lunedì 31 luglio 2023

Homo Ansiosus, alle origini della società dell’ansia

 


Oggi Alessandro Campi sul “Messaggero” scopre la società dell’ansia. Vi risparmio le banalità e i soliti giochini di parole per salvare la destra di governo, giudicata invece in linea di massima non ansiogena.

Campi, tra gli altri valori, butta dentro l’editoriale dio, patria e famiglia con altra terminologia s’intende: valori aggrediti, si legge, dalla società dell’ansia… Sarà pure così. Ma guarda caso sono gli stessi valori difesi da Fratelli d’Italia.

Non è però di Campi che intendiamo parlare. Ma di altro. Quando è nata la società dell’ansia? Ecco il vero punto interessante.

Quasi una quarantina d’anni fa uno studioso tedesco, un sociologo, Ulrich Beck, scrisse un libro molto interessante sulla società del rischio, in pratica sulla società aperta di popperiana memoria. Beck interpretava, saggiamente, come un’opportunità, la fiammata liberale che negli anni Ottanta aveva portato sangue nuovo nelle politiche economiche, persino in Italia.

Quasi  nessuno  lo contestò.  Se non isolati gruppi di studiosi neomarxisti, grumi di  tradizionalisti,  sparuti  attivisti verdi.  Negli anni Ottanta la società  occidentale   - base e vertici -   non si era ancora ammalata di ansia. 

Però lo stesso anno, il 1986, in cui uscì La società del rischio di Beck, andò in onda a reti unificate, ma in senso mondiale, il disastro di Chernobil: errore umano, ma artatamente esteso, dai nemici della società rischio alla tecnologia nucleare. Addirittura in Italia nel novembre del 1987 si fece un referendum e vinsero gli antinuclearisti  sull’onda della peggiore democrazia emotiva.

Nel 2020, meno di tre anni fa, l’epidemia di Covid, pardon pandemia, e le tremende misure restrittive varate da quasi tutti i governi, sulla scia di emozioni incontrollate (per “salvare l’umanità" si disse), sanciscono l’ingresso definitivo nell’era dell’ansia. Tutto il resto è storia contemporanea.

Cosa è accaduto tra il 1986 e il 2020? Perché e come dalla società del rischio siamo passati alla società dell’ansia?

Un passo indietro. Alla fine degli anni Ottanta, primi anni Novanta (si pensi al Leghismo in Italia), si sviluppò un fenomeno politico, poi molto studiato: il populismo.

Per capire in che cosa consiste il populismo, soprattutto sul piano del linguaggio, cioè della retorica dell’intransigenza, consigliamo di rileggere le prime cento pagine della Guerra civile Europea (1917-1945) di Ernst Nolte.

Per quale ragione? Per scoprire che tipo di terribili insulti, a largo raggio ansiogeno, nazisti e comunisti si lanciarono gli uni contro gli altri armati, e tutti insieme contro la Repubblica di Weimar, poi abbattuta da Hitler, con il voto dei tedeschi in preda all’ansia.

Purtroppo le radici populiste del crollo di Weimar sono poco studiate. Populismo che da allora sarà il padre di tutti i populismi, emotivi per eccellenza, ripetiamo.

Cosa vogliano dire? Che il populismo, sposato con entusiasmo dalle destre estreme e condiviso, obtorto collo o meno, anche dalle sinistre, è il principale responsabile della società dell’ansia. In fondo che cos’è il populismo se non il diffondere timori ingiustificati? A destra, sui migranti  e  sul complotto mondialista? A sinistra, sul pianeta affamato e condannato a morte dall’ideologia mercatista?  Per poi fornire risposte preconfenzionate, autoritarie a destra, stataliste a sinistra?

Molti si sono dimenticati che politici come Giorgia Meloni e Matteo Salvini nel marzo del 2020, sull’onda della democrazia populista ed emotiva, chiesero al governo di imporre misure ancora più restrittive.

La società dell’ansia – ecco il punto fondamentale – è lo sbocco naturale di più di trent’anni di veleno populista. Cioè di una politica emotiva giocata sulla paura diffusa e sull’insorgenza di uno stato permanente di ansia collettiva.

L’ansioso, in politica, non ha tempo per ragionare, mediare, eccetera, è travolto dalle emozioni, vuole risposte immediate, come capita nelle piazze mediatiche. L’Homo Ansiosus(ci si perdoni il latino maccheronico) è disposto a tutto pur di avere un attimo di tregua. Soprattutto ha bisogno esistenziale di un capo: di qualcuno che pensi per lui, lo rassicuri, lo tratti come una specie di bambino bisognoso di protezione, “coccole” e “pappa”.

Se la società del rischio premia e valorizza un individuo forte, sicuro di se stesso, la società dell’ansia produce individui invertebrati e capi carismatici.

La principale diversità tra la società dell’ansia di oggi e quella di Weimar, consiste nell’assenza di “uomini della provvidenza”, diciamo di tipo criminale come Hitler.

Per ora.

Carlo Gambescia

domenica 30 luglio 2023

La destra e le lottizzazioni

 


La sinistra strepita e accusa la destra di lottizzare. L’accusa è giusta. Va però detto che la sinistra ha fatto lo stesso. Vulgata vuole che i lottizzati di sinistra siano giudicati più preparati di quelli di destra. Pertanto la sinistra punterebbe su persone politicamente fidate ma preparate.

Chiacchiere. In realtà il problema non è il lottizzato ma la lottizzazione.

Ma allora, qualcuno potrebbe chiedersi, negli Usa? Che ad ogni nuova amministrazione cambia tutto. Gli Stati Uniti, anche se incomparabilmente, più grandi dell’Italia, non hanno un sistema di economia pubblica ampio come quello italiano. Quindi lo spoils system riguarda gli uffici strettamente politici. Per capirsi, anche se non è proprio così, i “ministeri”. Insomma, la pubblica amministrazione.

In Italia il settore pubblico non si ferma ai “ministeri”, ma allunga i tentacoli sull’economia: grandi imprese pubbliche, partecipate, locali, nazionali, dal credito, ai servizi e all’industria ( o meglio al “post industriale”), molte di queste strutture, magari con la foglia di fico del Parlamento, sono diramazioni politiche come la Rai.

Pertanto, riassumendo, la lottizzazione “all’italiana” non riguarda solo la politica ma l’economia. Che invece negli Stati Uniti è privata.

Ora che cosa avrebbe dovuto fare la destra per tirarsi fuori da questo merdaio (pardon)?

Due cose.

La prima, lasciare tutti gli enti nelle mani dei precedenti lottizzati, rifiutando la lottizzazione: fatto storico in Italia. Roba da quarto movimento della Nona sinfonia di Beethoven.

La seconda, di lanciare un grande piano di privatizzazioni per tirare fuori lo stato dall’economia. Anche qui Beethoven non guasterebbe.

E invece che cosa ha fatto la destra? Ha lottizzato, come la sinistra.

Esiste una differenza sotto il profilo della visione economica tra questa destra e la sinistra? Sinistra  che Giorgia Meloni, in un’intervista a Fox News, in cui fa professione di realismo politico, accusa di essere dalla parte degli utopisti? No. La destra è statalista quanto la sinistra. Non ha una visione liberale dell’economia, crede nell’utopia dello "stato amico" della pubblicità progresso pagata dal contribuente.

Un’ultima cosa. Che  significa essere realisti politici? Lasciare le cose come stanno? Oppure comprendere che l’Italia, realisticamente parlando, ha necessità di un gigantesco programma di privatizzazioni? Di liberare il suo potenziale  economico?

Più stato nell’economia significa solo lottizzazioni, crescita del disavanzo pubblico, e di conseguenza della pressione tributaria. Tradotto: zero pil.

Qual è allora il vero realismo politico? Cambiare teste di legno con altre teste di legno? O cambiare le regole, privatizzando, per impedire il valzer delle teste di legno?

Carlo Gambescia

sabato 29 luglio 2023

Giorgia Meloni e i tre colori

 


Giorgia Meloni si è fatta ritrarre con Henry Kissinger, con il quale è rimasta a colloquio due ore: alta politica, si lascia trapelare. E ovviamente presenta la visita a Washington come un successo. Vedremo.

Intanto però stando a quanto pubblica il “Corriere della Sera” di Cairo, che pure è quasi amico, la Meloni, giovedì, non ha saputo rispondere al leader del Senato Chuck Schumer, un democratico, di tendenza liberal, che le chiedeva quale fosse il significato dei colori della bandiera italiana. Si è tolta di impaccio, rispondendo «molte cose» (*).

Non entriamo nel merito dei colori. Perché è così banale la spiegazione che stupisce l’’ignoranza della Meloni.  Per dirne una  a livello di toppa,  sarebbe bastato andare, prima di partire, sul sito del Quirinale  (**).  E invece no.  Che sfortuna,  doveva  capitare proprio a lei, Giorgia,  ricevuta a colazione da Mattarella una volta a settimana, come dicono i bene informati.

Ma quel che stupisce è la provenienza politica  della Meloni: un partito ultranazionalista, con radici fasciste, che ha il tricolore, via Fiamma diciamo, nel simbolo ufficiale di Fratelli d’Italia.

Dicevamo dell’ignoranza. In realtà, sono lacune, per chi fa politica di professione,  piuttosto  gravi. Cose che capitano quando non si hanno alle spalle letture storiche  e neppure studi se non approfonditi, almeno appropriati.

La storia del tricolore, riporta alla Rivoluzione francese, ancora prima all’indipendenza olandese, e infine alla conquista napoleonica dell’Italia e alle origini del Risorgimento italiano. Le tre strisce verticali, come i colori,  erano un simbolo rivoluzionario che ricalcava sul piano ideale, ciò che poi gli storici avrebbero  dipinto come il modello giacobino. Bandiera perciò odiatissima.  Disprezzata  dai reazionari del Trono e dell’Altare. Come del resto gli “Alberi della Libertà” abbattuti dai "Sanfedisti" del Cardinale Ruffo.

Però c’è un altro fatto. Diciamo una conferma. Giorgia Meloni, oltre che digiuna di cultura risorgimentale,  è priva di curiosità. Cioè della molla che spinge a informarsi, a leggere e studiare, per il puro piacere di informarsi, leggere e studiare. Insomma, senza alcuna contropartita immediata.

Si pensi alle ultime polemiche con la Francia come pure alle successive  tregue e allo sventolio insieme dei due tricolori nella cerimonie ufficiali. Perché non pensare di approfondire, proprio mentre si è accanto a Macron, le origini di due bandiere quasi gemelle? Però la curiosità o c’è non c’è. Per capirsi:  quale può essere stata la reazione della Meloni? Quella di arrabbiarsi con il suo  staff per non avere ricevuto  "l'informazione"...

Insomma,  non ha fatto una bella figura. E con lei non l’ha fatta, per dirla in “melonese”, la Nazione (con la maiuscola). Ma sono cose che capitano ai politici praticoni, a quelli che si buttano, sgomitano, e alla fine arrivano dove volevano arrivare. Ma con una controindicazione: restano sempre ciò che sono. Ignoranti.

Carlo Gambescia

(*) Qui: https://www.corriere.it/esteri/23_luglio_29/gli-incontri-meloni-washington-kissinger-neo-ambasciatore-roma-un-intervista-fox-news-910adee2-2d94-11ee-96ad-80cddfd656e5.shtml .

(**) Qui: https://www.quirinale.it/page/tricolore .

venerdì 28 luglio 2023

“Repubblica”: orgoglio e pregiudizio

 


Oggi “Repubblica”, diretta da un liberale, Maurizio Molinari, figura di giornalista apprezzabile, pubblica un’ intervista di due pagine a Toni Negri, con richiamo in prima pagina.

Cosa pensare? Che contro il governo di Giorgia Meloni tutto fa brodo. Persino un cattivo maestro condannato a dodici anni per associazione sovversiva e reati vari che professa tuttora la violenza di classe.

Il pensiero di Negri, una rimasticatura filosofica dell’estremismo politico marxista, che mette sullo stesso piano la violenza borghese e quella proletaria, è qualcosa che in una vera democrazia liberale nessuno dovrebbe prendere in considerazione, politicamente parlando.

E invece “Repubblica”, proprietà di una famiglia ultraborghese, gli Agnelli, che fa? Dà spazio a una vecchia controfigura di Lenin, che ha perduto – e per fortuna – la sua occasione. Un “professore” che se avesse vinto avrebbe impiccato i borghesi con le loro budella.

Perché la borghesia, soprattutto la grande borghesia, tradisce la sua classe? Esistono varie teorie. Senso di colpa degli eredi, convenienze politiche e professionali. Nonché, in Italia, l’antifascismo. Quest’ultima motivazione ha una sua ragion d’essere. Ma perde ogni valore politico, quando si vanno a cercare alleati tra gli estremisti, come nel caso di Toni Negri.

Molinari ci risponderebbe che tutti, soprattutto un professore come Negri, hanno diritto a esprimere le proprie idee. Anche chi scrive è un liberale, che però, se avesse diretto “Repubblica”, mai avrebbe intervistato un personaggio del genere e soprattutto in un momento come questo, proprio per evitare pericolose derive weimariane degli estremismi concorrenti e autodistruttivi.

La regola, valida per ogni vero liberale è che non può essere tollerante con l’ intollerante. Vanno fissati dei paletti. Se lo si fosse fatto con Hitler da subito, eccetera, eccetera.

Si dirà che Negri ormai è un trombone sfiatato e che quindi furbamente lo si può usare come una specie di innocua coccardina. Non sapremmo. Però sappiamo che la segretaria del Pd a proposito di “salario minimo negato” ha detto che la destra vuole “trasformare in schiavi” i lavoratori. Tesi subito rilanciata da “Repubblica”. È un linguaggio liberale? Si affianchino a questa dichiarazione di Elly Schlein quelle di un Toni Negri al riguardo e il (cattivo) gioco è fatto.

In questi giorni si è polemizzato sui Social per un articolo su “Repubblica” in cui Alain Elkann ha giustamente criticato la “cafonaggine” di alcuni giovani italiani in treno. Lo si è definito uno snob che si è sfogato su un giornale di proprietà del figlio. Cosa non a tutti possibile, eccetera, eccetera.

Ecco che cos’è “Repubblica”: orgoglio e pregiudizio.

L' orgoglio di potersi permettere  cose che altri giornali, soprattutto di destra, non potrebbero mai fare, come ad esempio intervistare qualche loro intellettuale ex galeotto, pronto a rivendicare il modello economico nazifascista, come Negri rivendica quello comunista.

Ma anche pregiudizio.  Nel senso di dare sfogo ai pregiudizi di famiglia. Nel caso al pregiudizio verso la gente "normale", che a dire il vero, oggi come oggi, è proprio così: maleducata e urlante,  come i giovani “lanzichenecchi” in treno. 

Gente del resto cresciuta nell’Italia delle piazze televisive e delle gogne mediatiche, le stesse alimentate da decenni di campagne politiche urlate di “Repubblica”.

Carlo Gambescia

giovedì 27 luglio 2023

Giorgia Meloni, il test Washington

 


Una cosa va precisata subito. Biden non ha mai ricevuto né Orbán né Bolsonaro. Evidentemente scorge delle potenzialità democratiche nella destra di Fratelli d’Italia. Il sacrificio di ricevere Giorgia Meloni alla Casa Bianca per un incontro ravvicinato vale la candela, per così dire. Ma che cosa vuole Biden dall’Italia? Tre cose.

In primo luogo, un alleato sicuro nella guerra contro Mosca, il secondo luogo, un amico nel Mediterraneo e in Africa, in terzo luogo un partner in grado si sfilarsi dall’abbraccio dei cinesi sulla “Via della Seta”.

E la Meloni? Innanzitutto, una legittimazione democratica dalla madre di tutte le democrazie. In secondo luogo, un contrappunto politico ed economico nei riguardi di Francia e Germania. In terzo luogo, mani libere, o quasi, sui migranti.

Ovviamente, questo incontro per la destra antiamericana, che esiste probabilmente anche all’interno di Fratelli d’Italia (ma si pensi pure all’alleato leghista di obbedienza salviniana), l’avvicinamento agli Stati Uniti non può piacere. I neofascisti italiani, che non hanno mai dimenticato il 1945,   guardano alla Russia e alla Cina, anche per antiche remore ideologiche verso la democrazia, come possibili alleati in funzione antiamericana. Di conseguenza, il viaggio di Giorgia Meloni a Washington viene giudicato un tradimento geopolitico e culturale.

Va però detto, che questo tipo di neofascismo, al momento, non ha alcuna rilevanza di tipo elettorale. Pertanto Giorgia Meloni, che tra l’altro esercita un potente controllo su Fratelli d’Italia, sembra avere le mani libere.

La vera domanda, che preoccupa amici e nemici di Giorgia Meloni, è quanto sia sincero il suo riavvicinamento agli Stati Uniti. Per la destra neofascista, come detto, lo si liquida o come un tradimento bello e buono, o come il frutto di un pragmatismo politico di bassa lega, che non merita alcuna fiducia. Per tutti gli altri, dalla sinistra alla destra perbene, Giorgia Meloni resta una specie di rebus politico, perché non si riesce a capire che tipo di relazione possa esistere tra le sue posizioni reazionarie e il credo liberal.

Certo, si tratta di politica estera, quindi, soprattutto in momenti complicati come questi, gli Stati Uniti non possono andare tanto per il sottile. Hanno lanciato un amo e ora attendono. Quanto a Giorgia Meloni invitiamo i lettori a osservare come la sua strategia ricordi quella per così dire quella della lumaca, dei piccoli passi intorno ai pilastri della famiglia tradizionale, del sovranismo antieuropeo, delle politiche antimigratorie. Per ora Giorgia Meloni sembra essere sulla difensiva, ma in realtà snobba le nuove famiglie, spinge la commissione europea ad affiancarla su Mediterraneo e migranti e a pazientare sulle politiche economiche italiane espansive.

Probabilmente, questa strategia deve aver colpito gli Stati Uniti, che hanno capito benissimo, come l’ombrello americano, torni utile ai disegni di Giorgia Meloni. Di qui l’amo di cui sopra.

Diciamo che al momento Stati Uniti e Italia hanno bisogno l’uno dell’altra. E l’Italia che rappresenta l’alleato più debole si ritrova in una condizione fortunata, perché può trattare se non alla pari, almeno da una posizione privilegiata di cui non godeva dai tempi della Guerra fredda.

Certo, dipenderà da Giorgia Meloni saper sfruttare questa possibilità. Qui però si torna al vizio d’origine,  alle profonde radici neofasciste e antiamericane di Fratelli d’Italia, quindi al peso dell’antiamericanismo, non tanto a livello elettorale, quanto sul piano del subconscio politico, diciamo dei sensi di colpa verso la tradizione politica di appartenenza. Che è una sorta di sottotesto sociologico che impregna nel bene e nel male  la vita quotidiana di Fratelli d’Italia.

È vero che il potere cementa tutto e facilita le cose. Però, se ci si  passa la caduta di stile, non si può nascere lupi  e morire agnelli. Diciamo allora che il volo a Washington è un test interessante per capire fin dove Giorgia Meloni vuole spingersi. E soprattutto se riuscirà a convincere Biden. In particolare sulla Cina.

Carlo Gambescia

mercoledì 26 luglio 2023

L'ignoranza al potere

 


Un consiglio ai lettori. Seguano con attenzione quel che sta accadendo al Centro sperimentale di cinematografia di Roma. Perché? Con un emendamento al disegno di legge sul Giubileo (che si sperava passasse sottotraccia), il Centro è finito sotto gli artigli del governo Meloni: si prevedono modifiche sostanziali al suo statuto con l’abolizione del direttore generale e la nomina un nuovo comitato scientifico (che si occupa di designare la didattica e i docenti del Centro) con 6 componenti (tre espressi dal ministero della Cultura, uno dal ministero dell’Istruzione e del merito, uno del ministero dell’Università e uno del ministero dell’Economia e delle finanze). Come usavano dire i  nonni: “Pancia mia fatti capanna”…

Ora che in Italia il cinema sia di sinistra è un fatto. Il che però non significa che registi come Virzì, per fare un esempio, non siano all’altezza. Virzì, può piacere o meno, ma il cinema lo sa fare. E così tanti altri suoi colleghi di idee, a cominciare da un Martone. La tesi può essere estesa agli attori, agli sceneggiatori, eccetera. E la destra? L’ultimo regista decente fu Blasetti. Pupi Avati è tutto eccetto che di destra o peggio ancora fascista. E comunque sia è una mosca bianca. Tra gli attori si può ricordare il bravo, ma in fondo limitato espressivamente, Lando Buzzanca, oggi scomparso. Si potrebbe fare anche il nome, sempre come regista, di Gualtiero Jacopetti, ma se lo si paragona a un Giuliano Montalto, un regista di sinistra nella media ma molto alta, Jacopetti sparisce. Ma diciamola tutta: esiste almeno una  Francesca Archibugi di destra? Una Cristina Comencini? Inutile parlare ovviamente della generazione  dei Monicelli, dei Risi, degli Scola, eccetera.

Il cinema di destra non funzionò neppure durante il fascismo: “Camicia nera” e “Vecchia Guardia” non piacquero neppure al duce. Per dirla altrimenti, in Italia non esiste un cinema di destra ( il ciclo dei “telefoni bianchi” fu una ripresa italiana della commedia sofisticata americana allora gli albori). Diremo di più: uno dei canti più belli (da loro punto di vista, ovviamente), “Il domani appartiene a noi” è opera di Bob Fosse, regista e produttore di “Cabaret”, film antifascistissimo. Che per rimbalzo l’estrema destra, sospendendo il giudizio sulla Hollywood Ebraica, fece proprio (si faccia pure un giro su YouTube). Questa è la destra “cinefila”: capace, al massimo, di copiare. Di regola,  anche male.

Ora, questa gente, ignorante e priva di immaginazione (detto tra noi: ma, pardon, dove cazzo si va con il “Dio, Patria e Famiglia…), ha riagguantato il  potere. La Rai è caduta, neppure dignitosamente, Fazio e compagnia bella sono stati allontanati (vendetta compiuta) e adesso tocca al Centro di Cinematografia.

Si dirà che anche la sinistra lottizzava. Giustissimo. Ma almeno c’era la qualità La destra lottizza, ma non ha le idee, non ha gli uomini, non ha nulla a che vedere con la settima arte. È capace solo di mostrare un’arroganza pari alla sua incultura.

Sì, questa volta, è andata al potere non l’immaginazione ma l’ignoranza.

Carlo Gambescia

martedì 25 luglio 2023

Che cosa vuole l’elettore europeo?

 


L’ “onda nera”, come si legge oggi sulla “Stampa”, si è fermata in Spagna o no? Il punto non è questo. Crediamo che invece di parlare di destra e sinistra si debba parlare dell’elettorato europeo. O meglio dell’elettore medio, tracciandone il profilo.

Che cosa vuole l’elettore europeo? Quasi tutte le indagini rivelano un dato comune all’elettore di destra e sinistra: vuole sicurezza. Del posto di lavoro, in primo luogo. Poi vengono assistenza e previdenza sociale. Si pensi a quello che è successo in Francia sul taglio alle pensioni. Si registra anche un atteggiamento di ostilità diffusa verso il migrante che “ ci ruba” il welfare…

L’elettore europeo, al momento, ha due preoccupazioni principali: il caldo e le vacanze. Il caldo, da molti ritenuto eccessivo viene collegato al “cambio climatico”. Quindi si chiede ai governi di fare qualcosa, magari fornendo gratuitamente condizionatori. Quanto alle vacanze,  al momento non si pensa  ad altro: pochi o tanti che siano i giorni di "ferie",   rappresentano comunque qualcosa di irrinunciabile. Per fare un esempio: se il governo proponesse di posporre le vacanze per ragioni produttive scoppierebbe la rivoluzione.

La libertà, che è rischio, viene oggi giudicata come pericolosa perché si dice   scollegata  dalla sicurezza: come se esistesse un fuoco che  non brucia...  Sicché,  sotto questo aspetto – del rischio ripetiamo – la libertà non è più al centro degli interessi dell’elettore europeo.

In realtà,  le questioni dei diritti civili,  questioni sollevate da minoranze acculturate, sono ravvisate come non essenziali, o comunque giudicate importanti solo se collegate ai principi del benessere welfarista, come ad esempio i diritti alle cure mediche per i conviventi, a prescindere dal genere, eccetera, eccetera. Prima la sicurezza sociale, poi tutto il resto.

Gli stessi imprenditori, piccoli o grandi che siano, chiedono una sola cosa: aiuti economici. Insomma di essere liberati dal rischio economico, da ciò che ha fatto grande il capitalismo.
Se questo è il profilo dell’elettore europeo, risulta difficile parlare di differenze tra destra e sinistra. Vince chi promette maggiore sicurezza sociale. Si pensi alla questione del salario minimo: si discute della sua entità, non della sua inutilità economica.

Tornando alle elezioni spagnole, chiunque abbia seguito il dibattito finale, non ha potuto non accorgersi dei continui richiami al tema della sicurezza sociale. Non era presente, per sua scelta, il leader del partito popolare, ma il suo intervento nulla avrebbe tolto o aggiunto al carattere welfarista dei contenuti del dibattito.

L’accento sulla sicurezza sociale, comune a destra e sinistra, ovviamente non allontana il pericolo di derive autoritarie, anzi le favorisce, perché facilita la diffusione dell’idea dello stato protettivo. Idea che accomuna destra e sinistra.  E  da protettivo a onnipotente il passo è breve.

Servirebbe invece quello che un tempo si chiamava cambio di paradigma. Ma chi ha coraggio di parlare di libertà, quindi di rischi sociali, a un elettore che non sa che farsene? Un elettore che vuole soltanto sicurezza sociale, condizionatori e vacanze? E ovviamente di continuare a scambiare messaggini con lo smartphone anche in spiaggia…

Sì, ormai l’ ultima frontiera della libertà è WhatsApp.

Carlo Gambescia

lunedì 24 luglio 2023

Filo spinato a peso d’oro

 


Conferenza Internazionale su sviluppo e migrazioni. Sono intervenuti i capi di stato di Tunisia, Emirati Arabi Uniti, Mauritania, Libia e Cipro e i primi ministri di Libia, Etiopia, Egitto, Malta, Giordania, Nigeria, Algeria e Libano. Per l’Ue era presente Ursula Von der Leyen.

Un grillino chiederebbe subito quanto è costata la pubblicità progresso meloniana? Qualche milione di euro? Chi ha pagato le spese di soggiorno e viaggio delle delegazioni straniere?

Però non è questo il punto. Il vero punto, che tocca il fondo dell’ipocrisia, è che Giorgia Meloni ha presentato come filantropico un incontro d’affari. Il cui succo velenoso è che l’Italia ( ancora non si capisce se con l’appoggio economico o meno dell’Ue) pagherà chi “ci starà” a impedire che i migranti si imbarchino dalla costa africana del Mediterraneo.

Il magniloquente piano Mattei è questo: denaro contro polizia africana che impedisce gli imbarchi clandestini. Il sottotesto del messaggio ai migranti – ecco il volto disumano e ipocrita di Giorgia Meloni – è il seguente: “Attenti, carissimi, perché rischiate di finire in prigione, non Italia ma in Tunisia, Libia, eccetera,  sempre se giungerete vivi alle coste…”.

Questo, ripetiamo, sarebbe il piano filantropico di Giorgia Meloni. Che si ritiene, come dicevamo ieri, la più furba del reame (*).

Può essere la strategia giusta? Servono soldi, il filo spinato da quelle parti si vende a peso d’oro. E soprattutto pelo sullo stomaco. Quest’ultimo c’è, anche a livello diffuso. Forse i soldi si troveranno, come è accaduto per l’Emilia, aumentando il numero delle giocate settimanali al superenalotto. Tanto gli italiani mai rinunceranno a pagare la tassa sugli imbecilli.

Comunque sia, ci ritroveremo più egoisti e più stupidi. Ma anche meno liberi e più poveri.

Un passo indietro. Le migrazioni dovrebbero essere libere. Ogni uomo ha il diritto a muoversi liberamente: ubi bene, ibi patria. Invece, come ogni forma di proibizionismo, introducendo il reato di immigrazione clandestina non si è fatto altro che favorire il mercato parallelo del migrante clandestino. Come per le droghe e come un tempo per le sigarette i divieti, poiché ogni domanda incontra la propria offerta (le vie del mercato sono infinite), favoriscono l’illegalità perché traspongono semplicemente lo spazio del mercato dal lecito all’illecito. Non colpiscono il bisogno, colpiscono i bisognosi. 

Che significa tutto ciò? Che divieto chiama divieto. E che una volta che si è scelta strada della “filosofia del divieto” come nel caso delle destre, in particolare quelle estreme – si pensi a Vox in Spagna e Fratelli d’Italia da noi – si va inevitabilmente verso lo stato di polizia. Solo che gli spagnoli, stando al voto di ieri, sembrano essere più intelligenti degli italiani, dal momento che hanno “mandato a casa” Vox, premiando le forze moderate del partito popolare e socialista.

Si noti anche un fatto. Alla conferenza di ieri, la Spagna, altrettanto interessata al Mediterraneo, non era presente, neppure con un osservatore. Che elezioni o meno si poteva inviare.   Evidentemente perché – Vox a parte – in Spagna non si condivide la filosofia del divieto. Per non parlare dell'assenza di Francia e Germania...

Da noi invece le cose vanno diversamente. La Meloni però cominci ad aprire il portafogli, perché il superenalotto potrebbe non bastare. Il filo spinato in Africa costa carissimo. E il portafogli, di cui dicevamo, non è il suo ma degli italiani. Che, rischiano di diventare più poveri, per favorire il tenore di vita delle polizie nordafricane e la costruzione di prigioni e campi di concentramento in Africa. Stabilimenti circondati da  filo spinato, pagato a peso d’oro, e ovviamente dedicati a Enrico Mattei.

Carlo Gambescia

(*) Qui: http://carlogambesciametapolitics2puntozero.blogspot.com/2023/07/la-furbizia-di-giorgia-meloni.html .

domenica 23 luglio 2023

La furbizia di Giorgia Meloni

 


Tutti, o quasi, applaudono alla carnevalata degli incontri di oggi alla Farnesina sul “Mediterraneo allargato”. Ennesima “furbata” di Giorgia Meloni.

Perciò prima di ogni ragionamento si impone una domanda: che differenza c’è tra intelligenza e furbizia?

La furbizia rinvia all’ atto singolo: ad esempio si tratta un affare con una persona, facendo credere, tatticamente, che prima dell’affare interessa la persona con cui si tratta, fatto che poi viene smentito dalla ripetizione della stessa tattica con altre persone, quindi un singolo atto di ruffianeria, non ha valore strategico, dal momento che la ruffianeria è socialmente condannata. Al ruffiano sfuggono gli effetti della reiterazione. Quindi ci si fa del male da soli.

L’intelligenza rimanda invece alla comprensione dell' atto plurimo. Ad esempio si tratta un affare con una persona, per quello che l’affare è, quindi ci si concentra sugli aspetti concreti, economici. La tattica di vendita, soprattutto se seria e onesta, si concilia con la strategia, perché, l’altra parte se soddisfatta, tornerà a fare affari anche futuro. L’atto singolo racchiude in sé la reiterazione, e soprattutto la cognizione della reiterazione. Che in questo caso ha effetti positivi. Quindi ci si fa del bene insieme agli altri.

Cosa vogliamo dire? Che l’intelligenza è strategica, guarda agli effetti dell’atto plurimo. La furbizia invece è tattica, perché si limita a giudicare gli effetti dell’atto singolo. E qui veniamo a Giorgia Meloni. Che, a nostro avviso, è un esempio classico di furbizia. Di pura tattica. Si osservi la sua politica. Siamo davanti a una sommatoria di atti singoli, tra l’altro in contraddizione.

Solo per fare alcuni  esempi. Non si può dire di essere a favore dell’ Ue, per poi prendere tempo sul Mes. Non si può dire di voler difendere i migranti, per poi lasciarli morire non più in mare ma nel deserto. Non si può dire di essere dalla parte dei giovani e dei lavoratori, per poi rifiutare il salario minimo. Non si può dire di essere dalla parte degli onesti per poi tollerare certi esempi di comportamenti, a dir poco non trasparenti, all’interno del  partito. Non si può dichiarare la propria fedeltà alla Nato, per poi frequentare nemici della Nato come gli ungheresi.

Sono tutti atti singoli, dettati dalla pura furbizia, privi di qualsiasi contenuto strategico, quindi di vera intelligenza, se non l'intento di durare il più possibile, seguendo, come impone la furbizia, la lezione della ruffianeria. Oggi alla Farnesina ci si diletta in questa raffinata arte.

Un comportamento che, attenzione, può durare fino quando gli interlocutori non si accorgono o si stancano di essere presi per il naso.

Si dirà che però nel caso della Meloni una visione strategica esiste. Quella di riportare al potere la destra dura e pura, una destra che non ha mai fatto i conti con il fascismo. Perciò quanto sta accadendo – questo bellissimo esempio di spirito ruffiano “applicato” – sarebbe solo la prima fase: quella dell’inganno, per poi, una volta moltiplicate le forze, mostrare il vero volto fascista.

Ma il fascismo, politicamente parlando, fu una scelta intelligente? Quale fu la sua seconda fase? L’autodistruzione dell’Europa e la distruzione degli ebrei fu un segno di intelligenza politica? Le astuzie di Hitler e Mussolini, che negli anni Trenta ogni volta che guadagnavano terreno (conquistando, annettendo, occupando) promettevano che era l’ultima, asserendo che aspiravano solo alla pace, a cosa portarono “strategicamente”?

A una catastrofica guerra mondiale. La furbizia di Hitler e Mussolini fu una collezione di atti singoli, che si materializzarono in una guerra distruttiva durata sei anni.Che ridusse al lumicino Italia e Germania.

Pertanto, riassumendo, la Meloni più che intelligente è furba. E soprattutto non si è smarcata dal fascismo che fu un fenomeno politico altrettanto segnato dalla furbizia. Pertanto, delle due l’una: o si richiama al fascismo come visione strategica, visione però altrettanto furba e rovinosa, o non si richiama al fascismo, quindi, in quest’ultimo caso, una volta scoperti i suoi esercizi di furberia sarà abbandonata da tutti.

A questo punto qualcuno si chiederà quale potrebbe essere un segno di intelligenza per un politico con i trascorsi neofascisti di Giorgia Meloni: fare una vera scelta liberale ed europea evitando le piccole furbizie ricordate.

Come? Ad esempio, di rifiutare il Mes perché si è contrari alla filosofia dello spreco di denaro pubblico; di rifiutare il salario minimo perché fattore turbativo degli equilibri di mercato e non per pietismi ruffiani; di cacciare dal partito i disonesti; di accettare i migranti perché non è sicuramente liberale far morire nel deserto gente che scappa dalle dittature e che chiede solo dignità sociale e rispetto morale; di schierarsi totalmente con la Nato, facendo concorrenza in fedeltà ai britannici, evitando di uscire di nascosto con gli ungheresi.

Tutto questo però non accadrà, perché Giorgia Meloni è furba ma non intelligente. Non vede oltre il palmo del suo naso. O se vede oltre, non guarda avanti, guarda indietro.

Carlo Gambescia

sabato 22 luglio 2023

Così parlò Zarathustra-Bonelli

 


Si legga qui:

«Angelo Bonelli, dell’Alleanza Verdi e Sinistra, propone di introdurre il reato di negazionismo climatico, “perché chi mistifica, specialmente se ha ruoli istituzionali, fa più danni di grandine, alluvione, caldo e siccità”. E ha annunciato che presenterà una proposta di legge a proposito. Parlando dell’ondata di caldo estremo che sta portando temperature torride nella nostra penisola e del maltempo che ha colpito il Nord Est , tra grandinate e trombe d’aria, Bonelli ha scritto in una nota: “L’Italia è diventato un hotspot climatico, con una crescente serie di eventi meteorologici estremi che hanno causato danni ingenti in tutto il Paese. Nel Veneto e in Trentino, violenti temporali con grandinate grandi come palle da tennis hanno distrutto case, auto e coltivazioni, provocando 110 feriti, mentre nel sud e nel centro, si sono raggiunte temperature record di 40 gradi. Tuttavia, per questo governo negazionista e climafreghista, il nemico su cui concentrarsi sono gli ecologisti e la transizione ecologica, continuando con la retorica degli ‘ultrà del fanatismo ecologista”» (*)

Così parlò Zarathustra-Bonelli.

Un passo indietro. Che il governo di destra, presieduto da Giorgia Meloni sia un governo statalista, come un qualsiasi governo di sinistra,  è un dato di fatto. Diamo pure per vicino alla verità il fatto che sia una governo “climafreghista”.

Ma, in realtà, un governo “climafreghista” è così lontano da un governo “climaossessista”? Non crediamo. Perché? Il lettore segua – pazientemente – il nostro ragionamento

Il vero problema quando si parla di transizione climatica è rappresentato da due domande di fondo.

La prima. Si può controllare il clima? Una parte della pubblica opinione, quella statalista (“lo stato può tutto”), non importa se di destra o di sinistra, sostiene di sì. Per contro un’altra parte, largamente minoritaria, della pubblica opinione, meno rappresentata, attenta alle grandi questioni della libertà individuale, sostiene due cose: la prima che non si può controllare il clima, e che comunque non è cosa per domani; la seconda, che invece l’introduzione di controlli limiterebbe, e da subito, la libertà individuale.

La seconda domanda è ancora più seria della prima. C’è accordo tra scienziati sul cambiamento climatico ed eventualmente sulla cause del cambiamento climatico? No. 

Pertanto, le politiche “dure” sulla transizione ecologica e sulla repressione penale, se attuate, sarebbero fondate su rilevamenti scientifici non condivisi. 

Ammesso e non concesso che sia valida l’idea che si possa mettere ai voti un concetto scientifico. Perché una cosa è la discussione tra scienziati, in ambito accademico, dove ci si può dividere, sulle ipotesi di lavoro, discussione fondata sul principio di falsificabilità delle ipotesi di lavoro. Un’altra cosa trasporre in ambito politico pure ipotesi di lavoro, con la conseguente pretesa decisionale di imporre gigantesche trasformazioni dai costi  sociali ed economici imprevedibili,  o addirittura di introdurre nuovi reati come quello di “negazionismo climatico”. Cioè, per farla breve, si vuole accusare una persona di negare una pura e semplice ipotesi di lavoro...

Si badi, dal punto di vista scientifico, quel che dice Bonelli sul caldo estremo e sul maltempo, ha lo stesso valore di certe espressioni popolari contraddittorie, come “chi si ferma e perduto”, “prima di parlare si conti fino a dieci”, “chi la fa l’aspetti”, “perdona al tuo nemico” eccetera, eccetera. Dal momento che sulle cause del caldo estremo e del maltempo, non c’è accordo tra scienziati, di qui il ricorso ai luoghi comuni, da una parte del “caldo estremo”, dall’altra, “è il  tempo suo”. Per capirsi, in una situazione di incertezza scientifica, e di travisamento politico, il “climafreghismo” è la controparte naturale del “climaossessismo”. Si litiga, ci si insulta, non si ragiona. Altro che dibattito liberale.

Questo perché sia la destra che la sinistra, al di là delle chiacchiere, non tengono in alcuna considerazione la scienza, cioè la considerano, uno strumento di consenso politico. A questo si aggiunga lo statalismo condiviso della destra come della sinistra. Cioè la comune scelta di cooptare gli scienziati all’interno di istituzioni di ricerca statale o parastatale, anche sul piano, si badi, di un presunto stato mondiale, che non sarebbe che il doppione degli stati nazionali.

Si immagini – cosa orribile per la libertà – uno stato mondiale capace di cooptare tutti gli scienziati purché difendano le tesi di un governo mondiale come oggi difendono le tesi dei governi nazionali, non importa se di destra o di sinistra.

Può sembrare un paradosso, ma la scienza è a rischio di inquinamento politico, perciò, ripetiamo, i politici climafreghisti e climaossesisti pari sono. Perché non rispettano i tempi del dibattito scientifico, che sono sempre molto lunghi, o ne strumentalizzano le ipotesi di lavoro – cioè parliamo di dati provvisori – in un senso come nell’altro, pur di godere del consenso degli elettori di destra come di sinistra. Per “acchiappare” voti. E se questo è lo scopo, più si rende la democrazia emotiva, meno si ragiona, più si grida, insulta, eccetera, eccetera.

Coloro che ci seguono sanno che abbiamo più volte usato un’ espressione abbastanza evocativa: l’ecologismo come continuazione del comunismo con altri mezzi. In realtà, è lo statalismo che, risucchiando l'ecologismo,  rappresenta la prosecuzione del comunismo con gli stessi mezzi: quelli dello stato. Degli ordini dall’alto: “si faccia questo, si faccia quello”. Si tratta di uno statalismo condiviso dalla destra e dalla sinistra, che porta alla strumentalizzazione della scienza per scopi politici.

Come uscirne? Liberalismo in quantità industriali. Lasciare che gli scienziati lavorino liberamente. Il liberalismo ottocentesco si batteva per la separazione dello stato dalla chiesa. Ecco, oggi, ogni vero politico liberale dovrebbe battersi per la separazione dello stato dalla scienza. Il che non è facile, perché la gente comune, di destra o di sinistra, quella che vota, vuole più stato, più riposte, più decisioni, più sicurezza e non importa a che prezzo. Non si capisce che la vera scienza produce dubbi non certezze. 

La scienza  non è climafreghista né climaossesista. Con buona pace dei fans di Angelo  Bonelli e di Giorgia Meloni.

Carlo Gambescia

(*) Qui: https://www.fanpage.it/politica/angelo-bonelli-dice-che-serve-il-reato-di-negazionismo-climatico-presentero-una-proposta-di-legge/ .