sabato 31 dicembre 2016

La "sindaca" e "avvocata"  Virgina  Raggi  non sa scrivere neppure le ordinanze…
I botti e le  botte del Tar



Obama, Putin, Trump? No, desideriamo dedicare l’ultimo post del 2016 a Virginia Raggi. Che ha confuso i botti con le botte del Tar.  Ovviamente, parliamo del congelamento da parte del Tribunale Amministrativo Regionale  dell’ ordinanza, con cui la “sindaca”,  aveva vietato i botti di Capodanno:  tutti,  dalle miccette per i  bambini  alle famigerate  bombe Maradona.  Classico esempio di totalitarismo ambientalista.  Per il nostro bene, of course.      
Non si capisce perché, ma i giornaloni non hanno dato il giusto rilievo  alla cosa… Bontà natalizia? Senso di colpa per aver consegnato il Comune di Roma a un pugno di analfabeti politici? Italico servilismo mediatico  verso i futuri potenti? Difficile dire. Ma perché l'ordinanza è stata congelata?  Si legga qui:

«Il decreto cautelare monocratico del Tribunale amministrativo, d'altronde, non lasciava grandi spazi di recupero: stoppando l'ordinanza della sindaca n. 145 del 22 dicembre scorso, ha spiegato che "il provvedimento impugnato, nella sommaria delibazione propria della presente sede cautelare, non appare sorretto da un'idonea istruttoria né, tantomeno, da una sufficiente motivazione, tenuto in particolare conto che trattasi di un'ordinanza contingibile ed urgente che inibisce l'uso di qualsivoglia tipologia di materiale esplodente, per giunta sull'intero territorio comunale"» (*).

Capito? La  premiata ditta  Raggi & Company  non sa  neppure  come procedere  alla redazione di un’ ordinanza.  E quel che è  peggio,   non ha uno straccio di collaboratore  all’altezza della situazione.  E non  riesce a trovarne.  O meglio,  non vuole.  Per quale ragione? Perché,  come dicevano i nonni,  i pentastellati del Campidoglio  sono ciucci e presuntuosi.  Un mix di imbecillità e vanità (che fa pure rima con onestà… ma solo rima…),   che sta portando  Roma alla rovina.  
Che ci vuole, per dire,  a  trovare  un avvocato vero, non come la signora Raggi, in grado di  spiegare come si fanno le cose?  Niente. “loro”, i nerd saputelli, duri e puri,  preferiscono andare su Wikipedia. E, allora, beccatevi il pesce in faccia,  da parte giudici amministrativi.     
Insomma,  oltre a non saper leggere i bilanci,  a fare i copia-incolla on line,  i pentastellati del Campidoglio credono -  ormai è ufficiale -  che il diritto amministrativo sia una branca del diritto condominiale…  
Colgo l’occasione, per ringraziare di nuovo il centro-destra  per aver favorito, puntando sull’ astensionismo e il  qualunquismo di stampo grillino,  l’elezione della Raggi.  
Buon 2017 a Berlusconi, Meloni, Salvini.  Di cuore. Come un vaffanculo.

Carlo Gambescia

                  

   

venerdì 30 dicembre 2016

Bilancio 2016
L’Italia, non è un paese per liberali?

Ecco la prima pagina  di “Libero”,  30 dicembre 2016.   Che dire? Una vergogna.  Il titolo conferma  che l'Italia  non  è  paese per  liberali.  O no?  Di sicuro,  quel che è più triste  è che  parliamo di un quotidiano che si definisce liberale.  In realtà - pensiamo all’Italia -  non è stato sempre così. Fortunatamente.  E qui è necessario,  prima  di proseguire nell’argomentazione, fornire  una definizione di liberalismo, diciamo pratica.  Per avere una pietra di paragone. 
Il liberalismo  implica l'accettazione di   tre punti fondamentali: a) la centralità di un individuo libero responsabile, che però non rifiuti il rischio, soprattutto economico; b) la politica come civile, composto, pacato discorso pubblico tra i rappresentanti del popolo; c) la sostituzione,  per cerchi concentrici ( partendo dall'individuo), dell’internazionalismo economico al particolarismo politico. Tradotto: Italia, Europa, Mondo.
Pertanto -  come fa  “Libero” -   difendere il singolo, coccolandone, come dire, l'individualismo protetto;   disprezzare la classe politica per partito preso, usando un linguaggio feroce e triviale;  rinfocolare, a prescindere,  l’odio tra le nazioni,  non è  sicuramente  liberale. Si pensi solo al titolo  contro l’Europa:   ci riporta indietro di duecento anni.  Fa pensare -  semplificando -   agli “economisti” codini della Restaurazione, anti-risorgimentali, che auspicavano il ritorno all’Italia delle dogane pre-rivoluzionarie. In una parola a un’Italia pura espressione geografica… Un’Italia anti-liberale (*). Certo, il Risorgimento  non fu una passeggiata, ma impose un doppio processo di unificazione interna e apertura esterna, che nonostante il protezionismo crispino e fascista, le disavventure coloniali e l’ultimo disastroso conflitto mondiale,  ha fatto crescere e prosperare l’Italia nel nome di una visione, piaccia o meno,  liberale. 
Una concezione politica  che, "Libero" rifiuta,  nonostante la testata inneggi alla libertà. Perché  "Libero" difende, dinanzi all'unificazione europea, le stesse  ragioni dei reazionari pre-unitari. Roba vecchia, insomma, aria  fritta e rifritta in salsa (avvelenata) anti-liberale.  Certo, oggi il nostro Cavour, si chiama Angela Merkel, che in gioventù studiò il russo, Renzi ha la centesima parte del fegato di  Mazzini, e il   solo accostamento del  nome di Gentiloni a Garibaldi, può provocare ilarità. Per non parlare, in un' Europa repubblicana e senza veri punti di riferimento politico, dell'assenza di  figure politicamente  energiche come Vittorio Emanuele II, Napoleone III , Palmerston. Con una analogia di fondo,  però. Anche allora  il popolo, in larga parte, remava contro.  Non capiva, come avviene oggi, l’importanza del processo di unificazione. Il liberalismo, piaccia o meno, è per pochi ma  buoni: una vera aristocrazia dell'intelligenza, della cultura e della politica. Diremmo dell'eleganza politica, talvolta però, fin  troppo esibita da alcuni professori. Chiamasi anche "dottrinarismo".  E in ciò risiede la forza e la  debolezza del liberalismo. Ne va preso atto, onestamente.   
Diciamo però, altrettanto onestamente,  che l’idea liberale è  grande e  gli uomini (spesso) piccoli.  E, almeno per  oggi,  questo passa il convento...  Bisogna perciò  resistere. L'Italia può tornare ad essere un paese per liberali in un'Europa liberale. Ciò che è importante è non tradire l' "ideale", non farsi abbindolare, se ci si  perdona la caduta di stile,  dalle "sparate"   di     “Libero”  e  della  destra italiana  pseudo-liberale, regredita e appollaiata  su posizioni fasciste e populiste.   
Viva l’Italia, viva l’Europa, viva il Liberalismo.   Buon  2017 a tutti i lettori.

Carlo Gambescia


(*) In argomento si legga il bel saggio di Corrado Rainone, equilibrato e ancora godibile, Liberisti e liberali: pensiero economico e pensiero politico in Italia, avanti il 1861, in  AA.VV.,Nuove questioni di storia del Risorgimento e dell’Unità d’Italia, Marzorati, Milano 1976 pp. 513-564.

giovedì 29 dicembre 2016

A proposito delle polemiche ( e non solo, purtroppo) su “Stato civile”
Quando la televisione non aiuta...

Le società  sono meccanismi delicati.  Dal punto di vista delle classi dirigenti, occorrono prudenza e senso della misura. Senza, ovviamente,  trascurare l'importanza di un  diffuso rispetto  verso l' altro (cosa in verità più difficile da ottenere, considerata la natura pericolosa dell'uomo). Valori che servono come correttivi per evitare che lo specifico sociologico, cioè quell’elemento  processuale e collettivo che assumendo forza propria  tende ad andare  oltre le scelte iniziali degli attori individuali (se si vuole, motivate dall’etica delle intenzioni), trasformando le opposizioni ideali in contrasti verbali e i contrasti in feroci conflitti reali.  Chiamasi, anche, eterogenesi dei fini sociali(da individuali a collettivi). 
Si tratta di un meccanismo a spirale, che può divenire incontrollabile, a prescindere, dai meccanismi legislativi, posti in essere per evitare opposizioni, contrasti e conflitti.  Dal momento che sul piano collettivo ( della generalità delle opinioni e  della logica a spirale, di un individuale che si fa collettivo attraverso l' emulazione al ribasso fondata sulla semplificazione emotiva),  il legale, ciò che è sancito dalla legge,  non sempre coincide con il giusto: non il giusto in senso assoluto, ma con il giusto, secondo alcuni gruppi sociali.  Che, in quanto tali,  si esprimono, come possono,  più in base alle emozioni e ai riflessi carnivori collettivi che a ragionate cognizioni individuali:  la conoscenza, piaccia o meno, sociologicamente parlando, si trasforma in virtù solo per pochi. Di qui, l’inevitabile riprodursi di  opposizioni, contrasti, conflitti collettivi, dagli esiti imprevedibili e assai  pericolosi per l’ intera organizzazione sociale.  
Si pensi alle polemiche sui Social, sconfinate nell’aggressione verbale (per ora), a una coppia di ragazze sarde, seguite alla programmazione di “Stato civile”, trasmissione rivolta a celebrare, all’insegna dell’identità tra legale e giusto, il matrimonio tra persone dello stesso sesso.
Parlavamo di prudenza,  senso della misura, rispetto dell’altro. Doti, di cui, come detto, dovrebbero disporre le classi dirigenti e colte: al centro, almeno in teoria, di ogni equilibrio sociale e organizzativo. E invece...  Ci spieghiamo meglio.  
Dal punto di vista di una società dei diritti civili  va benissimo, l’istituzione dei registri e quant’altro (per quel che ci riguarda siamo  favorevoli anche alle adozioni), ciò che non va bene  è lo sbattere in faccia a chi la pensi diversamente, come giusta in assoluto, l’identità tra  legalità e giusto relativo (a un certo gruppo che  condivide quei valori relativi), frutto avvelenato di una specie di riflesso carnivoro sociale, che evidentemente non si riesce a controllare neppure in alto: quel voler stravincere, fino al punto di umiliare e distruggere l’avversario, presentato come nemico assoluto. 
Si dirà,  “Stato civile” ha una funzione educativa.  No,  egemonica, nel senso  che si propaganda, a colpi di riflessi carnivori,  insieme al diritto (sacrosanto per alcuni, e anche per chi scrive),  uno stile di vita (meno sacrosanto per altri, ad esempio i cattolici,  ma indifferente per chi scrive). Suscitando inevitabilmente, per reazione, i riflessi carnivori di questi ultimi - i cattolici -   lungo  la scala dell'intelligenza collettiva, che, come noto, degrada in chiave emozionale, man mano che si scende socialmente. E per tutti, ovviamente,  cattolici o meno.  Ora,  che questo processo di degradazione sia favorito  dalla  Tv di stato è vergognoso,  perché si fa coincidere, in chiave assolutistica, legale e giusto: classico comportamento da stato padrone dell'etica del discorso pubblico. Roba totalitaria o giù di lì.  Anche le persecuzioni degli Ebrei nella Germania hitleriana erano ritenute giuste perché legali.  Ovviamente, lo erano  solo  per i giuristi  e  i legislatori nazionalsocialisti…
E che lo stato -   liberale per giunta -   si schieri televisivamente, ancora peggio se scolasticamente, con una delle parti in campo,  rischia di trasformare, secondo un meccanismo a spirale, le opposizioni ideali in  contrasti di idee,  e i  contrasti di idee in guerre civili.  E qui torniamo allo specifico sociologico, la cui pericolosità, come si spera di avere spiegato,  andrebbe tenuta in seria considerazione, evitando di inasprire animi e posizioni dal momento che il livello cognitivo medio, soprattutto sul piano del controllo delle reazioni,  è piuttosto basso: basta  poco per  far scivolare l'individuo - processo  ora  facilitato dai meccanismi  irriflessivi dei Social -  nel "collettivismo" dell' istintuale e del carnivoro.  
Attenzione,  il principio dello specifico sociologico,  vale pure per gli oppositori cattolici:  in una società complessa, su basi relativistiche,  anche l’idea della famiglia, per così dire,  tradizionale, rappresenta una delle opzioni in campo. Servono quindi, da tutte le parti, soprattutto se dirigenti, senso della misura, prudenza e rispetto dell’altro.
Ecco perché  trasmissioni come “Stato civile” non aiutano.                                 

Carlo Gambescia

mercoledì 28 dicembre 2016

 La Siria,  l’Isis  e il commento di un lettore    
Le ragioni della guerra e della pace



Un lettore mi scrive:

Gentile Carlo, la seguo sempre con molto piacere, posso chiederle di essere più dettagliato in proposito? Come Europa dovremmo  occupare la Siria per sradicare l'ISIS? Quali sono gli altri nemici e quali mezzi dovrebbe usare l'Europa? Invasioni preventive? E sul piano interno? Grazie 
Jacopo Panunzio (*)


Domanda interessante,  per varie ragioni. Merita un post.
In primo luogo, si tratta di un quesito da Social. Che cosa intendo dire?  Si presuppone che  l’autore del post sia in grado di rispondere a tutto. Cioè che non si abbia dinanzi un modesto sociologo, ma un tuttologo.   Qualcuno penserà: troppo facile, metterla così, lanci il sasso per poi nascondere la mano:  se, le cose stanno così (non sei un tuttologo),  delimita il campo degli  argomenti da trattare, in questo modo eviterai domande  “tuttologiche”.  Cosa che, in verità,  già faccio, privilegiando, come i miei lettori sanno,  il lato sociologico delle questioni.   Però poiché siamo sui Social  - un poco come capita al  professore  finito  in mezzo  ai quattro amici del bar sport - si esigono risposte, a prescindere, dal “maestro di color  che sanno”... Ergo. 
In secondo luogo - ed entro nel merito del quesito -  non è facile rispondere alla domanda, oltre che soggettivamente (la mia preparazione specifica), oggettivamente ( perché i temi della guerra e della pace, di regola,  infiammano i cuori).  Vengo però subito al punto. 
Comprendo  lo  scetticismo (così mi pare) del signor  Panunzio: l’Europa è politicamente disunita; le forze militari inadeguate (anche se l'Isis, per ora, sul piano della guerra guerreggiata, in campo aperto,  più debole di noi); la popolazione europea debellicizzata;  il Medio Oriente, dulcis in fundo,  un ginepraio politico- religioso.  Per non parlare del cinismo (ma nelle relazioni inter-statali è la regola) dei possibili alleati esterni ( Stati Uniti,Russia e indotto turco): come convincerli a una grande alleanza  con un'Europa decadente?   In effetti,  in questo quadro (disastroso) puntare sulla guerra preventiva, l'occupazione, eccetera,  ammesso che si riesca a  “mettere insieme una squadra”,  sarebbe rischioso. Anche perché le guerre (se mal condotte) possono innescare rivoluzioni interne. Una guerra perduta potrebbe uccidere la liberal-democrazia europea. Se vinta, però, rafforzarla (certo, con controindicazioni circa il nuovo ruolo dei militari vittoriosi). 
In alternativa, si potrebbe continuare a sperare che la Russia, stabilizzi da sola la situazione, che, magari,  gli Stati Uniti, a loro volta, facciano un passo indietro (accordandosi con Putin, ma a quel punto il “bottino” di guerra sarebbe cosa loro), che Sciiti e Sunniti riescano a regolare in solitudine  i propri conti  e  che, di conseguenza,  diminuiscano  i flussi di profughi verso l’Europa. In questo quadro, noi dovremmo solo preoccuparci di gestire la sicurezza interna dell’Europa e il flusso (calante, ci si augura) dei profughi. E questa,  in teoria,  sarebbe la scelta meno rischiosa, quantomeno sul piano del controllo sociale interno.  Sorvolando sulla triste sorte delle  vittime di sporadici ( come si spera) attentati terroristici. Sicché, probabilmente il regime liberal-democratico, anche se blindato sul piano delle libertà (ma pure una guerra esterna imporrebbe vincoli),  sarebbe in parte sfigurato, ma complessivamente  meno a rischio. Tuttavia,  fino a quando?  Soprattutto se la pressione terroristica, dovesse aumentare fino a farsi insostenibile?
Tertium non datur

Carlo Gambescia  

(*)   Il commento del   signor Panunzio è in coda a questo post: 
http://carlogambesciametapolitics2puntozero.blogspot.it/2016/12/lattentato-jihadista-di-berlino-il.html
     

martedì 27 dicembre 2016

La Chiesa e il boss mafioso
Il riflesso carnivoro


 Non c’è nulla di peggio della fusione dei due poteri, laico e religioso, contro qualcuno o qualcosa. Si pensi al divieto “coevo”, posto dal Prefetto e dall’Arcivescovo di Bari alla celebrazione di  “una  messa  in  suffragio di un boss ucciso in Canada” (*) 
Inutile qui  discutere delle ragioni formali invocate dalle autorità civili e religiose, dal momento che il punto è un altro. Quale? Che in una società libera, almeno in linea di principio,  lo Stato dovrebbe occuparsi di altro.  Invece,   la Chiesa sì. 
Il boss, in vita,  non si è comportato bene? Ha peccato?  Non è degno, neppure di una Messa di suffragio? Ok, ma sia la Chiesa a decidere.  E per prima.  Ovviamente, senza nascondersi, dietro motivazioni procedurali. Dica chiaro e netto, che si tratta di un peccatore, eccetera, eccetera. Anche perché la presa di posizione può servire come esempio per altre pecorelle smarrite.  Ma che addirittura, sia lo Stato a pronunciarsi per primo e la Chiesa seguire a rimorchio il  Prefetto,  è veramente  incoerente.
Si dirà, la mafia  va combattuta con ogni mezzo. Che male c’è, se Stato e Chiesa si coalizzano per una buona causa? Giusto.   E se però  un giorno, si coalizzassero, invocando lo stesso criterio, contro  le messe in suffragio di un  difensore dei  diritti civili dei  gay? Oppure di un avversario del matrimonio tra persone dello stesso sesso?  Sarebbe la peggiore forma di dittatura.
Proprio ieri, parlavamo dello stato di eccezione, quindi della necessità, nelle emergenze di sorvolare sui princìpi, per contrastare il nemico alle porte. Si tratta di aderire a  una logica, politica e sociologica (della sopravvivenza, per semplificare), che  ha una sua fondatezza nei fatti  nudi e crudi. Che però, sul piano dell’opzione,  riguarda i poteri pubblici, non quelli religiosi. Nel senso  che la Chiesa, a differenza dello Stato,  proprio perché non essendo di questo mondo ma  dovendo parlare al mondo (per riprendere un detto famoso), dovrebbe essere accanto a tutti, misericordiosamente, come del resto ci ripete Papa Francesco quasi ogni giorno. Ergo,  anche a un  boss mafioso. Defunto. Quindi non più di questo mondo.
E invece no.  Per quale ragione? Perché  la Chiesa cede al riflesso carnivoro di questo mondo, accodandosi, per sopravvivenza,  alle decisioni delle istituzioni pubbliche.  Il che prova  due cose: uno, che la sociologia e la metapolitica  sono scienze esatte (o quasi...),  almeno in questo mondo, e, due,  che  la Chiesa, nonostante i grandi proclami, è di questo mondo.  Proprio non ce la fa, insomma, ad elevarsi.
Ciò  prova  anche una terza cosa: che la Chiesa  non è neppure liberale. Ma forse questo,  già si sapeva…

Carlo Gambescia 

lunedì 26 dicembre 2016

La polemica sulla diffusione dei   nomi degli agenti
L’insostenibile leggerezza del segreto




Polemica tragicomica.  Tragica perché  si è trattato, comunque, di un evento sanguinoso, con un morto e un ferito, che in altra situazione avrebbe visto gli stessi poliziotti,  presentati come eroi, indagati da qualche magistrato progressista.   Comica, perché, nella società dello spettacolo, il segreto non è di casa. Chiedere a Pulcinella.  Si potrebbe parlare di una sua  insostenibile leggerezza… 
Si dirà,  magari  giustamente,  che la privacy  degli agenti  andava  tutelata e che darne i nomi in pasto ai mass media  - per non parlare dei Social -   li ha   trasformati in bersagli. 
Il punto però non è questo (o almeno non solo). Troppo comodo discutere la cosa in termini di diritto privato... Diciamo  che l’intera operazione andava gestita meglio sotto il profilo della segretezza. Ma come? Se nessuno, dal Ministro dell’Interno al semplice piantone,  sembra  non  essere più  capace di rinunciare  alla sua libbra di pubblicità?
Oggi,  l’ Apparire, come dicono i filosofi post-moderni,  è preferito all' Essere.  Ecco il succo della società dello spettacolo. Nulla di male, per carità, ma la politica -  anzi il politico -   ha le sue  regole. I nemici, prescindendo dal campo di battaglia (dove la guerra è aperta),  vanno eliminati in silenzio, almeno a far tempo dall’invenzione dell’arco e delle frecce.  E,  soprattutto,  il silenzio deve scendere, per così dire, su coloro che si occupano della bisogna. Il mistero, oltre a favorire lo spirito di corpo, accresce nella possibile vittima (nemica) il valore di una  minaccia,  legato  alla  sua sparizione nel nulla, sparizione che ne vanifica qualsiasi promessa di  ruolo pubblico. Il silenzio, uccide la memoria della vittima.  
Naturalmente, siamo dinanzi a regole contrarie al galateo democratico dove la pubblicità è tutto, il segreto nulla. Addirittura il galateo progressista attribuisce alla verità un valore rivoluzionario. Il che è vero, ma il sapere come comportarsi al tavolo delle regole democratiche, dicendo sempre la verità, non salva dal  possibile rovesciamento di quel tavolo da parte dei nemici della democrazia, che usano il tavolo - e la verità -   in base a convenienze antidemocratiche.
Pertanto della verità, e della opportunità di riferirla,  decide sempre lo stato di eccezione: quando il nemico ci indica e aggredisce.   Di conseguenza,  chi usa il segreto, per coprire verità scomode, come l’eliminazione di pericolosi avversari (inclusi i nomi di coloro che, per così dire, "provvedono alla bisogna"), ma utili per difendere le istituzioni democratiche dai suoi nemici,  compie azione meritoria. Tuttavia,  nella società dello spettacolo  chi è in grado di tacere?  E nella società democratica chi è grado di giudicare  lo stato di eccezione ?           


Carlo Gambescia                  

domenica 25 dicembre 2016

L’attentato jihadista di Berlino
Il nemico,  questo sconosciuto



Parlare del nemico il giorno di Natale,  può sembrare non appropriato,  perché soprattutto quando si celebra la Natività, come insegna una certa tradizione cristiana (movimentista più che istituzionale), si dovrebbe porgere l'altra guancia, o comunque occuparsi dei poveri e dei bambini. Il tradizionale pranzo natalizio della Caritas riassume bene questo atteggiamento.  Che dire? Chi ci crede si accomodi pure,  noi  preferiamo occuparci anche oggi di questioni più serie.  
Nel nostro  libro  Passeggiare tra le rovine (*) ci interroghiamo, tra le altre cose, su una questione interessante.  Qual è  il principale  segnale di    decadenza di una civiltà? Quello di non saper più riconoscere il nemico. Attenzione,  parliamo della fisiologia del comportamento politico, che implica il riconoscimento del nemico (come dell’amico o alleato),  e  non del suo lato patologico: quel pretendere di fare la  guerra per la  guerra. Un esempio della prima politica, per i tempi moderni, può essere rappresentato dall’Impero britannico, della seconda, dal Terzo Reich hitleriano.
Ora, l’Europa e l’Occidente, come provano le reazioni all’ennesimo attentato jihadista,  sembrano non capire  che siamo in guerra e che il nemico punta decisamente alla nostra distruzione.  Quale nemico? l’Islam, politicamente radicale (il che però non alleggerisce la connivenza, quantomeno di tipo passivo, dell’Islam moderato, nelle sue varie tendenze e divisioni religiose): un’inimicizia sostanzializzata sul campo,  dal minuscolo (per ora) stato islamico di confessione  sunnita.  Senza però dimenticare  che l’universo sciita che si contrappone all’Isis non è certo  più tenero nei riguardi dell’Occidente… Insomma,  pur non marciando uniti, sunniti e sciiti, come dire, “colpiscono” insieme, almeno in termini di durissimo  conflitto ideologico-politico,   come prova il comune e smisurato odio verso lo stato d’Israele, odio, come dire riflesso, verso un’  importante avamposto della nostra civiltà.
Insomma,  un camion, guidato da un terrorista dell’Isis,  massacra, sotto Natale inermi cittadini. E qual è la  prima reazione politica, non solo in Germania, della sinistra ? Continueremo ad accogliere immigrati, come prima.  E della destra? Chiudiamoci a riccio, non facciamo più entrare nessuno. Sono due reazioni, che ignorano un fatto politico: che il nemico ci ha dichiarato guerra e che vuole distruggerci. Non basta porgere l’altra guancia o chiudersi in casa.
Morale: destra  e sinistra, all’unisono,  non vogliono rispondere alla guerra con la guerra.  In qualche misura, nazionalismo (destra) e internazionalismo (sinistra)  finiscono per abbracciarsi, perché non riescono a comprendere  che l’egoismo e l’altruismo non pagano.  Serve il realismo politico:   che insegna che il nemico va sradicato subito, e con ogni mezzo, per quattro ragioni:  1) per evitarne il rafforzamento; 2) come monito verso i possibili “emulatori”; 3) come “ginnastica” militare; 4) come crescita del tasso di autostima nei propri valori.   
Certo,  non ci sfugge, quanto  il cinismo  governi il rapporto tra gli stati, e  come sia difficile,  quando non c’è convergenza di interessi,  la nascita di un’ alleanza. Però qui siamo dinanzi a qualcosa di più grave,  l’incapacità di comprendere che la minaccia islamica, oltre ad essere il portato di un’inimicizia secolare (quindi un fatto storicamente radicato), sia un’autentica sfida di civiltà:  qualcosa che dovrebbe  unificare  valori e interessi contro il nemico principale. E invece, purtroppo, ci si balocca con i buoni sentimenti o si sognano le croci di fuoco sotto casa.  
Il che, comunque la si metta, Natale o meno,   è un segno inconfutabile di decadenza.  

Carlo Gambescia





martedì 20 dicembre 2016

Camion contro la folla a Berlino, probabile attentato jihadista
 Pareto e  i pericoli di un mondo  post-borghese


Quel che è accaduto a Berlino, altro probabile e  feroce attentato jihadista   (per non parlare dell’esecuzione in diretta dell’ambasciatore russo in  Turchia ad opera di un altro esaltato islamista) ci  ha ricordato una pagina di Pareto. Leggiamola insieme.

“ I borghesi vogliono due cose contraddittorie, cioè. 1) che siano difesi i loro beni; 2) che non si versi il sangue degli avversari. Quindi  carabinieri e soldati debbono andare a difendere quei beni, e per non urtare i sensibili nervi della borghesia debbono lasciarsi accoppare  senza fare uso delle armi” (*).

Al di là della contestualizzazione ( Pareto si riferiva ai conflitti sociali di inizio Novecento, che vedevano i socialisti  e sindacalisti rivoluzionari  all’attacco e la borghesia, impaurita, sulla difensiva), resta l’importante riflessione su un certo tipo di mentalità, fiacca se non da veri e propri rammolliti, che oggi sembra prevalere a tutti i livelli:  si temono e condannano  gli attentati, ma non si vuole fare una guerra, inchinandosi alle ragioni di un pacifismo e umanitarismo  diffusi tra le classi dirigenti come tra la gente comune:  atteggiamento  decadente  che non ha nulla a che vedere con il coraggio se non la temerarietà del borghese costruttore di una  civiltà che probabilmente non conosce eguali nella storia umana.   
In questo senso si potrebbe parlare  di malinconica vittoria del post-borghese universale, satollo e vigliacco,  che si illude  di potere conservare, senza spargimenti di sangue,  ciò che invece il borghese si è guadagnato sui mari, nelle fabbriche,  negli studi  e anche sui campi di battaglia,  mostrando  di non aver paura di nessuno, con l'operosità, la determinazione,  l'astuzia e quando necessario il ferro della spada.
Davanti al nemico, per batterlo, dobbiamo tornare alle radici,  allo spirito corsaro:  a Drake.
Su la testa! 

Carlo Gambescia
      




(*) Vilfredo Pareto,  Lettere a Maffeo Pantaleoni, a cura di G. De Rosa,  Banca Nazionale  Nazionale del Lavoro,  Roma 1960, vol. II, pp. 91-92 (lettera n. 587, Céligny, li 4 maggio 1908)  

lunedì 19 dicembre 2016

Gli "Annali dell'economia italiana",  alla scoperta di  un gioiello storiografico
Gaetano Rasi, studioso che la destra neofascista non si meritava…



Lo scorso 20 novembre è scomparso Gaetano Rasi (1927-2016), docente universitario di sociologia economica,  uno dei pochi a destra (la destra neofascista),   con Giano Accame ed Ernesto Massi,  a capire l’importanza dello studio dell’economia e della sociologia, ovviamente non come umili ancelle della mistica del vincere-e-vinceremo. E in un ambiente dove si riteneva e ritiene che economia politica e capitalismo pari  sono  e che la sociologia sia  roba da comunisti.  Inutile, spiegare loro, che non è così. Oppure provare a far andare un "fascio"  oltre la copertina con il capoccione di Mussolini. Fidatevi.
Rasi, persona coltissima, collaboratore di giornali e riviste scientifiche, fondatore, tra gli altri,  dell’ Istituto di Studi Corporativi,   si adoperò -   sintetizzando  (e semplificando) il suo pensiero -   per conciliare il corporativismo con la dottrina keynesiana, sullo sfondo di una cultura politica mazziniana, per limitarsi a un  apporto intellettuale pre-fascista, però fondamentale per capire  l’evoluzione del suo pensiero in direzione  di una società partecipativa all’insegna del corporativismo democratico, e quindi della composizione del conflitto sociale,  nel quadro  di una politica economica di tipo keynesiano (qui il suo sito: http://www.gaetanorasi.it/ ).
Frontespizio, dal volume I
Ora, si può non essere d’accordo con l’impostazione di Rasi, per carità. Siamo i primi.  Però,  non si può non  riconoscere di trovarsi dinanzi a un pensiero brillante, assai lontano dagli esibizionismi e narcisismi di un microcosmo tristemente abituato alle frasi fatte e alle parole d’ordine. Per dirne una: Adriano Romualdi, che, intellettualmente parlando,  nel mondo neofascista,  non era certamente l' ultimo arrivato, liquidò, la cosiddetta sinistra nazionale, da cui Rasi proveniva, asserendo che  bastava e avanzava la socialdemocrazia.
Dicevamo della sua scomparsa. Nei necrologi - basta farsi un giretto  web -   si elogia il camerata,  la fedeltà all’idea eccetera, eccetera,  ma non si fa cenno, oppure lo  si cita di sfuggita, magari sbagliando il titolo, quasi  come una cosetta priva di qualsiasi valore, a quel gioiello della storiografia economica, da lui diretto: gli Annali dell’economia italiana, in continuazione dei famosissimi annali fondati da Epicarmo Corbino, studioso, uomo politico liberale, ministro nel secondo dopoguerra.  Infatti, i primi cinque volumi dell’opera ripropongono i testi del Corbino, gli altri  - parliamo di un’opera in 14 volumi, tomi complessivi 26, inclusa l’appendice iconografica, pubblicata dall'Ipsoa tra il 1981 e il 1987 -  sono diretti da Rasi e curati da un gruppo di eccellenti collaboratori, come ad esempio Giano Accame, Giuseppe Parlato (oggi Presidente della Fondazione Spirito-De Felice, di cui Rasi era Presidente Emerito), Francesco Perfetti, Guido Pescosolido, Giorgo Vitangeli. Un’opera che non ha uguali, se non piuttosto scialbi, caratterizzata da un' intelligente sensibilità di destra,  aperta ad altri contributi politici, come ben comprovano i testi dei tre volumi dell’appendice  documentaria e iconografica, I-III   ( http://gaetanorasi.it/annalieconomiaitaliana.pdf ). 
Gaetano Rasi (a sinistra) con Giuseppe Parlato

In pratica, studiosi e lettori comuni (anche colti),  possono disporre di una visione completa (più che panoramica) e ragionata della storia dell’economia italiana, e più in generale dei suoi legami con la società e la politica,  dal 1861 al 1977.  Un'opera storica solida, ben curata e scritta,  dove le ragioni strutturali del ciclo economico, vincolate a quello dello sviluppo, necessario perché fondamentale per la modernizzazione italiana, trovano una ricomposizione, diremmo armonica,  che va al di là di qualsiasi presa di posizione ideologica (liberista o statalista che sia, per usare termini giornalistici). Insomma, un'opera da riscoprire. E magari, proseguire fino ai giorni nostri. 
Concludendo, serietà storiografica e grandi capacità di lavoro e applicazione. Ecco la ricetta, semplicissima,  di Gaetano Rasi, fascista intelligente, weberiano (capace di distinguere tra etica della responsabilità e dei princìpi),  dialogante, come del resto era Giano Accame,  e soprattutto  aperto alla lezione delle scienze sociali. E mai  in chiave strumentale.   L’esatto contrario di ciò che accadeva e accade in un ambiente, politico e umano,  che ideologizza tutto, ma in modo superficiale, e che  sopravvive tra i relitti di  un passato mummificato.  E che, per dirla tutta, uno studioso come Rasi, probabilmente non se lo meritava.

Carlo Gambescia                    
    


sabato 17 dicembre 2016

Marra arrestato. La Raggi e la nuova bufera sul Campidoglio
La  sindrome dell’assistente sociale

Il caso Raggi e di altri amministratori del M5S incapaci di comprendere che la politica implica capacità di giudizio e di decisione, andrebbe meglio analizzato sotto il profilo dell’analisi sociologica e in particolare demo-sociale e socio-culturale.  Purtroppo, mancano ancora studi esaustivi sulla formazione sociale delle classi dirigenti pentastellate (provenienza,  titoli di studio, socializzazione politica, reti relazionali e professionali). Pertanto potremmo qui avanzare solo una ipotesi, come dire, espressionistica,  quindi più generale, se si vuole  astratta, intuitiva, che quindi andrebbe comprovata sul campo.  L'ipotesi è questa: il dirigente cinquestelle (dall’attivista al parlamentare) sembra soffrire della sindrome dell’assistente sociale. Ci spieghiamo subito.
La politica può essere interpretata in due modi: come lotta per il potere (come è nei fatti) e come professionismo dell’aiuto sociale (come dovrebbe essere, secondo alcuni, negli ideali). Quando si lotta per il potere, il cittadino è portatore di bisogni, che sono il mezzo per conquistare il potere; quando ci si considera  professionisti dell’aiuto sociale, il cittadino non è più mezzo ma fine, qualcosa da assistere, se non coccolare.
Si dirà, che la politica come prolungamento dell’assistenza sociale è sicuramente qualcosa di meraviglioso. In realtà non è così, perché la politica, è innanzitutto lotta per il potere, dove ovviamente i bisogni dei cittadini sono importanti, ma finalizzati al consenso e alla conservazione del potere.  Di conseguenza, il comportarsi da assistenti sociali, in un quadro organizzativo, dove la lotta per il potere -  come deve essere -  è senza quartiere,   significa, per dirla con il Manzoni, essere come un vaso di terracotta costretto a viaggiare tra i vasi di ferro. La politica (anzi il Politico), insomma, ha le sue regole.  E si vendica sempre.
L’ideologia della politica come assistenza sociale può andare bene, come velo retorico per guadagnare voti, non come principio assoluto, da applicare anche agli aspetti organizzativi della politica, dove invece è necessario non essere mammole  ma comportarsi da volpi e leoni. Il che spiega il progressivo l’isolamento dei cinque stelle,  che si ostinano a credere, in un mondo di lupi (come è e non come dovrebbe essere), che la politica sia pura e semplice  dedizione sociale.  L’estensione politica di “Medici senza frontiere”... 
Attenzione, non è una questione di ingenuità dei pentastellati, e quindi superabile nel tempo: la politica come assistenza sociale dei cittadini, visti esclusivamente come portatori di bisogni (si pensi solo al principio del reddito di cittadinanza)  è nelle radici ideologiche stesse del  “non partito” di Grillo.  Il che spiega quella  rigidità - si pensi alle stupidaggini della Raggi -   che non può non confliggere con le necessità della politica (fatte di giudizi e decisioni); necessità che alla fine conducono all’errore, perché si deve giudicare e decidere,  e bene,  spesso in tempi brevissimi; necessità  che spiegano, ripetiamo,  l’isolamento politico  totale  in cui si trova ora il  M5S: in parte voluto ideologicamente, in parte indotto, dallo scarso appeal relazionale, di un  “non partito”, i cui dirigenti credono che la politica sia rigida e moralistica  applicazione delle leggi quale sviluppo della solidarietà sociale universale.  E  quanto più il M5S si irrigidisce ideologicamente tanto  più  si isola dal resto della società, in particolare da quella che conta in un mondo politicamente complesso,  rischiando  una sorta di progressivo burn out politico.  In definitiva, però, le cose non possono che andare così. Perché l’irrigidimento ideologico è la reazione tipica (o classica) di quelle organizzazioni politiche che  vivono in modo totalitario il proprio credo,  prescindendo dalla lezione dei fatti.  E che non cessano mai, altro aspetto curioso (ma fino a un certo punto), di interrogarsi  prima, durante e dopo il ciclo politico,  sul perché i cittadini non riescano  a capire che  si vuole il loro bene.           
Probabilmente, gli elettori italiani, prima o poi,  comprenderanno i limiti del M5S,  perché, alla fin fine, solo il singolo conosce il suo bene, o comunque il suo interesse (ma questa è un'altra storia...). Quanto ai  tempi di “ravvedimento”, nulla sappiamo, perché, per ora,  l'antipolitica, come scritto, continua a fare "vittime", soprattutto tra i ceti  sociali a rischio fascio-populista. Quindi, per il momento, i pentastellati potrebbero continuare a far danni. Come a Roma.  E naturalmente sempre a fin di bene.

Carlo Gambescia     

                  

venerdì 16 dicembre 2016

La guerra Mediaset-Vivendi
Patriottismo, estremo rifugio delle canaglie



Non siamo esperti di economia, ma le guerre economiche ci appassionano, perché rappresentano la prova del nove, come dire,  della  fede imprenditoriale nel libero mercato.
Ne è scoppiata proprio una  tra Vivendi e Mediaset,  tra Bolloré e Berlusconi.  Non siamo però davanti  a una scalata  in grande stile,  sul genere di quelle americane, dove un capitalismo, spezzettato in pacchetti azionari diversi e antagonisti nella stessa impresa  “aggredita”, è sempre sul piede di guerra. Per dirla con  Attalo, grande caricaturista del secolo scorso,  le nostre sono guerre pacioccone (si pensi alla distinzione di lana caprina,  tutta italiana,   tra scalate ostili e non, del tipo rivoluzione con il consenso dei carabinieri...).
Inoltre, Mediaset è un classico caso di capitalismo familiare, quindi se Bolloré riuscisse ad  aprirsi una breccia, dopo si troverebbe costretto ad accamparsi tra i  nemici e dover trovare un qualche accordo per tirare avanti. Probabilmente, dietro la strategia del francese c’è dell’altro: senso di rivalsa, per qualche  ruggine anche recente (l’affare della televisione a pagamento andato a monte); interesse a crearsi una testa di ponte in Italia (ma  non sarebbe la prima partecipazione di Vivendi); tentativo di ricatto economico verso altri, nel senso che si attacca Berlusconi, per lanciare segnali a qualcun altro. Sapendo poco o nulla di queste cose, lasciamo la parola, in argomento,  ai giornalisti economici, molto più preparati di noi, soprattutto sul gossip finanziario.
Il dato sociologico  interessante è  invece rappresentato dalle reazioni  politiche. In Italia (ma non solo), nelle guerre economiche, si chiede l’ intervento dello stato quando le aziende aggredite, come si usa dire pomposamente,   "hanno importanza strategica". E le comunicazioni in senso lato ( molto lato, quello  dello stato padrone in grigioverde) lo sarebbero.  Quindi non si può escludere -  sebbene Berlusconi abbia ancora tanti, troppi nemici-  qualche  paterno aiutino dall’alto. 
Di solito, l’aggredito (soprattutto in Italia)  prima chiede l’intervento della magistratura, gridando all’aggiotaggio (roba da Brancaleone alle Crociate…), poi delle Autorità di Controllo, evocando la turbativa di libero mercato, strizzando l'occhio a Smith (quando invece le scalate rappresentano l’esatto contrario, lo esaltano). Dopo di che segue il rito della pioggia di dichiarazioni e denunce, nell’ordine: della  Banca d’Italia (notare, per ora,  il più che giusto silenzio del Bce), del  Ministero dell'Economia, del Premier di turno.  Il tutto per dissuadere l’aggressore, puntando a influenzare, interferendo politicamente,  l'andamento borsistico del  malloppo azionario conteso.  
Diciamo che le guerre economiche, non solo in Italia, fanno scattare,  negli imprenditori, anche se liberisti a parole,  un preciso  riflesso carnivoro, quello patriottico/statalista.  E qui ci aiuta, probabilmente senza volerlo,  Samuel Johnson.  Il quale  parlò del "patriottismo", come  "estremo rifugio delle canaglie”. Espressione che si attaglia benissimo a certi imprenditori che difendono il libero mercato, ma  a corrente alternata: solo quando conviene.  Di regola, si tratta di parassiti che tendono sempre a privatizzare i profitti e socializzare le perdite, invocando l'intervento di papà-stato. Ecco, Berlusconi, avrebbe davanti a sé, l’occasione per riscattarsi. Almeno economicamente. Anche andando a fondo. Ma in piedi, solitario, sul ponte di comando della nave, come un vero capitano coraggioso...  


Carlo Gambescia             

giovedì 15 dicembre 2016

La democrazia dei Forconi
In nome del popolo sovrano



La democrazia liberale  poggia  su  un  equilibrio  di pesi e contrappesi.   E basta poco per mandarla all’aria.  Si dirà, banalità da  vecchi professori con barbetta e in marsina...  Eppure,  in Italia siamo prossimi alla soglia di non ritorno. Si pensi all’episodio di ieri dei cosiddetti Forconi, che hanno aggredito un ex deputato in nome del "popolo sovrano". Potrebbe essere il primo di una  serie.  Del resto che cosa aspettarsi  dopo  venti anni di campagne  politiche,  giudiziarie e mediatiche, di stampo populista,  contro un’intera classe politica presentata sistematicamente come una casta indù?
Il sistema liberal-democratico (non semplicemente democratico, attenzione) si regge sulla legittimazione reciproca ( gli avversari non possono essere considerati  nemici da distruggere), sulla divisione dei poteri (la magistratura non è un’arma politica da usare contro il nemico di turno), sul senso di responsabilità dei mezzi di comunicazione sociale (la caccia alle streghe, di qualsiasi tipo, va sempre evitata).
Ora, non è che esista  (o sia mai esistito)  un livello perfetto di democrazia liberale, esistono  "gradi" di avvicinamento, con alti e bassi, "gradi"  che tuttavia, rispetto ad altre forme di regime politico, sono riusciti a garantire un certo  livello di libertà.  Tra l’altro, la democrazia liberale è il presupposto delle libertà di mercato e di tutte le altre forme di libertà, perché presuppone un individuo libero, capace di decidere del proprio bene,  quindi libero da ogni forma di  tirannia, a cominciare  da quella della maggioranza. Dal momento che un voto democratico ( per l'appunto a maggioranza) può condurre a soluzioni antidemocratiche.  Perché  fondate sul pericoloso principio  che una maggioranza, solo perché tale, sia in grado di  conoscere (e stabilire) ciò che è bene per il singolo, meglio del singolo stesso.  
E qui veniamo al nodo fondamentale della questione,  perché come ogni buon liberale sa, una decisione della maggioranza che può essere legale, sotto il profilo della procedura tecnica,  e perfino legittima sotto quella  del principio della sovranità popolare, può essere altrettanto  nociva sotto l’aspetto della conservazione delle libertà individuali.  Insomma, ciò che è legale (dal punto di vista tecnico) e legittimo (in linea di principio), perché sancito da una maggioranza non è detto che sia anche giusto per il singolo.  Di qui, la necessità liberale (non democratica) di garantire il dissenso politico. Semplificando: una maggioranza democratica, può sopprimere legalmente e legittimamente  l’esercizio delle libertà individuali e la libertà di dissentire.  Quindi, proprio per evitare questo, ogni vera democrazia non può non essere liberale.
Ora, dopo venti anni di  campagne mediatiche e giudiziarie all'insegna del populismo  che cosa è rimasto in Italia della democrazia liberale?  Nulla, o quasi.  Siamo giunti al punto che si dà la caccia ai politici per strada.  Si dirà, che abbiamo toccato il fondo per colpa dei corrotti e che la “casta se l’è andata a cercare”.   E sia.  Ma la  questione non cambia: della colpevolezza decide, secondo le leggi, il giudice,  non decidono i facinorosi. Chiamasi stato di diritto (altra invenzione, perfezionata dei liberali "continentali").  Purtroppo  il debunking populista, se ci si passa l’espressione, è andato ormai così oltre, che il puro e semplice principio di maggioranza, viene ritenuto socialmente giusto. Di conseguenza, oggi, in nome della  presunta o meno rappresentanza della legittimità popolare, qualsiasi gruppo di facinorosi può sentirsi autorizzato ad eseguire un arresto.  E magari anche una condanna.  A morte. E in nome del popolo sovrano.
Come uscirne? Servirebbero   senso di responsabilità politica, per ora latitante,  e  determinazione, anch’essa quasi  scomparsa,  nel contrastare la deriva demagogica e antiliberale impadronitasi dell’Italia.  Ma come?  Se tutti i politici giocano al tanto peggio tanto meglio e quei pochi che tentano di risalire la corrente sono trattati da nemici del popolo? 
                                                                                                                                  Carlo Gambescia      
                              

mercoledì 14 dicembre 2016

Da Mussolini a Grillo
Ci risiamo? 







Il rischio è quello di  essere ripetitivi, ma abbiamo deciso di esporci. L’ora, come si dice, è grave. Insomma,  tira una brutta aria.  Si pensi all’atteggiamento di ieri  dei deputati Cinque Stelle. Come ha  giustamente osservato  il nuovo premier Gentiloni (un romano anomalo, grigio, sgobbone, cinico dentro, non fuori come Andreotti):  si proclama la centralità del Parlamento, poi quando la si deve praticare, passando  dalla parola  all’atto, si esce dall’Aula...  Condividiamo anche l'altra sua notazione, pungente:  che Montecitorio non è un Social Network.  
Mi auguro che Gentiloni -   la sola  cosa che chiedo a questo Governo  (il resto è fumo non c’è tempo, forse neppure maggioranza) -  è una legge elettorale in grado di ridurre ai minimi termine il ruolo politico del M5S. Perché il vero  pericolo,  come speriamo di aver documentato nel post di ieri (http://carlogambesciametapolitics2puntozero.blogspot.it/2016/12/grillo-co.html ),  è rappresentato da un partito populista, potenzialmente fascista.   Quindi a Grillo & Co. andrebbe estesa la strategia dell’arco costituzionale, che si usò con il Movimento Sociale Italiano.  Pertanto i passi da fare sono due: 1) legge elettorale ( e qui mi rimetto ai tecnici), 2) emarginazione politica (pur garantendo uno spazio di tribuna).
Qui, purtroppo, rischiano di cominciare i guai, perché tra le forze politiche alternative ai pentastellati, rispetto agli anni delle balene bianca e rossa,  non c’è alcuna  unità di fondo.  Non si percepisce ( o non si vuole percepire)  il pericolo  dell’ascesa di forze sovvertitrici dell’ordine liberaldemocratico. Il che significa che delle divisioni politiche, tra le forze liberali, cattoliche e riformiste, potrebbe avvantaggiarsi, in caso di elezioni politiche “senza paracadute”,  come è avvenuto alle amministrative,  un “non partito” criptofascista (per ora) come Cinque Stelle.
Perché non si è ancora afferrata la gravità politica della situazione?  
Per un verso, si ritiene il M5S sia votato all’autodistruzione per incapacità politica,  per l’altro gli si fa concorrenza sul piano dell’estremismo: insomma, tanto peggio, tanto meglio. Che maturità politica! Si pensi a certe frange  di sinistra, ma anche a  Fi e soprattutto alla Lega e FdI.  Nonché,  va ammesso, onestamente,  Renzi:   non  indenne neppure lui,  da peccato (populista). 
Nel primo caso, ci si affida a una speranza, o  forse a un calcolo, insomma  all’idea che si dovrebbe mettere il M5S alla prova, lasciandolo governare, se e quando avrà i voti. Più o meno  il ragionamento che i moderati italiani e tedeschi,  fecero con Mussolini e Hitler.
Nel secondo caso,   si rischia veramente l’imbarbarimento politico generale, lo sfascio delle istituzioni,  e cosa più grave, considerata la scarsa credibilità governativa di un  centro-destra urlante, di spianare la strada verso il potere al M5S, la cui scompostezza politica,  come provano i dati elettorali, sembra invece essere vincente.  E qui andrebbe fatta anche  una riflessione sull’immaturità degli elettori italiani. Popolo - usiamo una parola tornata di moda -   rimasto bambino, che ama giocare al Signore delle Mosche. Popolo, che elettoralmente, mai dimenticarlo,  inventò, il fascismo.  Certo, allora, Mussolini, vinse sulle divisioni politiche altrui: i cattolici di Sturzo, rifiutarono un Governo, non tanto con i socialisti, quanto con i liberali di Giolitti. 
Che dire?  Forse oggi  ci risiamo?    

Carlo Gambescia

martedì 13 dicembre 2016

 Beppe Grillo & Co.
Toh, chi si rivede!
I fascio-populisti




1. La libbra di carne
Ogni qualvolta ci capita di inciampare nel linguaggio truculento e demagogico di  Grillo & Co. proviamo una sensazione di déja vu  ideologico.  La nota dominante, anche nei discorsi dei colonnelli, degli attivisti e degli elettori, è la voglia di azione (*). Si celebra il  culto del romanticismo politico e dell' odio verso la "normalità" borghese: culto, come vedremo,  che viene da lontano, da quella specie di cloaca culturale culturale, sorta di collettore fognario di tutti  i peggiori umori antimoderni  che fu quel mix  di  antiparlamentarismo,  antiliberalismo, e più in generale di irrazionalismo politico,  che caratterizzò  la fine dell' Ottocento.  Quindi  ben prima  dei fascismi novecenteschi, che, a loro volta,. seppero ben pescare voti a sinistra, tra gli anticapitalisti,  attirando anche ex dirigenti comunisti, socialisti e del sindacato.
Sul piano dell' antropologia politica, il populismo contemporaneo condivide con le correnti (cosiddette) nazional-rivoluzionarie tra le due guerre mondiali,  l'azionismo,  la celebrazione dell'azione per l'azione:  un meccanismo sociologico dove il popolo, nonostante le evocazioni retoriche, in realtà  rappresenta una marionetta,  il mezzo per conquistare il potere, invitandolo a vomitare,  su chi lo detiene democraticamente,  tutta la rabbia dei propri fallimenti, intellettuali, economici, sociali e politici. Il populismo, insomma,  come religione o meglio oppiaceo dei falliti o aspiranti tali e non importa se capi, attivisti, simpatizzanti ed elettori. Perché, tutti insieme esigono, finalmente, la famigerata  libbra di carne dal cuore della democrazia liberale: il Parlamento. Costi quel che costi.

2. L'ultimo treno dei frustrati sociali
Per metterla sul piano della psicologia sociale: il populismo, concettualmente,  è  l' ultimo treno dei frustrati sociali e dei disoccupati intellettuali, rosi dall' invidia, in una società dai molti mezzi, dove la paura di perdere qualcosa o di non  potere possedere quello che ha l'altro,  sembra  prevalere su ogni altra considerazione positiva del lavoro e della ricchezza acquistata (attraverso il lavoro): il populista invidia il risultato, trascurando la  fatica e l' impegno, spesso anche il talento e genio che vi sono dietro; il populista sta alla società dei consumi, come il brigante alla società servile; il populista alla diseguaglianza creativa vuole sostituire l' infecondo egualitarismo straccione, magari infiorandone romanticamente le dure catene, inneggiando alle virtù di Sparta contro Atene, ovviamente personificate da capi e capetti (più uguali degli altri, of course).  Pensiamo, sul piano cognitivo,  a  una riduttiva visione dell’uomo e della vita, contraddistinta da quella fuga verso l’irrazionale e la "poesia" politica, che, antropologicamente ( e sistematicamente), si oppone  al razionalismo e alla "prosa" delle regole e del merito.

3. La società dei perfetti
Un azionismo fascistoide che  una volta impostosi,  non può però  non fare i conti con la realtà. Che si vendica sempre. Perché la realtà  non  è dettata da  quell' azione per l'azione che si traduce spesso nel temerario promettere tutto a tutti,  bensì da regole, procedure,  e prudenza nel promettere, valutando il merito.  Per dirla in chiave sociologica:  l' istituzione è la norma, il movimento l'eccezione. Perché l'uomo ha necessità di certezze (istituzionali). E anche dopo una "rivoluzione", pretende di passare subito all'incasso.  Di qui, davanti ai primi contrasti,  il rischio del ricorso alla forza,  per imporre le "proprie" di regole. Altrimenti come andare avanti con la "Rivoluzione"? Del resto il popolo preme, e qualcosa bisogna pur dare,  premiando  però per  primi i fedelissimi. Quindi, in un'ipotetica società populista,  le gerarchie  politiche  e sociali, tenderebbero comunque a riformarsi, non sul merito, bensì sulla fedeltà all' "idea", non tanto di un  bene comune (idea di per sé, già non facilmente realizzabile), ma del bene "secondo"  il popolo, come nel caso italiano, pentastellato, la cui purezza morale, come si sente ripetere, sarebbe  fuori discussione... Cosa aggiungere? Siamo dinanzi al trionfo dello spirito settario: della società dei perfetti, il peggiore dei totalitarismi.

4. La via verso la schiavitù
Il populismo, per riprendere Hayek,  è la moderna via verso la schiavitù. Del resto storicamente, non c'è nulla di peggio, quanto a corruzione, della "routinizzazione" delle dittature del popolo, come provano i totalitarismi novecenteschi, impregnati di populismo. Altro che le Tangentopoli  nostrane... E gli avversari? Morte, prigione, esilio. O, per reazione,  contro-dittature, guardia bianca, fucilazioni. Si legga Nolte, studioso della "guerra civile europea" (1917-1945), a proposito dell'infernale gioco sociale al rialzo tra fascismo e comunismo, tutto imperniato sulla difesa del "vero" popolo. Morale (sociologica)  della favola: piaccia o meno,  il popolo è pericoloso,  va preso a piccole dosi, per così dire. E soprattutto mai eccitare troppo il bestione...  "Arte" in cui il populismo pare fin troppo versato.
Ma c'è dell'altro.  Storicamente - quindi andando oltre il dato antropologico - la brodaglia populista  in cui è  immersa la nostra agitatissima cultura politica sembra  riflettere,  in modo addirittura ciclico,  quella "rivolta contro il formalismo” che caratterizzò l’onda lunga dell’ irrazionalismo politico del tardo XIX secolo.   Parliamo di un terremoto culturale che  sostituì alle libere individualità, come "forma" delle cose,   il popolo  come "sostanza", ponendolo  al centro del culto para-religioso di un "tutto" organico, calato dall'alto: la nazione, meglio se armata e contro qualcuno (altro che il tutto sommato mite spirito liberale della patria...). Un atteggiamento populista che dopo aver appestato il clima politico  fine  Ottocento, confluì politicamente, dopo la Prima Guerra Mondiale, nel fascismo e nel nazionalsocialismo. Pertanto, per così dire,  la prima volta andò male, molto male. Ma molti sembrano aver dimenticato...

5. Il fascio-populismo
Oggi si resta stupiti dalla ricorrenza di certi stereotipi politico-culturali che innervarono la svolta totalitaria degli anni tra le due guerre mondiali. Pensiamo all’odio gratuito verso le élites, al soldatesco disprezzo per i meccanismi parlamentari,  alla critica (e superamento) delle categorie di destra e sinistra,  all' irragionevole critica dell’economia di mercato, alla  celebrazione  della società chiusa,  ripiegata  su se stessa,  con a capo un pugno di presunti  superuomini depositari delle virtù rurali  e militari della nazione.  Non è una battuta o un'esagerazione: il "chilometro zero", apparentemente innocuo, maleodora di socialismo nazionale.  Ci riporta al populismo pre-bellico di un Corradini e al fascismo soreliano del Mussolini della "Battaglia del Grano", campagna politica che invece impoverì il suolo italiano. Perciò il termine giusto per definire gli epigoni contemporanei dell'autarchismo tra le due guerre  è quello di  fascio-populismo. Dal momento che l'antropologia politica è la stessa, come del resto gli stereotipi ideologici evocati, prima dai populisti, poi dai fascisti.  

6. La lezione di Kunnas
Gli esempi da fare sarebbero  numerosi.  E per noi sarebbe fin troppo facile.  Lasciamo perciò  il piacere della scoperta ai lettori.  Ai quali, tuttavia, consigliamo  la preventiva lettura del denso e istruttivo  libro di Tarmo Kunnas, La tentazione fascista. Una pubblicazione al di sopra di ogni sospetto, assai  apprezzata da palati storiografici difficili, come ad esempio Renzo De Felice. Capitolo dopo capitolo, tornano tutti quei luoghi comuni, della destra fascistoide e  irrazionalista di matrice populista: dal culto per l’azione alla negazione del progresso, dal razzismo all’antimaterialismo morale, dall’antiegualitarismo all’organicismo comunitario.  Come allora, siamo dinanzi all' ammasso dei cervelli: si pensi  ai Social,   dove di nuovo  si evocano marce su Roma, purghe, liste di proscrizione, capri espiatori, complotti, superamento della dialettica politica. Per farla breve: si propugna  la distruzione dell'avversario tramutato in nemico assoluto. Quindi niente mediazioni: il Parlamento come occasionale e opportunistico (quando conviene, per arraffare il potere) "succedaneo" della vera democrazia: quella plebiscitaria.  Insomma,  l'esatto contrario della democrazia liberale.


7. Il rifiuto della storia
Si dirà, tra il dire e il fare... E poi,  i fascisti veri? Meloni e Salvini? I fascisti di nome e di fatto? Anche da quelli dovremmo guardarci?  Certo.  In effetti, la famiglia politica (populista) è la stessa, tuttavia  la credibilità elettorale del M5S è decisamente superiore. Per ora, ovviamente.  Quel che è grave, in assoluto, è che sembrano tornare a galla,  trasversalmente,  i rottami concettuali del cosiddetto "non conformismo" tra le due guerre mondiali, allora animato da personaggi imbevuti di populismo, che  finirono, gonfi di odio, nelle braccia di Hitler. Quanto a Trump - e cìò  valga per gli improvvisati trumpisti italiani, generalmente di destra - l'America non ha conosciuto il fascismo. Trump, imprenditore puro (tutt'altro che un comico fallito),  è un'altra storia, made in Usa, dove il populismo è sempre stato tenuto a freno dall'individualismo e da una visione non statolatrica del sociale: l'esatto contrario della esperienza europea fin dall'Ottocento (Tocqueville docet).
Purtroppo  in Italia (e in Europa),  si gioca con il fuoco.  La gente comune mostra di non  conoscere la storia, di negarla,  o peggio ancora, se con background di sinistra (come provano gli studi sui flussi elettorali verso i partiti populisti e in particolare verso Cinque Stelle), sembra  rosa  da un' inestinguibile invidia sociale, di segno puramente negativo (quella del tagliare le teste per rendere tutti alti uguali).  Inoltre, i Social  agiscono da moltiplicatori, apparentemente neutrali, dell’ignoranza e della brutalità politica (per ora annunciata).  Sicché le persone, credendo in chissà quale esperienza nuova, addirittura palingenetica, si lasciano  abbindolare dai ferrivecchi ideologici  dell'azionismo fascista, che tornano a danzare, e in massa,  al suono del vecchio clarino populista di Grillo.

8. Il grande inganno
Un film già visto, purtroppo. Tutti schierati, naturalmente, a cominciare dal "non partito" di Grillo,  in difesa, come ad esempio nel caso del referendum,  di una Costituzione di cui si finge  di ignorare la natura antifascista e universalista,  glissando, tra l’altro,  su  un fatto fondamentale:  che la Seconda Guerra Mondiale  fu il distillato velenoso di quello stesso nazional-fascismo che oggi certi figuri (come Salvini e Meloni)  invocano, sotto altro nome,  come panacea di tutti i mali. Non solo però:  si pensi alla diffusione, anche a sinistra e tra i pentastellati in particolare, del termine sovranismo e delle (ridicole) distinzioni di lana caprina, per mascherare il volto arcigno del  nazionalismo d'antan . 
In realtà, alle origini di quel  “Mai più guerra tra di noi”   che è alla base del progetto di unità europea, c’erano e ci sono  i milioni di morti provocati dalla follia, politicamente ipermotoria, del nazifascismo, frutto avvelenato dell'albero populista. E non la “bancocrazia”, come asseriscono   populisti di oggi,  grillini per primi.  echeggiando - quando si dice il  caso... -  lo stilema fascista della "Lotta del Sangue contro l’Oro" (e ancora prima dei populisti di fine Ottocento).
I fascio-populisti, a cominciare da Grillo, dovrebbero vergognarsi di ciò che dicono.  Due volte.  Perché, oltre a ingannare i cittadini,  ingannano se stessi.  Ma tant’è…
  

Carlo Gambescia


(*) A puro titolo di esempio del clima politico populista e fascistoide che si respira dentro il  M5S  si veda qui: https://www.youtube.com/watch?v=3d0Sry-VjO0&t=378s . In particolare i commenti.