venerdì 31 gennaio 2014

La bagarre grillina i Parlamento
I cinquestellati 
e  la “Commune de Paris”




Se fosse possibile ci piacerebbe inviare a ogni parlamentare  grillino una  copia de La Commune de Paris (Fayard 1986). Un denso scritto da William Serman,  dove  vengono messi in luce, attraverso una avvincente  ricostruzione storica , tutti i limiti della democrazia diretta, del mandato imperativo e dei comitati.  Insomma,  di quella che per Grillo & Co. sarebbe la democrazia tout court.  E di cui i  grillini   hanno dato pessima prova ieri in Parlamento.
La Commune, si concluse con un bagno di sangue, seguendo la legge degli  opposti  estremismi storici, per cui al massimalismo politico di una parte risponde quello degli avversari. E così via, lungo una  spirale  di  odio ideologico.
Si dirà altri tempi, altri uomini. Probabilmente è vero. Tuttavia,  dal punto di vista concettuale (e dopo ieri, non solo), i comunardi francesi  e  il MoVimento Cinque Stelle  sembrano condividere i tre principali  assiomi del  giacobinismo: a) il purismo morale (non siamo puri, tutti gli altri sono sporchi); b) il cognitivismo monistico (noi sappiamo quel che è bene per tutti i cittadini); l’attivismo muscolare ( noi sappiamo quel che è bene per tutti i cittadini e dobbiamo imporlo con la forza);
Non è forse inutile ricordare che al giacobinismo hanno attinto i totalitarismo novecenteschi. Ovviamente,  i grillini non possono essere assimilati  tout court  alle camicie nere, rosse e brune. Tuttavia, pericolosamente, ne condividono i presupposti concettuali, appena ricordati.  Tre assiomi che  implicano  il  rifiuto della democrazia rappresentativa, a sua volta,   basata sul relativismo morale, sul pluralismo cognitivo, sulla mediazione, il ragionamento e il  rifiuto dell’uso della violenza fisica, a cominciare dalle  aule parlamentari.
Si dirà, la politica è corrotta, il popolo ingannato, occorre il castigamatti.  La  tesi,  assai pericolosa,  purtroppo non  è  nuova, per scoprirlo, senza andare a ritroso  fino  a Platone e Aristotele,  basterebbe sfogliare il bel libro di Serman… Ricco di  ghiotte analisi storiche.

Dall'Indice,  in rosso, le parti più interssanti...

 Basterebbe  sfogliare... Purtroppo,  spesso,  conoscenza e virtù (politica) seguono strade opposte.   

Carlo Gambescia


                                                            

giovedì 30 gennaio 2014

Il libro della settimana. Gordiano Lupi, Calcio e acciaio. Dimenticare Piombino,  Edizioni A. Car.  2014, pp. 194,  Euro 12,50 -  http://www.edizioniacar.com




I piombinesi sono come i portoghesi? Non è una battuta, perché nel  bel libro di Gordiano Lupi, Calcio e acciaio. Dimenticare Piombino (Edizioni A. Car.) si respira una tristezza molto portoghese, così come viene descritta  in un bella pagina  di Mircea Eliade,  che merita di essere riletta:

Questo è un popolo triste. Me l’ha detto un giorno un amico portoghese, ma non volevo crederci. Più conosco i Portoghesi, più mi convinco che la saudade non è un’invenzione di Coimbra, dei poeti e dei viaggiatori romantici. I portoghesi non hanno l’espansività dei meridionali , non hanno nessun tipo di veemenza, nessun grido esploso da un eccesso. Penso a tutti i miei amici, a tutti i Portoghesi che ho conosciuto, alla gente intravista  sui treni, nelle piazze, seduta ai tavolini dei caffè o nelle sale di spettacolo. Hanno tutti una curiosità, impacciata sobrietà nei loro gesti, sebbene non siano pacati. Sono malinconici, sorridono continuamente, con lo sguardo perduto, sono affabili come tutti coloro che portano con sé una tristezza inesplicabile, senza motivo.
(M. Eliade, Le messi del solstizio, Memorie 2: 1937-1960, a cura di Roberto Scagno, Jaca Book 1995, p. 75).

Il parallelo non è del tutto calzante?  Forse.  Tuttavia, i tre archetipi viventi di calciatori  piombinesi, Agroppi, Vieri e Sonetti, evocati  nel romanzo, quasi  numi tutelari della piombinesità ( si dice così?),   sorridono di meno,  probabilmente sono anche meno affabili,  ma  hanno lo stesso sguardo perduto, portatore di una tristezza inesplicabile,  del protagonista: Giovanni, ex calciatore di serie A,  tornato  a casa per allenare la squadra dilettanti della sua città natale.

Giovanni è tornato a Piombino per ammalarsi di ricordi. Quando la realtà non è come la vogliamo si finisce per rifugiarsi nel passato, negli episodi dell’infanzia, perduti nelle feritoie della vita […]   Vivere con i ricordi è bellissimo, reca una felicità struggente, vivere di ricordi no, fa invecchiare in fretta. Se almeno ci fosse il calcio, quel calcio che per Giovanni è la sola cosa capace di farlo vivere senza pensare (pp. 77-78).

Sì, il calcio: l’alfa e l’ omega di una intera vita.   Tuttavia sotto  c’è dell’ altro: la ferma eppure  malinconica  consapevolezza  dell’inarrestabile  flusso delle cose umane.

Il problema con la vita è che, anche quando non cambia mai, cambia continuamente, pensa Giovanni. Una frase letta in un libro un po’di tempo fa, forse in ritiro, alla vigilia di una partita importante, non ricorda dove, ma riassume il suo stato d’animo attuale, la situazione di quiete in una provincia dove il tempo sembra immobile e ripiegato su se stesso, dove il giorno successivo ha il sapore del precedente. Ma cambia, certo che cambia. Abbiamo vinto il campionato, tra poco cominceremo la preparazione per una nuova avventura, molti anni sono passati e hanno lasciato il segno, dispensato ferite, distrutto ricordi. Piombino non è la stessa di quando sono tornato (p. 103).

In  fondo la parabola esistenziale, individuale  e sociale,  che segna il  romanzo, che pure  ha una   sua trama avvincente,  è simbolicamente  racchiusa nella parabola del piombinese stadio Magona.

 Calcio e acciaio, binomio indissolubile, come dicono i vecchi, parafrasando pane e fumo, modo di dire dei piombinesi come suo padre che hanno passato la vita nella grande fabbrica maleodorante, polipo gigantesco che allunga tentacoli di fuoco tra le viscere degli abitanti. Prendilo, è di Magona! Dicevano le mamme alle figlie ai tempi del Piombino in serie B. La Magona produceva lamiere, finanziava il calcio, era il simbolo d’una città fiorente dove tutti avevano un lavoro. Un marito che lavorava in Magona, in Acciaieria, persino alla Dalmine, era una garanzia. Adesso, invece, si parla di chiudere l’altoforno  (p. 116)

Eppure…

Lo Stadio Magona è là dagli anni Cinquanta, dopo la chiusura del Salvestrini nella zona del porto, con il velodromo e la rete di recinzione appena intuita, dopo la fine di piazza Dante come campetto dei pionieri. Lo Stadio Magona volevano demolirlo per edificare un Centro Commerciale Coop, un orrendo magazzino Ikea e pure un megaparcheggio. Lo Stadio Magona per fortuna è ancora al suo posto, brutto, cadente, decrepito, ma grande contenitore di ricordi (p. 140).

Perciò la vita continua…  A che prezzo?

Giovanni sa che le acciaierie sono in crisi, uomini e donne rischiano di restare senza lavoro, senza una speranza per il futuro, privi di quel posto fisso che è stato il sogno del nonno e del padre. Il mondo che il vecchio allenatore ha  conosciuto sta scomparendo giorno dopo giorno. Il calcio è l’ultima certezza della sua vita, non è più il calcio che l’ha convinto a sfidare l’ignoto, ma in fondo la lotta domenicale è scontro fisico, agonismo, rabbia, persino commozione. Tutto questo fa parte della sua passione, immodificabile, eterna, indistruttibile, che l’ha portato a credere di poter continuare a sognare, proprio come diceva il nonno (pp. 186-187).

Romanzo, come dire,   filosofico?  Dove la “piombinesità” è il  bisturi  affilato per  sezionare   l’universo umano?   Non solo.  Come accennavano, la trama  della storia  non delude e  i personaggi  hanno  vitalità e fisionomia propria. Da Giovanni, Eraclito del calcio filosofico, malinconicamente  consapevole di non poter bagnarsi due volte nello stesso fiume,  al nonno, Francesco,  dalla vita sognante e avventurosa,  che come “migrante” si bagnerà  nelle acque di più fiumi. L’esatto contrario del figlio Antonio, padre di Giovanni,  inchiodato alla catena di montaggio  sulle rive del Tirreno, che trasferirà i suoi sogni sul  figlio.    E poi Carla,  madre e  irrequieta controfigura di Giovanni; Debora, pensiero ricorrente di una sfida  mai accettata e comunque perduta;  Cinzia,  amica-amante e convitato di pietra di un mondo fatto di abitudini.  E così via, di slancio,  attraverso   altre figure, che non sono mai minori e che si accendono di luce propria,  anche  solo per un momento:   Paolo,  Sergio,  Gino, Paola.  Infine   Tarik:   calciatore di belle speranze , approdato a Piombino dal Marocco,   prigioniero  della  saudade,   perché  moglie e figlio sono lontani. Di qui, per mutare registro linguistico,  il rendimento  alterno,  di un atleta nel quale Giovanni  

vede il figlio perduto, vorrebbe comprendere cosa lo rende insoddisfatto. Nei suoi occhi rivede il passato, il campo sterrato di Gela, le battaglie con Acireale, Catania, Messina, i giorni di Trani, la maglia nerazzurra del Bisceglie e gli anni d’oro a Milano. Adesso che altri allenatori hanno preteso da lui. Allenare i nerazzurri di Piombino è un ruolo che ama, ormai non chiede altro al mondo del calcio,dopo aver vagabondato per tutta la vita in cerca di fortuna ha trovato il suo angolo di quiete. Giovanni assapora il vento di ponente, che spira violento dall’Elba, respira l’odore ferroso della acciaieria ela sabbia del deserto, quella sabbia che viene dall’Africa in cui Tarik ha lasciato la famiglia. Giovanni teme che il suo campione non voglia credere nei sogni, ma forse sarebbe peggio che non ne avesse, che vivesse senza tentare di centrare un obiettivo alla sua portata.“Devi far vedere quel che vali, ragazzo!”, gli dice Giovanni durante una pausa dell’allenamento. “Sarai al centro del nostro attacco. Tutto  dipenderà dalle tue reti. Non mi deludere”.  Tarik sorride. Scarpette bullonate e maglietta nerazzurra fuori dai pantaloncini bianchi. È il sorriso di chi ha soltanto vent’anni ma ha vissuto cose più grandi di una partita di calcio, è il sorriso di chi non potrà mai prendere troppo sul serio un rettangolo verde dove si gioca per mettere un pallone in fondo alla rete. Sembra un dialogo tra padre e figlio, tra un vecchio allenatore e un giovane attaccante da gli occhi tristi. Tutto il resto è palcoscenico, consueto contorno della vita. Un gabbiano passeggero, una rondine distratta, la colonna di fumo dell’acciaieria. Giovanni e Tarik sono l’alba e il tramonto d’un sogno che non può andare perduto (pp. 112-113).

Che fare?  Come aiutarlo?   Giovanni non dimentica la lezione del nonno “migrante” e sognatore perché migrante e migrante perché sognatore…   Lasciamo però  al lettore il piacere di scoprire se e come…   Anche qui  però sembra  riaffacciarsi  l’ inesplicabile  saudate portoghese-piobinese  di cui parlavamo all’inizio.  Dal momento che

Giovanni spera che [Tarik, ndr] si ricordi di lui, della sua prima squadra, del cadente Stadio Magona dove ha debuttato, dei volti di operai anneriti dal fumo dell’altoforno,delle strade strette e tortuose che conducono nella piazza sul mare. Tarik, proprio com’è accaduto al vecchio allenatore, non dovrà mai dimenticare Piombino (p. 187). 

Ce la farà Tarik?  Riuscirà a diventare un campione.   Giovanni sa,  come il nonno,  che tutto cambia… Ma sa anche, come il padre,  che la vita spesso impone di  adattarsi.   

Mi trovo spesso a pensare che siamo i protagonisti d’una storia che sta finendo, confinati in un angolo d’ombra, viviamo del nostro passato, piangiamo sulla nostra vita. Ogni tanto ci ritroviamo, si accende una scintilla, proviamo una nostalgia incredibile del passato. Sappiamo che non può tornare. Sappiamo che dobbiamo vivere il presente (p. 108).



Vivere il presente  significa  andare avanti.   E andare avanti  implica sempre la rinuncia  a qualcosa.  E anche Tarik dovrà fare le sue scelte.   Il che potrebbe essere argomento per un altro bel romanzo, tra filosofia, calcio e realtà,  pasolinianamente  intitolato Tarik dagli occhi azzurri.     

Carlo Gambescia   

mercoledì 29 gennaio 2014

Ieri sera è finita la miniserie televisiva diretta da Graziano Diana
 Anni spezzati? Ma da chi?  





La  storia contemporanea è  qualcosa di magmatico. Difficile da spiegare a scuola,  figurarsi  attraverso una fiction televisiva. Ma addirittura impossibile in Italia, dove il Sessantotto  sembra non essere  mai finito.  Cosicché fin dal titolo,  la  mini-serie  “Gli anni spezzati”,   delude.
Anni spezzati rispetto a che cosa? Al Sessantotto  giudicato a priori come una  vittoria della civiltà. E che cosa  avrebbe impedito alla immaginifica  rivoluzione  sessantottina  di progredire ?  Il   terrorismo,  interpretato come  antitetico  ai  valori del Sessantotto.  E  perciò  fomentato da  una gretta borghesia,  incapace di  capirne i  grandi valori.   Salvo i tre protagonisti: il commissario, il giudice, l’ingegnere:  rarissimi esempi di borghesi colti, onesti e laboriosi, “liberi” ma lasciati soli,  e quindi  traditi  dalla stessa classe di appartenenza.   
Cosa dire?  Che siamo davanti  alla solita  messa in scena  per far  passare  un preciso  messaggio:  che, in fondo,   il terrorismo  non  era   figlio  di una  folle  ideologia  anti-borghese e pseudo-proletaria,  predicata a sprangate,   bensì   di  una  borghesia cieca,   incapace, per natura,  di comprendere  il necessario, provvidenziale, inevitabile  spostamento dell’asse della storia   da destra  a sinistra. 
Ora, nessuno  contesta la libertà di interpretare la storia dell’Italia contemporanea, seguendo i criteri  ideologici più differenti. Ci mancherebbe altro.  Tuttavia,  il problema è che dal punto di vista  televisivo (di questo oggi ci occupiamo), sulle origini del  terrorismo italiano  sembra prevalere una sola versione.  Il che non aiuta a capire...                      
              Carlo Gambescia                 

martedì 28 gennaio 2014

Il piano Electrolux di abbassare i costi  del lavoro ai livelli polacchi

Quando la “torta” diventa più piccola


 


L’Electrolux,  gigante degli  elettrodomestici  sfida i sindacati, puntando su  un pesante programma di  tagli  ai  salari mensili da 1.400 euro a circa 700-800.  Secondo  il gruppo svedese,  la permanenza in Italia di Electrolux (fabbriche di Susegana, Porcia, Solaro e Forlì )  rimane  vincolata a un  radicale abbassamento   del costo  orario dagli attuali  24 euro  agli 11 dei colleghi polacchi.  ( http://www.grr.rai.it/dl/grr/notizie/ContentItem-7e41e77d-a64f-4273-ad86-8c97d2ac7826.html ).

Che dire?   Dipende.

Dal punto di vista strettamente economico la richiesta non fa una piega: se i costi superano ricavi un’impresa prima perde competitività, poi fallisce. Quindi l’obiettivo di ridurre i costi ha un corretto  fondamento economico

Dal punto di vista sociologico la richiesta implica serie  conseguenze sociali: il dimezzamento del salari mensili  comporta inevitabilmente l’abbassamento del tenore di vita dei dipendenti. Il che crea  scontento sociale. Quindi dal punto di vista sociologico esistono controindicazioni altrettanto corrette e fondate.

Dal punto di vista politico richieste del genere  provocano sempre divisioni, semplificando,  tra difensori della libera impresa e protettori dei sindacati.  In Italia,  dove i difensori del mercato sono pochi, di regola si tende a sposare politicamente, anche a destra, le posizioni del sindacato.  Il che però  rende  il cosiddetto “sistema paese” meno competitivo dal punto di vista economico ma  più  “amichevole” da quello della pace sociale.

Detto altrimenti,  si tratta di  una scelta socialmente protezionista che ci indebolisce  economicamente  all’esterno.  E di riflesso, ci rende   incapaci di crescere e  attirare investimenti esteri.  Cosicché,  mentre da un lato,  la torta da dividere si fa più piccola, dall’altro, aumenta  addirittura  il numero dei convitati.  Di qui, per reazione, da una parte la  minaccia  di imprese come la Electrolux,  di   riconsiderare i propri investimenti in Italia,  dall’altra quella dei sindacati di non accettare alcuna riduzione dei salari.        

Esistono vie di mezzo? Basate sulla mediazione  politica tra ragioni  economiche e sociologiche?   Sì, ma servirebbero tassi di crescita  elevati …  O, come si dice,   una torta più grande…

 Carlo Gambescia 

lunedì 27 gennaio 2014



Gentile Vice,
il Ministro Quagliariello ha dichiarato che il “prendere o lasciare”  di Renzi  sull’Italicum “si addice al gioco dei pacchi ma non alla politica”. Che ne pensa?
Distinti saluti
Giorgio Parlamento

Caro Signor Parlamento,
Che, evidentemente,  il Ministro Quagliariello si è già  dimenticato del "pacco" che lui e Alfano  hanno  tirato a Berlusconi…

***
Caro  Vice,
Mi spiega una cosa? Perché gli ucraini, anche a costo di farsi ammazzare,  vogliono entrare in Europa, mentre   italiani  vogliono uscirne?
Cordiali saluti.
Mario Modispicci

 Caro Signor Modospicci,
A dire il vero non lo so. E neppure so se ce la faranno a farsi ammettere nella Ue.  Però di una cosa sono certo: se l’Italia esce dall’Europa,  saranno   le donne italiane  che andranno  a fare le badanti a Kiev.



***

Egregio Vice,
La Guardia di Finanza ha individuato  3400 finti poveri. 
Un bel colpo.
Cordiali saluti.
Alfredo  Fiscale

Caro Signor Fiscale, 
Mica tanto. Pensi  solo  ai  finti ricchi:  più o meno  una cinquantina di milioni di italiani.

***

Egregio Vice,
Ricorda? Vent’anni fa, di questi giorni, Berlusconi  scese in campo… Anche lei  celebrerà  l’evento?
Cordialità,
Filippo Stuzzichino

Caro Signor  Stuzzichino,
No. Neutralità assoluta. Del  resto  non festeggiai la chiusura dei casini,  non vedo perché dovrei celebrarne la riapertura.  


sabato 25 gennaio 2014





















Il mondo in marcia
di Gustaf Fröding

Il mare è grosso urla l’uragano,
corrono tetre le onde cineree:
«Un uomo cade in mare capitano!»
«Lo so».

«Lo potete salvare, capitano!».
Il mare è grosso, urla l’uragano:
«Forse una fune gli si può lanciare!»
«Lo so».

Corrono tetre le onde cineree:
«È affogato, non ritorna più a galla, capitano!»
«Lo so».
Il mare è grosso, urla l’uragano.
                             
                          (trad. di Augusto Guidi)

venerdì 24 gennaio 2014

Eliade, Theilhard e 
il destino dell’anima umana






Ieri sera,  rileggendo,   il “Giornale”  di Mircea Eliade abbiamo scoperto una piccola perla…  
 21 maggio [1960]
Ciò che più mi ha impressionato nelle conversazioni con Teilhard è stata la sua risposta a una mia domanda: che cosa significasse per lui l’immortalità dell’anima. Difficilmente riassumibile. In poche parole: secondo T. de Ch.  Tutto ciò che può essere trasmesso e comunicato (amore, cultura, politica ecc.), non “passa nell’aldilà” ma scompare con la morte dell’individuo. Permane tuttavia un fondo irriducibile, incomunicabile, più precisamente ciò che è impossibile esprimere e comunicare, ed è questo fondo misterioso, incalcolabile che “passa al di là” e sopravvive dopo la scomparsa del corpo.  Teoria interessante perché sembra implicare che, se un giorno si arrivasse a trasmettere assolutamente tutte le esperienze umane, l’immortalità diverrebbe inutile e allora cesserebbe di essere.
(Mircea Eliade, Giornale, Boringhieri 1976, p. 251)

Eliade si riferisce a una conversazione del 1950 con Pierre Teilhard de Chardin  (1881-1955),  padre gesuita, scienziato e teologo  mai  amato dai tradizionalisti  per le sue posizioni controcorrente.        
Il breve passo suggerisce tre riflessioni.
La prima riflessione  riguarda l’idea teilhardiana  di un fondo incomunicabile, che appunto per questo, passerebbe nell’al di là.  Si pensi alle esperienze del dolore e della gioia. Sono comunicabili? Crediamo di no.  Perché, per quanto ci si immedesimi resta impossibile provare, anche con lo stesso contatto fisico,  le stesse sensazioni di dolore e di gioia  dell’altro.   
Seconda riflessione. Ora, ammettendo che  l’anima sia  un condensato individuale di esperienze incomunicabili come la gioia e il dolore, siamo davanti a esperienze interiori   collegate?  O separate?   E in relazione a che cosa? Al senso di peccato? Al senso di libertà?  Ovviamente la teologia cattolica e cristiana del peccato offre in materia riposte assai precise.  Ma per un non cattolico o per un non cristiano sono condivisibili? Per non parlare di un non credente…          
La terza riflessione, più profana, concerne Internet.  Approfondendo e aggiornando lo spunto di Eliade  si potrebbe  ritenere che  la Rete,  veicolando l’ illusione dell’ immediata comunicabilità di tutto a tutti,  possa rappresentare a tutti gli effetti  la morte e il funerale  dell’anima...  Per quale  ragione? Innanzitutto, come abbiamo accennato,  perché  si pretende di comunicare sentimenti incomunicabili come la gioia e il dolore.  E per giunta a distanza, in un contesto di pronunciata  separatezza fisica.   
Qui però si porrebbe  un’altra questione. Come spiegare l’umano  desiderio  di  voler comunicare a tutti i costi  l’incomunicabile?     

Carlo Gambescia 


giovedì 23 gennaio 2014

Il libro della settimana: Mircea Eliade, Salazar e la rivoluzione in Portogallo, a cura di Horia Corneliu Cicortaş, con un saggio di Sorin Alexandrescu, Bietti 2013, pp. 320,  euro 24,00 - http://www.edizionibietti.it/index.asp?Id=CAT




A prima vista la scelta di  ripubblicare  un libro pro Salazar scritto da Mircea Eliade negli anni del soggiorno portoghese può sorprendere. Parliamo di Salazar e la rivoluzione in Portogallo (Bietti), testo in qualche misura disconosciuto dallo stesso Eliade, già nel 1944: « Non rimpiango niente con maggior intensità che il tempo perso nel  1941 e il 1942 a documentarmi e a scrivere il  libro su Salazar. Che nefasta decisione presi nel  novembre 1941! Quando penso che, per Salazar, rinunciai  al libro progettato su Camões, in cui avrei avuto tanto da dire sull’India, sulle scoperte oltremarine, sulle culture oceaniche!...» ( p. 294).
In realtà, si tratta, come si evince dall’ottimo saggio del professor  Cicortaş,  da cui abbiamo ripreso la citazione, di una scelta più che opportuna.  E per  due ragioni.
In primo luogo, perché la lettura di  Salazar e la rivoluzione in Portogallo  permette di  fare luce  sull’impoliticità del pensiero di Eliade.  Piccola premessa:  siamo davanti a un grandissimo studioso delle religioni, che però  non ha mai capito la natura profonda del fenomeno politico. Ovviamente, ci riferiamo al “politico” in senso schmittiano, come durissimo  conflitto amico/nemico per l’acquisto e la conservazione del potere. Detto questo, veniamo al punto: per  tutto il libro Eliade  sviluppa  una critica al liberalismo e alla politica dei moderni, che però,  politicamente parlando,  non ha senso compiuto. Per quale motivo?  Perché Eliade, impoliticamente, oppone alla politica dei moderni, maldestramente imposta dall'alto in Portogallo,  la politica spirituale, o spiritualizzata, della tradizione pre-moderna, da lui  ricondotta, senza alcuna esitazione,  nell’alveo della migliore tradizione portoghese. Insomma,  di qua i buoni, di là i cattivi.
Ora, il punto è che le  costanti  del politico, come avverte la metapolitica più  vigile,  sono sovratemporali,  nel senso che valgono per tutti: buoni e cattivi,  antichi e moderni.  Cosicché resta  difficile  (si pensi all’ esperienza del cristianesimo),  se non del tutto impossibile ( si rifletta sui totalitarismi/autoritarismi novecenteschi) ritenere che le rivoluzioni, anche le più spirituali, che tanto affascinavano il giovane Eliade, una volta “stabilizzate”,  non obbediscano regolarmente alle leggi del politico e di riflesso della conservazione del potere a ogni costo.  
Perciò non esistono regimi liberali,  tradizionali, antichi, moderni, eccetera,  assolutamente perfetti e  indenni da conflitti, divisioni,  lotte, intrighi eccetera. La politica passa, il "politico" resta.  Senza questa distinzione concettuale  si finisce inevitabilmente  per gettare insieme all'acqua sporca (la politica e la sua possibilità di rifondarla), il   bambino (le leggi del politico). Ed è quel che accade al grande storico delle religioni, il quale trascorrerà  dai fervori giovanili, più o meno politicizzati a destra, all'ascetismo scientifico degli anni americani, passando attraverso la disillusione, maturata nel periodo francese, verso la possibilità di rifondazione spirituale della politica. Senza una nuda visione del "politico", come dire, al di là del bene e del male Eliade, l' ammiratore pentito di Salazar e altro ancora,  non potrà non oscillare  fra il troppo e il troppo poco. 
In secondo luogo, perché i continui, convinti, talvolta addirittura entusiastici, richiami eliadiani al valore salvifico della politica economica  autarchica  di Salazar,  possono  gettare, per contrasto ( e non solo con il senno di poi),  una luce ben  diversa e assai più realistica sui costi effettivi del nazionalismo economico. Nonostante gli sforzi, anche letterari di Eliade, Salazar, come si può evincere da qualsiasi buona storia economica del Portogallo moderno,  impose al suo popolo, all’epoca ben lontano dal tenore di vita attuale, una durissima  politica di tagli, risparmi e austerità. Non si comprese che un ciclo storico, quello imperiale, era finito per sempre. Cosicché Salazar, pur di tenersi fuori dall’odiato modernismo europeo, imbalsamò  la società portoghese e alla lunga  rese insostenibile e antieconomico, a causa del ristretto mercato interno, la conservazione stessa delle ultime colonie. Perciò, quando oggi si parla, e  fin troppo facilmente, di sovranismo e  decrescita  si dovrebbe invece riflettere sul sostanziale fallimento economico della ricetta autarchica salazariana. Perché se è vero che è esistito  "il salazarismo dei ponti e delle strade",  del resto necessari  in un paese arretratissimo, è altrettanto vero che la trasformazione economica del Portogallo avverrà dopo un'altra rivoluzione, ma di segno opposto, quella "dei garofani", anno di grazia 1974. Rivoluzione che coinciderà con  una nuova e vivificante apertura alla modernità europea.  Quindi, ripetiamo, il  libro di Eliade  è utile, suo malgrado, come vaccino contro le ricorrenti  fumisterie autarchiche.    
Di certo, coloro che tuttora celebrano la  mitica  società organica, in qualche misura teorizzata da Salazar - il cui regime è onesto ricordarlo fu di tipo autoritario più che fascista o nazionalsocialista - troveranno nel volume quei motivi di  gratificazione, che purtroppo non mancano, nonostante, come dire,  gli intelligenti e forbiti avvisi ai viaggiatori di due bravissime guide come Cicortaş e Alexandrescu. Perciò esiste il pericolo di ipnotiche idealizzazioni, così apprezzate negli ambienti culturali e politici, fortunatamente in disarmo, più ricettivi al richiamo della metafora organicista.  Ed è un peccato, perché si rischia di andare oltre Eliade (che come abbiamo visto disconobbe il  volume) e di fabbricare  l'ennesimo mito incapacitante. E cosa più importante,  di ignorare  le costanti  del politico,  che insegnano che il potere, anche il più spiritualizzato e puro,  tende sempre a ricostituirsi.   E quanto più una società è chiusa  tanto più il potere non trova ostacoli. Il che sarà pure una banalità, ma del tipo "superiore" per dirla con Gide.

Carlo Gambescia

mercoledì 22 gennaio 2014

La Zanzara” e il dibattito su sesso e bambine
Si può sempre spegnere la radio




"Le bambine di dieci anni lo devono prendere sì o no?",  Per chi sia interessato al nobile argomento può cliccare  su “La Zanzara” e riascoltare la forbita discussione (con dibattito)   fra  i conduttori e Pasquale Squitieri  (http://www.radio24.ilsole24ore.com/programma/lazanzara/2014-01-17/venerdi-gennaio-094154.php?idpuntata=gSLAaqUBb&date=2014-01-17 ) .
Ecco, quel nostro  “per chi sia interessato” rivela e prova l’eccellenza di  “una società aperta”,  dove  a differenza di una società chiusa,  si può liberamente  parlare di qualsiasi argomento.  Insomma,   una società dove  non c’è nessun  obbligo di  ascoltare Cruciani e Parenzo. In quelle stesse ore,  chi desidera,  può sintonizzarsi su “Radio Maria” e recitare un bel  Rosario. 
Qualcuno potrebbe pensare:  ma allora,  se si può parlare di tutto, ma proprio di tutto, dove si andrà andrà a finire?  Diciamo che il quesito pone un problema importante: quella della responsabilità.  Il che rinvia a un'altra questione: chi stabilisce ciò che è responsabile o meno?  Attenzione, non di  ciò che  può essere  reato e perciò concernere  la propria  responsabilità davanti alla legge, bensì della responsabilità come consapevolezza degli effetti  sociologici del proprio comportamento. 
La risposta è:  nessuno, se non la coscienza delle  singole persone. 
Perciò, per chiunque non  condivida  programmi come “La Zanzara” l’unica risposta possibile in una società aperta è non seguire i dibattiti animati  da  Cruciani  e Parenzo.

Soprattutto perché,  chi di ascolto ferisce - altra regola di una società aperta, economicamente libera -   di ascolto perisce…

Carlo Gambescia

martedì 21 gennaio 2014

La sfida di Renzi



Invitiamo gli amici lettori  a valutare la proposta di Renzi sulla base di un unico fattore (tra poco diremo quale).  Anticipiamo che eviteremo qualsiasi  approccio  moralistico, del tipo si può o meno  discutere di riforme elettorale con Berlusconi, eccetera, eccetera.  
Ora, la sociologia politica insegna (si veda il bel libro di Sartori recensito giovedì  scorso) che un sistema  bipolare  può funzionare, indipendentemente dalla legge elettorale scelta, se il l’elettore “pensa” e “vota”  “bipolarmente”.  Dal momento che, come insegna Sartori,  puntare sul bipartitismo in un contesto dove  gli elettori esprimono preferenze  pluripartitiche rischia di trasformarsi in un vuoto  e pericoloso esercizio di pedagogia istituzionale. Perché una parte degli elettori si asterrà dalle urne, un’altra in qualche misura continuerà a votare per i micropartiti e solo una parte minima opterà per le forze politiche maggiori. Quindi un sistema elettorale sbagliato può  favorire la delegittimazione  dio tutto il  sistema politico.
Ma qual è la situazione italiana?  Che si è in presenza di un quadro tripolare in cui l’elettorato di centro si è molto assottigliato come del resto lo spazio elettorale per i micropartiti.  Ma lasciamo la parola a Ilvo Diamanti.  

Alle recenti consultazioni [febbraio 2013, ndr], i soggetti politici centristi, insieme, hanno superato a stento il 10% dei voti validi. Intercettati, in larga misura, dal partito di Monti, Scelta Civica (8,6%, alla Camera). "Cannibalizzando" l'Udc di Casini, che non ha raggiunto il 2%. Mentre Fli, il partito di Gianfranco Fini, si è fermato allo 0,5%. Cioè: si è fermato. Ma oggi il loro peso elettorale, nei sondaggi, appare ulteriormente diminuito. Meno dell'8%. Principalmente a causa del declino di Sc (scesa sotto il 5%).
In definitiva: la "salita" in campo di Monti ha allargato di poco lo spazio elettorale del Centro (che, alle consultazioni del 2008, si era attestato intorno al 6%). Ciò riflette la tendenza "bipolare" che si è affermata nel corso della cosiddetta Seconda Repubblica, fondata da e su Berlusconi. Dal 1994 in poi, infatti, gli elettori si sono abituati a votare per due schieramenti alternativi. Lasciando ai margini chi si poneva "nel mezzo". Mentre è cresciuto il peso dei soggetti politici esterni e contrapposti al sistema partitico. La Lega, ieri, ma soprattutto il M5S, oggi. 
Non a caso, gli elettori che si posizionano al Centro dello spazio politico fra Sinistra e Destra sono, appunto, il 10% (Sondaggio Demos, ottobre 2013). Mentre la maggioranza si colloca a Centro-destra/Destra. Oppure a Centro-sinistra/Sinistra. Ma, soprattutto, "fuori" (oltre un terzo). In altri termini, i "centristi", i sedicenti "moderati", si schierano, prevalentemente, di qua o di là. A (Centro) Destra o a (Centro) Sinistra.


http://www.repubblica.it/politica/2013/10/21/news/grande_equivoco_piccolo_centro-69069849/

Perciò l’ Italia sarebbe, sociologicamente matura, più di venti anni fa, per una legge elettorale, come quella proposta da Renzi, capace di favorire il bipartitismo.
E Grillo? La terza forza?  Diciamo che la parola - democraticamente -   spetterebbe agli elettori.  Perché questa volta, stante il rifiuto dell’ ex comico di qualsiasi alleanza a sinistra, gli elettori  potrebbero premiare M5S ,  trasformandolo  nel secondo o primo partito, oppure  penalizzarlo, cancellando M5S o quasi  dal sistema  partitico.
Ma, più in generale la sfida riguarda, anche destra e sinistra, che in qualche misura, dovrebbero assecondare i desiderata dell’elettorato riaccorpandosi.

In conclusione,  la sfida di  Renzi si muove, sociologicamente,  nella direzione giusta.  

Carlo Gambescia

lunedì 20 gennaio 2014



Caro Vice,
Alle prossime politiche, noi italiani, con quale sistema elettorale voteremo?
Cordiali saluti,
Italo Cittadino

Gentile Signor Cittadino,
Per ora,  di certo,  c’è   che  si dovrà tracciare un croce sul simbolo del partito scelto…

***

Caro  Vice,
Ha visto l’ultimo film  di Virzì, “Capitale umano”? Che ne pensa?
Distinti saluti.
Alba Tragica

Cara Signora Alba,
Diciamo che il titolo è  sbagliato.  Al posto di Virzì lo avrei intitolato  “Faziosità disumana”. 

***

Esimio Vice,
Ha letto  dell’ingiuriosa riposta  di Toni  Servillo alla giornalista che poneva  una domanda scomoda? Che maleducato!
Ossequi
Giovanna Buontempoantico

Gentile Signora Giovanna,
Che vuole farci… C’era da aspettarselo dal protagonista de “La grande bellezza”:    chi di cafonal ferisce, di cafonal perisce…

***

Egregio  vice,
Giovanni Sartori, il nostro più illustre politologo,  classe 1924, ha sposato una donna quarant’anni più giovane di lui. Che pensa?
I miei rispetti,
Vilfredo Barreto

Caro Barreto,
Che il potere logora chi lo detiene,  non chi lo studia…  I miei auguri al professore.





                



sabato 18 gennaio 2014















La raccolta delle olive
di  Frédéric Mistral

L’aria che si raffredda, il biancheggiar del mare
mi dicon che all’inverno ormai son giunto anch’io.
Ora in fretta mi tocca le mie olive ammucchiare
e offrirne l’olio puro all’altar del buon Dio.


(trad. di  Diego Valeri)

venerdì 17 gennaio 2014

Il razzismo subdolo 
di Marcello Veneziani




Prima l’articolo di Marcello Veneziani.

Non so se la Kyenge sia contestata dai leghisti perché è negra. Ma so che la Kyenge è ministro solo perché è nera  Non ha alcun titolo e competenza per occuparsi di immigrazione, non è neanche una figura di spicco diventata ministro per la sua carriera politica.  È lì solo perché è nera. Non dico che sia l'eccezione del governo, anzi la pecora nera, perché mezzo governo, di oggi come quelli di ieri, è lì per meriti misteriosi. Penso che i leghisti e le destre abbiano tutto il diritto di contestare la sua politica dell'immigrazione perché lei non si pone dal punto di vista dell'Italia, ma dei migranti. Questo non c'entra un tubo col razzismo. Se il discorso si sposta sul piano personale, Cécile Kyenge è una persona gradevole, colta, anzi troppo colta per rappresentare davvero la massa degli immigrati e sicuramente più colta e civile di molti esponenti leghisti. Reagisce in modo composto e accorto agli attacchi, sa che per lei nera funziona da dio essere contestata, meglio se in modo rozzo, e rispondere con garbo. Il nodo è qui: contestare il suo ruolo pubblico, ma rispettare la sua la sua persona, come ogni persona, anzi nel suo caso di più e non perché nera ma perché educata. E tener fuori ogni discorso di razza, colore e zoologia. Amerei vivere in un Paese dove il colore della pelle non è motivo di discriminazione né di carriera, dove provenire dal Congo non è titolo di colpa né di merito e dove un ministro ha come priorità l'interesse generale del mio Paese e degli italiani. Non dei padani, degli italiani.

  
Il pezzo  andrebbe letto e commentato  nelle scuole come esempio di  razzismo subdolo.  Siamo davanti a un articolo  che  mira ad ingannare il lettore:  sotto le false spoglie della ragionevolezza  si  nasconde  un  razzismo che  viene da lontano. 
Si faccia attenzione ai punti, per comodità, classificati come  razzismo  1-6.         
Cécile Kyenge è diventata Ministro  perché nera (come se un italiano dalla pelle nera non potesse diventare ministro… razzismo 1);  non è per il colore della  pelle che la si deve criticare ( tra l'altro, all’inizio del pezzo Veneziani, la definisce “negra”, termine oggi giustamente in disuso… razzismo 2),  ma perché  come Ministro  non difenderebbe gli interessi degli italiani ma degli immigrati (dove sono leggi anti-italiane fatte approvare finora dal Ministro? Evidentemente si fa  del puro e semplice processo alle intenzioni,  solo perché la Kyenge è nera… razzismo 3  ). Inoltre,  Veneziani,  trova il tempo per proporre,  anche in argomento,  il solito  giochino  di parole  (la Kyenge nera,  «pecora nera»… razzismo 4); per insultare la massa degli immigrati definendo la Kyenge «troppo colta» per rappresentarli… razzismo 5); per accusarla  di  usare il colore della  pelle come uno scudo   («per lei nera funziona da dio»… razzismo 6).
Infine, le critiche strumentali  alla Lega e  il peloso appello  alla necessità di «tener fuori ogni discorso di razza, colore e zoologia», rientrano perfettamente nel canone del razzismo subdolo:  del razzista che non vuole apparire tale…  Infatti,  che senso ha  - se non quello di veicolare ipocritamente un messaggio razzista mettendo le mani avanti -   prima  enfatizzare  il  colore della pelle del Ministro Kyenge,   dopo auspicare  la bellezza  di poter vivere un giorno  in un paese  dove  il colore della pelle  non  sia motivo di discriminazione o di carriera?  
E poi Veneziani  di recente  si  è lamentato   -  sempre  in modo ipocrita  fra le righe -   se qualcuno come il professor Luciano  Pellicani, giustamente, gli  ricorda  la  sua condivisone della subcultura fascista…

Carlo Gambescia    

giovedì 16 gennaio 2014

Il libro della settimana: Giovanni Sartori, Ingegneria costituzionale comparata,  il Mulino 2013, pp. 244, euro 14,00 – http://www.mulino.it/edizioni/volumi/scheda_volume.php?vista=scheda&ISBNART=24678 .





Ottima l’idea di ripubblicare in paperback  Ingegneria costituzionale comparata (il Mulino) di Giovanni Sartori: il volume rappresenta un autentico concentrato di sapienza politologica.  Parliamo di  un lavoro  « svelto», per usare le parole dell’autore, scritto  seguendo il filo  di quel “realismo democratico” (realismo cognitivo più empirismo e pragmatismo) che sembra brillantemente segnare il pensiero di Sartori:  uno studioso  che può  permettersi di dare del tu a Pareto, Mosca, Michels.  E al tempo stesso, di  andare oltre  la “sacra triade” appena ricordata. E per una ragione semplicissima: per l’apprezzamento  della  democrazia liberale,  quale orizzonte da cui, giustamente,  è assai pericoloso fuoriuscire. Pareto non fece in tempo. Mosca avvertì, anche in se in ritardo il pericolo,  Michels invece deragliò.     
Qui va subito  fatta un’osservazione.   Il nostro augurio è che Ingegneria costituzionale  – questa volta –  non si limiti   ad «accompagnare» il dibattito politico sulle riforme istituzionali, come si legge, nell’Avvertenza.  Infatti, speriamo con tutto il cuore che la proposta di Sartori   per un sistema elettorale maggioritario fondato sul doppio turno di collegio, capace di ridurre numero dei partiti,   e  su correttivi semipresidenziali in grado di garantire governi efficienti,  sia finalmente recepita dai politici.   E in tale  direzione interattiva  sembra andare  l’ appello dell’ ottobre scorso di Sartori e Ignazi sottoscritto da cento politologi italiani (http://espresso.repubblica.it/palazzo/2013/10/28/news/legge-elettorale-l-appello-di-sartori-e-ignazi-1.139325 ).  Il che però apre il triste  capitolo  sul  rapporto  fra professori e politici Dei professori di Berlusconi, sappiamo tutti che fine hanno fatto… In realtà,  anche degli studiosi  vicini alla sinistra più riformista si sono perdute le tracce.  Quanto all’ ultima  commissione riformatrice, frutto delle “larghe intese”, presieduta dal professor Quagliariello,  è meglio stendere un velo pietoso. Infine, per tornare alla lectio sartoriana,  sia il “Mattarellum” che il “Porcellum” (così ribattezzato dallo stesso professore), sembrano concepiti per far  dispetto alla scienza dello studioso fiorentino e in barba  agli italiani che, da vent’anni,  continuano a votare in un  modo per  essere governati in un altro. Ora, in questi  giorni il dibattito è  ripartito.   Pare tuttavia che la bilancia  dei  rapporti di forza tra politici e professori continui a pendere dal lato dei politici… Sartori, non sarà d’accordo, ma provare con un viaggio a Lourdes dei cento sottoscrittori?     
Veniamo a Ingegneria costituzionale, di cui ci interessa illustrare  la ratio.   Il volume, scritto nel 1994 per il pubblico di lingua inglese si articola il tre parti: I. Sistemi elettorali; II. Presidenzialismo e parlamentarismo; III. Temi e proposte. Ed è completato da una breve appendice che risale al 2004.
Lo spirito  -   la ratio per l’appunto -  che unisce logicamente  le varie parti è  rappresentato  dalla  valutazione comparata in termini di resa dei vari sistemi. L’ingegneria costituzionale è tale perché studia le costituzioni come macchine e meccanismi che devono funzionare in base a strutture fondate su incentivi e castighi. Un approccio  che i politici tendono ad eludere, preferendo spesso incentivare se stessi e la propria parte  e  castigare, dopo averli illusi,  cittadini e  avversari. Di qui, un osservazione sartoriana,  a nostro avviso fondamentale: che anche la macchina costituzionale più perfetta deve  fare i  conti con le tradizioni politiche, storiche e sociali preesistenti: perciò  il bipartitismo, incoraggiato elettoralmente puntando sul maggioritario, in una nazione  distinta  dal particolarismo ideologico, etnico, eccetera, non darà mai buoni risultati, dal momento che i partiti tenderanno  a riflettere, anche all’interno, le numerose divisioni esistenti.  Per contro il pluripartitismo, favorito in chiave proporzionalista,  in assenza del particolarismo sociale, ideologico e politico, rimane  perfettamente inutile  o rischia di incoraggiare divisioni in precedenza inesistenti, magari di tipo partitocratico e lobbistico.
Inoltre,  il presidenzialismo funziona meglio, o meno peggio, dove c’è un interesse, per ragioni storiche, culturali, eccetera,  a farlo funzionare, come negli Stati Uniti,  altrimenti rischia di  produrre autoritarismi, come in America Latina.  Ciò  non significa che il parlamentarismo sia migliore, dal momento che per funzionare richiede partiti disciplinati, altrimenti  si rischia l’anarcoide trasformismo parlamentare.  
Perciò  non esistono ricette magiche o  riposte  definitive.  In effetti, i principali avversari di Sartori sono i  perfettisti,  i «primitivismi democratici»,  i costruttivisti: tutti coloro che credono  basti mettere  nero su bianco  una riforma, una legge, un comando per  cambiare le cose . «La democrazia  - osserva il politologo -  non può  essere semplicemente  potere del popolo, giacché  “potere del popolo” è solo una abbreviazione di “potere del popolo sul popolo”. Il potere è una relazione, e avere potere implica che qualcuno controlla (in qualche modo o misura) qualcun altro. Inoltre, un potere reale è un potere che viene esercitato. Ma come può un intero popolo - composto da decine o anche centinaia di milioni di persone - esercitare potere su stesso? A questo quesito nessuno sa dare un risposta semplice» (p. 157). 
Da ciò discende l’ importanza, come forma istituzionale intermedia,  della democrazia rappresentativa, in cui «il demos non decide in proprio le questioni, le issues, ma si limita  a decidere (scegliere) chi le deciderà».  Il che si chiede Sartori, può sembrare  «troppo poco»…  In realtà, prosegue, «per ottenere  di più  occorre  che ogni incremento di demo-potere sia sostenuto da un incremento  di demo-sapere di informazione e conoscenza. Altrimenti la democrazia diventa un “direttismo”  gestito da incompetenti, da chi-non-sa-nulla-di-nulla, e quindi un sistema di governo si suicida» (p. 231).   Ma come accrescere collettivamente un  sapere la cui banalizzazione e direttamente proporzionale al numero di coloro a cui si rivolge.   Di qui, la sua convinzione circa la necessità di accettare la democrazia rappresentativa come migliore dei mondi possibili.    
A dire il vero, Sartori ne ha per tutti.  In particolare,   per la «grafomania costituzionale».  Con  tale  termine lo studioso si riferisce alle costituzioni lunghe o  «aspirative» (come raccolte di pure “aspirazioni”),  dove le altisonanti promesse di riforma sociale contrastano con l’idea di castighi e premi reali, difesa da Sartori.  Infatti,  proclamare costituzionalmente che gli uomini hanno diritto a questo e  quello, pur essendo giusto in linea di principio,  significa aprire  la porta  alle richieste più strane,  talvolta assurde,  economicamente insostenibili, come nel caso dei diritti sociali a pioggia.   Per contro una costituzione capace di  recepire  il principio (astratto e generale) che ogni legge, anche in tema di qualificazione dei diritti,  deve  rinviare a  precisi vincoli antideficit  di  bilancio,   resta un  buon  esempio   di   sistema  fondato, anche in linea di fatto,  su  castighi e premi: non  c’è più  alcun  diritto soggettivo assoluto,  bensì un  diritto oggettivo che tempera o  frena  la costosa  rincorsa  ai  diritti soggettivi.         
«Le costituzioni – nota Sartori -   sono “forme” che strutturano e disciplinano i processi di formazione delle decisioni statuali. Le costituzioni stabiliscono come debbano essere create le norme; non decidono, né debbono decidere che cosa debba essere stabilito dalle norme. Il che vuol dire che le costituzioni sono, prima di tutto, procedure mirate ad assicurare un esercizio controllato del potere. Pertanto, e viceversa, le costituzioni  sono e devono essere neutrali in sedi di contenuti (content neutral). Una costituzione che avoca a sé le determinazioni  politiche, e cioè dei contenuti della politica, si  sostituisce indebitamente alla volontà popolare e agli organi (parlamenti e governi) ai quali le decisioni politiche sono costituzionalmente affidate » (p. 216). 
Di qui, spesso, il  «sovraccarico delle “capacità costituzionali” che porta alla incapacità di funzionare». Cosicché «   se gli estensori di costituzioni non sanno resistere alla tentazione di ostentare i loro nobili intenti, questi dovrebbero essere  collocati un Preambolo “programmatico”. Dopodiché i costituenti  sono tenuti ad occuparsi seriamente di ciò  che seriamente dovrebbero fare: elaborare uno schema di governo, che tra l’altro, soddisfi le esigenze di governabilità» (p. 217).
Serve altro? Crediamo proprio di no.


Carlo Gambescia                      

mercoledì 15 gennaio 2014

Il  "New York Times" si interroga 
Dove va  Papa Francesco? 




Il “New York Times” ha dedicato a Papa Francesco un lungo articolo che inizia in prima pagina (con grande evidenza) per  continuare  in quelle  interne (http://www.nytimes.com/2014/01/14/world/europe/pope-with-the-humble-touch-is-firm-in-reshaping-the-vatican.html?ref=francisi&_r=0 ).

Il fatto è importante di per sé, perché indica l’attenzione che  la colta America liberal  riserva  alle vicende della  Chiesa Cattolica, ma anche la simpatia con cui guarda al Santo Padre, giudicato  un Papa prudente che  però 

With the Humble Touch Is Firm in Reshaping the Vatican”  Una figura tuttavia, si legge,  che “remains tricky to define, a doctrinal conservative whose humble style and symbolic gestures have thrilled many liberals”.

Il servizio nell’insieme è molto equilibrato, pur partendo dal presupposto “modernista  che  quanto più il Papa dialogherà con il mondo moderno tanto più la Chiesa diverrà patrimonio universale di tutti, fedeli e non. Particolare attenzione è dedicata alla “battle” di Francesco  contro la Curia e il “carrierismo” curiale.

It was a pointed rebuke of the poisonous atmosphere that had troubled Benedict’s papacy, and for which the former secretary of state, Cardinal Tarcisio Bertone, was often blamed. And it was a reminder that Francis, if a new pope, was not new to the machinations of the Curia, having tangled while in Argentina with a powerful conservative faction. “He was not an ingénue coming out into the world,” said Elisabetta Piqué, an Argentine journalist who has known Francis for more than two decades and whose recent book, “Francis: Life and Revolution,” documented his past clashes with Rome. “He had had almost a war with this section of the Roman Curia.” Now Francis talks disparagingly of “airport bishops” who are more interested in their careers than flocks, and warns that priests can become “little monsters” if they are not trained properly as seminarians.

Ma anche  i tradizionalisti non sono trascurati.    

As a priest, Guido Pozzo led a Vatican commission tasked with bridging the schism between the church and traditionalists critical of the Second Vatican Council. In November 2012, Cardinal Bertone elevated him to the rank of archbishop and Benedict appointed him to run the church’s charity office. Francis, who is much less interested than Benedict was in appealing to the schismatic conservatives, has since sent Archbishop Pozzo back to his former post. Another is Cardinal Burke. In 2008, Benedict installed his fellow traditionalist as president of the Apostolic Signatura, the Vatican’s highest court, and the next year appointed him to the Congregation for Bishops. The post gave Cardinal Burke tremendous sway in selecting new bishops in the United States.In December, Francis replaced him with a more moderate cardinal. “He’s looking for places to put his people,” said one official critical of the pope.Another Vatican conservative took offense at Francis’ disdain for elaborate dress. And speculation that Francis might convert the papal vacation home of Castel Gandolfo into a museum or a rehabilitation center has also raised alarms. “If he does that,” said an ally of the old guard, “the cardinals will rebel.” For now, the resistance is not gaining traction. “The Holy Spirit succeeds also in melting the ice and overcoming any resistance,” Secretary of State Parolin said. “So there will be resistance. But I wouldn’t give too much importance to these things.”

 

Si sottolinea anche il cambiamento  di approccio, all’insegna, come pare,  del neutralismo,  verso la politica italiana, 

For years, Italian politicians have courted the Vatican, and vice versa, as both Pope John Paul II and Benedict encouraged Italy’s prelates to speak out on issues that concerned the church. Francis’ distaste for directly involving the church in politics has now threatened that old link between Italian prelates and Italy’s conservative politicians. “Today, the Italian bishops are keeping silent,” said Pier Ferdinando Casini, a prominent politician who once met with cardinals and even popes but has yet to meet Francis.
 Insomma,  un servizio interessante, da  non perdere. Che evidenzia,  se si vuole usare un termine politico,  lo spostamento ( o ritorno)  su posizioni di centro-sinistra della Chiesa.  Che poi il mutamento  di rotta   sia effettivo e  condivisibile  è altra storia…
Carlo Gambescia