giovedì 31 marzo 2022

Marx, Boitani e il declino della borghesia

 


Marx ed Engels nel Manifesto, cosa ad alcuni sfuggita, tessono l’ elogio della borghesia. Una classe, che con la sua visione cosmopolita del mondo, la sua voglia di fare affari, il suo amore per il progresso tecnico, stava sbaragliando le vecchie aristocrazie controrivoluzionarie, liberando contadini e campagne dalle prepotenze di preti e nobili, eccetera, eccetera.

La libertà di mercato, insomma, come strumento di liberazione. Come noto però, nella visione di Marx la libertà svolgeva un ruolo strumentale, perché al servizio di una filosofia della storia che avrebbe inevitabilmente condotto al potere, per reazione dialettica, un proletariato sempre più sfruttato e impoverito dalla borghesia.

Diciamo che in Marx, mercato e borghesia hanno funzione di rottura rivoluzionaria, di passaggio finale al regno dei fini (Kant riletto al contrario). Semplificando, il mercato è transeunte, il socialismo immanente al materialismo storico-dialettico, come gloriosa sintesi finale.

A questo pensavamo, leggendo L’ illusione liberista. Critica dell’ideologia di mercato (Laterza), di Andrea Boitani, economista neokeynesiano (per sua ammissione) della milanese Cattolica .

In verità, sembra di leggere un pamphlet antiliberale di Costanzo Preve o Alain de Benoist, senza però quell' irriverente vena di utopia anticapitalista, tipica nei due pensatori.

Boitani, per un verso – la pars destruens – ricorre a tutti i peggiori stereotipi contro il mercato, per l’altro – la pars construens – vuole conservarlo sotto vetro, come i reperti anatomici nei polverosi studi medici di una volta. Come? Introducendo le famigerate “regole”, tanto care ai liberalsocialisti. Tradotto, più tasse, più burocrazia. Boitani ha cuore di burocrate. Altro che irriverente.

Per capirsi, se per Marx ed Engels, la borghesia andava lasciata fare, per Boitani, invece va spennata, e con metodo. Quindi, in certo senso, per l’economista della Cattolica la borghesia si merita il peggio, restando in vita, ma in catene fiscali.

Sotto questo aspetto, Boitani, a differenza di Marx, è ancora più pericoloso, perché è un nemico interno: un traditore della borghesia, quella dei tempi di Marx. Dal momento che la borghesia di oggi – per capirsi di “Repubblica e centrosinistra e dintorni – lo coccola, gli offre tè e pasticcini. Che Boitani, da professore ben educato, sorbisce con il mignolo alzato. Perché? Per la semplice ragione che i salotti buoni di oggi, sotto sotto sperano di potersi rifare domani trafficando con l’economia pubblica.

Altra fissa di Boitani e di tutti i liberalsocialisti, neokeynesiani, eccetera (li si chiami come si vuole) è la riduzione delle disuguaglianze: la parola magica, pronunciata tra un pasticcino e l’altro, in mezzo alle buone dame laiche di carità

In realtà le disuguaglianze sono molla di sviluppo, perché, per dirla brutalmente, la fame aguzza l’ingegno. Furono carestie e catene feudali a spingere gli avi contadini dei borghesi a scappare in città. E da lì iniziò la grande rincorsa, celebrata persino da Marx.

Boitani invece, vuole più tasse, più stato, più catene. Non più feudali ma statali. Ancora peggio. E soprattutto, al posto del mercato privilegia l’economia mista, fonte invece di sprechi e di corruzione.

Boitani, totalmente privo di senso del ridicolo, porta come buon esempio di intervento pubblico quello che ha caratterizzato la pandemia…

Vive in un mondo suo. Probabilmente come tutto il filone liberalsocialista crede nello stato stazionario, cioè in una situazione sociale immaginaria di pieno benessere e piena occupazione, alla quale il mercato, nulla toglie nulla aggiunge. Sicché diverrebbe quasi inutile. Il reperto anatomico di cui sopra.

Siamo oltre l’utopia marxiana. Marx, però era odiato dai borghesi, all’epoca fieramente consapevoli del proprio valore. Viveva nelle caverne internazionaliste. Boitani invece collabora alla Voce.info, rilascia interviste alla luce del sole, offre consigli graditi a Letta. E prende il famoso tè con le signore di cui sopra. Affezionate lettrici dei giornali del Gruppo Espresso, per capirsi.

Diciamo che questa borghesia decadente, che si vergogna delle disuguaglianze, molla di progresso, ha l’economista che si merita.

Si dirà che usiamo un linguaggio forte. Si legga il pamphlet di Boitani. Poi ne riparliamo.

Carlo Gambescia

 

mercoledì 30 marzo 2022

Sulla politica di potenza

 


Non sappiamo come andranno i negoziati in Turchia. Male, bene, così così.

Il punto non è questo. La vera questione, quella seria, è rappresentata dalla politica di potenza della Russia. Non si accontenterà mai. E ogni concessione sarà interpretata come un segno di debolezza e una conferma che l’Occidente teme non solo la Russia, ma la guerra in quanto tale. Che invece, non ci stancheremo mai di ripeterlo, è una prosecuzione della politica con altri mezzi.

Perché, sia chiaro, accettare la neutralità ucraina, il non ingresso nella Nato, come la politica dei fatti (militarmente) compiuti, a cominciare dalla Crimea, nei territori contestati dalla Russia, non rappresenta un buon compromesso ma un cedimento totale.

La sottomissione dell’Ucraina sarebbe un cattivo esempio per il futuro. Ammesso e non concesso che i russi accettino che l’Ucraina neutralizzata entri nell’Unione Europea, in realtà – attenzione – dalla porta di servizio di uno smembramento territoriale.

Si dirà che il compromesso va accettato purché i russi si ritirino dal resto dell’ Ucraina e finisca la guerra.

Il che potrebbe essere condiviso, ma a quali condizioni? Di rafforzare il nemico e umiliare l' alleato?

Certo, come del resto abbiamo scritto, le trattative sono importanti per evitare l’insorgere di “complicazioni atomiche”, provocate dal procrastinarsi del conflitto sul campo. Sì, però non al ribasso.

Purtroppo è l’intera strategia dell’Occidente che è sbagliata. E qui il discorso, si fa anche teorico, metapolitico, e per questo più interessante

Innanzitutto, perché l’Occidente rifiuta l’idea stessa di nemico. Spera nella sua conversione psico-culturale. Tuttavia, l’aggressività è una cosa, e forse in parte si può anche ridurre, quando si tratta di singoli individui, diciamo attori individuali, un’altra è la guerra per ragioni di potenza, cioè come proseguimento della politica con altri mezzi da parte di un attore collettivo.

Non si tratta perciò di aggressività, qualcosa che si può temperare con le pasticche e il condizionamento culturale, ma di vero e proprio riflesso d potenza: di qualcosa che scatta naturalmente nell’attore istituzionale: si fa così perché voglio così. Quindi si tratta di una questione di antropologia sociale, di costituzione delle società umane. Una questione che va oltre Putin.

Per capirsi, il ragionamento in termini di politica di potenza è molto semplice: se non ti posso piegare con le buone, ti piego con le cattive. E comunque ti devo piegare, perché la tua sottomissione ha natura esemplare. Così i possibili nemici imparano subito chi comanda qui.

Perché dover piegare qualcuno? Non si vive meglio tutti in pace?

Ottime domande. Che però non tengono conto di un fatto: che la politica in ultima istanza è potere nudo, costrizione pura e semplice. Come spesso ci piace ripetere: grado zero della socialità.

Ovviamente, quanto più le tradizioni culturali, come nel caso della Russia, rinviano a romantiche tradizioni di grandezza, onore e gloria, tanto più la politica di potenza si fa necessaria, diremmo inevitabile. Quindi, ripetiamo, il problema non è Putin (o almeno lo è fino a un certo punto). Esiste una dinamica politica oggettiva per cui l’unica risposta possibile è quella di opporsi a coloro che ci indicano come nemici con una potenza superiore.

Perché fin quando si è inferiori, come nel caso dell’Ucraina, si rischia sempre di essere schiacciati. Come sta accadendo.

Per contro, l’Occidente, rifiuta la guerra, rifiuta il nemico, rifiuta persino il minimo sindacale del riarmo. Si augura che le cose si aggiustino da sole, così come per incanto. Oppure, come dicevamo, che il nemico si converta, psico-culturalmente, ai nostri valori.

La tragedia del pacifismo è che scambia (oppure prolunga l’una nell’altra) l’aggressività individuale con la politica di potenza collettiva, che è la politica in quanto tale, perché fondata sulla insopprimibile dicotomia amico-nemico. Che si può sublimare, sul piano interno come nei sistemi liberali, ma non eliminare sul piano esterno, della politica internazionale, interamente dominata dalla politica di potenza. Ripetiamo, da una socialità al grado zero.

Ovviamente un liberale, fortemente e giustamente individualista, che crede nella parola, nella persuasione, eccetera, sente come costrittivo il quadro della politica internazionale appena definito.

Allora – ci si potrebbe chiedere – che fine fa la mano invisibile delle microdecisioni? Purtroppo, gli attori istituzionali, come gli stati, per non parlare degli imperi, una volta “istituiti”, spesso inconsapevolmente dal punto di vista delle scelte individuali, assumono una logica propria che è quella della potenza, che finisce per opporsi ai desiderata individuali.  Per evitare ciò si dovrebbe vivere in un mondo privo di attori istituzionali. Ma non esistono società prive di istituzioni. Di qui, il conflitto, eccetera, eccetera.

Certo, i trattati sono importanti. Quando è possibile limitare, per accordi e per un certo tempo, la politica di potenza è giusto farlo. Ma illudersi che possano bastare per impedire che le guerre, talvolta persino necessarie, spariscano come per incanto, è pura utopia, anche pericolosa, perché spiana la strada ai “prepotenti”.

Sappiamo bene, cosa penseranno non pochi lettori: che i nostri ragionamenti conducono alla guerra atomica e alla distruzione del genere umano. Diciamo, prima o poi. E che quel “poi” può richiedere anche secoli, come pure – è vero – un attimo.

Quindi i lettori, per così dire pacifisti, hanno perfettamente ragione.

Però ci sono cose che non si possono cambiare. Forse mitigare, per qualche tempo ma non per sempre. E una di queste è la politica di potenza. Con tutte le tragiche conseguenze del caso.

Prendiamone atto, e forse allungheremo i tempi di quel “poi”. Forse.

Carlo Gambescia

martedì 29 marzo 2022

La guerra russa all’ Ucraina e le contraddizioni dell’Occidente

 


A mano a mano che i giorni passano emerge la grande contraddizione pacifista dell’Occidente euro-americano, incoerenza che purtroppo ne porta altre con sé.

Procediamo per gradi.

La Russia non ha mai cessato di apprezzare il militarismo (neppure sotto i comunisti), come pure l’idea di fondo che la guerra sia la prosecuzione della politica con altri mezzi. Quindi uno strumento politico come un altro. Senza perdersi in inutili giri di parole.

Diciamola tutta: senza armi atomiche e con l’etica aristocratica, quindi guerriera, ancora viva fino al 1914 negli stati maggiori europei (si veda l’ ottimo libro di Arno Mayer), la guerra generale sarebbe già scoppiata da un pezzo. Varsavia e Trieste sarebbero già cadute. E Berlino, sul punto di cadere. Quanto meno in una prima fase. Prima dell’arrivo dei “nostri”, gli americani. Vecchio copione novecentesco, insomma.

Pertanto, anche se suona in modo paradossale, alla dottor Stranamore (stereotipo divertente che però aiuta i nemici, mai dimenticarlo…), le armi atomiche sono uno strumento di pace, perché impediscono, su un premessa di catastrofe, la guerra generale. Perciò il vecchio Kissinger, che l’anno prossimo spegnerà la centesima candelina (gli dei lo benedicano), aveva ragione. Gi arsenali atomici aiutano la pace, o comunque consentono di evitare le guerre generali. Come del resto è andata, per decenni. Concludendo, i pacifisti hanno torto marcio. Se vuoi la pace, preparati alla guerra, punto.

E qui veniamo alla contraddizione di fondo dell’Occidente. Quale? Che non vuole fare la guerra, per ragioni umanitarie, ma al tempo stesso non riesce a mantenere la pace, proprio perché non vuole fare la guerra.

Si noti subito una cosa. È di ieri. La Russia, senza tanti giri di parole, ha giustamente definito, le nazioni che applicano le sanzioni economiche antirusse come belligeranti.

L’ Occidente invece gioca a nascondino. Ha paura di chiamare le cose per ciò che sono. La cosa più stupida e soprattutto autolesionista è la contraddizione – un’altra ancora – fra la dinamica a spirale degli insulti umanitari, anche se in effetti Putin, che spara sui civili, è un criminale di guerra, e il mantra degli Stati Uniti e dell’ Europa  sul rifiuto di  entrare in guerra con la Russia.

A che porta tutto ciò? Alla progressiva distruzione del tessuto economico e civile dell’Ucraina, che per carità resiste e lotta coraggiosamente, ma tra macerie che diventano ogni giorno più imponenti.

È vero che la Russia, militarmente parlando, ha mostrato lacune. Ma la guerra all’ Ucraina può durare a lungo, mesi, forse anni. A che prezzo per gli ucraini? E soprattutto per l’Europa e per l’Occidente, da due anni economicamente in affanno. Per capirsi: seppure non siamo ufficialmente in guerra con la Russia, l’economia si comporta come se lo fossimo. Non si dimentichi, tra l’altro, l’impatto prossimo venturo sulle finanze pubbliche di milioni e milioni di profughi ucraini, che non possono non essere accolti.

Insomma, non si vuole fare la guerra, e non si riesce nemmeno a fare la pace. Come pure, in precedenza (tempo c’è stato) non si è riusciti a evitare l’aggressione dei russi, ovviamente sicuri, o comunque abbastanza certi, di trovarsi davanti i soliti mollaccioni della Nato.

Fermo restando il pericolo, per una qualsiasi ragione anche non intenzionale, dell’improvvido ricorso alle armi nucleari. I russi, che credono convintamente nel militarismo, potrebbero avere il grilletto facile. O comunque, per così dire, impugnare l’arma senza sicura. Come del resto gli Stati Uniti, ma per la ragione opposta: l’antimilitarismo.

Non sono forse retti da un presidente che, sebbene non sia il primo, di politica internazionale, come di guerra, non capisce nulla? E commette gaffe su gaffe con la mano sul cuore, evocando, ogni volta, il bene dell’umanità?
Probabilmente esageriamo (perché non è linguaggio da analisti), però se Putin è un criminale di guerra, Biden è un imbecille.

Con una differenza, che Putin condivide, a torto o ragione, l’etica della guerra, Biden l’etica della pace, che però gli impedisce di fare la guerra, favorendo Putin, che invece va dritto per la sua strada. Senza escludere – attenzione – il rischio per entrambi, ma per ragioni opposte, di scatenare la guerra atomica.

Su queste gravi contraddizioni di fondo, si gioca, purtroppo, il destino dell’Occidente e del mondo intero.

Carlo Gambescia

lunedì 28 marzo 2022

Forrest Zelensky

 


Il coraggio se uno non ce l’ha non se lo può dare… Manzoni dixit. Descrivendo le ragioni (sbagliate) di Don Abbondio, sempre pronto a chinare la testa davanti ai prepotenti.

“I promessi sposi”, grande romanzo storico dell’Ottocento, liberale e cattolico insieme. E per questo motivo, oggi, poco letto. I liberali sono diventati “liberal” e i cattolici “democratici”.

Zelensky, in Occidente non piace, e se piace, piace a metà. Poco sappiamo di lui: attore, regista, catapultato in politica ai massimi livelli. Da settimane, con addosso una divisa paramilitare, attenzione senza gradi, stralunato, impazza in televisione tra quiz e geopolitica di massa. Un Forrest Gump.

A proposito della sua uniforme, da marmittone televisivizzato, si noti la differenza con i generali, coperti di medaglie e galloni delle repubbliche della banane. Alle quali, la sinistra di Hollywood – in principio però fu quello scalmanato di John Reed – da decenni oppone il “pueblo unido jamás será vencido”. E forse per questo, il cinema che conta a sinistra ha tenuto fuori Forrest Zelensky dalla serata degli Oscar. Personaggio non in linea con l’iconografia liberal. Ovviamente, nei prossimi giorni, la sinistra italiana, Fazio incluso, prenderà nota. Contrordine compagni…

Dicevamo del coraggio. Il richiamo di Forrest Zelensky non fa una piega. L’Occidente se la fa sotto. Non è necessario aver letto Pareto, per fare un’osservazione del genere. Certo, c’è anche chi giustifica, evocando il purissimo senso di responsabilità. Soprattutto con le atomiche in giro.

E sia. Ma fino a quando? A Forrest Zelenzky non possono più bastare i “volontari laici” che scendono le scale in pigiama per aiutare a fare bende con lenzuola, come cantava Battiato in “Radio Varsavia”. Canzone, detto per inciso, oggi definita “profetica” dagli analfabeti storici.

Altro che federe e materassi, qui servono armi, e soprattutto occorre, non insultare a distanza, ma fare.

Si vuole la trattativa? OK. Allora si costringa Putin a mettersi seduto al tavolo della pace, anche con americani ed europei, per ragionare, poggiando le pistole sul tavolo, di come uscire fuori da questo casino.

Si vuole la guerra? OK. Allora sotto con la no-fly zone, eccetera, eccetera? La cosa peggiore è cincischiare, prendere in giro Forrest Zelenzky e quarantadue milioni di Ucraini, che, tutti insieme, potrebbero iniziare, giustamente a sentirsi “stanchini”.

Se questa non è mancanza di coraggio, allora che cos’è?

Quel che più preoccupa è la crescente assuefazione dell’Occidente ( ai russi ci pensa Putin) alla guerra del telegiornale. Quanti morti, quanti bambini uccisi, quanto aiuti, quante lauree magistrali ai profughi ucraini.

Ieri a Roma si correva la “Maratona per la Pace”. Ma vaffaculo! Dopo di che, si torna a casa, si fa la doccia, ci si prepara per l’aperitivo o per la cena, buttando l’occhio distratto alle news. E subito appare Forrest Zelensky. Ma che cazzo vuole questo? Reazione epidermica dell’ europoide in declino. Oppure, “Please do not disturb”, reazione controllata dell’europoide educato ma sempre in declino.

Capito? Si chiama anche, filosoficamente parlando, banalità del male. Citofonare professoressa Arendt.

Carlo Gambescia

domenica 27 marzo 2022

Guerra e pace


 

Richiamiamo l’attenzione del lettore sul notevole editoriale di Mario Giro, politologo, uscito sulle pagine di  “Domani” (*): “Tre passi per fermare la guerra prima che sia troppo tardi”.

Articolo che, di questi brutti tempi, potrebbe essere definito filorusso. In realtà non lo è. La penna è quella di un realista intelligente, “un realista consapevole” (**), che giustamente per un verso condanna “l’avventurismo” putiniano, ma per l’altro consiglia di non mettere il leader russo con le spalle al muro.

In buona sostanza, si suggerisce all’Occidente euro-americano di approfittare del leggero, ma non devastante vantaggio ucraino, per aprire un negoziato, che ovviamente, preveda il cessate il fuoco, il ritiro delle truppe russe dal suo ucraino e l’apertura di una seria discussione sulla sorte dei territori rivendicati dalla Russia. Il tutto nel quadro di una successiva nuova regolazione negoziale dei rapporti internazionali con la Russia, regolazione capace di guardare al futuro con fiducia e reciproco rispetto.

Siamo d’accordo con Giro che l’Occidente, almeno per ora, non sembra credere nella pace, o meglio in una pace organizzata, come del resto attestano le improvvide esternazioni di Biden. Tuttavia, punto che Giro non sembra evidenziare a sufficienza, l’Occidente, non sembra credere neppure nella guerra generale. Però, e qui Giro ha ragione, sembra non fare nulla per evitarla, come provano gli improvvidi insulti di Biden.

Si chiama, in chiave letteraria, “forza delle cose”. Dal punto di vista sociologico, siamo nell’ambito dello specifico sociologico, diremmo addirittura metapolitico. Il cuore dell’agire sociale.

Si pensi a una specie di forza inerziale, come espressione dell’ assenza o insufficienza di volontà sociale per mutare le cose, legata a comportamenti reiterativi ed emulativi. Un processo che segue una logica a spirale, inerziale, tramutandosi in moto sociale, il più delle volte, inarrestabile.

Il caso storico della successive mobilitazioni, legate a sistemi di alleanze, che portò alla Prima guerra mondiale è da manuale per lo studio dell’inerzia sociologica.

Insomma, accade che in ambito politico ci si comporta come di regola si presume che si comporti il nemico. Se dal nemico, per abitudine mentale, ci si aspetta il male, si cerca di anticiparlo con il male maggiore possibile. Il discorso varrebbe anche per il bene, se – attenzione qui viene forse l’aspetto più interessante, non sviluppato però da Giro, – se, dicevamo, non esistesse il conflitto, come contrapposizione, innanzitutto, di mentalità, costumi e differenti stili di vita.
Per capirsi, come scrive Giro,

«oggi la Russia di Putin invece contesta la democrazia stessa. La diffidenza è reciproca. Ciò che spaventa il sistema russo è il “contagio democratico” (con l’appoggio della Cina di XI Jinping): malgrado i leader dei due colossi ripetano continuamente che i loro sistemi sono migliori e più efficienti della democrazia occidentale, in realtà ne sono ossessionati. Dall’altra parte gli occidentali, pur continuando ad autocommiserarsi parlando di declino, sfruttano tutto il loro soft power in termini culturali e di abitudini umane, non fosse che per ragioni commerciali».

L’opposizione è sistemica, altrimenti detto di civiltà. Giro intuisce brillantemente, ma non sviluppa il concetto. Può l’Occidente trasformarsi in ciò che non è? Può la Russia, fare altrettanto? E viceversa, ovviamente.

C’è conflitto. Che sia hard o soft è la stessa cosa. Perché il conflitto soft conduce inevitabilmente al conflitto hard. Come quello hard, può retrocedere al soft, e così via. Huntington, nel suo profetico libro, parlò di inevitabile “Clash of Civilizations” (Scontro delle Civiltà).

Pertanto, parlare di pace e di cooperazione universali, senza unità di mentalità, costumi e stili di vita, non ha alcuna senso. Anche perché la sociologia insegna che la realtà sociale è ricca e molteplice, a tutti i livelli, dai valori agli interessi: probabilmente siamo davanti al pluriverso piuttosto che all’ universo. Guerra e pace, piaccia o meno, si alternano storicamente. Anche quando è il gioco il destino dell’umanità? Sì per inerzia sociale, come detto.

Il che però non implica, per tornare all’invasione russa dell’Ucraina, che il conflitto generale, che appare inevitabile nel lungo periodo, non possa essere rinviato, per così dire a “tempi migliori”. Evitando, come scrive giustamente Giro, che le cose precipitino verso l’irreparabile, per inerzia sociale.

In effetti, l’ Estremo Occidente americano e la Russia non sembrano preparati alla guerra, il primo psicologicamente, la seconda militarmente, (l’Europa ancora meno, nei due sensi). La stessa cosa si potrebbe dire della Cina, a meno che non torni ad affermarsi, cosa difficile, una visione mongolica espansiva alla politica internazionale. Per contro, nulla impedisce, la crescente collaborazione tra russi e cinesi, accomunati dal timore verso il “contagio democratico”. Anche se la Cina avrebbe tutto da guadagnare da un indebolimento politico ed economico della Russia, con la quale confina per quattromila chilometri.

Riassumendo, Giro ha ragione a breve: ora che l’Ucraina, sembra reggere e la Russia perdere colpi, si potrebbe intraprendere la via del negoziato,  affinché tutte le parti, per così dire, possano salvare la faccia. Nel saggio tentativo di interrompere, per il momento, cosa però non facile, il trend inerziale verso la guerra generale.

Ma Giro non sembra avere ragione a lungo termine: il conflitto di civiltà è troppo netto. Quindi prima o poi…

Certo, come dicono i pacifisti, statisti e popoli potrebbero capire l’importanza della pace, acculturarsi, accordarsi spontaneamente eccetera, eccetera. E così farla finita, una volta per sempre, con l’idea stessa di conflitto.

Auguriamoci, anche se non in linea con ciò che abbiano fin qui detto, che abbiano ragione.

Carlo Gambescia

(*) Qui: https://www.editorialedomani.it/politica/mondo/ucraina-guerra-pace-russia-stati-uniti-europa-vbvmpjd0

(**) Per la definizione di “realismo consapevole” rinviamo al nostro “Il grattacielo e il formichiere. Sociologia del realismo politico”, Edizioni Il Foglio 2019, p. 76, https://www.ibs.it/grattacielo-formichiere-sociologia-del-realismo-libro-carlo-gambescia/e/9788876067853 .

 

sabato 26 marzo 2022

Putin già bollito?

 


Ieri, un amico francese, profondo conoscitore della cultura russa, nonché della situazione, mi diceva al telefono, tutto contento, che “l’aventure du Cirque Putin risque de mal se terminer”. Di finire male. Insomma, per dirla alla buona, l’amico parigino dà già per bollito l’esercito di Putin.

Un’ esagerazione? Forse. Però, al di là delle fake news, delle divisioni tra guelfi e ghibellini, non solo in Italia, delle chiacchiere postmoderne sui conflitti ibridi, le guerre si decidono sul campo. E sul campo la Russia sembra segnare il passo.

A chi attribuire il merito? Ai pacifisti, al papa, all’abilità diplomatica dei leader occidentali? No, assolutamente no.

Il merito va al coraggio del soldato ucraino. E, in seconda battuta, alle armi fornite da un recalcitrante Occidente.

Attenzione però, non è solo questione di mezzi. Ad esempio, i governi e i militari del Vietnam del Sud e dell’Afghanistan, pur ricevendo enormi quantità di armi, non hanno dato buona prova sul campo. Il coraggio e la forza della causa, sopratutto se difensiva e se sentita da tutto un popolo, fanno sempre la differenza. Ovviamente, nel caso ucraino in particolare, l’aiuto militare non deve cessare e soprattutto deve avere natura regolare.

L’Ucraina ha subito, e sta subendo, una guerra d’aggressione della peggiore specie. Si immagini Trieste bombardata alle prime luci dell’alba. Oppure i carri armati russi che invadono il nostro confine orientale, assediando e affamando, al buio e senza acqua potabile, le principali città del Friuli e del Veneto. Come avremmo reagito? Di sicuro ci saremmo messi a litigare tra di noi. Invece gli ucraini, compatti, stanno combattendo come leoni.

Tra l’altro, sono molto significative anche le notizie su episodi d’insubordinazione nell’esercito russo. Indicano che il “morale della truppa” è basso.

Putin e l’establishment politico-militare russo, comunque molto aggressivi dal punto di vista ideologico, hanno probabilmente sottovalutato la tempra morale del nemico. Non è la prima volta nella storia della Russia otto-novecentesca, che ha inanellato sconfitte su sconfitte, in particolare nelle guerre di aggressione ( le guerre russo-ottomane, in particolare la guerra di Crimea, la guerra russo-giapponese, la Prima guerra mondiale, con il famoso ordine di mobilitazione anticipato). Mentre nelle guerre difensive i russi hanno sempre vinto, come contro Napoleone e Hitler.

Insomma, l’Orso russo, sembra non avere ancora imparato la lezione. Quale? Che gli converrebbe restare nella tana. Anche perché l’espansione tra il 1945 e il 1991 resta frutto di una serie di fortunate coincidenze storiche: il crollo tedesco, il vuoto politico europeo, la decolonizzazione, solo per indicare le principali.

Ovviamente, l’imperizia militare, gli ultimi zar, malamente copiarono il modello prussiano, Stalin, alla peggio quello hitleriano, Putin, vive alla giornata… L’imperizia militare dicevamo, si scontra con l’ ideologia panslavista e il fondo culturale slavofilo, un pattern che ancora oggi fomenta i fantasiosi progetti imperialistici di una Russia depositaria della tradizione cesaropapista. La mitica Terza Roma. Si legga Dugin al riguardo.

Purtroppo, per dirla con Battiato, i desideri non invecchiano. Questa sproporzione tra ideologia e realtà, quasi una costante nella storia della Russia moderna, spiega quello che comincia a delinearsi come l’ennesimo fallimento militare.

Ciò, non significa, come accennato, che la Russia non sia pericolosa. Dispone di un formidabile arsenale atomico e sul suo territorio è inattaccabile, soprattutto con eserciti e armi convenzionali. Quindi l’Orso va comunque tenuto sotto seria osservazione. In gabbia, se possibile.

Ovviamente la guerra non è finita. Tutto può ancora succedere. Intanto però godiamoci l’impasse russa. E celebriamo il soldato e soprattutto l’intero popolo ucraino. Gente, come sembra, che di coraggio ne ha da vendere.

Carlo Gambescia

venerdì 25 marzo 2022

La guerra in Ucraina e la Seconda guerra punica

 


 Le sanzioni occidentali alla Russia ricordano  gli accordi tra studi di avvocati di affari in rappresentanza di multinazionali o altre imprese che lavorano all’estero (*). Resta difficilissimo capire, per chi non sia un “avvocato”, la reale portata degli accordi presi. Anche in questo caso perciò ci vorranno mesi se non anni, per afferrarne le reali conseguenze, anche in termini di effetti non previsti

Un altro esempio, è quello delle cause di separazione, tra coniugi ricchissimi: le parti producono a vicenda migliaia di documenti contabili per imbrogliare le acque e guadagnare tempo. Perciò anche in questo caso, al di là delle amplificazioni giornalistiche, delle parti opposte, serviranno molti mesi per cogliere conseguenze ed effetti non sempre prevedibili.

In realtà i veri nodi sono due.

Il primo, rilevato da Zelensky nel notevole intervento al parlamento italiano. Si tratta di una questione antica come il mondo, che per fare un esempio risale alla Seconda guerra punica (218-212 a.C.). Guerra che nella prima parte, a causa delle campagne annibaliche, rovinò economicamente Roma e l’Italia. Anche in Ucraina, a causa della guerra non si seminerà. Sicché, il prezzo del grano (l’Ucraina è il quinto esportatore nel mondo, la Russia il primo) rischia di andare alle stelle.

Il secondo, rinvia alla questione del petrolio e del gas russi. L’Europa in particolare dipende per quote sotto il cinquanta per cento dalla Russia. Paese che, sanzioni o meno, potrebbe chiudere i rubinetti da un momento all’altro. Inutile confidare nella tesi degli avvocati d’affari di Bruxelles che sostengono che è interesse della Russia non chiuderli. Le guerre, mix di razionalità e irrazionalità, come ben documentò Tolstoj in Guerra e pace (**), non sono cibo per agli avvocati d’affari.

Cosa vogliamo dire? Che quanto più dura la guerra, tanto più grano e petrolio rischiano di trasformarsi in nodo scorsoio per l’Occidente, e in particolare per l’Europa.

Quindi delle due l’una: o si abbandona l’Ucraina al proprio destino, non fornendo più armi, per poi tornare al più presto a fare buoni affari con la Russia, oppure si cerca di ridurre la durata della guerra, vincendo nel tempo più breve possibile, dando così, per surplus, una lezione memorabile a Putin.

La strategia degli avvocati d’affari (semplificando) e delle armi sottobanco “per resistere”, indebolisce l’economia occidentale e rischia di perpetuare il conflitto. Insomma, quanto più dura la guerra tanto più aumentano i rischi, come abbiamo già scritto, di una escalation imprevedibile (***).

Certo, si può anche ritenere che, prima o poi, la Russia sommersa dalle carte e ipnotizzata dall’innegabile coraggio degli ucraini, come si dice, molli la presa.

Quando però? Le popolazione dell’Occidente, soprattutto europee, differenza di quelle russe, hanno un alto tenore di vita. Quanto potrebbero reggere al freddo, ai razionamenti, eccetera? In questo conflitto il tempo – la durata se si vuole – rischia di avere un ruolo determinante.

Facciamo qui un esempio classico, tratto sempre dalle campagne di Annibale in Italia. La grandezza di Roma, negli anni della Seconda guerra punica, non resta legata alla strategia attendista di Fabio Massimo, ma a quella aggressiva di Scipione che portò la guerra in Spagna e poi in Africa fino alla decisiva vittoria di Zama.

Per inciso, ammesso e non concesso che Fabio Massimo avesse ragione, il grado di sopportazione delle popolazioni romane dell’epoca non è assolutamente paragonabile a quello dei popoli europei di oggi

Si dirà che voliamo alto, troppo alto, e che siamo imbevuti di modelli strategici classici, sorpassati, perché oggi le guerre con i nemici mortali si combattano per procura e da lontano.

In realtà, per essere “antichi” fino in fondo, non possiamo non fare un altro esempio: Roma cadde, la parte occidentale dell’Impero, quando ai barbari oppose altri barbari, che poi rivolsero le armi contro Roma.

Però nel nostro caso, gli ucraini, non sono né barbari, né estranei alla cultura occidentale, sono dei “nostri”, perché temporeggiare?

Carlo Gambescia

(*) Qui un quadro sintetico: https://www.agi.it/economia/news/2022-03-25/tutte-le-sanzioni-approvate-finora-contro-la-russia-16118327/

(**) Sul punto rinviamo al nostro Sociologi per caso, Edizioni Il Foglio 2016, pp. 75-84 (“Tolstoj e l’ordine spontaneo”): https://www.ibs.it/sociologi-per-caso-dante-machiavelli-libro-carlo-gambescia/e/9788876066047 .

(***) Qui: https://cargambesciametapolitics.altervista.org/biden-putin-e-l-incontrollabilita-non-calcolata/ . E qui: https://cargambesciametapolitics.altervista.org/guerra-mondiale-rischio-e-politica/ .

 

giovedì 24 marzo 2022

Soldati dell’Occidente

 


Un mese fa la Russia invadeva l’Ucraina, un paese civile, moderno, sviluppato, 42 milioni di abitanti. Evocando telegraficamente ragioni storiche e di potenza: “Gli ucraini sono russi, stop, rientrano nella sfera geopolitica russa, stop, guai a chiunque interferisca, stop”.

In realtà, la storia dei rapporti tra Russia e Ucraina è densa di conflitti e coabitazioni forzate. Inoltre l’Europa orientale non guarda all’Occidente con ammirazione per la prima volta. E poi gli equilibri politici e storici evolvono. E se proprio la si deve dire tutta, la moderna storia europea è la storia dell’ estensione dei valori politici, economici, civili del liberalismo a tutto il mondo, cominciando dalla Rivoluzione americana. Ecco, per inciso, perché si parla di valori euro-americani.La civiltà è Atlantica o non è.

Perciò uno storico contesterebbe facilmente le idee di Putin. Però il punto non è questo. La questione, prima che alla geopolitica, rinvia al rifiuto della modernità culturale. O meglio della modernità civile e politica incarnata dall’Occidente euro-americano.

Infatti, per quanto riguarda la modernità economica e tecnologica, i russi fin da Pietro il Grande hanno condiviso nella speranza di moltiplicare le proprie forze materiali, ma in un vuoto ideale, politico e civile, di grande arretratezza. Mai colmato. Si potrebbe parlare di modernismo reazionario, o meglio ancora di tradizionalismo cingolato. Che ora vede, per così dire, alla sua guida Putin: incarnazione transeunte di un rifiuto metastorico del liberalismo.

Di conseguenza, come si può capire, in Ucraina si combatte una battaglia che in linea ideale dovrebbe essere anche nostra, anzi soprattutto nostra, di occidentali: da un lato la modernità dall’altro la tradizione, armata però di armi modernissime. In sintesi: un mese fa è stata attaccata a colpi di cannone la modernità.

Il che spiega il putinismo, più o meno manifesto, delle destre europee. Questo schieramento scorge nella modernità solo valori di sinistra e per contro nella Russia di Putin l’incarnazione dei valori della tradizione. Per semplificare, forse troppo, per costoro la Russia difende i valori, sacri alle destre, del “Dio, Patria e Famiglia”.

Che poi, le frange estreme, neofasciste e neocomuniste, si siano divise tra le due parti, addirittura come combattenti, è cosa che riguarda sporadiche minoranze, poche migliaia di individui, rimasti fermi alla Guerra Fredda, il pendant micro-culturale dell’ultimo conflitto mondiale, privo di qualsiasi importanza.

Ovviamente, soprattutto in Occidente, come impongono le regole della propaganda, non si evoca la tradizione apertamente, come nel caso dell’ingenuo Patriarca russo, ma ci si nasconde sotto il manto del pacifismo e del rischio della guerra atomica. Si arriva addirittura al punto di asserire che si deve far vincere Putin per salvare la pace, sacrificando così quarantadue milioni di ucraini. Ottimo esempio di realismo politico criminogeno.

E qui va fatta una notazione importante. L’Occidente, soprattutto quello di sinistra, che difende in qualche modo l’Ucraina, non ha più il coraggio delle proprie idee. Si è tramutato, come si è potuto osservare durante l’epidemia, pardon la pandemia (ma il processo risale alla nascita del welfare state), in una organizzazione assistenziale, con forti inclinazioni autoritarie, che ai valori della libertà, che hanno fatto grande l’Occidente, ha sostituto quelli della sicurezza sociale, che invece rinviano alla sua decadenza: alla nascita di un individualismo protetto, l’esatto contrario dell’individualismo eroico che ha animato i coloni, i marinai, i soldati, gli ufficiali, gli imprenditori, perfino i corsari e i missionari. Insomma tutti coloro che hanno in qualche modo contribuito a diffondere la modernità occidentale. Semplificando al massimo: al “corsaro”, che correva i mari, ora si è sostituito il “burocrate” della Azienda Sanitaria locale.

Il che, per dirla alla buona, non aiuta. Anzi…

Perché non ci si può battere e nemmeno pensare di farlo, se non si è consapevoli delle proprie ragioni ideali e materiali, che poi si condensano in una sola: la difesa delle conquiste della modernità occidentale. Che poi questi valori, siano oggi difesi, tra l’altro fiaccamente, da politici welfaristi come Biden, Macron, eccetera, è un amaro boccone, che chi scrive, deve mandare giù. Che dire? Gli uomini passano, i valori restano… Speriamo sia così… Come dicevamo, la civiltà è Atlantica o non è…

Concludendo, non sappiamo come finirà: gli ucraini, probabilmente grazie anche ai nostri aiuti militari, combattono da un mese come leoni. Non sono mercenari, come qualche penna di Putin, senza provare vergogna, osa definirli.

Gli ucraini in questo momento sono i soldati dell’Occidente. Muoiono per noi. Onoriamoli, non solo a parole.

Carlo Gambescia