionalmente e culturalmente dissimili (ad esempio i lavoratori di un call center o di un supermercato), la cesura tra il vecchio mondo del “lavori” e il nuovo mondo dei “lavoretti”. Condizione che non voleva, anzi non poteva accettare. Di qui la percezione di un' assenza di "regole" lavorative certe, che ha condotto Luigi Roca a risalire gli accidentati e solitari sentieri prima della depressione e poi del suicidio.
Del quale sono moralmente responsabili quei politici, che in piena campagna elettorale, fanno finta di non vedere come molti lavoratori considerino la flessibilità (e la precarizzazione sociale che ne consegue) un vero e proprio tradimento morale, prima che economico, nei riguardi di una “dignitosa” visione del lavoro.

Certo, interna al sistema capitalistico, dunque poca cosa, ma che per Luigi Roca, e giustamente, era tutto. Luigi, in realtà, chiedeva solo un minimo di rispetto sociale. Legato a un lavoro sicuro, prima promesso e poi negato. E ora, invece, siamo qui a ricordarlo. Che tristezza. 

Carlo Gambescia

martedì 11 marzo 2008

Candidature pidielline

Perché Giuseppe Ciarrapico sì, 
Giano Accame no? 




E’ mai esistito in Italia un neofascismo come “corpo unico”, politicamente parlando? No. Alcuni studiosi hanno sostenuto l’inevitabilità di un “pluriverso” fascista, come necessario prodotto delle differenti e molteplici anime del fascismo storico, tenute insieme da Benito Mussolini.
In realtà, nel dopoguerra - e siamo consapevoli di semplificare - il neofascismo politico-intellettuale ha ruotato intorno a due grandi filoni: quello del fascismo-regime e quello del fascismo-rivoluzione. Tra i primi vi erano gli ammiratori del fascismo del (grandi) opere”; tra i secondi gli entusiasti seguaci del fascismo delle (grandi) parole d’ordine rivoluzionarie.
I primi, in larga parte, sparirono dopo l’Otto Settembre, per riaffacciarsi nel dopoguerra in altri schieramenti o nello stesso Movimento Sociale dopo un periodo di purgatorio; i secondi scelsero invece di combattere e morire a Salò in nome del socialismo nazionale. Nel dopoguerra, i due schieramenti recepiranno selettivamente, della figura “carismatica” di Mussolini, solo quegli aspetti (del "pensiero" e delle "opere"), più in sintonia con una nuova identità esistenziale: quella di essere "fascisti senza Mussolini", per dirla con il bravissmo Giuseppe Parlato. Per i primi, ad esempio, lo stato corporativo resterà un glorioso punto d’arrivo, mentre per i secondi, la socializzazione rimarrà, un obiettivo, purtroppo, mancato.
Ora, Giuseppe Ciarrapico appartiene indubbiamente alla cultura del fascismo-regime. I suoi rimpianti sembrano essere tutti per lo stereotipo dei treni che con Lui giungevano sempre in orario. Una posizione, tutto sommato innocua, e perciò gradita a Berlusconi. Anche perché si tratta di quell’atteggiamento del “mugugno”, in buona sintonia, con certa base elettorale moderato-borbottona, con viva nostalgia per le "opere" del regime fascista. Un elettore che prima votava Movimento Sociale, dopo Alleanza Nazionale, e che ora si appresta a scegliere il bicefalo Partito della Libertà. Perciò Ciarrapico rappresenta una linea di continuità elettorale (e di consenso), passando per il Movimento Sociale e Alleanza Nazionale, con il fascismo-regime. Però, in questo modo, si continua a coccolare un elettore, che pur essendo di destra, coltiva simpatie autoritarie e in fondo poco democratiche. Il che è un male per l’evoluzione politica, o ricomposizione democratica, della destra conservatrice italiana.
Ben diversa è la sorte degli intellettuali, pochi in verità, che continuano a muoversi nell’alveo del fascismo-rivoluzione, ai quali Fini - e qui basta dare una scorsa alle liste - si è ben guardato dall' offrire un seggio parlamentare. E a maggior ragione neppure Berlusconi… Si pensi qui alla sorte di un prestigioso intellettuale come Giano Accame: più anziano di Ciarrapico, ma da sempre, e con l’intelligenza dello storico, sulle posizioni del fascismo rivoluzionario, quello “immenso e rosso”, per citare il titolo di un suo libro… Accame rappresenta, probabilmente anche per ragioni anagrafiche, ma soprattutto per la sua grandissima cultura storica, politica ed economica, l’ultimo vero legame con quel fascismo rivoluzionario, che tentò, certo a suo modo, di cambiare il mondo, scatenando una titanica guerra del “sangue contro l’oro”.
Un Giano Accame, ipoteticamente candidato al Senato per il Partito della Libertà, avrebbe stonato con le politiche neo-liberiste e finto-solidariste condivise da Belusconi e Fini… Inoltre, e per dirla tutta, l’elegante autore di Una storia della Repubblica (Rizzoli) e di Ezra Pound economista (Settimo Sigillo), non è neppure, diremmo quasi per disposizione naturale, in sintonia con quella fetta di elettorato moderato che legge Libero e il Giornale e che spesso guarda nostalgicamente al fascismo-regime. E che si appresta a votare in massa per il Partito della Libertà.
In conclusione, perché stupirsi se Berlusconi ha cooptato Giuseppe Ciarrapico mentre Fini si è ben guardato dal candidare un intellettuale scomodo come Giano Accame? Ciarrapico è in perfetta sintonia con il moderatismo qualunquista del Partito della Libertà, mentre Giano Accame non lo era, non lo è, e neppure mai lo sarà.
Tra i due fascismi - perché così hanno ragionato Berlusconi e Fini - è sempre preferibile quello più malleabile dei “treni in orario”. E poi può portare voti. ..
E - dimenticavamo - la nascita di una destra democratica? Per ora, non è in agenda... P.S. Giano Accame, dal momento che lo conosciamo bene, di sicuro non avrebbe accettato la candidatura. Ma questa è un'altra storia.

Carlo Gambescia

lunedì 10 marzo 2008

Riflessioni
La "nuova questione sociale



Tutti i partiti, già così impegnati nella campagna elettorale, sembrano ignorare un fatto strutturale, e dunque non solo italiano. Quale? Quello della “nuova” questione sociale. Tuttavia prima di parlarne a fondo, è corretto distinguerla dalla “vecchia”.

Vecchia e nuova questione sociale
La vecchia questione sociale risale alla metà dell’Ottocento europeo.
Le precarie condizioni in cui vivevano lavoratori privi di qualsiasi diritto (la cosiddetta questione sociale, appunto) innescarono un ampio contro-movimento sociale, sindacale e politico. Che da difensivo si trasformò in “offensivo”. Fino a svilupparsi sistematicamente nel corso del Novecento, con la progressiva approvazione di leggi, regolamenti e misure economiche e sociali a favore dei lavoratori. Questo contro-movimento, sorto per opporsi al “movimento” egemonico dell’economia capitalistica, raggiunse il suo culmine nella seconda metà del Novecento, con la nascita del welfare state democratico.
Per contro, la nuova questione sociale, è cosa di oggi. Nasce alla fine del Novecento sull’onda ideologica delle rivoluzioni neoliberiste degli anni Ottanta. E consiste nella progressiva riduzione delle tutele e delle garanzie, conquistate come risposta alla questione sociale ottocentesca. E la cosiddetta “flessibilità”, o precarietà lavorativa è il modo in cui oggi si manifesta la nuova questione sociale.
Per usare una metafora, si pensi ai moti alterni del livello marino che si ripetono nel tempo: alle grandi correnti di marea, che avanzano e si ritirano ciclicamente. Ecco, anche le società sono soggette alle stesse oscillazioni. In particolare quella capitalistica, così legata agli alti bassi dei ciclo economico. E perciò condannata a essere solcata da movimenti economici e contro-movimenti sociali. Di conseguenza, ogni volta, all’assalto della macchina economica non può non seguire la spontanea reazione difensiva dei vari gruppi sociali, che rischiano di essere schiacciati. E come l’ampiezza, la velocità e la dannosità delle correnti marine sono proporzionali all’estensione del bacino considerato e alla morfologia delle coste e delle difese naturali e artificiali, costruite dall’uomo, così la forza (e i danni sociali) del mercato capitalistico dipendono dalla capacità di una società di difendersi, attraverso un “contro-movimento” interno, in grado di salvaguardare la sua sostanza umana.



L'onda breve neoliberista
Per alcuni osservatori, la nascita della “precarizzazione” sarebbe frutto della transizione dal capitalismo fordista al capitalismo postfordista, Il primo incentrato sulla stabilità del posto di lavoro, i diritti sociali, e il keynesismo. Il secondo, invece sulla precarietà del lavoro, sulla progressiva riduzione dei diritti sociali e sul monetarismo neoliberista
Ora, a prescindere dalla giustezza dell’ ipotesi, vanno fatte due considerazioni.
Prima osservazione. L'onda neoliberista degli anni Ottanta è figlia del ciclo produttivo capitalista, ritornato prepotentemente a imporre ritmi produttivi accelerati e basati sulla delocalizzazione del capitale e della manodopera. Che poi ciò sia tuttora frutto di un cambiamento sistemico o della natura faustiana del capitalismo è questione che qui non può essere affrontata. Limitiamoci perciò a constatare che il Maelstrøm liberista ( e capitalista), ha provocato e provoca tuttora turbolenze in tutto il mondo. Turbolenze che vanno sotto il nome di “globalizzazione” e “precarizzazione”.
Seconda considerazione. Oggi siamo solo all’inizio di un nuovo processo storico-economico. Che cosa sono ventinove anni di “liberismo”, a far tempo dall’insediamento della Thatcher, (1979-2008), a fronte di un processo di “welfarizzazione” (1883-1978), durato novantacinque anni? Visto che lo si può far risalire alle leggi tedesche sull’assicurazione obbligatoria contro le malattie e gli infortuni sul lavoro (1883-1884). Periodo, tuttavia preceduto, e intersecato, da una prima “globalizzazione”, provocata dall’ascesa dell’economia imperiale britannica (1815-1914). Quindi parleremmo di onda breve neoliberista, almeno per ora.
Di riflesso, il contro-movimento sociale, perciò, potrebbe farsi attendere, e a lungo… Certamente vi sarà, ma si dovrà attendere qualche decennio. Difficile dire quando... Sempre che la situazione economica non precipiti di colpo, come alcuni osservatori presagiscono sulla base del trend finanziario negativo che sembra attualmente distinguere l'economia americana. Dopo di che, però, il riassetto mondiale potrebbe anche avvenire, ma a un livello di tutele democratiche, piuttosto ridotto, se non nullo.

Differenze tra vecchia e nuova questione sociale
Per capire le differenze tra vecchia e nuova questione sociale è necessario concentrarsi sul ruolo dello Stato. Se per quasi tre quarti del Novecento, lo Stato ha legiferato e attuato politiche economiche in favore del lavoro, con lo stesso consenso del mondo imprenditoriale. Oggi, è questo stesso mondo, conquistato dall’idea del liberismo globalizzatore a costo zero, che chiede allo Stato di tenersi fuori dalla vita economica.
Pertanto, ecco la prima differenza: la nuova questione sociale non ha più, tra i suoi attori principali lo Stato.
Ma c’è anche un’altra differenza. Se tra Otto e Novecento, esisteva una classe operaia, con le sue solidarietà sindacali e politiche, oggi, vi è solo un enorme ceto medio, segnato da propensioni individualistiche, e piuttosto erratico sul piano delle preferenze politiche. Se per quasi tutto il Novecento, il senso comune delle persone, ha privilegiato il gruppo, oggi privilegia l’individuo.
Ecco, allora, la seconda differenza: la nuova questione sociale, colpisce soggetti sociali diffidenti verso qualsiasi solidarietà di gruppo.
Ora, come abbiamo già osservato, siamo solo all’inizio. di una lunga fase di precarizzazione. A grandi linee, e restringendo la nostra analisi all’Europa dei 25, la fascia del lavoro precarizzato attualmente oscilla intorno al 14%. Questo significa, che per diversi milioni di giovani lavoratori europei il futuro è piuttosto in certo (perché il lavoro precario riguarda quasi 1 su 2, tra i 15 e i 24 anni, e 1 su 3, tra i 25 e i 35 anni ). Inoltre, il contratto di lavoro a tempo determinato (nelle sue varie forme), si trasforma in contratto a tempo indeterminato, solo in un caso su due. E, attenzione, l’alta quota di lavoro precario, spiega il basso tasso (relativamente parlando) di disoccupazione, che ruota in media intorno al 4,5 %. Il che significa, che cresce l’occupazione precaria mentre tende a diminuire quella stabile. E visto che la tendenza sembra consolidarsi nel tempo (nel 1997 il lavoro precario era al 12%,), il futuro potrebbe essere ancora più nebuloso.
Ma qual è la differenza fondamentale, tra i “precari” (chiamiamoli così) della vecchia questione sociale otto-novecentesca e quelli della nuova? Che i primi avevano le istituzioni dello Stato dalla loro parte (anche se non sempre all’inizio…), i secondi no. Inoltre,  mentre i primi sentivano il bisogno di coalizzarsi, i secondi non hanno alcuna fiducia nelle istituzioni politiche e sindacali. Il tasso di sindacalizzazione e politicizzazione è praticamente crollato negli Ottanta-Novanta del Novecento: oggi, 2 giovani su 3 non sono iscritti a sindacati e partiti politici. Mentre l’età media degli iscritti al sindacato è piuttosto elevata (intorno ai cinquanta), probabilmente anche a causa dell’elevato numero di pensionati iscritti nelle liste del sindacato.
Ma in genere, e soprattutto nei giovani, oggi si cerca una via di salvezza individuale. L’elemento che deve far riflettere sul piano sociologico, prima che economico, è che il clima di riflusso verso il privato, così celebrato anni Ottanta, ha prodotto figure sociali, cresciute nel privatismo consumistico televisivo. Le stesse figure che oggi rifiutano la mediazione istituzionale. O se vi si rivolgono, è per strumentalizzarla.
Ma questa è solo una parte della storia.
La precarizzazione che riguarda il mercato del lavoro, finisce per influisce anche sulla qualità della vita. Dal momento che è in crescita l’area del disagio sociale: il numero degli anziani soli (oltre i 65 anni), in affanno economico e bisognosi di cure, è in costante crescita: quasi 1 su 4. Sale, principalmente nelle generazioni di mezzo (tra i 35 e i 55 anni), anche il numero degli indebitati con le banche (mutui, crediti al consumo, eccetera), 2 capifamiglia su 4. Di più: 1 unità familiare su 4 dichiara di non riuscire ad arrivare alla fine del mese. I salari femminili sono fermi, o addirittura scendono rispetto a quelli maschili. Con gravi conseguenze per le famiglie monogenitoriali, con a capo una donna. E questo spiega pure perché nelle famiglie a rischio basti poco (un infortunio sul lavoro, una malattia, la perdita improvvisa del lavoro, eccetera) per scivolare di sotto della sotto della soglia di povertà. Nell’Europa dei 25, il 20 % circa della popolazione è al di sotto di questa soglia. [Per i parametri di riferimento si rinvia ai siti http://www.eurofound.ie/ (Fondazione Dublino) e http://www.ilo.org/ (International Labour Organization) e http://www.ec.europa.eu/public_opinion/index_en.htm (Eurobarometro). Siti dai quali abbiamo ripreso, sintetizzandoli, i dati statistici qui citati].

Che fare?
Che fare davanti alla fuga dello Stato e al progressivo riflusso privatistico di soggetti tra l’altro socialmente sofferenti? Tenendo presente anche un fatto importante: che le rigorose politiche pubbliche di bilancio (taglio delle pensioni e dei servizi sociali) renderanno di anno in anno la situazione sempre più difficile .
Un prima soluzione potrebbe essere quella di valorizzare le solidarietà intermedie, non statali o semipubbliche. Ma quali? Alcuni osservatori pensano al volontariato, che in Italia proviene largamente dal mondo cattolico (una associazione su due). Ma queste associazioni - visto che la Chiesa non naviga nell’oro - dove potrebbero trovare le risorse economiche necessarie? Nella carità dei privati (l’8 per mille…). Ma una scelta del genere non rappresenta forse un ulteriore passo indietro rispetto al secolo del Welfare? Se ad esempio, l’anziano non autosufficiente ha un diritto sociale all’assistenza medica gratuita, perché farlo dipendere, dall’altrui - anche se lodevole - buona volontà? Perché trasformate un diritto pubblico una facoltà privata?
Una seconda strada potrebbe essere quella di creare ex novo, o valorizzare, strutture sociali regionali, comunali, provinciali, in grado di far sentire all’ individuo sempre più isolato il calore della comunità. Ma come superare i burocratismi dei routinier dell’assistenza sociale? E come finanziare questi enti?
Un terzo percorso potrebbe essere quello di valorizzare il ruolo delle famiglie, finanziando, la fornitura di servizi (ad esempio nel campo dell’assistenza sociale a bambini e anziani ), svolti dagli stessi familiari. Ma poi come finanziare i necessari controlli “di qualità” sulle attività svolte dalle famiglie?
Resta infine il problema della precarizzazione del lavoro. Che andrebbe risolto creando reti previdenziali ad hoc che finalmente possano garantire, tra un lavoro e l’altro, la continuità contributiva e assistenziale. Ma anche rilanciando, come alcuni propongono una politica di grandi opere pubbliche e sociali, capace di creare occupazione?  Dove però  prendere le risorse economiche?
Per non parlare infine della possibilità dell’introduzione di un reddito di cittadinanza, non legato allo svolgimento di un lavoro, ma al diritto all’esistenza in quanto cittadini europei (perché no?). Misura che, se approvata, avrebbe un valore epocale, diremmo rivoluzionario, per l’ Unione. Ma su quali basi economiche? E diciamola tutta, anche politiche? Dove trovare le risorse?
La nostra insistenza sulle forme di finanziamento economico ha una sua importanza. Perché permette di individuare la differenza decisiva tra vecchia e nuova questione sociale.
La “vecchia questione sociale” venne affrontata senza imporre alcun vincolo di bilancio, o comunque non in maniera ferrea come avviene oggi. Si pensi al ruolo fondamentale svolto dalle politiche keynesiane nella costruzione delle basi economiche del welfare state.
La nuova questione sociale, nasce perciò sotto la stella delle rigide politiche di bilancio. Autentiche politiche delle lesina che impediscono, qualsiasi forma di finanziamento dei servizi sociali e di sostegno allo sviluppo economico.
Non va tuttavia negato un fatto: che ancora negli anni Cinquanta del Novecento, la pressione fiscale era meno della metà di quella di oggi, mentre i tassi di sviluppo economico (in termini di Pil), nettamente superiori a quelli attuali. Perciò ammesso che si possa tornare a politiche sociali di tipo welfarista, come convincere le persone ad accettare una pressione fiscale, probabilmente più alta, o comunque non minore di quella attuale? In presenza però di tassi di sviluppo inferiori a quelli degli anni Cinquanta. Certo, si potrebbe, anzi si dovrebbe, procedere al recupero dell’evasione fiscale. Ma è possibile far coincidere temporalmente ciclo economico e ciclo del recupero delle tasse e imposte evase?
E qui dobbiamo sorvolare sul cosiddetto problema della “decrescita”. La cui trattazione complicherebbe ancora di più il quadro appena delineato. Come conciliare, ad esempio, i costi, probabilmente crescenti del welfare sanitario e pensionistico con un sistema economico a bassa produttività e sviluppo?
In conclusione, una cosa è certa, fin quando non torneranno ad allentarsi i cordoni della “borsa" pubblica sarà difficile rispondere concretamente alle sfide poste dalla nuova questione sociale. E in questo senso, i politici che tuttora continuano a ragionare da banchieri, in termini rigorosamente monetaristi, si assumono pesanti responsabilità storiche nei riguardi di coloro che oggi hanno un’età tra i venti e i trent’anni. E soprattutto verso i figli dei precari di oggi. Ammesso e non concesso, che riescano a metterne al mondo.
Carlo Gambescia