sabato 31 ottobre 2015

Guai ai profeti disarmati
La caduta di Marino: 
il virtuismo non basta


Di caduta, nel senso di  perdere ogni potere  politico su Roma, è  giusto parlare. Terminologicamente, giusto. Diciamo però che  Marino è caduto in piedi. Ci spieghiamo: per fare un esempio tratto dal mondo del lavoro, il Sindaco si è fatto licenziare, non si  è dimesso. Quindi, potrà sempre rimproverare ai suoi avversari, di essere caduto, lui eletto dai romani  con quasi il settanta per cento dei voti,  senza un regolare voto di sfiducia e così additarli come nemici della democrazia agli occhi dei virtuisti politici (che a sinistra sono un piccolo ma potente gruppo di  opinione).  Ciò però significa che se sul piano morale il vincitore della  partita è Marino,  su quello del potere la vittoria  va  a  Renzi. Insomma,  la famigerata  pugnalata c'è tutta.
Naturalmente,  non sappiamo ancora come Marino sfrutterà questo suo successo morale che, attenzione, serve a  coprire, per ora, le magagne di una pessima amministrazione della città, o comunque  gradita solo a una parte della gentry acculturata di sinistra.  E quest’ultimo fatto ha oggettivamente favorito l’isolamento dell'ex Sindaco. Neppure sappiamo, come Renzi, sfrutterà la sua  vittoria politica che però, sempre per la pugnalata di cui sopra,  lascia il Pd romano diviso e i suoi  elettori  disorientati. Tuttavia, Renzi  ha mostrato di non  fermarsi davanti a nulla. Risolutezza, di cui i suoi avversari politici dovrebbero adeguatamente tener conto (Renzi, appartiene alla dura  razza dei Craxi non dei mollaccioni alla Berlusconi).  Probabilmente, avendo ereditato Marino dalla precedente gestione, Renzi, desiderava liberarsi dell' ex Sindaco fin dall’inizio: prima  ha  cercato di  trattare, promettendo incarichi alternativi, poi  Marino, al quale l’ambizione non difetta, a sua volta, avrà  avanzato  richieste, forse politicamente esose ( a tutela del suo futuro politico), andate  non esaudite. Sicché,  vedendo, intorno a sé moltiplicarsi gli attacchi, anche della magistratura, Marino ha deciso di puntare i piedi, per  farsi “licenziare” e così vincere  sul piano morale. Insomma, Marino  sapeva benissimo della "pugnalata annunciata". Ha deciso, visto il buco nero in cui si era cacciato, di correre il rischio,  facendo, per così dire, di necessità virtù (magari elettorale, come poi vedremo).   
Tuttavia, nelle democrazie in particolare, le vittorie morali, così amate dai virtuisti di destra e sinistra (la "nobiltà della sconfittà"), devono sempre trasformarsi in voti.  E i voti sono legati al consenso, che dipende dalle scelte  politiche  di chi sia al potere (opzioni soprattutto economiche, capaci di creare ampie coalizioni sociali ed elettorali), nonché dagli apparati politici e dalla capacità, o meglio abilità, di condizionamento organizzativo, mascherato o meno,  delle  élites dirigenti.
Perciò, ecco la lezione politica: al virtuismo, ottimo da sbandierare in pubblico,   deve però  sempre accompagnarsi una accorta gestione del potere, tesa a far crescere il consenso: un vero  politico (non solo nei regimi democratici) deve saper intercettare tutti i segmenti sociali: il che però non significa promettere tutto a tutti. È una questione di equilibrio: di saper prendere, per provvedimenti successivi, le decisioni giuste, accontentando, per quando possibile, ora gli uni, ora gli altri (parliamo di interessi legittimi e leciti, ovviamente). Contro qualcuno o qualcosa, governano solo i Comitati di Salute Pubblica…    Del resto le pessime condizioni  in cui versa  Roma sono sotto gli occhi di tutti. Tranne che per una minoranza di “illuminati” pro Marino.
Certo, alle prossime comunali, l’ex Sindaco potrebbe presentarsi con una lista propria, anche di solo disturbo.  Pertanto, in qualche misura la partita  non  è ancora chiusa in modo definitivo. Però Renzi è Presidente del Consiglio, Segretario del Pd e ora, per via indiretta, Prefetto di Roma, pardon Commissario Straordinario.  E, piaccia o meno,  parla a tutti. Mentre Marino  è fuori dai giochi politici e parla solo a quattro gatti.
Riassumendo: il virtuismo, da solo non basta, guai ai profeti disarmati. 

Carlo Gambescia
                   


venerdì 30 ottobre 2015

Le dimissioni di Ignazio Marino (che sembrano non arrivare mai)
Mafia Capitale? No, Foglia Capitale



Volete sapere, amici lettori,  quando  Ignazio Marino doveva dimettersi?  Alle ore 12 di ieri, davanti alla fermata dell’ 89,  piazzale Flaminio,  nei pressi di  una  piazza del Popolo piena zeppa di turisti. Quando chi scrive, dopo trenta  minuti di attesa ha visto arrivare il bus - a quel  punto -  del cuore, con un foglio  formato A4, in bella vista sul parabrezza, tenuto su  con lo scotch, dove era indicato il suo numero, perché quello luminoso non funzionava. Non ci sono parole.
Certo, Roma è una città, oggettivamente,  difficile da governare. Le  tonnellate di turisti che ogni anno si abbattono sulla città  non aiutano. Però portano denari. Che si tramutano in tasse, di vario tipo,  per le casse comunali... Sicché la manutenzione stradale  dovrebbe essere più che finanziata. E invece sembra andare sempre peggio: strade e marciapiedi in condizioni disastrose,  pieni di buche e ricoperti quasi tutto l'anno da montagne di foglie. Più che di Mafia Capitale parlerei di Foglia Capitale.  E che  dire dei cassonetti stracolmi  di rifiuti?  Raccolti di quando in quando,  forse l’ultima volta con la  biga… 
Mi piace la multietnicità. In fondo, è una caratteristica romana fin dall’antichità. Quello che  invece irrita  è il capannello di vigili, in fitta conversazione,  a  un metro dall’ambulante abusivo  nigeriano, che fa   il suo duro  mestiere senza tredicesima e pensione. Mentre i vigili non fanno il loro. 
Tutto questo, con Marino sindaco,  è peggiorato.  Roma  è stata completamente  abbandonata a se stessa.  Brutta, magari no, perché è sempre bella, ma sporca e cattiva sì.  Perché nel frattempo la gente si  è indurita. E se ne frega. Passeggiando tra le rovine.     

Carlo Gambescia    

     

giovedì 29 ottobre 2015

La replica di Teodoro Klitsche de la Grange

È vero che Rousseau è considerato il “padre” della democrazia totalitaria moderna, criticato con efficacia da Constant e da Tocqueville (liberali, come pensa di esserlo chi scrive) ma occorre ripensare, anche alla luce del pensiero liberale “triste”, certe partizioni.
Senza voler ricordare le considerazioni simili di altri giuristi, occorre ricordare che Carl Schmitt nella costituzione dello Stato borghese di diritto (ossia quello liberaldemocratico moderno) vede l’unione di principi politici e di principi dello Stato borghese (cioè del pensiero liberale). I primi sono quelli “classici” (monarchia, aristocrazia, democrazia – ridotti da Schmitt ad identità e rappresentanza) i secondi di garanzia dei diritti fondamentali e distinzione dei poteri. Carattere dei primi è costituire (fondare, legittimare) il potere; dei secondi, di limitarlo.
Resta il fatto che se uno Stato dovesse fondarsi sui principi di limitazione del potere, cioè a un liberalismo che Hegel avrebbe, probabilmente, chiamato astratto (o magari “vento che gonfia la testa”, ossia aria fritta), non esisterebbe perché per limitare un potere occorre necessariamente che questo esista (sia costituito).
Per cui ogni Stato liberaldemocratico è l’unione di uno o più principi  politici (status mixtus) e dei principi dello Stato borghese. Cosa che molti oggigiorno dimenticano.
Col risultato di ricorrere a improbabili (e incredibili) succedanei come il potere d’organi giudiziari (Corti Costituzionali in primis), d’istituzioni internazionali (tra cui l’Unione Europea), ma occultamente, l’influenza di “poteri forti” i cui connotati fondamentali sono d’essere non-pubblici (cioè non istituzioni pubbliche) e quindi non-democratici. Nel migliore dei casi (cioè l’Unione Europea) la riferibilità degli organi decidenti alla scelta e alla volontà popolare è, quantomeno, molto mediata e quindi evanescente.
E se ne vedono i risultati: la volontà popolare, conculcata e disattesa in tante sedi istituzionali (e non), trova i propri spazi di decisione ed espressione dove può compiere scelte dirette: nei referendum e nelle elezioni. O rifugiandosi nell’astensionismo, cioè nell’indifferenza.
Per cui ben venga una maggiore identità (nei due sensi del termine, di principio politico e d’identificazione nazionale): perché – e qua passo a Smend – uno Stato che non ha (o ha scarsi) mezzi d’integrazione (e quindi di partecipazione e di legittimazione del potere) è condannato a deperire e, alla lunga, a scomparire.
                                                           Teodoro Klitsche de la Grange 


***
La controreplica di Carlo Gambescia 

Caro Teodoro, grazie innanzitutto per la tempistica: nonostante i tuoi  numerosi impegni ti sei preso la briga, e  in tempi rapidissimi,  di rispondere alla mia nota . Ne sono onorato.
Vengo al dunque. Noto subito con  piacere   che su Rousseau concordi. Quindi convieni anche  che era inutile  chiamarlo in causa. Ci sono pagine di Constant sul “brigante” Napoleone, oppure di Tocqueville sull’assolutismo rivoluzionario che potevi citare benissimo in luogo di quel pericoloso lunatico di  Rousseau. Apprezzo.
Quanto  alla questione  giuridico-politica ,  non mi mettere però in bocca, se mi passi l’espressione non proprio elegante, cose che non ho detto: io mi guardo bene dal ridurre il liberalismo a una pura e semplice limitazione  del potere dello stato:  a una dottrina puramente negativa del potere, come liberali micro-archici e  an-archici.   Né  però accetto la visione positiva   del potere del liberale macro-archico.   
Da liberale triste, ormai per antonomasia se mi permetti,  CREDO  che al di là, delle questioni legate  non tanto  ai  concetti, puri o meno,  di  identità e rappresentanza (che a mio avviso  non esistono se non nella mente di certi  giuristi), quanto del significato concreto, in termini di derivazione, che viene dato a questi termini ( ma questa è un’altra storia, di smascheramento…),  SIANO  il politico, i politici, meglio ancora le classi dirigenti,  a decidere caso per caso,  cosa fare,  in termini di buon "temperamento"  tra spontaneità sociale e necessità politiche (le famose costanti o regolarità),  come  accade in tutti i regimi a prescindere dalla forma stato o di governo:  la sfida insomma è sempre circostanziale e concreta, storica se vuoi (in senso storicistico). E interna alle classi dirigenti.  Inutile fingere, o peggio credere ingenuamente,  in una fantasmagorica  volontà (politica) popolare:  che invece segue sempre, qualche volta anticipa (e sono guai), per poi riallinearsi in retroguardia...  E qui lo  Schmitt, da te citato,  nonostante il suo realismo segue un po’ troppo la classica distinzione formale delle tipologie di governo e stato, invisa al nostro Mosca, ad esempio).  Quindi la vera domanda è:  cosa ti  puoi aspettare, a livello di Unione Europea e di stati nazionali,  da classi dirigenti  catto-socialiste? Solo  uno  svuotamento costruttivista  della società liberale o aperta, tra l'altro  faticosamente e imperfettamente costruita nel secondo dopoguerra.   Di riflesso, quelle disfunzioni da  te accennate.  Che sono, in primis,  frutto di una mancanza di ricambio  a livello di classi dirigenti. Questo è il vero punto sociologico,  non la dinamica  astratta dei concetti giuridici. Perché, come sa ogni liberale triste, sono gli uomini, spesso senza saperlo,  a fare le istituzioni, non le istituzioni gli uomini.  Il primo è un principio liberale, il secondo costruttivista.   E non è  che si può dare un aiuto intellettuale, e perciò indiretto,  alla formazione di una classe dirigente liberale, diffondendo il verbo di Rousseau ( che tanto piace a populisti, fascisti, comunisti),  costruttivista  per eccellenza. Cosa che, fortunatamente, tu sembri  già sapere.   
 Carlo Gambescia
         


       
 Liberali e no/ Una replica al  post dell’amico Teodoro Klitsche de la Grange

No, Rousseau no…



La riflessione dell’amico Teodoro Klitsche de la Grange  sulle elezioni polacche -  comunque, notevole  -  ci  ha creato  un problema di coscienza “metodologica”. Per quale ragione?  Perché, Rousseau è un pensatore collettivista (costruttivista, per dirla in termini hayekiani),  irrecuperabile  alla tradizione liberale,  individualista e spontaneista.  Ora, che contro l’Europa, questa Europa delle élites,  semplificando,  catto-socialiste, quindi dirigiste, si cerchi  di  usare in chiave polemica qualunque argomento ( o autore, come nel caso), può essere pericoloso, sia dal punto di vista concettuale, sia da quello  della coerenza politica. Liberale.

Perché, ad esempio si prenda la frase di Rousseau citata da Klitsche de la Grange: Date un’altra piega alle passioni dei Polacchi”…  Chi deve “dare una piega”?   A pochi anni dalla sua scomparsa,  evocandone il sacro nome, furono i giacobini a dare “un’altra piega” ai francesi con il terrore…  E dopo  Robespierre,  socialisti, scientifici  o meno, comunardi,  sindacalisti rivoluzionari, comunisti, fascisti  e perfino, certo,  con modalità soft (ma fino a un certo punto) i catto-socialisti  dell’Unione  Europea    

Altra cosa invece  è dire lasciate che  i Polacchi prendano da soli un’altra piega. Il che significa accettare che la mano invisibile  dell’interazione sociale faccia la sua opera, senza interventi dall’alto.  Da un lato un pensiero collettivista, dall’altro individualista.  Esiste, insomma,  una bella differenza.


Perciò , sia detto con tutto il rispetto,  abbiamo provato un grande stupore nel  sentir citare,  da un forbito intellettuale liberale come l’amico Klitsche de la Grange , il nome  di Rousseau, per difendere, una causa  che comunque riteniamo giusta, quella “delle  istituzioni solide per un popolo decidente”.  Non bastava il più affidabile Tocqueville?


Perché, a dire il vero,  Rousseau, a tutt’oggi, è il pensatore prediletto di  quei  guru  della sinistra estrema come Žižek e Badiou. Da destra, anche Alain de Benoist, certo, con ben altra finezza intellettuale,  lo aveva a suo tempo rivalutato .  


Ora, non si tratta qui  di contrapporre citazione a citazione (non desideriamo aprire gare di bravura in argomento…), quel che però va tenuto presente, assolutamente presente, è il segmento di  appartenenza.  E quello di Rousseau non è sicuramente liberale (Talmon docet )


Perciò perché combattere l’Unione Europa, con i suoi stessi, cattivi,  strumenti euristici e ideologici?  Collettivisti e costruttivisti, per farla breve.  E, ciò che è peggio, perché  conferire (per carità, indirettamente e in perfetta buona fede), attraverso la penna di un liberale,  una “patente liberale” a un pensatore come Rousseau, che stando a studiosi come Pareto, Mosca, Ferrero (per limitarsi al campo italiano) resta il padre di tutti i democraticismi totalitari?  E quindi il nonno, per così dire, di quella demagogia populista, parafascista, qualunquista antieuropea alla quale  Klitsche de la Grange giustamente accenna nel suo articolo? 

Carlo Gambescia                  


mercoledì 28 ottobre 2015

Riflessioni
Rousseau e le elezioni polacche
di Teodoro Klitsche de la Grange



“Oggi, si dica quel che si vuole, non ci sono più né Francesi, né Tedeschi, né Spagnoli, e neppure Inglesi. Ci sono solo Europei. Tutti hanno gli stessi gusti, le stesse passioni, gli stessi costumi, perché nessuno ha ricevuto un’impronta nazionale attraverso un’educazione che gli sia propria. Tutti, nelle stesse circostanze, faranno le stesse cose; tutti si dichiareranno disinteressati e saranno dei furfanti; tutti vanteranno le modeste fortune e vorranno essere dei Cresi; hanno una sola ambizione: il lusso; una sola passione: l’oro. Sicuri di poterlo usare per ottenere tutto ciò che li tenta, si venderanno senza eccezione al primo che vorrà pagarli. Che importa chi è il padrone a cui obbediscono, di quale Stato seguono le leggi? Purché trovino denaro da rubare e donne da corrompere, sono ovunque a casa loro.
Date un’altra piega alle passioni dei Polacchi e darete alle loro anime una fisionomia nazionale che li distinguerà dagli altri popoli, che li tratterrà dal mescolarsi con loro, dal goderne la compagnia, dallo stringerci legami di parentela; un vigore che sostituirà il giuoco abusivo dei precetti inutili, che li porterà a fare per appassionata inclinazione ciò che non si fa mai abbastanza bene quando si agisce solo per dovere o per interesse”.

Chi ha scritto questa pagina? Un demagogo populista? Un nazionalista parafascista? Un qualunquista antieuropeo? No: è stato Rousseau; il cui pensiero forse aveva qualche connotato associabile (ed associato, anche se occultamente, in molti casi) a quei deprecabili figuri. Ad esempio l’esaltazione che il ginevrino faceva del popolo e della democrazia lo accosta ai populisti; l’amor di patria al nazionalismo; l’apprezzamento delle identità nazionali agli antieuropei; non parliamo poi dell’avversione per la ricerca del lusso e della ricchezza e l’elogio dell’uguaglianza.
E Rousseau lo scrive nelle Considerazioni sul governo di Polonia, elogiando il carattere e la virtù dei Polacchi i quali malgrado retti da uno Stato privo di potere decisivo e tendenzialmente anarchico, trovavano la forza di difendersi dalle ben più solide monarchie assolute europee.
Morale: ma era Rousseau (il più celebre teorico moderno della democrazia tout-court) populista, parafascista, qualunquista e così via o sono la borghesia funzionario-tecnocratica e la sinistra bo-bo a non voler democrazia, popolo, indipendenza delle nazioni, ecc. ecc.? Allo scopo di fare meglio quello che deprecava Rousseau: molti quattrini?
Perciò, e date le fresche elezioni in Polonia (dall’esito “rousseauviano”) fate un pensiero: che forse a rendere così preoccupati personaggi e ambienti diversi (e quello che loro da più fastidio) è proprio ciò che al ginevrino piaceva di più: istituzioni solide al servizio di un popolo decidente.
Meditate gente, meditate.
                                                           Teodoro Klitsche de la Grange

Teodoro Klitsche de la Grange è  avvocato, giurista, direttore del trimestrale di cultura politica “Behemoth" (  http://www.behemoth.it/ ). Tra i suoi libri: Lo specchio infranto (1998), Il salto di Rodi (1999), Il Doppio Stato (2001), L'apologia della cattiveria (2003), L'inferno dell'intellettuale (2007), Dove va lo Stato? (2009),  Funzionarismo (2013).


martedì 27 ottobre 2015

Caso Orlandi
E io pago...



Il dibattito politico  che si è sviluppato intorno alla direttrice dell’Agenzia delle Entrate, Rossella Orlandi, è veramente surreale. Perché, da quel che si evince,  la ragione del contendere non è l' abbassamento dei tributi, giunti ormai a livelli insopportabili, ma come spremere meglio i cittadini.
Purtroppo, in Italia, sia a destra che a sinistra, non esiste cultura, semplificando,  antifiscale: qualsiasi partito promette tutto a tutti,  in una gara di demagogia.  Sullo sfondo di un' idea, assai diffusa e in fondo mitologica, quella del recupero dell’evasione fiscale: se tutti pagassero - ecco il mantra -   la pressione fiscale scenderebbe, eccetera.  In realtà, se tutti pagassero, la pressione continuerebbe a crescere perché  le maggiori entrate farebbero sì  lievitare il numeratore del rapporto tra  ammontare delle entrate  tributarie  e Pil, che però - parliamo del Pil  -  continuerebbe ad essere calcolato, artatamente,  sempre al lordo  del sommerso,  per poter  minacciare e spogliare il contribuente in nome di un' insaziabilità,  mascherata come  ricerca del bene comune. Insomma,  la linea dell’ipotetico traguardo, il pagare tutti, pagare meno, verrebbe  regolarmente spostata più avanti.  E per una ragione precisa:  l’impossibilità di poter tagliare  burocrazie voraci e padrone.  Perciò, servirebbe un cambio di mentalità in chiave, anche qui semplificando,  antistatalista:  difficilissimo da conseguire  in Italia dove tutti mendicano sempre qualcosa dalle istituzioni pubbliche. Sicché,  inutile insistere  sulle questioni tecniche,  che sono il sottoprodotto di una  visione del  mondo assai diffusa a sinistra e tra gli italiani:  quella di fare, se ci si passa l’espressione brutale, i socialisti con il culo degli altri. Un atteggiamento mentale  che però ha favorito, a  livello di sintesi politica, la diffusione e accettazione  di una demagogica modellistica economica:  tecniche amatissime  dai tributaristi di sinistra (anche perché dànno loro il pane quotidiano), molto attivi  nelle università e nei salotti del potere. Per capire la differenza tra  scienza delle finanze, semplificando, keynesiana, e scienza delle finanze liberale, si sfogli il  classico manuale di Luigi Einaudi, per notare  l’assoluta assenza di grafici e di modelli econometrici.
E come viene recuperata l’evasione fiscale? Sparando nel mucchio e considerando, presuntivamente, il contribuente colpevole. Per ammissione della direttrice Orlandi, sapete, amici lettori, a chi è arrivata metà delle cinquecentomila lettere “per contrastare l’evasione”?   A coloro che  hanno presentato la denuncia presso i Caf: pensionati, lavoratori dipendenti, piccoli commercianti, tutti pericolosissimi evasori fiscali...  E così, come onestamente ammette la  stessa Direttrice dell’Agenzia,  ci si è trovati davanti a  "padri di famiglia in lacrime e gente disperata", persone che  “di fronte agli accertamenti (...), non sapevano di dover fare la dichiarazione dei redditi” e che "adesso potranno essere avvertiti in tempo reale e incorrere solo in mini-sanzioni” (*).
Come è buona lei, direbbe Fantozzi!   
Quel che dà più fastidio, non è tanto il fatto che la sinistra tassi e perseguiti fiscalmente  i cittadini: in fondo è ideologicamente coerente,  per così dire, fa il suo "dovere",  quanto invece che la destra, dimenticando la lezione di Einaudi, non “de-tassi” e non smetta di  rivaleggiare con la sinistra nell’inseguire il mitologico recupero dell’evasione fiscale per pagare meno tasse tutti…   
Carlo Gambescia


           

lunedì 26 ottobre 2015

Arma dei Carabinieri (*) 
Nucleo di Polizia Giudiziaria di [omissis]
VERBALE DI INTERCETTAZIONE DI CONVERSAZIONI O COMUNICAZIONI
(ex artt. 266,267 e 268 C.P.P.)
L'anno 2015, lunedì 20 luglio, in [omissis] presso la sala ascolto sita al 6o piano
della locale Procura della Repubblica, viene redatto il presente atto.
VERBALIZZANTE
M.O Osvaldo Spengler
FATTO
Nel corso dell'attività tecnica di monitoraggio ambientale svolta nell'ambito della procedura riservata n. 765/2, autorizzazione COPASIR 8932/3a [Operazione NATO “ASCOLTO FRATERNO” N.d.V.] è stata registrata, in data 25/10/2015, ore 11.32, una conversazione intercorsa S.E. FINZI MATTIA, Presidente del Consiglio dei Ministri, e BERNASCONI SILVANO, ex Presidente del Consiglio. La conversazione si è svolta all’esterno di capanno sito sull’isola di Montecristo (Mar Tirreno), ed è stata registrata a mezzo microfono direzionale posto sul peschereccio “Bella Gina”. Si riporta di seguito la trascrizione integrale della conversazione summenzionata:

[omissis]


BERNASCONI SILVANO: “Che fenomeno il papa, che fenomeno…”
S.E. FINZI MATTIA: “Sì, però vedi che al Sinodo ha perso. Niente comunione ai divorziati risposati, sui gay solo chiacchiere…”
BERNASCONI SILVANO: “Scusa, Mattia, ma mi deludi. Possibile che non te ne sei accorto? Papa Francesco fa la tua politica, tale e quale.”
S.E. FINZI MATTIA: “Questa poi…”
BERNASCONI SILVANO: “Papa Francesco è più renziano di te, Mattia, e guida la Chiesa come tu dovresti guidare il PD e l’Italia.”
S.E. FINZI MATTIA: “Ti piace il paradosso, eh Silvano?”
BERNASCONI SILVANO: “Altro che paradosso, è logica pura. Sta’ a sentire. Francesco fa due politiche, una a uso interno, una a uso esterno. Uso interno: fermi sulla dottrina, non si cambia una virgola. Gender movida del diablo, difesa della famiglia naturale, eccetera: così i conservatori non lo beccano mai in castagna. Si lamentano, protestano, scrivono lettere, ma tanto a) il papa è lui b) la teologia è roba astrusa e nessuno se la fila c) di fare lo scisma non se la sentono, hanno paura. Ti ricorda niente?
S.E. FINZI MATTIA: “Dici Bersani, i dinosauri della “Costituzione più bella del mondo”…?
BERNASCONI SILVANO: “Certo. Poi c’è la politica a uso esterno, l’unica che conta perché i media la moltiplicano, altro che i pani e i pesci…. e lì sfiora il sublime: con una battutina in aereo, disattiva le fole teologiche dei conservatori e butta a mare tutta la zavorra della vecchia Chiesa…”
S.E. FINZI MATTIA: “…’Chi sono io per giudicare?’…”
BERNASCONI SILVANO “Esatto. E nota bene: ti dice ‘Chi sono io per giudicare?’, ma intanto usa tutto il suo potere di monarca assoluto per nominare, trasferire, licenziare, forzare le procedure, concludere il dibattito come pare a lui…”
S.E. FINZI MATTIA: “Cioè tu dici che il papa scavalca la destra e la sinistra?”
BERNASCONI SILVANO: “Fa il Partito della Nazione, Mattia, lui sì che lo fa. Chi non sta con lui è fuori, fuori dalla Chiesa, fuori dai giochi, fuori dal mondo. Vuoi essere di destra, hai la fissa teologica? Fai pure, i documenti sono lì e ti danno ragione, parla pure quanto vuoi, anche in latino, perché no, anzi meglio, così ti capiscono anche meno. Vuoi essere di sinistra? Avanti c’è posto, basta leggere i giornali o guardare la TV, il papa è sempre dalla tua.”
S.E. FINZI MATTIA: “Basta che non disturbi il manovratore…”
BERNASCONI SILVANO: “…e se disturbi vai a fare il profeta di sventura sulle TV locali. Chiaro il concetto? Intanto, la Chiesa 2.0 si lancia sul mercato con un nuovo prodotto: tutti salvi subito. Slogan: ‘Con noi è più facile essere buoni’. Secondo te, chi ha voglia di sentirsi cattivo? Nessuno. ”
S.E. FINZI MATTIA: “Ci devo pensare, ma se è come dici tu è…”
BERNASCONI SILVANO: “…è geniale, Mattia. L’uovo di Colombo. Ci avessi pensato io quando ero…mah, lasciamo perdere. Adesso tocca a te. [pausa] Certo, c’è anche un’altra possibilità…”
S.E. FINZI MATTIA: “Finisci, non fare il misterioso.”
BERNASCONI SILVANO: “Metti che sia tutto vero? Dio, il paradiso, l’inferno, l’apocalisse…”
S.E. FINZI MATTIA: “Ma dai…”
BERNASCONI SILVANO: “Non si sa mai, Mattia. Io ogni tanto ci penso…Se fosse tutto vero, chissà cosa ne pensano, Lassù…Ma io sono vecchio…”
S.E. FINZI MATTIA. “Macché vecchio, hai più energia di me…”
BERNASCONI SILVANO: “Sì, però anche più anni. Certe volte…”
S.E. FINZI MATTIA: “Te ciài bisogno di una zingarata, Silvano. Le hai portate le bambine?”
BERNASCONI SILVANO: “Mai senza, Mattia. A quest’ora si staranno alzando.”
S.E. FINZI MATTIA: “Si va?”
BERNASCONI SILVANO: “Si va, si va.”

Letto, confermato e sottoscritto
L’UFFICIALE DI P.G.

M.o  Osvaldo Spengler


(*) "Trattasi" -   tanto per non cambiare stile,  quello  della  Benemerita...  -   di ricostruzioni che sono  frutto della mia  fantasia di  autore e commediografo.  Qualsiasi riferimento  a fatti o persone  reali  deve ritenersi puramente casuale. (Roberto Buffagni)




Chi è il  Maresciallo Osvaldo Spengler?  Nato a Guardiagrele (CH) il 29 maggio 1948 da famiglia di antiche origini sassoni (carbonai di Blankenburg am Harz emigrati nelle foreste abruzzesi per sfuggire agli orrori della Guerra dei Trent’anni), manifestò sin dall’infanzia intelletto vivace e carattere riservato, forse un po’ rigido, chiuso, pessimista. Il padre, impiegato postale, lo avviò agli studi ginnasiali, nella speranza che Osvaldo conseguisse, primo della sua famiglia, la laurea di dottore in legge. Ma pur frequentando con profitto il Liceo Classico di Chieti “Asinio Pollione”, al conseguimento della maturità con il voto di 60/60, Osvaldo si rifiutò recisamente di proseguire gli studi, e si arruolò invece, con delusione e sgomento della famiglia, nell’Arma dei Carabinieri. Unica ragione da lui addotta: “Non mi piace far chiacchiere .” (Com’è noto, il carabiniere è “uso a obbedir tacendo”). Mise a frutto le sue doti di acuto osservatore dell’uomo in alcune indagini rimaste celebri (una per tutte: l’arresto dell’inafferrabile Pino Lenticchi, “il Bel Mitraglia”). Coinvolto nelle indagini su “Tangentopoli”, perseguì con cocciutaggine una linea d’indagine personalissima ed eterodossa che lo mise in contrasto con i magistrati inquirenti. Invitato a chiedere il trasferimento ad altra mansione, sorprese i superiori proponendosi per la sala ascolto della Procura di ***. Richiesto del perché, rispose testualmente: “Almeno qui le chiacchiere le fanno gli altri.”


***

Roberto Buffagni è un autore teatrale. Il suo ultimo lavoro, attualmente in tournée, è Sorelle d’Italia – Avanspettacolo fondamentalista, musiche di Alessandro Nidi, regia di Cristina Pezzoli, con Veronica Pivetti e Isa Danieli. Come si vede anche dal titolo di questo spettacolo, ha un po’ la fissa del Risorgimento, dell’Italia… insomma, dell’oggettistica vintage...


venerdì 23 ottobre 2015

Il libro delle settimana:  Stefano Anastasia, Manuel Anselmi, Daniela Falcinelli, Populismo penale: una prospettiva italiana, Wolters Kluwer - Cedam, Lavis (TN) 2015, pp. X-122, euro 15,00.


http://shop.wki.it/Cedam/Libri/Populismo_penale_una_prospettiva_italiana_s556111.aspx

Se ci si  passa l'espressione:  una ventata di epistemologia fresca nell’asfittico mondo dell’Accademia.  Non sapremmo come meglio  definire Populismo  penale. Una prospettiva italiana (Wolters Kluwer - Cedam). Ottimo libro  a cura di tre bravi ricercatori dell’Università di Perugia negli ambiti, rispettivamente, della filosofia del diritto, della sociologia politica, del diritto e della criminologia: Stefano Anastasia, Manuel Anselmi, Daniela Falcinelli. 
Procediamo per gradi.
Che cos’è il populismo penale? Lo spiega Manuel Anselmi nella sua  densa  rassegna iniziale (“Populismo e populismi”, pp. 1-19), prendendo spunto da una innovativa, perché euristicamente agguerrita, letteratura  anglofona in argomento. Si veda ad esempio, più in generale, l’eccellente schema, desunto da  Noam Gidron e Bart Bonikowski, Variety of Populism (2013), che riassume  i tre principali approcci allo studio del populismo: come ideologia, come stile politico, come strategia politica (p. 5).
Ma torniamo al nocciolo del libro. Scrive Anselmi: «L’uso strumentale di tematiche legate alla giustizia e al sistema penale da parte dei candidati  nell’ambito delle campagne elettorali ha posto le prime questioni di populismo penale. Molti studi hanno registrato che nonostante i dati statistici indicassero  un decremento dei crimini, i politici  utilizzavano accortamente argomentazioni che incitavano l’opinione pubblica  come se i dati  della criminalità fossero aumentati e ci fosse un rischio di criminalità dilagante», sicché «l’importante non era la realtà della situazione ma la percezione del crimine da parte dell’opinione pubblica. Si stabiliva un effetto di distorsione della realtà sulla base del soddisfacimento di stereotipi e pregiudizi fondati su aspetti irrazionali» (p. 16). Et voilà, in poche fresche e chiare battute,  il populismo penale!
Anselmi, sulla scorta delle analisi di John Pratt (Penal populism, 2007), indica  le tre principali caratteristiche del fenomeno: la glamourizzazione (glamourization), nel senso di una spettacolarizzazione mediatica della dimensione criminale, inesistente negli anni Cinquanta del Novecento; la destatisticalizzazione (destatisticalization), ossia il fatto di ignorare nel dibattito i dati statistici  reali,  per accrescere nell’opinione pubblica la percezione del rischio, da sfruttare elettoralmente; la giustizia riparativa ( restorative and reparative penalties), cioè in luogo del recupero del reo, caposaldo dell’illuminismo giuridico occidentale,  si enfatizza, la natura di riparazione sociale della pena verso la comunità,  nei termini brutali, senza alcuna mediazione sociale, del noi (i buoni: gli onesti) contro loro (i cattivi: i disonesti), punto.    
Della  degenerazione populista del diritto penale e delle auspicabili inversioni di tendenza si occupa Daniela Falcinelli (“Dal diritto penale ‘emozionale’ al diritto penale ‘etico’ “, pp. 21-96). Sulla scorta di studi italiani, in primis i lavori di L. Ferrajoli,  la Falcinelli individua  tre «classici capisaldi» del populismo penale: classismo, nel senso di esclusione, per l’appunto classista, dei potenti a danno della piccola criminalità di strada); pubblica sicurezza invece di sicurezza sociale, ossia sostituzione, indotta a livello di senso comune, dell’idea di  repressione poliziesca a quella di prevenzione in chiave di estensione dei diritti sociali; drammatizzazione dell’insicurezza, come ben dimostrato nel saggio di Anselmi.  Il che, nell'insieme cognitivo,  implicherebbe in prospettiva (perché si tratta di un fenomeno in atto) l’ imbarbarimento dei costumi e il forte rischio - quasi una certezza -  di una involuzione  autoritaria, se non addirittura totalitaria.  Di qui, la necessità, andando oltre la logica dell’emergenza (capace di  privilegiare soltanto la cattiva  risposta esemplare, simbolica, emotiva)  di un  ritorno alla ragione e al  diritto penale mite, eticamente profondo,  filiazione  di un “diritto vivente”,  opera pratica di giudici saggi e prudenti. Anche perché, come giustamente rileva Falcinelli, «la ‘riserva di legge’, nella sua costante ed ‘assoluta’ valenza si fonda del resto proprio sull’ipotesi che siano l’interpretazione e l’applicazione giurisprudenziali le attività capaci di produrre in concreto la certezza storica del diritto: attraverso un autocontrollo di tipo esclusivamente culturale e quindi temporalmente adattabile ed adattato. È il neo-illuminismo del diritto penale, che il giudice riconosce (da ‘bocca della legge’a) ‘custode del diritto’ » (p. 47).
Di smontare -  se ci si perdona la caduta di stile - sul piano statistico  la drammatizzazione populista  dell’ emergenza  penale si occupa  Stefano Anastasia (“Materialità del simbolico. I depositi del populismo penale nel continuum penitenziario”, pp. 97-122). Dati, copiosi e brillantemente commentati,  ai quali rinviamo il lettore. Quel che più  colpisce del suo saggio è l’ accurata  descrizione dell’ involuzione dell’ultimo ventennio: un vero e proprio terremoto a livello di  mentalità, come ad esempio a proposito delle amnistie. Osserva Anastasia: «  Ciò che appare davvero sorprendente, e che dà  senso a quel che accade - sul versante della giustizia penale e del carcere -  in tutto il ventennio è il mutamento nell’opinione pubblica (o in come essa viene rappresentata). Quella stessa società civile che per i primi quarant’anni della storia dell’Italia repubblicana ha tollerato, senza mai farne ragione di scandalo, il governo del sistema penale e penitenziario sulla base dell’uso routinario della clemenza diventato un topos della commedia all’italiana (amnistiato era il Memmo  Carotenuto de  I soliti ignoti così come Marcello Mastroianni di Divorzio all’italiana), avverte ora come intollerabile il ricorso a un simile strumento, mostrando piuttosto una propensione opposta, alla severità  nel giudizio  penale così come nell’esecuzione» (p. 120).  Perché? Secondo Anastasia,  lo stato securitario a tolleranza zero (sulla carta, ovviamente) avrebbe sostituito lo stato sociale, quale strumento di consenso, nell’immaginario collettivo e istituzionale. Per dirla con una battuta: dal tutti per uno, di derivazione socialdemocratica all’ognuno per sé di taglio più liberista che liberale. Con tutte le  distruttive conseguenze atomistiche del caso.      
Al di  là del valore euristico del libro, una ventata di aria fresca, come abbiamo ricordato, un filo rosso non più descrittivo ma  normativo  lo attraversa:  quello  del rischio di veder scomparire sotto i pesanti  colpi del populismo penale, la ragione giuridica, quale  manifestazione alta della nostra civiltà. Timore giustificato e  senza dubbio condivisibile. Tuttavia -   e su questo, se abbiamo capito bene,  dissentiamo dagli autori -  non basterà la riscoperta pura e semplice del patriottismo costituzionale, magari  coadiuvato da abbondanti e non sempre economiche iniezioni di  welfare.  
Certo, l’opera  del giudice saggio e prudente  nell’ambito del diritto vivente e la meritoria missione  della società civile, soprattutto  nelle sue diramazioni volontaristiche e assistenziali, possono essere importanti.  Nessuno lo nega. Però non confideremmo troppo - ci si perdoni lo scivolone "populista", nessuno è perfetto... - nell’opera di voraci  e pigre  burocrazie statali, talvolta autoelettesi perfino a custodi della costituzione, in realtà interessate più a se stesse che al buon funzionamento del sistema (ammessa e non concessa la stessa riformabilità).   
Purtroppo, il grande assente, come  trait d’union  fra  costituzione e società  continua ad essere la politica, che però sembra essere in cerca di scorciatoie.  E il populismo è una di queste. Sicché il cerchio si chiude.  O meglio, ciò significa che si deve ripartire  proprio dalla riforma della politica.  
Ma questa è un’altra storia. 
Carlo Gambescia  

                                          

giovedì 22 ottobre 2015

L’assoluzione di Erri De Luca
                               Ci scrive Claudio Ughetto...




Confesso di essermi trovato piuttosto confuso dopo aver letto il pezzo dell'amico Carlo Gambescia (*) sull'assoluzione di Erri De Luca, accusato di aver invitato i militanti NO TAV a sabotare la Linea ad Alta Velocità che dovrebbe arrivare dalla Francia e attraversare la troppo attraversata Valle di Susa. Un progetto di venti e passa anni fa su un fantomatico Corridoio 5 che doveva partire da Lisbona e passare per la Spagna per servire un'economia industriale inevitabilmente mutato rispetto alle analisi originarie. Un progetto, nei fatti, ormai sfilacciatosi al 60%.
Beninteso, Carlo ritiene come me inevitabile l'assoluzione dello scrittore, poiché entrambi crediamo nella libertà di opinione, che negli stati democratici è garantita. Come lui, ritengo che le scelte barricadere e violente debbano essere evitate. Pur rimanendo un NO TAV convinto, nei miei scritti non ho mai nascosto una certa disillusione verso la piega che il movimento ha preso nella seconda metà del decennio zero, sempre più espressione ideologica dei centri sociali e sempre meno caratterizzato per trasversalità ed eterogeneità dei suoi componenti.
Ciò che non capisco sono alcune affermazioni che mi sembrano semplicistiche, soprattutto se vengono da un raffinato sociologo come lui, che di solito riesce a farmi riflettere su punti verso cui non pongo la dovuta attenzione. È chiaro che non ci si può richiamare al sabotaggio in nome della terra e dell'acqua, come afferma De Luca; né la lotta NO TAV si può avvicinare a quella di Mandela contro l'Apartheid in Sudafrica, che peraltro vinse abbandonando la lotta armata e scegliendo la disobbedienza civile, che ha richiamato l'attenzione del mondo libero alla sua causa. Detto questo, non capisco come si possa sostenere che il progetto del TAV sia stato vinto democraticamente, tramite una maggioranza su una minoranza dissenziente che dovrebbe ricorrere al Parlamento per far valere le sue ragioni. Di che maggioranza parliamo? Quella dell'Ulivo e Forza Italia o quella seguente del PD con tutte le sue dissezioni? Quella del “Ce lo chiede l'Europa”, quando è noto che l'Europa si è limitata a chiedere un adeguamento delle strutture ferroviarie ad esigenze tecniche e di sicurezza? In realtà persino le ragioni di chi sponsorizza il TAV si sono sempre più confuse con l'andare degli anni, riducendosi a un vago slogan che suona pressapoco così: Opera cruciale per il paese. Il problema è capire di quale paese stiamo parlando.
È scientificamente assodato che le ragioni di chi si oppone a questo baraccone ferroviario sono ben argomentate. Molto più di quelle di Erri De Luca che ricorre a metafore e richiami da poeta dei poveri. Sono sufficienti le argomentazioni di Andrea De Benedetti e del compianto Luca Rastello, autori di Binario morto  per farsi due calcoli: l'opera dovrebbe essere terminata intorno al 2030, quando mia figlia - ora cinquenne – avrà vent'anni, e dovrebbe dare i suoi utili nel 2050, quando mia figlia avrà quarant'anni. Considerando che nella nostra epoca non è possibile fare piani economici che vanno al di là dei cinque anni, e che la tecnologia corre ben più veloce del treno, il progetto TAV suona un po' come la fantascienza di Stanley Kubrick, che negli anni sessanta preconizzava i viaggi su Giove per il 2001 e invece abbiamo avuto Internet.  Inoltre, non si è ancora capito se questo treno debba portare passeggeri, merci o entrambi. Negli States è conclamato che le merci su rotaia non possono superare i settanta km orari, non tanto per questioni di sicurezza ma perché a velocità più alte l'usura dei mezzi comporta costi troppo alti. Quindi è legittimo chiedersi cosa ci stiano vendendo con la sigla TAV.
Ma questo cosa c'entra con la democrazia? C'entra soprattutto con la comunicazione: non basta dire che la maggioranza parlamentare vuole il TAV. Se una parte dei cittadini non lo vuole, e non ha nessuno che la rappresenta, bisognerà ben che essa si attrezzi, con mezzi non violenti, per far sentire la propria opinione. Non si sabotano i cantieri, ma essere presenti, esattamente come in qualsiasi manifestazione o sit-in di protesta, è legittimo. E se arrivano i poliziotti per spostare i protestatari, è altrettanto legittimo non muoversi e anche farsi portare in galera. Sempre in modo non violento. Anche questa è democrazia.
E poi c'è tutta l'operazione informativa, direi metapolitica, che deve fare il suo corso. Per sapere di cosa si è parlato e si continua a parlare durante questi vent'anni, perché la sigla TAV non sia un nome favoleggiato dalle Figlie della Memoria, di cui si racconta con toni differenti (enfatico-retorici da parte di Erri De Luca, vaghi ed altrettanto enfatico-progressisti da parte dei promotori) senza più sapere cos'è l'oggetto narrato. Fino a trasformarlo in un oscuro oggetto su cui si costruiscono processi assurdi per rispondere a dichiarazioni da ribelli del terzo mondo. Sarà che l'Italia è un già un po' terzo mondo? Per il momento abbiamo ancora la libertà di opinione. Concordo con Carlo che non è poco.

Claudio Ughetto

(*) http://carlogambesciametapolitics2puntozero.blogspot.it/2015/10/assolto-erri-de-luca-la-fortuna-di.html

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Intanto,  ringrazio Claudio per il bel pezzo, brillante e ben argomentato.
Sì, è vero, la mia risposta è in qualche misura troppo semplice, forse semplicistica. Ma, come dire, se si scinde, come si deve, la discussione dalla decisione, come in tutti i processi democratici, una volta discusso, fino in fondo, si deve decidere. Ed è purtroppo ovvio - nessuno è perfetto (presupposto solo in apparenza banale) -   che la decisione presa, talvolta,  non sia quella giusta.  Di qui, ripeto, la possibilità, di correggere il tiro, convincere gli elettori delle proprie buone ragioni, sedere, da vincenti, in Parlamento, e “ri-decidere” di nuovo tutto.  E così via,  molto semplicemente. O se vuoi, Claudio, "semplicisticamente"... 
Certo, si tratta di un processo formale, con i suoi buchi neri, legati alla sostanza sociologica delle cose: rapporti di forza, valenza comunicativa, qualità delle classe dirigenti, interazione  tra oligopoli economici ( ma anche pubblici e politici), condizionalità varie  (come ad esempio il rapporto tra  tempi dell’innovazione  tecnologia e  tempi dell’ innovazione politica). Però è proprio questo e solo questo (il processo formale) - lo si chiami  pure un  "espediente", evitando sempre possibili e pericolose deificazioni -  che faticosamente siamo riusciti a costruire, riuscendo a  sostituire, almeno nella politica interna,  i  ballots ai bullets.  E non è poco.  
Naturalmente, si tratta di un equilibrio precario, che si regge sul buonsenso  di  capire, semplificando, che, politicamente (e proceduralmente), se oggi  tocca  a me, domani potrebbe toccare a te… E che quindi dovremmo darci tutti (maggioranza e minoranza) una “regolata”… Ciò significa che la prospettiva ballots,  va difesa a prescindere dai contenuti (che possono piacere o meno).  Un tempo  i retori  parlavano dell’ Idem sentire de re publica (nel nostro caso, oggi,   si potrebbe parlare, meno enfaticamente,  di  Idem sentire de metodo o procedure democratico-repubblicane).   Sicché, ogni volta ( ovviamente non  mi riferisco alle forme  non violente di disobbedienza civile), che la civile protesta  rischia di  trasformarsi  in protesta violenta, si esprime (piaccia o meno)  una preferenza di massima per i ballots.  Tradotto:  ci si colloca fuori  del processo descritto sia dal punto di vista storico (dai ballots ai bullets) sia formale (ballots invece di bullets).
Si dirà,  la storia non può essere costretta dentro le maglie di un processo formale. Giusto. Però lo si dica chiaramente, senza invocare, questo o quel nume umanitario, dal momento che allora lo scontro non è più tra un certo gruppo sociale e una parte dell’ establishment politico, o se si vuole tra una maggioranza  e una minoranza  che condividono le stesse regole,  ma - ecco il punto -  tra un potere costituente e un potere costituito.  E, soprattutto, si accettino allora  tutti  i pro e i contro di un conflitto polemico, che con la democrazia (come processo - faticosissimo -  di neutralizzazione del polemos attraverso la dialettica interna alle istituzioni ),  proprio perché basato sullo stato di eccezione,  non ha nulla a che vedere.   Tradotto: ci si avvia lungo una strada scivolosa  e pericolosa per tutti, che, in termini di escalation sociologica,  può condurre alla guerra civile... 
Sotto  questo profilo erano più “politicamente onesti”, pur nella loro ferocia,  i terroristi degli anni Settanta  dell'ineffabile  Erri De Luca che,  nonostante i  trascorsi e la cultura,  parla ipocritamente ( rilanciando a vanvera) di democrazia offesa, pur essendo al corrente dell'importanza delle procedure e della necessità, affinché la nostra democrazia possa sopravvivere, di rispettare le regole.       
Grazie ancora Claudio e un grande abbraccio.

Carlo Gambescia               



mercoledì 21 ottobre 2015

Perché si celebra Pasolini?
Cattiva digestione (della modernità)



Un approfondimento celebrativo dell’Ansa (*)  non è sicuramente  il modo  giusto per approcciarsi a Pasolini, ma lo è per capire il  significato diffuso  - sociologico -   di un preciso fenomeno: quello di un intellettuale romantico - da incasellare tra gli ottocenteschi avversari della Rivoluzione Industriale - che non poteva non diventare  icona ( o  "santino")  di una cultura italiana, prevalentemente antimoderna: cultura  che in particolare non ha mai digerito il progresso economico e sociale italiano post-1945.
Infatti, politicamente, Pasolini oggi piace ai fascisti, ai comunisti,agli avversari del“materialismo ”,  ai complottisti, agli anticapitalisti. Insomma, agli sconfitti, e giustamente, del Novecento. Che continuano, come ovvio, ad essere scontenti del secolo troppo breve. Di qui, l’occasione, per rilanciare,  ogni volta,  puntando sulla figura aureolata   dell’intellettuale pieno di contraddizioni salutari che aveva “capito tutto ma non aveva le prove”. Il che però, se può avere a malapena un senso romantico,  sul piano politico avalla le posizioni estreme.
Quanto però abbiamo detto (gli sconfitti, eccetera)  non spiega come mai  una grande agenzia stampa quanto di più ufficiale e rappresentativo dell’establishment italiano, insomma non un sito luddista qualunque,  veicoli la vulgata, per farla breve, del Pasolini  antimoderno.
Il punto è che le classi dirigenti italiane (politiche, economiche, intellettuali), salvo qualche eccezione, non hanno  mai del tutto  digerito la modernità: si pensi ad esempio,  all’economia, dove ancora si discute dell'importanza di uno stato patriarca, oppure al mondo della scuola e dell’università, dove privato è tuttora una brutta parola. Ma si pensi anche al faticoso cammino dei diritti civili e delle stesse istituzioni rappresentative liberali. Un inciso: come gli  storici seri ben sanno,  non è vero che Pasolini, sbandierasse in pubblico la sua omosessualità.  Si tratta di una  versione postuma ad uso e consumo dei processi di legittimazione della cultura gay: leggenda comprensibile  sul piano della costruzione identitaria (di gruppo)  ma  non su quello della verità.
Sorprende e addolora  ancora oggi,   la feroce  avversione   di molti intellettuali italiani, in genere di estrazione cattolica e marxista,  tra i quali Pasolini,  verso i processi di modernizzazione economica, tecnologica, sociale e culturale degli anni Sessanta del secolo scorso.  Certo, esistevano contraddizioni, ma il Paese, stava finalmente cambiando: si guardava avanti, con nuova fiducia. Purtroppo,  si tratta di un atteggiamento negativo che persiste: si pensi solo alla campagna della sinistra, e anche di buona parte del mondo cattolico, contro  il diavolo in persona: l “edonismo televisivo berlusconiano”. Battaglia di pura retroguardia che prosegue tuttora  nascondendosi dietro la difesa di puro principio della tv pubblica. Difesa, culturalmente a metà strada tra Heidegger e Bernabei.
Ecco, una società di questo tipo, ancora largamente antimoderna, o comunque contrassegnata da  ampie zone grigie, non può non celebrare mediaticamente, anche a livello ufficiale, Pasolini, che dell’antimodernità fu alfiere.  Il quale, di sicuro,  non avrebbe però approvato il matrimonio gay (per non parlare delle adozioni). 
Ma di questo, ovviamente, non si parla. 

Carlo Gambescia                

                   



martedì 20 ottobre 2015

Assolto Erri De Luca
La fortuna di vivere in Italia



Non ci sorprende l’assoluzione di  Erri De Luca, la nostra è una società libera.  Certo, il rischio è quello di usare due pesi due misure, come oggi nota, e per certi versi giustamente, la stampa di destra: rischio che però  va accettato perché la libertà di opinione  è il bene più prezioso in assoluto. Nella Russia Sovietica o di Putin, oppure nella Cuba di Castro, o nell’Argentina di Videla,   De Luca sarebbe finito a marcire in  carcere. Invece da noi, Paese libero, le idee, giustamente, non sono perseguite penalmente.   Però, ecco il punto,  possono essere discusse.
Sotto questo profilo colpiscono due affermazioni di De Luca, le seguenti:
-  “Confermo la mia convinzione che la linea sedicente ad Alta Velocità va intralciata, impedita e sabotata per legittima difesa del suolo, dell'aria e dell'acqua”.
 - “Sono incriminato per aver usato il termine sabotare, un termine che considero nobile, perché praticato da figure come Gandhi  e Mandela, e democratico” (*).
1) De Luca è talmente accecato dai suoi principi, assai vaghi ( che significa difesa del suolo, dell’aria, dell’acqua? Tutto e niente…), al punto di ignorare che la costruzione della linea ad Alta Velocità  è esito di un processo democratico che ha messo  in minoranza i seguaci dell’ipotesi contraria. Ora, la democrazia, come risposta,  imporrebbe ai "perdenti", non il “sabotaggio” ma la conquista del consenso in Parlamento  per poter cambiare le cose nel corso della prossima legislatura.  De Luca, invece, invitando, “verbalmente”,  all’azione diretta  si comporta da nemico  delle nostre istituzioni politiche.  Come il più classico dei fascisti. O se si  preferisce, come un leninista, pronto a usare la democrazia in modo opportunistico.
2) Il paragone con Gandhi e Mandela, rivela due cose: a) la natura spaventosamente egocentrica del personaggio, in realtà un mediocre scrittore con trascorsi, piuttosto pesanti, di estrema sinistra; b)  La perdurante incomprensione delle situazioni storiche reali, tipica del rivoluzionarismo anni Settanta  del secolo scorso, che ben si prolunga in De Luca.  Ieri, la sinistra pseudo-rivoluzionaria, si illudeva di vivere a Pietrogrado nel 1917, oggi  nel  Sud Africa o nell’ Alabama degli anni Sessanta, ripetendo così  con i No Tav  gli stessi tragici errori degli intellettuali di allora,  fiancheggiatori di sabotaggi via via sempre più gravi fino a sfociare in atti di  terrorismo verso le  persone.
Erri De Luca, continua a vivere, veramente, su un altro pianeta.  E invece, per sua fortuna risiede in Italia.  Ma va bene così.

Carlo Gambescia