Il libro della settimana: Stenio Solinas, Gli
ultimi Mohicani. Quel che resta della politica, Bietti 2103, pp. 124, Euro
13,00.
Quale può essere la
chiave di lettura dell’ultima fatica di Stenio Solinas, Gli ultimi Mohicani. Quel che resta
della politica (Bietti)?
Il mito della rivoluzione tradita. Il lettore è pregato di non inarcare il
sopracciglio. Solinas come Trotsky? Sì, ma soltanto in chiave
tipologica e tenendo presente, ça
va sans dire, la diversità dei contesti storici, dei ruoli, delle
levature, eccetera. In particolare, pensiamo al comune
giacobinismo argomentativo… Altro parolone, altro
sopracciglio… Tradotto: alla comune critica delle cose come sono andate in nome
delle cose come dovevano andare. Ci spieghiamo meglio.
All’inviato de
“il Giornale”, costretto a lavorare controvoglia nell’ officina
cartacea del padrone delle ferriere, la mai amata
società “liberal-capitalista” sta più stretta di
quararant’anni fa: si vorrebbe mordere la mano che
nutre ma si deve mordere il freno, come accade
allo stendhaliano Fabrice del Dongo. E per giunta, senza
aver mai udito una sola cannonata.
Per carità, è
l’eterna Comédie humaine, scolpita da Balzac, da cui
nessuno, compreso chi scrive, potrà mai liberarsi. Ortega parlava
di “circunstancia”, cui gli uomini possono però reagire secondo l'
indole: c’è chi vi si adagia, chi sociologizza, chi si ribella,
chi, come Solinas, scrive libri come questo, dove
si fa il processo all’Italia, agli italiani e alle cose come sono
andate, soprattutto sul piano politico. Ovviamente male, se si osserva,
sospirando, la realtà da una qualche immaginaria Coyoàcan,
con il cuore all' Italia vagheggiata a vent'anni. Quando si viveva
magicamente sospesi tra le vette della “tentazione fascista”
e i cieli di una rivoluzione politica e antropologica.
Insomma, fuor di metafora, Solinas continua a ritenere la politica arte
dell’impossibile: “Politica - si sciabola - non sono i partiti è
la battaglia delle idee, il cercare nuove strade, il non accontentarsi
della routine, un’etica, e se si vuole un’estetica” (p. 68). Estetica
della politica… il lettore prenda appunto.
C’è però chi
sostiene che la politica sia invece arte del possibile.
E che se si insiste troppo sull’impossibile, anche quando il possibile basta e
avanza, la politica finisce per fare rima con
rivoluzione, per poi precipitare, quando le cose si mettono male,
in rivoluzionarismo, talvolta da operetta talaltra da tragedia.
Purtroppo, come
insegnavano Del Noce e Noventa, siamo dinanzi al pericoloso sogno
proibito di tutti i giacobini italiani, rossi e neri: fare, anzi
rifare gli italiani dalla testa ai piedi a calci nel sedere.
Si tratta dell’essenza del giacobinismo, dottamente colta dal Jacob Talmon
e qui spiegata al popolo. Un approccio decisamente onirico che se fosse un
farmaco avrebbe due controindicazioni prima, durante e dopo l’assunzione: la
condanna in automatico di tutto quel che può stridere con la meta
agognata dal giacobino, ossia l'uomo nuovo; la liquidazione
di qualsiasi critica, che viene bocciata come
impolitica perché contraria alla “linea”, o se si preferisce la versione
soft, relegata tra le cianfrusaglie “liberal-capitaliste” di
“quel che resta della politica”, come recita il sottotitolo
del libro di Solinas. Di qui però, la simpatia in agrodolce, tipica
del giacobino nero, per certi giacobini rossi, che attraversa
tutto il libro: si notino il patetico aneddoto sul vecchio
comunista cieco, quasi fratello separato (pp. 14-15); lo spreco di stima,
anche politica, per Piergiorgio Bellocchio ( pp. 101-109), la
piccola punta d’invidia del militante delle idee per il giacobinismo
piemontese, “culturalmente vincente” (pp. 59-61), la strizzatina d’occhio al
Pasolini anticonsumista criptocamerata (p. 71-72) e al Nanni Moretti
antiedonista della “Messa è finita” (pp. 99-100).
Si tratta però di
una passione circospetta, piena di contrasti, perché Solinas
non nasconde l’ antipatia del giacobino di destra per i
viscidi ominicchi post-sessantottini con il cuore a sinistra e il
portafogli a destra: “comunisti immaginari ( pp. 27-28). E per l’Italia,
scapigliata e sudaticcia alla Gino Strada, fatta “di piazze,
mitologie sul comune cittadino, di appelli, marce, petizioni” (p. 61).
Ma neppure si salvano - nuova sterzata a sinistra
- l’“aziendalizzazione della politica” (p. 16), la destra
diffusa, “qualunquista e conformista, nostalgica e bigotta” ( p. 18), nonché -
aristocratica unghiata finale - i populismi, come dire,
non tragici : “Grillo è per certi versi la continuazione di
Berlusconi con altri mezzi” (p. 40). E qui ci fermiamo, perché il
punto è importante: se differenza c’è tra giacobinismo nero e rosso, anzi
talvolta rosa (si pensi ai fondamentalisti delle “quote”), è
rappresentata dal sentimento del tragico. I giacobini rossi,
soprattutto quelli con famiglia, amano brechtianamente
antieroi e codardi. E soprattutto il vivere, una volta chiusa la
parentesi terroristica e rivoluzionaria, come grassi topi nel formaggio.
Mentre per Solinas, aristocratico giacobino di destra,
non c’è via di mezzo: tragico e politica sono esteticamente inseparabili.
“Il tragico - osserva - in politica è un valore, contiene in
sé la catarsi e il sacrificio, l’etica e il rispetto delle idee, la durezza
della leadership, il rifiuto del compromesso, la speranza che si nutre di gesti
e comportamenti, la fiducia che nasce dall’esempio, un’idea di grandezza”
(p. 20). Definizione che verrebbe sicuramente sottoscritta a occhi chiusi dal
fior fiore della destra a un tempo rivoluzionaria e conservatrice del
Novecento: i giacobini neri per l’appunto.
Non è però
utopistico, per avvalorare il politico, concepire il tragico
come rilucente pietra filosofale? E non come “laico”
strumento politologico? Perché enfatizzare invece di sezionare e capire?
Detto altrimenti: fra il tragico, come qualcosa che sconvolge la vita di
una nazione aggredita, e il tragico, cercato e imposto
dall’aggressore, esiste sicuramente una differenza da studiare e
comprendere. E poi che c’è di bello nella distruzione di un popolo?
Si tratta di
una differenza che sfugge a chi punti, drammatizzando, sul tragico en bloc. E infatti
sulla questione Solinas sorvola. Probabilmente,
perché da fautore della rivoluzione tradita è portato a
privilegiare la fase movimentista, esteticamente fascinosa, senza
preoccuparsi delle conseguenze. E soprattutto di capire chi abbia
cominciato per primo, facendo proprio collimare - magari senza tanti complimenti
- tragicità ( e quindi bellezza) della politica con
etnocentrismo, come purtroppo è accaduto.
Inoltre, siamo
certi che se si chiedesse bruscamente a Solinas
di scegliere tra l’antieroe Berlusconi e un certo eroe nibelungico
in camicia bruna, esiterebbe… Magari solo per un attimo, ma indugerebbe.
Si legga al riguardo la chiusa del libro, dove Solinas sembra
comprendere, se non giustificare, chi inizialmente, come lo scrittore
Gottfried Benn, aveva appoggiato Hitler in nome della tragica
grandezza della patria tedesca (pp. 108-109). E Stenio Solinas
per fortuna, come gli amici sanno, è uomo mite, arguto,
autoironico. Quindi saprà sempre dove fermarsi.
Ma quando certe doti mancano? Tarmo Kunnas, suo malgrado, ha
in qualche misura mostrato che il combinato disposto fra estetica e
politica non può funzionare: si comincia alla grande con l’estetica
della politica e si finisce per dare man forte ai seguaci dell’eugenetica
sociale, i quali fanno volgarmente coincidere forza, colore della pelle e
bellezza…
Certo, si
dirà, alla fin fine, personaggi come Mussolini, Hitler,
Berlusconi passano mentre la patria resta, grande o piccola
che sia. Giustissimo, ma i primi due hanno sicuramente
fatto più danni.
Carlo Gambescia