giovedì 5 luglio 2018

Decidere (politicamente) non è tutto
Immigrazione ed effetti perversi



Ieri discutevo con un amico  sulla relazione tra decisioni politiche e vita quotidiana, cioè la domanda che ci si poneva riguardava e riguarda  il ruolo della decisione  politica nella vita di ognuno di noi. Insomma,  quanto può incidere nell'agire quotidiano ciò che rappresenta il punto più alto, se si vuole "decisivo",  del processo "politico" ? 
Diciamo subito che è un quesito moderno. La questione nasce con le carte costituzionali, i parlamenti, le elezioni, eccetera. Quindi la domanda, che per primi si posero gli illuministi,  in particolare quelli vicini ai monarchi, a loro volta, illuminati, rinvia a un aspetto costruttivistico: di come sia possibile, cambiare la realtà politica,  sociale, economica a colpi di decisioni politiche.  Si chiama anche decisionismo. Però non è detto, che la decisione sia un valore in sé, come vedremo.
Ma, al di là di questa precisazione  - della natura moderna del quesito -  esiste un nesso  consequenziale tra decisione politica e trasformazione della vita quotidiana? E soprattutto come valutare  la tempistica della decisione?  Quanto tempo trascorre tra la decisione politica, l’implementazione e la socializzazione?
Si prenda ad esempio, la questione (caldissima)  dell’immigrazione: il  primo provvedimento  in materia risale alla cosiddetta  legge  Martelli (1990),  il  secondo   rinvia alla  Turco-Napolitano (1998),  il terzo  alla cosiddetta Bossi-Fini (2002).  Non va dimenticato infine il cosiddetto “pacchetto di sicurezza” che nel 2009 introduce  il reato di immigrazione clandestina, poi però depenalizzato (2015)
Diciamo che, a grandi linee,  sulla carta, formalmente,  la legislazione italiana in materia si è fatta via  via  più  restrittiva. 
Ha funzionato? Qual è stato l’impatto sulla vita quotidiana di 28 anni di provvedimenti? Nel 1990 gli stranieri residenti  erano 780.000. Nel 2018 sono 5 milioni. Grosso modo si è passati in quasi trent’anni dall’1,4 all’8 per cento circa della popolazione residente (*) 
Pertanto le varie misure  non hanno  funzionato, perché se il compito delle leggi era quello di  tenere i flussi  sotto controllo le cose sono andate in modo molto diverso, considerando anche la stasi demografica italiana, alla luce dello stesso apporto di natalità da parte dei residenti stranieri, che, altro dato interessante, una volta stabilitisi in Italia, sembrano  adeguarsi ai tassi di natalità italiani. Resta fuori dalla  nostra analisi l’apporto quantitativo dei clandestini, poiché non  esistono cifre sicure.
Una precisazione necessaria: non esiste, sotto alcun sistema o regime politico, l’implementazione perfetta.  La decisione politica, può anche essere di uno solo, ma l'implementazione rinvia alla struttura esecutiva, che rimanda, a sua volta, a processi di tipo burocratico. Di conseguenza,  il margine di errore resta  sempre elevato.  E di riflesso,  sul piano della socializzazione,  più  le decisioni politiche non giungono ad effetto ( o se vi giungono, ma in modo parziale),  più  le aspettative dei cittadini, che ne sono oggetto, prendono altre direzioni, quello  della protesta e della defezione  (voice ed exit, per dirla nell’elegante inglese delle scienze sociali), trasformandosi , come nel caso dell’immigrazione,  in terreno fertile  per le teorie complottiste, il  populismo  e  il  razzismo.  Il costruttivismo ha le sue controindicazioni. Purtroppo.
Insomma,  le decisioni politiche  incidono sulla vita quotidiana non solo  in chiave  positiva, ma anche  in chiave negativa,  quando, ripetiamo non giungono a segno.  La decisione  implica effetti  perversi di cui i politici dovrebbero tenere conto.  Di regola però, la risposta del politico, piuttosto rudimentale,  rinvia al meccanismo del rinforzo, come ad esempio nel caso dei provvedimenti sull’immigrazione in Italia.  Tradotto: si punta su misure sempre più restrittive. Si fa la voce grossa.  Uno sgolarsi, come abbiamo visto, che però  ha condotto a un nulla di fatto o quasi.    
Pertanto, bisogna fare  attenzione alle sirene dall’autoritarismo:  a quei soggetti politici che  in tema di immigrazione  invocano provvedimenti sempre più duri.   Il rischio, urlando urlando,  è quello, di alimentare le aspettative "etnocentrate" dei cittadini  e di spostare, a causa di più che  probabili fallimenti, il quadro politico  ancora più a destra .  Si chiama anche stato di polizia. Un mix di uniformi e inefficienza.
Cosa fare allora?   Difficile dire. Se ci chiudiamo, si rischia di perdere preziosa forza lavoro, se non ci chiudiamo, rischiamo voragini sociali e di bilancio.  Se proviamo a controllare i flussi, stante il margine di errore delle decisioni sociali, anche fisiologico, si rischia di far  crescere lo  scontento e il risentimento, nonché di spalancare le porte a un' occhiuta e sfaticata burocrazia.
Infine, si potrebbe decidere di non decidere, controllando al minimo le frontiere, diciamo laicamente,   sperando che i flussi si riducano da soli…   Laissez faire, laissez passer
Una sola cosa è certa:  la decisione politica, di per sé,  non decide niente, o quasi. E anche decidere di non decidere è una decisione… Che dire amici lettori?   È la sociologia bellezza…       

Carlo Gambescia