lunedì 30 agosto 2010

Dibattiti (con un intervento di Bernard Dumont)
Chiesa e immigrati


Come “inquadrare” sociologicamente le ripetute critiche della Chiesa Cattolica alle politiche di severo controllo dei flussi migratori?
La Chiesa Cattolica applica l’etica dei princípi o dei valori , lo Stato quella della responsabilità o dei mezzi . Ci spieghiamo meglio.
Per la Chiesa il valore fondamentale da difendere è la dignità dell’uomo, per lo Stato, invece, la difesa della dignità dell’uomo va sempre commisurata "responsabilmente" ai mezzi disponibili per salvaguardarla: se per la Chiesa, "potenza spirituale" che confidando nella Provvidenza non si misura con i mezzi, tutti gli uomini sono uguali, per lo Stato, "potenza terrena" che confida solo in se stessa, i "propri" cittadini sono “più uguali degli altri”. Ovviamente, anche l’etica di uno “Stato Mondiale” non potrebbe non essere pragmatica. Dal momento che i mezzi, a prescindere dallo scenario geopolitico e istituzionale (dallo Stato nazionale allo Stato universale), sono sempre politicamente scarsi e contesi. Di conseguenza qualsiasi istituzione politica "terrena", se vuole sopravvivere, deve fare i conti con essi.
Di qui - crediamo - l’impossibilità di una proficua e stabile intesa tra Stato e Chiesa Cattolica sulla questione dell’immigrazione. Perché la Chiesa non ragiona in termini di risorse (scarse e limitate temporalmente) ma di princípi o valori (sovrabbondanti, come la Grazia, ed eterni).
Certo, è pur vero che la Chiesa parla al mondo senza essere essere del mondo. Perciò un partito cattolico (confessionale) al potere - quindi pienamente di "questo mondo" - non potrebbe non veicolare la “cultura dell’ accoglienza”. Ma come? Con grande prudentia. E in che modo? Aderendo, come ogni altra istituzione o "potenza terrena”, a quella casistica del male minore - ora "accantonata" ma presente, fin dal tardo medioevo, nella teologia politica cattolica - che permette (e giustifica) di commisurare (temperandoli), come richiede la pratica politica, princípi (immensi) a mezzi (scarsi). Probabilmente un partito cattolico finirebbe per favorire l' ingresso degli stranieri correligionari, centellinando quelli di altre confessioni non cristiane. Insomma, difenderebbe “i propri” cittadini politici o elettori.
Alla luce di quando detto, come giudicare "l’interventismo" sugli immigrati della Chiesa Cattolica? Un giusto e nobile richiamo. Ma totalmente impolitico.
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Riceviamo e pubblichiamo volentieri il seguente commento dell'amico Bernard Dumont (nella foto),  direttore della rivista "Catholica" http://www.catholica.fr/ (C.G.)
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Caro Carlo,
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Non condivido l'analisi. A mio parere sono altre le ragioni che spiegano le recenti dichiarazioni (ad esempio, di Monsignor Marchetto) .
1) Si tratta di una forma di atteggiamento ecclesiastico che si ripete con regolaritàdagli anni ’70 in poi. Una politica di parole funzionali alla doxa benpensante; parole che danno credito, in modo molto astratto e utopico, alle ipocrite dichiarazioni di coloro che perseguono il potere per il potere.
Mi spiego : Sarkozy, per palesi motivi di bassa politica, lancia una operazione spavalda contro i clandestini più facili da espellere, perché poco numerosi e meno difesi, questo accade subito dopo due casi di delitti a loro attributi, mentre magari altri clandestini, e in numero maggiore, ogni giorno commettono delitti ben più gravi senza nessuna conseguenza, e si vedono « dimenticati » se non sostenuti da tanti, ministri inclusi. Dopodiché il potere mediatico, i « funzionari del senso », con la loro tradizionale ipocrisia lanciano i soliti slogan per « denunciare» non questo modo di fare politica con miserabili espedienti, ma il razzismo, il ritorno alla politica di Vichy, la “svolta” nazista del governo e cosí via. E subito vediamo vescovi, teologi, ecc. fare eco. E così denunciare i metodi violenti (cosa che in verità non sempre è senza fondamento, visto il pericolo di un "’effetto Rambo" sulla pubblica opinione), proclamando il diritto assoluto di tutti i popoli ad entrare sul territorio altrui in nome dei diritti umani e di tanti altri concetti falsamente attributi alla dottrina cristiana (sarebbe più giusto attribuirgli ad Anacharsis Cloots e più tardi a Marc Sangnier).
2) Perché questo atteggiamento nella Chiesa di oggi ? Perché dal Vaticano II in poi si è avuta la sostituzione della dottrina tradizionale del bene comune (dottrina filosofica, cioè della giustizia, sulla quale poggia la carità e del governo politico come atto della virtù di prudenza, che cerca di realizzare al meglio giustizia e carità in una comunità definita) con una visione utopistica del bene comune definito come insieme di condizioni esterne per assicurare ad ogni individuo (si dice piuttosto : ad ogni persona) le massime o comunque migliori condizioni per lo sviluppo.
Se i diritti umani individuali diventano la norma suprema, allora niente può opporsi (in ultima analisi) alla loro invocazione. Il buonismo si fonda su una visione spacciata per caritatevole, che invece ignora la giustizia. Oppure su un soprannaturale, che in realtà ignora la natura.

Bernard Dumont

venerdì 27 agosto 2010

Riflessioni
Capitalismo e  conflittualità sociale


 Può esistere un’economia capitalistica libera da conflitti sociali?  No. La società capitalistca è per eccellenza conflittuale. Anzi si può dire che il conflitto come fattore di mobilità, di crescita economica e personale, di redistribuzione sia la sua forza. Ovviamente, se contenuto entro limiti fisiologici. Sotto questo profilo va notato, che rispetto all'inizio del Novecento, i conflitti sul lavoro nel mondo di “antica” industrializzazione (soprattutto in Europa Occidentale) si sono ridotti di molto, senza per questo - come è sociologicamente corretto - scomparire. Lo stesso decennio 1968-1978, oggi liquidato dai neoliberisti come cattivo esempio di “sindacalizzazione”, registrò un numero di conflitti (scioperi, occupazioni, serrate) decisamente inferiore rispetto al primo quindicennio del XX Secolo. Per non parlare, con riferimento all’Italia, del cosiddetto “Biennio Rosso” (1919-1920), davanti al quale il Sessantotto “operaio” rischia di apparire una passeggera e lieve increspatura sociale.
Che cosa vogliamo dire? Che se la conflittualità si è ridotta rispetto all’inizio del Novecento un ragione pure ci sarà… E quale può essere? Presto detto: l’istituzionalizzazione del conflitto attraverso la nascita di un sistema di contrattazione collettiva e di sicurezza sociale. Costoso, ma necessario, non tanto per eliminare il conflitto quanto per “addomesticarlo” e renderlo produttivo sotto il profilo sociale e di riflesso economico… Il welfare state ha rappresentato e rappresenta tuttora il punto di arrivo di questo processo. Una conquista fondamentale - attenzione - non solo per il lavoratori, ma per lo stesso capitalismo.
Perciò parlare di una conflittualità da eliminare definitivamente, come si sente dire in questi giorni, significa non sapere o capire nulla della storia del capitalismo e in particolare del capitalismo novecentesco, in particolare quello europeo, più sociale. Il cui merito resta quello di aver accettato il sindacato come interlocutore e fattore di crescita sociale. Pertanto qualsiasi tentativo di “tornare indietro” rischia soltanto di far aumentare la conflittualità sociale a livello protonovecentesco, facendo così il gioco di tutti coloro, che a destra come a sinistra, puntano sul tanto peggio tanto meglio.
E qui va ricordato che la politica (nel senso di poteri pubblici decisionali) ha giocato nell’intero Novecento un ruolo fondamentale: quello di favorire la contrattazione collettiva e l’inserimento del lavoratore nel tessuto societario, attraverso un esteso sistema di diritti politici, economici e sociali.
Il che significa che senza un potere politico “terzo” ( non nel senso però del "guardiano notturno" smithiano) capace di garantire la triplice cittadinanza (politica,economica e sociale), temperando le esigenze dei lavoratori e delle imprese, si rischia il conflitto sociale generalizzato. Dalle cui ceneri potrebbero materializzarsi i paurosi fantasmi dell’ “autoritarismo” e del “rivoluzionarismo”. Perché in politica il vuoto non esiste. Quando le élite politiche fanno un passo indietro il potere viene afferrato da altre élite: imprenditoriali, sindacali, militari, rivoluzionarie, controrivoluzionarie, democratiche, antidemocratiche, e così via.
La storia, purtroppo, non si ferma mai. Si tratta solo di provare a plasmarla e contenerla per un certo tempo. Il capitalismo, anche quello sociale di mercato, non è eterno. Il che però, proprio se si conosce la storia, non dà alcuna garanzia che, di regola, il “dopo” possa essere migliore del “prima”.

Carlo Gambescia

giovedì 26 agosto 2010

Il libro della settimana: Antonio Gnoli, Franco Volpi, I filosofi e la vita, Bompiani, Milano 2010, pp. 214, euro 10,50.

http://bompiani.rcslibri.corriere.it/


Leggendo libro di Antonio Gnoli e Franco Volpi ( I filosofi e la vita, Bompiani, Milano 2010, pp. 214, euro 10,50) ci è tornato in mente un passo della Recherche proustiana: “ La nostra memoria e il nostro cuore non sono abbastanza grandi da poter essere fedeli. Non abbiamo abbastanza spazio, nel nostro pensiero attuale, per custodirvi i morti accanto ai vivi”.
Perché? Franco Volpi è scomparso da circa un anno e francamente l’ omaggio postumo di Antonio Gnoli, che raccoglie scritti e interviste a quattro mani apparse in larga parte su “Repubblica”, se non può definirsi del tutto "infedele" risulta comunque deludente. Dispiace dirlo, ma nei testi riuniti sembra prevalere l'aneddotica: il Volpi curioso giornalista di occasione pare avere la meglio sul Volpi severo storico di mestiere.
Si badi: I filosofi e la vita resta un libro interessante. Si parla e si fanno parlare Georg Gadamer, Ernst Jünger, Armin Mohler, Ernst Nolte, Martin Heidegger, Carl Schmitt e altri protagonisti e comprimari di un infuocato Novecento. Ma si resta in superficie, cadendo talvolta nel pettegolezzo. Come ad esempio qui:

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“ La previsione di Elfride [ moglie di Heidegger, n.d.r.] appare esatta. Le pallide scuse di Martin [Heidegger, n.d.r.] non riescono a occultare minimamente la sua recidiva incontinenza erotico-sentimentale: si raggiunge il colmo nell’aprile del 1970. Ad Augusta, durate un incontro amoroso con un nuova amante, l’ormai ottantenne Martin è colto da un infarto che lo lascia semiparalitico. Con urgenza è trasportato in ambulanza a Friburgo, dove Elfride lo prenderà in cura” (p. 114).
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Oppure si nuota nel frivolo come in questo passo dell’intervista a Hermann Heidegger, figlio del filosofo:
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[Gnoli e Volpi:] ‘Si parlava all’inizio delle conversazioni a tavola del fatto che suo padre s’interessava dell’attività sportiva. E’ un lato della sua vita poco conosciuto. Può dire qualcosa di più?’ [Hermann Heidegger:] ‘Da giovane ha praticato molto sport: è stato un buon atleta, soprattutto ginnastica attrezzistica, ha giocato a calcio, ha remato e soprattutto sciato. Amava guardare le partite della nazionale di calcio, e quando c’erano incontri importanti li seguiva da una televisione di un vicino. Tifava molto per Beckenbauer.’ [Gnoli e Volpi:] ‘Chissà se ha visto Italia-Germania dei mondiali di calcio del ’70, quella che finì 4-3 per noi?’ [Hermann Heidegger:] ‘Non so, ma se l’ha vista non deve aver gioito per il risultato ‘ ”. (p. 103).
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Insomma, non si intravede il Volpi dotto studioso del linguaggio heideggeriano, ma solo un Volpi da “Processo del Lunedì”, più o meno filosofico. Come del resto non si scorge il brillante anatomo-patologo del nichilismo. Certo, qui è là si può cogliere qualche perla, come questo giudizio sui dinamitardi scritti politici di Ernst Jünger (Politische Publizistik 1919-1933, tradotti in Italia da Libreria Editrice Goriziana):
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“Insomma, questi saggi sono la migliore testimonianza storica della confusione che regnava in quegli anni (…). La storia non li aveva ancora riempiti di vita vissuta e di dolore (…). Lo scrittore eredita dal soldato la disciplina ascetica che gli consente di far sgorgare dall’intimo, in forma di energia pura, quel dono che Jünger possiede per natura che è la scrittura. Al di là del contenuto dei saggi, anzi proprio in considerazione del loro legame ai convulsi fatti del giorno, quindi del loro carattere istantaneo e della febbrile frenesia in cui furono stesi, colpisce la purezza olimpica dello stile: Uno stile che si impone anche contro le idee” (p. 75).
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Eccellente. Ecco, quel che manca ne I Filosofi e la vita è lo stile di Volpi. Non lo stile di scrittura, che comunque "si sente" anche nella raccolta. Bensì lo stile filosofico che ha distinto tutta la sua produzione scientifica. Quello stile grazie al quale, per dirla con Vico, la curiosità "partorisce la scienza". Peccato. 


Carlo Gambescia

mercoledì 25 agosto 2010

Heidegger, Mancuso e Berlusconi


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Se Martin Heidegger fosse al posto di Vito Mancuso continuerebbe a pubblicare con Mondadori? Probabilmente sì. Un filosofo passato attraverso le inquietanti adunate hitleriane come potrebbe curarsi delle tempeste (fiscali) in un bicchier d’acqua che agitano lo stagno italiano?
Diciamo questo per ragioni di senso storico. E di misura. Dando per scontata la distanza siderale tra Heidegger che dava del tu a Edmund Husserl e Vito Mancuso che pasteggia con Corrado Augias. Ma così è. Ognuno ha l’Hitler che si merita: Heidegger quello targato Braunau am Inn, Mancuso Milano.
A dire il vero qualche somiglianza c’è. Heidegger all’inizio aderì, Mancuso pure, non al Blut-und-Boten ma al marchio Mondadori: cinque libri cinque (se ricordiamo bene) tra il 2002 e il 2009… Al sesto, I Segreti del vaticano (di prossima uscita), il teologo dell'anima ha scoperto l’inclinazione del Cavaliere per le leggi “ad personam”… E che pecunia olet… Di qui il suo furore “etico e civile” a stretto lancio d'agenzia. Quello che “fa tanto Magris”… E che ha subito trovato la solidarietà pelosa del Gruppo Editoriale L’Espresso… Del resto Mancuso è collaboratore di “Repubblica”: classico caso di cuore a sinistra (anche pagato benino) e portafogli a destra (Mondadori).
E poi che rischia il nostro teologo-glamour ? Nulla. Heidegger è tuttora sulla graticola per aver condiviso nel 1933 la causa di un austriaco naturalizzato tedesco. Mentre nel 2o10 dare addosso a un milanese naturalizzato Arcore è sport nazionale. Al massimo Mancuso, se ha ville a Montecarlo, può finire sotto il tiro di Feltri e Belpietro. Due patetici bandoleri che sparano pallottole di gomma... e sgonfiabili, perché, tempo una quindicina giorni, fanno psss…
Quindi professore stia tranquillo. Risolva pure con calma i suoi dubbi "etici e civili"… La teologia può attendere. E i lanci d'agenzia? Pure. 
Carlo Gambescia

martedì 24 agosto 2010

 Precisazioni
Costituzione formale, materiale e sostanziale


Ieri sera, in un 'intervista al TG3, il costituzionalista Michele Ainis ha chiesto ironicamente "una fotografia" della “Costituzione sostanziale italiana”, appunto per provarne la misteriosa esistenza…
Di regola, gli studiosi di diritto pubblico distinguono tre di tipi di costituzioni, sintetizziamo dal classico Lavagna:

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a) la “Costituzione come struttura della comunità statale, come presenza e coordinamento delle forze politiche conviventi nello stato” (Costituzione in senso materiale); b) la “Costituzione come ordinamento costituzionale dello stato, cioè l’insieme delle norme che regolano la società statale nei suoi aspetti fondamentali indipendentemente dalle fonti politiche e formali da cui queste provengono” (Costituzione in senso sostanziale); c) la “Costituzione come atto solenne, scritto e quindi volto come particolare fonte di diritto introduttrice di norme volte a concretizzare l’ordinamento supremo dello stato” (costituzione in senso formale).
(Carlo Lavagna, Istituzioni di Diritto Pubblico, Utet 1976, 3° edizione, p. 185).
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Pertanto – e ci scusiamo per l’invasione di campo, siamo umili sociologi – la Costituzione sostanziale esiste ed è rappresentata da un diritto costituzionale in divenire, introdotto da “fatti normativi originari” ma anche da “consuetudini” . La sola cosa importante è che essi riflettano i caratteri “dell’ordinamento essenziale dello stato”.
Di conseguenza e dal momento che l’ordinamento costituzionale italiano riserva, in termini essenziali, al popolo la sovranità (articolo 1), non rispettare la sovranità del popolo, contrapponendo, e a danno della seconda, costituzione formale a costituzione sostanziale (addirittura negandone l’esistenza), significa violare e ridicolizzare l’ordinamento costituzionale italiano.
Del resto il concetto di Costituzione sostanziale apre saggiamente a fattori extragiuridici: in senso stretto, sociologici; fattori che operano in tutte le società e che regolano il naturale mutamento sociale e politico. Il perpetuo divenire delle cose umane.
Ricapitolando: Costituzione materiale (l’Italia è una Repubblica democratica); Costituzione sostanziale (la sovranità è del popolo); Costituzione formale (detta sovranità è esercitata nelle forme e nei limiti della costituzione).
E’ ovvio che qualsiasi tentativo di riforma che andasse contro la triplice costituzione materiale, sostanziale e formale (ad esempio la trasformazione della Repubblica in una Monarchia, oppure "l’azzeramento" della sovranità popolare) costituirebbe, come si dice, un vulnus costituzionale. O peggio, un colpo di stato.
Certo, si tratta di un equilibrio complesso, che rinvia alla sociologia del diritto, ma ineludibile. Dal momento che nessuna delle tre tipologie vale per se stessa. Tra diritto, società e politica deve sempre esservi interazione… E a ciò, in particolare, si presta il concetto di costituzione sostanziale, la cui plasmabilità riflette il divenire sociale, naturalmente entro i limiti imposti dalle altre due tipologie. Occorre, per quanto possibile, perseguire l' armonia tra forma, materia e sostanza della Costituzione.
Concludendo, ogni saggio costituzionalista, a partire dal professor Ainis, invece di fare ironia sulla “Costituzione sostanziale”, dovrebbe auspicare maggiore armonia fra le tre tipologie costituzionali, e in ultima istanza tra diritto e società.
Insomma, mai scambiare la parte per il tutto. Un buon giurista dovrebbe essere anche buon sociologo.

Carlo Gambescia

lunedì 23 agosto 2010

Agosto 1968 
La tragica estate di Praga


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Nella notte tra il 20 e il 21 agosto 1968 i carri armati sovietici penetrarono in Cecoslovacchia e occuparono le strade di Praga. Di Dubček, sequestrato dalle forze speciali sovietiche, per alcuni giorni si persero le tracce. Il segretario generale del partito comunista cecoslovacco ricomparve dopo cinque giorni di trattative moscovite con un Breznev politicamente disposto a tutto, pur di difendere, come dichiarava, "l' internazionalismo proletario”...
Imbarazzante e imbarazzato il titolo che apparve su “l’Unità” del 28 agosto, come si legge in una documentata analisi reperibile in Rete:
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Nei primi messaggi alla nazione cecoslovacca dopo la conclusione delle drammatiche trattative di Mosca, Svoboda e Dubček al popolo riaffermano l’impegno per il rinnovamento socialista”.
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In realtà si trattava di un rinnovamento privo di qualsiasi sostanza politica: “una formula vuota”. Dal momento che l’URSS imponeva
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“ai delegati cecoslovacchi una progressiva ‘normalizzazione’ del Paese, cioè il ristabilimento del controllo sulla stampa e sulla televisione, e la marginalizzazione di tutti gli elementi riformatori all’interno del partito”. (http://www.storiain.net/arret/num143/artic1.asp ).
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Come poi sia finita l’intera vicenda storica ( Unione Sovietica e stati satelliti), ormai lo sappiamo tutti, o quasi… Inutile insistere.
Comunque sia, dobbiamo a François Fejtö, acuto storico delle “democrazie popolari”, il merito di aver confermato, anche "dopo Stalin", la profonda ambiguità del concetto di “internazionalismo proletario”, usando il caso Dubček” come cartina tornasole. Ascoltiamolo:
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“Prigioniero di una ideologia dominata dalla devozione all’URSS come unica pietra di paragone, Dubček non sapeva vedere ipotesi alternative alla ‘appartenenza al mondo socialista’ [internazionalismo proletario, n.d.r], e si poneva in una situazione di assoluta inferiorità rispetto agli interlocutori, per nulla vincolati da scrupoli internazionalisti. Tutto quel che Dubček poteva fare, e ha fatto, era tentare una guerra di rallentamento, persa in partenza. Si è lasciato manipolare, disarmare, separare dai suo veri amici, privare della possibilità di rispondere ai detrattori, per mettersi infine (…) alla mercé dei nuovi detentori del potere, tra i quali aveva accaniti nemici personali. Convinto di avere ragione, ha rifiutato testardamente l’autocritica che gli era chiesta con tanta insistenza. Ma questo tipo di riserva mentale, ultimo rifugio della sua dignità e libertà, il suo esempio non poteva insegnare al suo popolo che una filosofica e disciplinata sottomissione fondata sulla speranza dei giorni migliori” (F. Fejtö, Storia delle democrazie popolari, Bompiani 1997, vol. II, pp. 225-226) .
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Ma anche il Pci, pur non essendo a “tiro di carro armato” era in quegli anni vittima dello stesso “complesso-Dubček”. Infatti, cosa scrisse “l’Unità” del 22 agosto 1968? All’indomani dell’invasione sovietica?
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“Allo stato dei fatti non si comprende come abbia potuto in queste condizioni essere presa la grave decisione di un intervento militare. L’ufficio politico del PCI considera perciò ingiustificata tale decisione, che non si concilia con i principi dell’autonomia e indipendenza di ogni partito comunista e di ogni Stato socialista e con le esigenze di una difesa dell’unità del movimento operaio e comunista internazionale. E’ nello spirito del più convinto e fermo internazionalismo proletario, e ribadendo ancora una volta il profondo, fraterno e schietto rapporto che unisce i comunisti italiani alla Unione Sovietica, che l’ufficio politico del PCI sente il dovere di esprimere subito questo suo grave dissenso” (http://www.storiain.net/arret/num143/artic1.asp ).
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Insomma, Breznev invadeva militarmente la Cecoslovacchia in difesa dell’internazionalismo proletario… Dubček si inginocchiava ai sovietici in nome dell' internazionalismo proletario… I comunisti italiani dissentivano (o quasi), sempre in nome dell’internazionalismo proletario... Breznev sicuramente barava, come impone ogni politica di potenza. Ma come definire quei comunisti cecoslovacchi e italiani che, per dirla con Fejtö, mostravano di credere in una “filosofica e disciplinata sottomissione fondata sulla speranza dei giorni migliori”? Il termine migliore è "credenti". E in una “fede” nelle "Leggi della Storia", capace di vincere qualsiasi contraddizione, persino quella liberticida dei carri armati... Dal momento, come pontificava György Lukács, che “il peggior regime comunista [era] migliore del capitalismo”.
Vero? Falso? Quien sabe... In gioco, ieri come oggi, resta la scelta fra due credenze: quella nella libera (entro certi limiti) configurazione della storia da parte dell'Uomo e quella nella capacità della Storia di plasmare l'uomo.
Probabilmente la verità è nel mezzo. Ma per alcuni anche il giusto mezzo non esiste. O per dirla con Manzoni, se esiste serve solo a difendere il privilegio degli "arrivati" che nel giusto mezzo "ci stanno comodi". Perciò è difficile rispondere in modo definitivo. Di sicuro resta il fatto che la verità dei "piccoli fatti" finisce sempre per vendicarsi. Infatti, la storia, quella reale con l'iniziale minuscola, si è presa la sua vendetta sul comunismo. Ma - ecco il punto - per sempre? Quien sabe... 

Carlo Gambescia

domenica 15 agosto 2010


 Che cos'è la destra?



Joseph de Maistre (si può ancora citare?)  ha giustamente  sostenuto  che non esiste la libertà in astratto, ma esistono le libertà in concreto, relative a un certo contesto storico.  E lo stesso vale per l’idea di destra. Non esiste una destra “in assoluto”, una “destra divina”, ma esistono tante destre “in relativo”, sulla base delle diverse situazioni storiche e politiche. Sappiamo che la destra Estiqaatsi  alla Lillo e Greg  -   perché ora c’è pure quella… -  farà fatica a seguire il ragionamento, ma non  per colpa  nostra.
Dicevamo destre “in relativo”.  Bene, si tratta di un fatto storicamente    comprovato. E a partire dal  1789.  Anno canonico, da cui gli storici, sulla base della disposizione fisica all’interno dell’ Assemblea Rivoluzionaria (tra coloro che erano favorevoli oppure contrari al diritto di veto del re),  fanno iniziare la dicotomia destra-sinistra. Cui seguirà  - ecco il punto -  una crescente “libanizzazione”  della destra,  che per tutto l’Ottocento si scomporrà in  varie tendenze, spesso in conflitto: monarchici  divisi per rami dinastici,  clericali,  bonapartisti, cattolici conservatori, cattolici liberali, conservatori tout court , liberal-nazionali, nazionalisti antidemocratici, antiliberali e antisocialisti.
Ma non vogliamo farla troppo lunga. Diciamo che fino al  1914 la destra, pur nella sua rissosa varietà,  sarà per la conservazione, con qualche cedimento reazionario, come in Italia, Francia e Spagna. Mentre la sinistra,  per il progresso.
Come insegnano Furet e Nolte è con il sisma politico del 1917 che cambia tutto. Sul tronco  della presa di potere bolscevica,  si innestano, ispirandosi ai comunisti russi, i contro-movimenti fascista e nazionalsocialista. Che però subito si autodefiniscono oltre la destra e la sinistra. Tentando di trovare l’isola che non c’è…        
E qui  cominciano i guai.  I “rivoluzionari” in camicia nera e bruna,  oltre ad attirare reazionari in crisi di astinenza, antidemocratici misti,  marxisti  pentiti, puntano subito i fucili contro il Palazzo d’Inverno della democrazia liberale. Perché contrari a qualsiasi  forma  di libertà che non venga posta al servizio della Nazione o peggio della Razza.  E così si mettono  sulla strada dello scontro frontale con le potenze “demoplutoeccetera”,  finendo, piaccia o meno,  malissimo.
Ora, il Movimento Sociale  nasce  proprio  dalle ceneri  del Ventennio. Rivendicando il superamento di due dicotomie: destra-sinistra  e  conservazione-progresso.
Come è noto, il fascismo italiano, fin dall’inizio, aveva mescolato e riprodotto  una pluralità di anime, per alcuni, in pena.  Il che, già durante il regime, nonostante la presenza del titolare del brevetto, Benito Mussolini,  provocò duri conflitti,  in nome di una  ricerca della “vera” identità fascista. Una “litigiosità”, che nel secondo dopoguerra, trasmigra nel Movimento Sociale. Inutile qui rievocare le  liti dei fratelli coltelli.       
Un mondo così “bellicoso” come ha reagito alla trasformazione  Msi-An-PdL?  In due modi. Sul piano politico e organizzativo (del potere) si è adeguato, pure troppo.  Su quello ideologico, no. Come mostrano i ripetuti dibattiti sulla “natura della destra”.  Che, attenzione, non vertono tanto sulla definizione di una cultura di destra, che dal 1945 deve essere liberale e democratica e contraria a ogni  forma di  totalitarismo, quanto su una serie di problemi “interni” legati al “rinnegamento” o meno dell’esperienza fascista da parte degli ex missini confluiti nel PdL.    
E qui la questione si ingarbuglia ancora di più. Uno, perché il fascismo, come abbiamo detto,  si collocava oltre la destra e la sinistra. Due, perché sul piano culturale aveva recepito una  predisposizione negativa prefascista verso le istituzioni democratiche e liberali.  In questo senso, Tarmo Kunnas ha parlato di “tentazione fascista”, per uomini della statura di  Pound,  Hamsun, Drieu La Rochelle, Jünger e così via.
Pertanto qualsiasi progetto che si proponga di spendere politicamente (e non in termini di ricerca pura) la cultura della “tentazione fascista”, può  portare a tutto ma non  alla piena accettazione della democrazia liberale. Certo può possedere plusvalore politico per quella che è stata definita la destra di Porto Alegre: una destra fasciocomunista, antiliberale e  antisistemica che  vuole fare concorrenza ai no global, all’insegna di una confusa riedizione postmoderna del né destra né sinistra.  Ma non per una concreta destra di governo, sistemica, liberale, democratica e popolare. Che debba rispondere agli elettori di destra che la votano, e che sono tanti.  Delle due l’una: o pro o contro il sistema. Tertium non datur.         
Però qui bisogna fare attenzione. La destra di Porto Alegre  è visionaria ma intellettualmente onesta.  Mentre non lo è la destra aennnina che tenta di contrabbandare, magari amputandoli a colpi di spot pubblipolitici, gli autori di cui sopra come padri della “destra maggioritaria” e “post-ideologica”, “comunicativa”. Insomma, di conciliare  l’inconciliabile: le tempeste d’acciaio con la soppressione dell’Ici sulla prima casa. E quel che è ancora peggio, pretendendo in modo ipocrita di ricollegarsi all’esperienza della Nuova Destra  anni Ottanta. Che è vero che si proponeva di rileggere gli autori della “tentazione fascista” (il libro di Kunnas fu pubblicato proprio da Akropolis), ma solo come elemento di rottura, uno fra i tanti,  verso una routine politica, che aveva contagiato anche il Movimento Sociale, all’epoca  imbolsitosi.  Ma soprattutto di rivolta  nei riguardi di un “sistema”, nei cui anfratti  “pubblipolitici” più vischiosi,  gli aennini di oggi, a differenza di Tarchi e pochi altri,  si sono invece “spaparanzati” come  topi nel formaggio. Certo, anche questa  può  essere cultura politica post-ideologica dell’ et-et:  un “et” di parmigiano, un “et” di provolone, eccetera…
Altro discorso, invece serio, sarebbe quello di recuperare alcuni autori della tradizione liberal-nazionale (patriottica non nazionalista), poi confluita nel fascismo. Si pensi, ad esempio a Gioacchino Volpe che tra l’altro era monarchico. Oppure, alla tradizione nazionalpopolare, nata con Mazzini che si prolunga nel sindacalismo rivoluzionario e in quella fucina di idee del corporativismo democratico, che fu la Carta del Carnaro. Testo   che rinvia a D’Annunzio ma anche a Alceste De Ambris. E che nei suoi  aspetti  “lavoristi” riuscì a influenzare persino la Costituzione Italiana.  Ma,  attenzione,  parliamo del  Mazzini democratico, quello amato dai  riformatori liberali inglesi. Il quale vedeva nella nazione uno strumento di pace  e non di guerra e conquiste “imperiali”.
Potrebbe perciò essere interessante ricostruire i filamenti culturali  di  quel  “fascismo”  che reputava, alla stregua di Churchill, la democrazia come il male minore… Un fascismo colto e diseguale perché segnato dalla “tentazione democratica”.  Forse quello di Bottai e Grandi? A storici come Parlato, Nello, Guerri la risposta.
Infine, sarebbe importante rileggere l’esperienza della Rsi  cercando di capire, se l’adesione di alcuni,  fu un atto di fede verso Mussolini e il fascismo o verso gli ideali repubblicani in quando tali.  Crediamo,  manchino buoni studi storici in argomento.
Perché invece di perdersi  in  sterili polemiche non  favorire una rilettura storiografica seria?  Capace di scoprire e riunire gli elementi criptodemocratici e perciò nazionalpopolari del fascismo? Forse per alcuni si tratta di una  mission impossible.  Ma perché non tentare?

Carlo Gambescia

venerdì 6 agosto 2010

Da Max Weber a Ernst von Salomon
Spada e/o libro?


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In questi giorni stiamo rileggendo I Proscritti di Ernst von Salomon: inno alla logica del sangue e della guerra. Si tratta di un’ opera che rinvia ad altre pagine, altrettanto crude e forti: quelle scritte da Ernst Jünger ( Nelle tempeste d’acciaio). Una piccola premessa: non abbiamo ma condiviso il flaccido pacifismo del Remarque di Niente di nuovo sul Fronte Occidentale.
Subito la nostra mente è andata a Max Weber che nello stesso tormentato dopoguerra provò a indicare un' altra via: quella di una ragion politica, attenta alla scienza delle costituzioni. Si pensi ad esempio al suo bellissimo Parlamento e Governo nel nuovo ordinamento della Germania. Dove Weber tenta di ricondurre nell'alveo delle istituzioni parlamentari la tumultuosa forza carismatica del “politico”, senza per questo dover rinunciare alla sua “essenza” trasformatrice e formatrice delle élite repubblicane.
Qual è la lezione del confronto von Salomon-Weber? Di non contrapporre mai le due logiche: logica del sangue versus logica della ragion politica. C’è una pagina de I Proscritti - forse l’unica - dove von Salomon, sembra miracolosamente intuire la differenze tra le diverse logiche ma anche la necessità di una coesistenza tra spada, libro e libertà individuale. Ecco il passo.
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“Marciammo nei sobborghi e dalle case tranquille, eleganti, nascoste tra il verde, ci venivano gettati gridi di saluto e fiori. Molti borghesi erano nelle strade e ci salutavano, e qualche casa era imbandierata. Ciò che si nascondeva dietro quelle tendine abbassate, dietro quelle finestre indifferenti, sotto le quali passavano grigi, esausti, decisi, meritava, ne eravamo convinti, la nostra dedizione. Qui la vita aveva preso un altro corso, raggiunto un altro livello; la sua intensità era portata a un raffinamento estremo che stonava con i nostri stivali rozzi e con le nostre mani sporche. La nostra cupidigia non saliva fino a quelle case, ma vi erano rifugiati, lo sapevamo, i frutti della cultura di un secolo appena trascorso. Il mondo dei borghesi, l’educazione mondana, la libertà personale, l’orgoglio del lavoro, l’agilità dello spirito: tutto ciò era esposto all’assalto delle masse imbestialite e noi eravamo coscienti di difenderlo perché insostituibile” (Ernst von Salomon, I Proscritti, Baldini & Castoldi 1994, p. 41).
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L’ intuizione però non sempre implica lo sviluppo dell’idea... E di conseguenza il resto de I Proscritti è pura celebrazione - certo scritta benissimo - del mito guerriero: della vittoria della spada sul libro e sulla libertà.
Mentre il vero problema resta quello di come conciliare le due logiche. Ma come? Come addomesticare il "politico" senza privarlo della sua forza trasformatrice? Come impedire che il "politico" sia ridotto a pura manifestazione di forza? 


Carlo Gambescia

giovedì 5 agosto 2010



Il libro della settimana: Giuliano Compagno (a cura di), In alto a destra: tre anni di idee che sconvolgono la politica, scritti di Campi, Croppi, Lanna, Perina e altri, Coniglio Editore 2010, pp. 287, euro 14,50 - 


http://www.coniglioeditore.it/jom/



Chiunque abbia letto i Dieci giorni che sconvolsero il mondo di John Reed, scopre subito come In alto a destra. Attorno a Fini: tre anni di idee che sconvolgono la politica (Coniglio editore 2010, pp. 288, euro 14,50) sia sconvolgente quanto una puntata televisiva del Bagaglino.
John Reed, per così dire, navigò con Lenin e Trotsky. Mentre Compagno, Campi, Croppi, Lanna, Perina, Rossi, Terranova & Co. si ritrovano in barca con Gianfranco Fini. Se Reed, Lenin e Trotsky cacciavano la balena, i “secolisti”, per usare il linguaggio caro a Martufello, al massimo “vanno a cannolicchi”…
Quel che colpisce è la presunzione. Cosa che talvolta non guasta. A patto però di non contraddirsi quasi ad ogni pagina. Un esempio: il libro martella sulla fine della dicotomia destra/sinistra. Scrive Giuliano Compagno, dettando la linea:

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“Da una lettura attenta di questa raccolta di articoli, ripresi dal “Secolo” da “Ffwebmagazine” e da “Charta Minuta”, si trae infatti il convincimento che la destra, quale categoria del politico, non sia più definibile con certezza, in essa albergando, semmai fosse, tanto un’ampia polisemia di riferimenti concettuali quanto un esteso richiamo a opere, a pensatori e a miti che hanno illustrato il Nostro Novecento, per tacere di un passato ancor più remoto. D’altronde va anche da sé che un’ eventuale oltre-destra non potesse più essere proposta attraverso auspici terza forzisti o barricaderi, né men che meno proclamata in nome di impraticabili binomi nazional-sociali o popolari che fossero” (p. 5) .
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Benissimo. Ma che c’entrano con l’ “eventuale oltre-destra” Sarkozy e Cameron? Indicati più avanti da Campi e Lanna come modelli per Fini? Perché evocare i cieli dell’ “’oltre-destra” per poi ripiegare su due mestieranti terra terra.
Ma c’è dell’altro. Nota Campi:

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“Da una destra, sotto ogni latitudine, ci si aspetta che difenda lo Stato e l’unità nazionale, che stia dalla parte dei giudici e della legge, che combatta ogni forma di monopolio o concentrazione del potere nel nome di un elementare principio di giustizia ed equità sociale, che guardi al futuro rispettando la storia e il passato, che abbia a cuore la tenuta del tessuto sociale, che difenda la legalità e una qualche moralità pubblica, che tenga alta l’etica del lavoro, che si batta per la valorizzazione del merito, che sappia usare parole forti contro i mali del mondo senza per questo schiumare bava dalla bocca, che faccia da freno alla volgarità dei costumi. Questo ci si aspetta da una destra che sia tale” (p.216).
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Perfetto. Ma tutto questo che c’entra con l’ “oltre-destra” e con il volare alto? Il programma di Campi - che ricorda tanto i discorsi di fine anno di Giovanni Leone - potrebbe essere condiviso anche dall’elettore rasoterra che vota Casini.
Allora dov’è l’imbroglio? E’ nella cortina fumogena “culturale”, da roof garden con vista sulla metapolitica, in cui si vuole avvolgere un progetto di bassa cucina politica, da sottoscala, rivolto a insediare Fini al posto di Berlusconi, all’insegna di un nuovo doroteismo. Un mostriciattolo che nel libro si ribattezza con il nome di “destra maggioritaria”. Contenti loro.
Ma c’è anche un movente freudiano. Quello di superare antichi complessi d’inferiorità, cercando di accreditarsi a sinistra come destra “buonista” e “libertaria”, capace di prendere le distanze da un “cattivismo”, inventato o enfatizzato dalla sinistra. Ma in che modo? Liberandosi, scrive Filippo Rossi, quasi in lacrime, da quella

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“ mutazione genetica che l’ha fatta passare [la destra, n.d.r.] da una concezione maggioritaria, solare, vitalista, attivista, volontaristica a una concezione recriminatoria, antagonista, minoritaria, ‘cattiva’ dell’azione politica. In perenne ricerca di una identità perduta, la destra italiana troppe volte si è arresa accentando l’identità che altri le imponevano. Rimestando nel torbido della storia recente, facendosi carico dell’indicibile e dell’ingiustificabile" (pp. 45-46).
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Oddìo, il mea culpa su un pendant delinquenziale, non assente neppure a sinistra, può anche starci. Se non che per combattere la presunta deriva “cattivista”, si inventa di sana pianta la leggenda della destra “buonista” e “libertaria”. Quando il problema resta invece di ricostruire la storia dal 1919 al 1994, evitando le leggende “buoniste” o “cattiviste”. Insomma, storicizzare è una cosa, inventare, o peggio mistificare, una tradizione un’altra.
Esemplare in merito, lasciando stare le fantasiose genealogie di cui il libro è pieno - già criticate con Nicola Vacca in A destra per caso - quel che Luciano Lanna, novello Mago di Oz, osserva, celebrando ad usum Fini (non è un lapsus…) il ‘77:

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“Non a caso in quei giorni, dopo un trentennio egemonizzato da Marx, Gramsci, Freud e il neorealismo, riaffiorano i libri di Nietzsche, Schmitt, Guénon, Céline, Artaud, Gurdjieff, Jünger e Pessoa. Qualcosa cambiava nel profondo. Qualcuno iniziava a rompere gli schemi e a sottrarsi alla logica militarizzata della guerra per bande. Gli indiani metropolitani, infine. Fecero la prima apparizione ufficiale con la contestazione alla prima della Scala, nel dicembre del ’76 e si configurarono subito come qualcosa che rompeva con la retorica della militanza marxista-leninista. Un po’ come Tolkien per la destra. E’ quello infatti anche l’anno del primo campo Hobbit: la destra giovanile intuisce la potenzialità della metapolitica, dell’impegno sul fronte dell’egemonia e dell’immaginario, il primato della società civile. Le casualità profetiche, infine. Emergono improvvisamente protagonisti della politica che verrà. Gianfranco Fini arriva alla guida dei giovani di destra, Massimo D’Alema diventa segretario della Fgci, Silvio Berlusconi, fino ad allora un imprenditore edile, decidere di scendere in campo nel settore della comunicazione” (pp. 264-265).
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Capito, il giro di parole? Solo per arrivare al Fini “guida dei giovani di destra”. Senza però far cenno al fatto che l’inamidato delfino di Almirante, che le foto dell’epoca ritraevano in impermeabile burberry, (tipica mise da indiano metropolitano…), rappresentò per il Fronte della Gioventù la restaurazione almirantiana. Altro che libertarismo e rottura degli schemi! Gli schemi provò a romperli Marco Tarchi, opponendosi alla battaglia (libertaria?) di Almirante per la pena di morte, sottoscritta anche da Fini… E infatti Tarchi venne messo fuori del partito. Casualità profetica anche questa?
Infine In alto a destra ha un altro punto debole: non si parla di economia. Ad esempio, si trascura Giano Accame, mentre si ricorda giustamente Beppe Niccolai, non menzionandone però le convinzioni sicuramente non filo-capitaliste. Si rievoca Bruno de Finetti, matematico e statistico, senza però andare a fondo. Del colto Goffredo Fofi si lascia cadere l’interessante osservazione sui modelli capitalistici di Agnelli (vincente) e di Adriano Olivetti (perdente). Stesso discorso per Geminello Alvi, pur ricordato come critico delle “rendite oligarchiche”. Anche Pound è citato, ma di economia monetaria “zeru tituli”.
La spiegazione è semplice: qualsiasi critica al modello di sviluppo del capitalismo all’italiana, rischia veramente di “sconvolgere la politica”. Sicuramente l’ultima delle preoccupazioni di Compagno, Campi, Croppi & Co. Troppo impegnati in cucina. 

Carlo Gambescia



mercoledì 4 agosto 2010


Ortopolitica
Italia terra dei cachi o dei complotti?




Berlusconi non vuole mollare, Fini inciucia con i democristiani, Bersani propone Tremonti alla guida di un governo post-Cavaliere, Vendola candida se stesso, Grillo pure. Di Pietro, infine, vuole arrestare chiunque sulla giustizia non la pensi come lui. E dulcis in fundo, il presidente Napolitano da oggi è in vacanza a Stromboli... Tanto la situazione politica è così tranquilla...
Tutti si azzannano come se l’Italia fosse da anni fuori corso al pari della vecchia Lira. E gli italiani? Un po’ se ne fregano, un po’ invidiano e si invidiano, un po’ si arrangiano. Anche perché per l’ “italiano medio” l’Italia come patria comune non esiste: non c’è passato, non c’ è futuro, solo un presente all’insegna del si salvi chi può. O del proprio Ego, se si preferisce: si pensi alla fama cui oggi è assurto un personaggio come Corona. E la Chiesa? Non ha mai amato troppo l’Italia. Quasi quanto gli industriali, come Marchionne da ultimo insegna. Il mondo della cultura? Vuole vivere bene. Assomiglia al mondo della politica. E per vivere “bene” non si deve fare cultura sul serio, televisione, magari sì. Del resto la fama dell’Italia all’estero è ferma da un pezzo sulle figure ingessate di Dante, Leonardo e Michelangelo
Due giorni fa si è celebrata la ricorrenza della Strage di Bologna. Si è vista un’Italia unita? No. Da una parte lo Stato latitante, dall’altra un’adunata, non sediziosa, bensì astiosa. Ma come - si dice - sopravvissuti e famiglie chiedono solo giustizia? Al tempo, giustizia c’è stata, almeno in tribunale. Perché non smetterla una volta per tutta con il maledetto gioco al rialzo “dei livelli direttivi” delle trame? Perché “tirarsi in faccia” i morti solo per ragioni di tasca ideologica? Soprattutto quando c’è una sentenza passata in giudicato…
L’unica passione che unisce gli italiani sembra essere quella per la dietrologia. Passione che, ovviamente, spalanca le porte alla denigrazione politica. Purtroppo, a differenza di certe ricariche per cellulare, più ci si denigra, meno si ricarica l’Italia… Inoltre siamo davanti a un’ “arte” esercitata non su fogli clandestini ma sulle prime pagine dei giornali più importanti, a destra come a sinistra.
Ecco, se tra noi c’è un’idea diffusa dell’Italia, sicuramente è quella del paese "governato" dagli incappucciati. Che tristezza.

Carlo Gambescia

lunedì 2 agosto 2010

 Forma e sostanza

Fini e la Presidenza della Camera


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In questa Italia dove ci si fa eleggere con un partito, per poi (ri)fondarne un altro di colore opposto o quasi, ci tocca pure indossare i panni curiali del costituzionalista, noi modesti studiosi di sociologia. Ci spieghiamo meglio.
Se alla Presidenza della Camera al posto di Fini vi fosse un Rutelli, uscito, mettiamo, dal Pd forza di governo, per creare un partito in pratica fiancheggiatore dell’opposizione berlusconiana, Bersani, Di Pietro, “Repubblica” & Company ne chiederebbero le dimissioni un giorno sì e l' altro pure.
Apparentemente non c’è leva costituzionale che obblighi l’ex delfino di Almirante alle dimissioni. In realtà però - questione sulla quale si è glissato, ovviamente a sinistra - tutti i precedenti Presidenti della Camera repubblicana non hanno mai ricoperto durante il loro incarico il ruolo di segretario politico del partito di provenienza, inclusi gli ultimi due (Casini e Bertinotti)… Mentre Fini addirittura ha (ri)fondato un partito (Futuro e Libertà per l’Italia) di cui è il capo di fatto se non pure di diritto.
Certo, se sollecitato, Fini potrebbe trasferire l’incarico politico ad altri e restare Presidente della Camera.
Rimane però un altro fatto importante. Nel 1994 (Primo Governo Berlusconi) venne interrotta la prassi per cui uno dei due Presidenti doveva appartenere alla maggioranza e l’altro al maggior gruppo di opposizione. Da allora fino ad oggi, la coalizione prevalente alle elezioni ha nominato come Presidenti di Camera e Senato esponenti della maggioranza stessa. Quindi Fini, dopo il salto della quaglia, sarebbe fuori.
Certo, l’ex fascista del Duemila per ora, appoggia, così dice, il Governo Berlusconi dall’esterno, e quindi nominalmente fa parte di questa maggioranza. Di conseguenza la forma sarebbe salva.
Ma la sostanza no. E la democrazia pure.

Carlo Gambescia
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