sabato 30 novembre 2019

Morire per Hong Kong?

I diritti umani possono essere inquadrati da due punti di vista. Per alcuni sono una risorsa politica,  da usare come una specie di arma nei conflitti politici,   per altri sono una preziosa risorsa etica da sottrarre al conflitti  politici, escluso però il conflitto  che inevitabilmente può nascere con coloro che la pensino diversamente.
Hitler si rivolse brutalmente a Est  per difendere, così asseriva,  i diritti  delle minoranze tedesche. L’Unione Sovietica, quasi fino agli ultimi giorni, minacciò di invadere  i Paesi   baltici per difendere la libertà delle minoranze russe.  Di recente, il post-comunista Putin, a proposito della Crimea,  ha applicato lo stesso principio. Ma l’intera storia umana è un succedersi di giustificazioni, dal ripristino romano delle libertà greche  nelle  quattro  guerre macedoniche a quello americano delle libertà occidentali nell’ultimo conflitto mondiale. 
Cosa vogliamo dire?  Che i diritti umani, in particolare quelli di libertà, sono, piaccia o meno,  una risorsa politica.  E ritenerli tali, implica la consapevolezza  di  difenderli a ogni costo, anche con le armi.  Qui però va precisato,  che quanto più li  si “eticizza”, tanto più si moltiplicano i rischi di conflitto, o comunque di avviare una  spirale conflittualistica  dalle conseguenze non sempre prevedibili.

Per fare un esempio oggi sulle prime pagine,  i parlamentari italiani di tutte le tendenze, che ieri  hanno sfidato la Cina, ospitando in videoconferenza Joshua Wong, leader del movimento di protesta, sarebbero disposti a morire per Hong Kong? Come un tempo, alla fin fine, lo furono britannici e francesi per Danzica? 
Sappiamo benissimo che tra una videoconferenza e una guerra c’è una  distanza  politica  enorme. Esiste il gioco diplomatico, della minaccia e dello scambio.  E la decisione della guerra, benché sempre aleggiante in ogni conflitto politico (parliamo in generale),  giunge, sebbene non sempre, alla fine di un percorso discorsivo. Perciò,  nel caso,  saremmo   solo all’inizio della spirale cui accennavamo. Niente, in sé, di pericoloso, almeno nell’immediato. Soprattutto quando si guarda all’impreparazione militare dell’Italia e al clima di ripiegamento morale, in tutti i sensi,  che vizia il nostro  discorso pubblico.   
Resta però, comunque stiano le cose,  l’ imprevedibilità  prospettica  dettata dalle pressioni che la Cina sta subendo in questo momento sul piano geopolitico generale, pressioni crescenti che tuttavia per il momento non implicano brusche virate.  Perciò, a proposito dell’Italia,  un realismo politico, a quo, che guardi all’immediatezza, non avrebbe visto  nulla di male  in una videoconferenza. Per contro,  un realismo politico, ad quem, attento a sviluppi e prospettive, avrebbe accuratamente evitato.  Giudichi il lettore.

Lasciamo fuori  dalla nostra analisi, che si muove all’interno di una prospettiva comunque realista, le prese di posizione donchisciottesche, pacifiste, basate su una visione terapeutica  della politica. Fondate,per farla breve, su una premessa errata, di  natura  irrealistica:  perché  non per tutti la pace è un bene da difendere, sempre e comunque,con le sole "armi" della parola, della buona volontà e del libero convincimento. 
Del resto, può piacere o meno,  ma la storia prova che è così. Almeno fino ai nostri giorni. Quindi una guerra, stando al passato, può  essere al momento  poco probabile, ma rimane sempre possibile.     
Resta però in piedi  la questione dei diritti umani, che sono il nobile  cavallo di battaglia, non solo dell’Italia, ma dell’intero  Occidente,  dalle salde radici illuministe e liberali.  Diritti umani   che nella guerra calda contro il nazismo  e  in quella fredda contro il comunismo hanno fatto  idealmente la differenza.
Esistono allora giustificazioni più buone di altre?   Da un punto di vista generale no, diciamo della fredda analisi sociologica.  Invece da quello storico  esistono differenti tradizioni politiche che il tribunale temporaneo della storia, di volta in volta,  ha condannato o assolto.  E, sotto questa visuale, la tradizione occidentale  la libertà l'ha difesa sul serio. E con le armi. Insomma, sul campo, vincendo. Sicché, in ultima istanza,  il problema è sempre lo stesso, come contro Hitler, l’ Italia e l' Occidente sono  disposti a morire per Hong Kong?  

Carlo Gambescia                           
     

                

venerdì 29 novembre 2019

Polemiche inutili…
Sovranismo psichico o sovranismo dell'imbecille?


Un tempo  gli addetti ai lavori,  dietro le quinte ovviamente (primum vivere...),  ridacchiavano a proposito della fantasia sociologistico-giornalistica di Giuseppe De Rita, fondatore  del Censis,  che ogni anno, con il famoso   Rapporto sulla Situazione del Paese,  coniava improbabili ma accattivanti  neologismi. 
In realtà, De Rita, da buon esponente di certo  presentismo sociologico, inseguiva semplicemente l’attualità,  usando neologismi  che duravano lo spazio di un anno, poco meno o poco più.   Invece di ragionare sui tempi lunghi,  De Rita  cercava  risposte di tipo giornalistico a grandi questione di fondo.  Cosa che gli riusciva e riesce  bene. Una specie di " Ti ha piaciato?"  da Petrolini della sociologia.  E Petrolini, era un grande, a modo suo. 
Perché parliamo del Censis? Per una semplice ragione.  Negli ultimi giorni è esplosa una polemica, montata soprattutto dalla destra,  a proposito della pubblicazione della voce “sovranismo psichico” sulla pagina  online  dell’Enciclopedia Treccani dedicata ai  neologismi (*).
Il termine  - ecco il punto -  lanciato l'anno scorso  nel  52°  Rapporto Censis sulla situazione sociale del Paese (2018 **),  subito  ripreso dalla stampa di sinistra,   aveva  infastidito  la destra. E molto.
Figurarsi perciò quando  lo si è visto recepito  "addirittura dalla Treccani" .  Di qui  la reazione polemica  all’insegna  dell’ “ anche la Treccani” seguita, come di rito,  dalla  "condanna del  neototalitarismo  liberale di stampo sovietico",  eccetera, eccetera.
Ora, per quel che riguarda la Treccani,  va detto che la voce in oggetto, se l'italiano non è un'opinione,   si limita a riportare un neologismo, quindi un termine coniato di recente,   rinviando doverosamente alle  fonti, che  rimandano  a loro volta  alla stampa di sinistra che lo ha veicolato  e  al 52° Rapporto Censis che lo ha introdotto.
La Treccani fotografa. Tutto qui.  Nessun complotto ai danni della destra, che invece sembra proporre come modello di cultura enciclopedica la  Crusca  linguistica, ma  preventiva.  Non solo: la destra travisa  volutamente  ad uso e consumo degli elettori puntando sull'  evocazione di  scenari  apocalittici. Il che non aiuta a calmare i bollenti spiriti  di un  discorso pubblico sempre più  lontano dalla realtà e animato dalla caccia al capro espiatorio, che con la paranoia non c'entra nulla.    
Per contro,  il concetto di  sovranismo psichico  in sé,  può essere criticato.  Ma la destra  - altro punto importante - non ha gli strumenti culturali per  poterlo fare.  Perché dovrebbe avere  letto, con un pizzico di buon senso,  gli studi sulla personalità autoritaria  di  Adorno (regolarmente demonizzati...), i lavori  sulla mentalità culturale di Sorokin (Carneade! Chi era costui?), nonché  l’opera  della Arendt sul totalitarismo (un' ebrea, figurarsi...).  A che scopo?  Per  poter  capire che  ciò che  anima l’espansione del populismo razzista  non ha nulla di psico-patologico in sé.  E quindi preparare adeguate risposte "controculturali".  Magari anche in chiave autocritica.
Dal momento che si tratta, non di fenomeni paranoici riconducibili  a un fantomatico "sovranismo psichico",  ma   più  semplicemente del ritorno dell’ etnocentrismo,  fenomeno sociologicamente incentrato sulla facilità di una percezione  collettiva  di messaggi sociali semplici, se non semplicistici,  come “noi o loro”.  Dove, ripetiamo,  di psico-patologico,  nel senso, per così dire, di cattivo funzionamento del cervello, non c’è nulla. 
Persiste invece  una costruzione socio-culturale del nemico che porta alla sostituzione del concetto di avversario: “noi e loro”  (tipico del discorso pubblico liberale), con quello polemogeno, per l’appunto,   di nemico:  “noi contro loro” (tipico del populismo di destra e sinistra). 
Però attenzione,  è   vero che il “politico”, nella sua essenza, o meglio purezza idealtipica, implica la divisione  in amici e nemici, ma è altrettanto vero che un discorso pubblico, tollerante e intelligente,  proprio perché si confronta con la realtà e non con un tipo ideale astratto,  può sublimare e attutire. Insomma, sostituire  la scheda elettorale e il riformismo, alle pallottole e alla rivoluzione. Come mostra l’esperimento liberale. 
Pertanto, siamo davanti a una questione squisitamente socioculturale.  Male perciò  fa il Censis, strumento per eccellenza sociologico,  a introdurre concetti mutuati dalla psichiatria, altra disciplina, distante anni luce dalla sociologia.  E ancora più  male fa la destra  a non studiare.  Per non parlare della sinistra, che si nasconde dietro la   sociologia psichedelica del Censis.
Insomma parliamo di un   concetto che  può  essere facilmente strumentalizzato da una politica in cerca, si badi a destra come a sinistra,  di facili scorciatoie eugenetiche inseguendo il livore dei social   e precedendo addirittura l’allarmismo, già di per sé congenito, dei mass media tradizionali.   
Se ci si perdona l'espressione,  parleremmo, soprattutto a livello di  élite ( politiche,  mediatiche, culturali) di sovranismo dell’ imbecille. Perché a destra e sinistra non si fa niente per impedire, autodisciplimandosi,  la progressiva distruzione del discorso pubblico liberale a colpi di fantasie complottiste e teorie pseudoscientifiche.
Che malinconia. 

Carlo Gambescia 

(**)  Qui, per un rapida ma puntale  informazione giornalistica (con fonti): https://www.ilsole24ore.com/art/censis-italiani-incattiviti-e-preda-sovranismo-psichico-AEW02PvG .


giovedì 28 novembre 2019

Liberalismo, democrazia e denaro 
L'Uovo di Colombo

Che le democrazie, attenzione le de-mo-cra-zie,  abbiano una deriva affaristica e demagogica non è una novità, almeno dai tempi di Platone e Aristotele. Nel Novecento Maurras, finito nelle braccia di Hitler, scrisse comunque  pagine  memorabili sul denaro  come  valore democratico egemone a causa della  mancanza  di alcuni fattori fondamentali presenti invece nelle società pre-democratiche: la nascita in una famiglia aristocratica  abituata per rango a governare,  le capacità  militari come segno di virtù guerriere, il carisma religioso  favorito da un religiosità collettiva diffusa.
Il liberalismo moderno,  pur non condividendo la visione reazionaria di Maurras,  non ha ignorato il problema.  Il ceto borghese, come portabandiera del liberalismo, ha laicizzato i valori di cui sopra trasponendoli nell’ambito economico. Facendo del suo meglio  per  promuovere una visione della modernità politica, liberale e democratica al tempo stesso. 
Liberal-democrazia, insomma.  Parrebbe l’uovo di Colombo…  Marshall parlò addirittura del nuovo spirito della cavalleria economica. Schumpeter di nobiltà del lavoro imprenditoriale. Guizot, precedendo Tocqueville  e unitamente a Constant,  propose e praticò la diga censitaria contro il dilagare della  democrazia  basata su un voto che  poteva essere comprato in qualsiasi momento  da masse irriflessive pronte a vendersi al primo offerente.

Guizot, molto prima di Maurras e non in chiave reazionaria, aveva visto saggiamente  nel denaro, ciò che oggi potremmo definire un limite  e una possibilità. Si presti attenzione,  perché la sfumatura è importante.
Limite,  nel senso di  un  denaro-fine  separato da  qualsiasi valore che non sia il possesso stesso di quantità crescenti  di denaro, quindi parliamo di culto del  denaro in quanto tale.   
Possibilità,  nel senso di un denaro-mezzo  quale   tramite capace di consentire  su criteri di merito economico la selezione e promozione di  élite virtuose. Qualcosa  insomma capace di andare oltre il denaro stesso.  
Detto altrimenti:  un denaro non buono per se stesso, ma per la possibilità di garantire, attraverso il perseguimento di  una  salda posizione economica,   quella serenità di giudizio e di neutralità politica che ha sempre  caratterizzato le élite storicamente più competenti e stabili:  dal Senato nella Roma repubblicana, o comunque in alcuni suoi periodi, al Maggior Consiglio della Serenissima fino alla Serrata; dall’ aristocrazia britannica dell’Ottocento, saggiamente liberoscambista, alla borghesia francese,  tra Luigi Filippo e Napoleone III.  Sono solo  piccoli  esempi, quindi semplificazioni storiche.  Spunti per capire  approfondire il concetto.    

Qualcuno si chiederà: allora Trump? Ecco,  il Presidente americano è un esempio di denaro-fine. Come lo sono gli industriali che si piegarono a Mussolini e Hitler. Per contro  imprenditori, solo per fare due nomi, come Walther Rathenau, Adriano Olivetti, restano esempi (quasi) perfetti di denaro-mezzo. Su Berlusconi, meglio stendere un velo pietoso.
Ora, la liberal-democrazia, andando oltre  Guizot  e un sistema economicamente censitario che oggi può apparire  anacronistico, deve  trarre e ribadire  tutta la  sua forza nella consapevolezza di un denaro che non sia fine ma mezzo.  
Il che non è  facile. Soprattutto nell'irragionevole clima populista in cui siamo tutti  immersi,  distinto dalla demonizzazione  sia del denaro-mezzo sia  del  denaro-fine. E cosa più grave ancora, segnato dal rifiuto demagogico dello stesso concetto di élite. 
Il populismo rischia di favorire i nemici del liberalismo come della democrazia. Insomma, della liberal-democrazia: dell' Uovo di Colombo.    

Carlo Gambescia      

                       

mercoledì 27 novembre 2019

Geiger e Ghezzi  
Diritto, società e sociologia

Le società sono fenomeni organizzativi. Di conseguenza il diritto come regolazione  dei rapporti sociali  vi  svolge  un ruolo fondamentale.  Verità  lapalissiana.  Però  fino a un certo punto.
Si pensi a leggi e codici, spesso contrastanti. Ma anche all’idea di diritti naturali, trascendenti la realtà, e perciò  fonte di conflitto perché giudicati superiori al diritto positivo racchiuso nelle pandette.  E che dire  del giudizio civile e penale spesso fonte di sentenze discordanti?  E del rapporto tra cultura generazionale e formazione dei giudici?  Del concetto di equità in relazione allo sviluppo storico-sociale?  E del ruolo di altri operatori, non meno importanti sotto l'aspetto del conflitto tra pratica e scienza, come avvocati  e  professori di diritto?
Sono istituti, figurazioni, credenze che  rientrano pienamente nell’ambito della sociologia del diritto, quale   studio delle tumultuose relazioni tra società e universo  giuridico.  Materia indubbiamente affascinante  che merita un giusto approfondimento, al di là dei confini disciplinari e accademici.
A questo proposito vorremo segnalare  tre libri che affrontano l'argomento da un punto di vista  alto,  che però se letti con attenzione possono  rappresentare nell'insieme una buona introduzione alla sociologia del diritto.  Non solo, ripetiamo,  come sapere  accademico ma come terreno di “cultura” più generale. Insomma, volumi  che  rispondono a questioni che ogni persona curiosa di comprendere  i rotismi sociali e giuridici  non può trascurare.
Non possiamo non cominciare dall' attesa  e meritoria  edizione italiana  di un classico in argomento: Theodor Julius Geiger, Studi preliminari di sociologia del diritto   a cura di  Morris Lorenzo Ghezzi,  Nicoletta Bersier Ladavac, Michele  Marzulli (Mimesis/Law Without Law,  Milano 2018, pp. 418).  Si tratta di un’opera del 1947  in cui Geiger, scomparso nel 1952 appena sessantenne, compie l’enorme sforzo di tradurre la sociologia del diritto nei  termini della logica simbolica.
Geiger si impegna   in un'opera di  sistematica rimozione  dei valori,  paretianamente nemici di ogni buon uso della sociologia,  fin dall'impiego analitico delle parole.  Di qui  tutto il valore di uno  studio del rapporto tra diritto e società in termini di neutrali esponenti letterali.
Ecco subito un esempio delle metodologia geigeriana, semplice ma chiaro per tutti:  con M si indica  il membro di un aggregato sociale, con s una situazione tipica, con g un comportamento tipico, con t un tabù. E così via fino a comporre vere e proprie formule dalla differente complessità.  Viene addirittura proposta  una rappresentazione formale del  colpo di stato.
A scanso di equivoci euristici va però ribadito che l’attenzione di Geiger è sempre rivolta verso  la   natura  sostanziale di un  diritto libero da qualsiasi declinazione puramente narrativa. Come osserva Michele Marzulli (autore di una preziosa legenda, pp. 109-119), "le formule riportate da Geiger nel testo (...) non sono altro che rappresentazioni formali di passaggi logici atti alla valutazione dell'effettività delle norme, all'interno delle situazioni che le anticipano e producono" (p.119).   
Ad esempio,   nell'analisi di Geiger,  comando e obbedienza, sebbene espressi in formule,  rimandano sempre  a coloro che comandano  e obbediscono effettivamente. Insomma,  esiste un diritto materiale che secondo Geiger  non può mai prescindere  dai  legami di interdipendenza sociale quali inevitabili effetti  di ricaduta  di un mondo socialmente stratificato. Del resto, come si può intuire,  in  Geiger sussiste  un fortissimo  senso sociologico del diritto, senza però alcuna allusione o evoluzione olista. Il che perciò  significa  che Geiger  non  giustifica  (e non può essere usato per giustificare)  le presenti storture populiste del diritto penale. Dal momento che il diritto, sostanziato sociologicamente,  è una cosa, il populismo penale basato sullo stato di natura (hobbesiano o rousseauiano che sia) un'altra.       
In conclusione,  il lettore non deve preoccuparsi  perché  una volta compresi  i  meccanismi  logico-simbolici potrà immergersi in  un’opera che scarnifica il ruolo sociale del diritto. Niente retorica, solo effettività delle cose, nella loro nudità: siamo, per così dire,  al grado zero della sociologia del diritto. Però attenzione:  sempre in un contesto intellettuale garantista,  senza giudizi definitivi (pessimisti o ottimisti) sulla natura umana. Una sospensione se non addirittura  revoca  del giudizio antropologico da cui discende  l' invito geigeriano  a considerare laicamente  la "democrazia senza dogmi", come titola un' importante opera postuma (*).  

La  traduzione dell’opera di Geiger, fortemente voluta da Morris L. Ghezzi,  scomparso nel 2017,  già allievo di Renato Treves, può essere occasione per leggere due suoi lavori ricchi  di echi geigeriani.  Dove però si scorge la  necessità di andare oltre Geiger.  Verso il confronto con un diritto che ormai sembra non essere più tale, addirittura  privo dei soggetti di riferimento.
Si veda innanzitutto Morris L. Ghezzi, Il diritto come estetica. Epistemologia della conoscenza e della volontà. Il nichilismo/nihilismo del dubbio, prefazione di Emanuele Severino, postfazioni di Agostino Carrino e di Paolo Renner  ((Mimesis/Law Without Law, Milano 2016, pp. 146). Esteticità del diritto come dubbio, e consapevolezza del dubbio stesso.  Di qui l’artificialità della lotta per il diritto, che pure deve essere… Poiché non è data società senza  leggi. Il rapporto tra individuo, diritto e società, nel pensiero dell’autore, sembra ricordare  quello di  un corda tesa tra due punti che non si scorgono, eppure sono.
Lungo le stesse linee,  nell'ambito però di un testo "sulla soglia" che talvolta trafigge il cuore come quando si scorrono  le pagine di Simonetta Balboni Ghezzi e  Furio S. Ghezzi,  si sviluppa un altro lavoro di  Ghezzi,  Ciò che resta. La rivoluzione del diritto come estetica, a cura di  Simonetta Balboni Ghezzi e Furio S. Ghezzi, prefazione di Domenico Mazzullo, introduzione di Giulio Giorello ( Mimesis, Milano 2017, pp. 192).  Scrive l’autore:

“Il diritto come estetica, ossia come mera espressione di preferenze individuali e soggettive, non si pone come ideologia, ma come pura descrizione della relatività di qualsiasi valore e della conseguente arbitrarietà dei comportamenti, che ne conseguono. Ossia prende semplicemente  atto di ciò che si verifica sia  in natura sia nell’organizzazione sociale, la quale si limita  solo a occultare la brutalità e le violenze dei comportamenti naturali (…). Il relativismo dei valori e la ferinità della natura mettono seriamente in dubbio ogni dogmatismo comportamentale, pertanto il nichilismo-nihilismo, che ne consegue, non si presenta come una scelta ideologica, ma come constatazione fattuale che, quindi, non può essere demonizzata, se non chiudendo gli occhi di fronte alla realtà e fantasticando intorno a mondi utopici”  (p. 44).


Si potrebbe parlare di estetica del fatti sociali: della bellezza esaltante  (certo, talvolta  tragica)  dello studio delle cose sociali per come sono  e non per come  dovrebbero essere.   Il che richiede un atto di cognizione  della realtà, come forma che persiste, pur ovviamente nella consapevolezza dell'imprevedibilità del comportamento sociale dell' uomo.  E qui  si pensi  al fenomeno della stratificazione: un vero e proprio basso continuo sociologico,  i cui contenuti, o giustificazioni  possono però storicamente e imprevedibilmente mutare.
Sul punto  si avverte   il lascito  del nihilismo geigeriano,   convinto nemico di qualsiasi narrazione consolatoria o declamatoria. Si pensi al nesso, intuito da Geiger  tra diritto e consapevolezza dell'interdipendenza sociale, nesso  scorto quale  fatto naturale,  mai naturalistico.  
Riteniamo però  fosse intenzione di  Ghezzi  andare oltre  lo stesso buon uso della  logica simbolica e del  puro sforzo neutralizzante.  Egli probabilmente  aveva iniziato   un fecondo  cammino cognitivo personale.  Verso dove,  ora,  è impossibile sapere. Purtroppo.
Forse possono  aiutarci l’intrigante  iconografia e i  versi  a corredo del  volume. Anche perché, comunque sia,  la poesia, come il dio del Manzoni,  atterra e suscita, affanna e consola. 

Carlo Gambescia
      


martedì 26 novembre 2019

Giornata internazionale per l'eliminazione della   violenza contro le  donne
Femministe forti con i deboli e deboli con i forti?

Ieri  non ho voluto scrivere nulla  sulla “Giornata internazionale per l'eliminazione della violenza contro le donne",  che si celebra  su iniziativa dell’Onu da venti anni. Perché?
Lungi da  me   l’idea di  negare un fenomeno, che esiste.  Che però  riguarda, stando almeno ai dati, in via principale  le culture non occidentali.  Dove  una visione patriarcale del mondo ostacola,  molte volte con la violenza,  l’estensione alle donne dei diritti più elementari, a cominciare dall’istruzione.  Invece in  Occidente (semplificando) la giusta marcia delle donne verso la parità, pur tra ostacoli economici, sembra ormai precedere speditamente.
Per quale ragione l'Occidente è in vantaggio?  Per  la legislazione illuminata?  Probabilmente. C’è però dell’altro.  Tra Oriente (semplificando) e Occidente c’è una differenza spesso obliata dall’attivismo  femminista occidentale (semplificando), di regola su posizioni di sinistra. Quale? Semplicissimo, l’Occidente è la patria della rivoluzione liberale.  Il liberalismo nasce “anche”  nei salotti delle colte madames del Settecento e dell’Ottocento. E liberalismo significava e significa parità dei diritti e possibilità per tutti di fare libere scelte. Principi storicamente  ignoti fuori dell’Occidente.
Si tratta di una verità  oggi  volutamente  ignorata  che spinge l’attivismo femminista  a sottovalutare i meravigliosi risultati che si sono conseguiti in Occidente. Sicché il famigerato bicchiere delle conquiste viene giudicato dalle femministe sempre  mezzo vuoto. Di qui l’ingigantimento di problemi, come quello della violenza sulle donne, che pure sussistono, ma che  se commisurati alla triste  condizione della donna fuori dell’Occidente, assumono valore lillipuziano.
Non voglio sostenere che l’iniziativa dell’Onu sia sbagliata.  Tutt’altro.  Ma il male, il vero  male è altrove. Dove il vento delle grandi rivoluzioni liberali non è  mai giunto per ragioni culturali, religiose,  sociali.   E non certo  in Occidente, patria del liberalismo.

L’enfatizzazione delle femministe occidentali nasce perciò da un mutamento di prospettiva  che da liberale si è fatta nel tempo  welfarista. 
Il termine liberal -  di derivazione statunitense - che spesso viene usato  per designare le varie anime del femminismo non ha nulla a che fare con liberalismo. Il liberal, a differenza del liberale, ritiene che  sia possibile cambiare le cose dall’alto e che  cambiando le istituzioni (anche culturali), automaticamente  muteranno  anche gli uomini e le donne.  Di qui, la necessità di introdurre leggi  per obbligare uomini e donne a essere liberi.  Il liberal nella migliore delle ipotesi è un liberal-socialista,  un liberale macro-archico. Il liberal  vuole che l'altro si converta leggendo e rileggendo il vangelo del welfare state. Ma la welfarizzazione - ammesso e non concesso che funzioni -  implica uno sviluppo politico ed economico, che a sua volta rinvia alla grande rivoluzione liberale. Non liberal-socialista.   Il liberal, nella sua visione sindacalizzata e  terapeutica, e in fondo pacificata della società,  ignora che spesso il cambiamento culturale  avanza sulla punta delle spade.  Che c'è violenza e violenza...   Ovviamente i casi di violenza sulle donne in Occidente, sono ingiustificati. Ci mancherebbe altro.
Tuttavia, il punto è altro. Per farla breve: difficilmente talebani e fondamentalisti islamici faranno un passo indietro  grazie a un mix  di psicofarmaci, tisane e discriminazione positiva.    
     
La cosa curiosa è che mentre in Occidente siamo ormai  alla saturazione welfarista, già infatti si scorgono i primi truci segnali di reazione  alla retorica femminista, in Oriente  non si è neppure agli inizi.
Pertanto sarebbe necessario "spostare l’attenzione".
Ma, come avrebbe detto Stalin,  quante divisioni hanno le femministe? E se le avessero le userebbero?   O si   accontentano di  vincere facile in Occidente grazie alla storica vittoria  di un  liberalismo  che oggi  disprezzano?  Insomma,  femministe forti con i deboli e deboli con i forti? 

Carlo Gambescia  
                      

lunedì 25 novembre 2019

"Sardine"  e  politica
Rivoluzionari istituzionalizzati



In Occidente  le  “Sardine” non sono che  l’ espressione più recente della  ribellione romantica  che ha affiancato, e in molti casi innervato, lo sviluppo politico degli ultimi tre secoli.
Si tratti  di rivoluzionari, nazionalisti, fascisti, nazisti, comunisti, partigiani, contestatori,  terroristi. sociologicamente parlando,  l’idea chiave del romanticismo politico è che il sistema sia sbagliato, qualunque esso sia, e che si debba ricominciare da capo. Quale idea migliore, di questa, per chi si trovi  all’inizio della vita e nel pieno delle energie fisiche  e morali?
Il punto  interessante  è però rappresentato dall’atteggiamento della società, composta di uomini e donne di tutte le età nei riguardi dei giovani.  Per tutto l’Ottocento, grosso modo fino alla Prima guerra mondiale,  i giovani  hanno morso  il freno.
La società manteneva  i giovani   sotto tutela  mediante l’uso di  rigidi codici di comportamento e inquadramento sociale. Una borghesia forte, con le sue regole precise, vedeva nel giovane un elemento da disciplinare, quasi  una classe pericolosa, capace di tutto, quindi anche di grandi errori. Da impedire assolutamente. 
Con le guerre mondiali, e la conseguente mobilitazione di massa, i giovani di ogni estrazione ruppero gli  argini  confluendo in quelli  delle ideologie forti,  in genere antiborghesi. I grandi partiti di massa, soprattutto se fortemente ideologizzati,   filtrarono  il romanticismo politico dei giovani puntando su progetti di mobilitazione collettiva.  Di qui, il giovanilismo istituzionale, nel senso di un atteggiamento  che attribuisce ai giovani, proprio perché tali,  un ruolo funzionale e istituzionale di rinnovamento.   

Pertanto i giovani nell’età dei totalitarismi si sono ritrovati di colpo al centro della scena. Un centralità, continuata anche nel periodo successivo,  fino ai giorni nostri,  dove  si riconosce ai giovani, come spesso si legge, “il diritto di sbagliare”, perché portatori   di una ventata di passione e libertà che non può fare male alla società. Anzi.
Pertanto, secondo tale  criterio,   le “Sardine” svolgerebbero un ruolo funzionale di rinnovamento politico, a prescindere.  Si noti, come gli adulti   non  discutano la  libertà di contestare, ma  critichino   la scelta politica che vi sarebbe dietro.  Un giovane se leghista è buono, se antirazzista no. E viceversa, ovviamente.
In realtà,  coloro che lodano o criticano  condividono, tutti,  il giovanilismo romantico in chiave istituzionale e funzionale. Diciamo che in questo  modo la società ha istituzionalizzato la rivolta, se non addirittura la rivoluzione.    
Se nell’Ottocento  la si deprecava,  attribuendo ai giovani il solo compito di diventare adulti, pur con correttivi legati all’ottica del tempo,  il Novecento,   ha invece  istituzionalizzato la ribellione giovanile  nel quadro di precise liturgie politiche che avevano e hanno al centro le piazze.   
"Sardine"  come “Nuovi Italiani”? Forse per classe di età  ma non per il ruolo che svolgono, che rimanda all'istituzionalizzazione novecentesca.  
Ma allora sono  utili o inutili? L’istituzionalizzazione è un fenomeno  di routine sociale che attraversa lo stato democratico come quello totalitario, quindi i giudizi di valore sull’utilità o meno di un movimento sociale, sociologicamente parlando, rimandano  alla sua  funzionalità o disfunzionalità dal punto di vista di ciò  che Pareto, chiamava l’equilibrio sociale. Cioè di uno stato sociale che semplificando non  rinvii  all'idea, di un "mondo migliore" ma a quella, molto realistica,  del  "migliore dei mondi possibili". Il che richiede criteri di valutazione oggettivi e non soggettivi.  Cosa  non  semplice.  Oggettività,  sotto quale aspetto?  Della statistica  economica  o delle proiezioni del  romanticismo politico?  Della realtà o dei sogni?
La parola ai lettori.   

Carlo Gambescia                     

      

sabato 23 novembre 2019

La riforma del Mes
Il sovranismo di Stenterello…


Al di là dei paroloni romantici con il cuore il mano dei sovranisti,  la questione della riforma del Mes (Meccanismo europeo di stabilità) è molto semplice.  E soprattutto annosa.
Da un lato infatti  si sostiene  che gli stati che chiedono un prestito devono avere i conti pubblici in ordine,  dall’altro che  la materia  deve invece essere prima discussa politicamente. 
La differenza con le regole precedenti consiste però nell’automaticità.  Per un esempio di  tale criterio  si pensi alla spending review  e ai tagli lineari. Insomma, con la riforma,  parlerebbero le cifre  non i politici.
Ora,  fermo restando che si tratta di regole - le  vecchie come le nuove -   frutto della stessa  visione  keynesiana del credito ( magari corretta secondo  criteri  più o meno  monetaristi), il vero punto di discussione rimane l’introduzione  o meno di criteri quantitativi in luogo di criteri  qualitativi.
Insomma, poiché la  matematica non è  un' opinione, con la riforma i numeri parlerebbero da soli.  Ciò  spiega l’opposizione non solo dei sovranisti  ma di tutti coloro che fanno del debito pubblico strumento di governo.  Si notino  in proposito  le reazioni negative  di Leu e M5s.   
In realtà,  sono in gioco le illusorie promesse elettorali di tagliare tasse e aumentare pensioni. Altro che la sovranità italiana come dichiara Salvini...  Di fatto le nuove  le regole  sono  più eque delle  precedenti perché estendibili, e in automatico  a  tutti gli stati. Per dirla brutalmente,  un meccanismo del genere lega le mani a politici spendaccioni e  talvolta corruttori.  Insomma, la riforma del Mes  è  antidemagogica quindi può far perdere voti.  Contrasta il pericoloso partito trasversale della  spesa pubblica.  Che ovviamente reagisce e strepita.     
Perciò la grancassa  sovranista si spiega con le solite reazioni dell’ Italia dei furbi... Come verseggiava il grande Giuseppe Giusti,  Dietro l'avello / Di Machiavello / dorme lo scheletro / Di Stenterello…

Carlo Gambescia 

venerdì 22 novembre 2019

Allegri, ritorna il  proporzionale



Il punto politico  di oggi non è lo “schiaffo” ricevuto  su  Rousseau da Luigi  Di Maio a proposito della alleanza politica con il Pd alle regionali.  Ma altra cosa. Quale? Che sta ritornando  a passo di corsa il proporzionale.  Come prova l’entusiasmo  delle destre   per il  sì della Cassazione al referendum abrogativo della quota maggioritaria.
Per dirla alla buona, la logica del proporzionale è quella dell’orticello dell' ognuno per sé dio per tutti. Va anche  detto che  se si votasse oggi con tale sistema,  a destra avremmo  una forza egemone, ma non maggioritaria,  mentre a sinistra coesistenza poco pacifica. Quindi, addio governabilità.    
Attenzione però, a questo proposito, le cose finora  sono andate maluccio.  L’Italia negli ultimi trent’anni non  ha votato né col proporzionale né col maggioritario puri. Si sono avute leggi elettorali miste. Con leggera predominanza dell'uno o dell'altro.  In realtà, se ci si perdona l'espressione,  ci siamo cuccati soprattutto maggioranze di governo rissose a destra come a sinistra. Pronte perciò a usare le leggi elettorali come fionde per colpire gli avversari. Di qui,  i cambiamenti a getto continuo. Ora però sembra  siano tutti d'accordo sul proporzionale. 
Servirà il sistema  proporzionale a mutare l’andazzo? Non crediamo, dovrebbero mutare prima i cervelli.  
Non è sociologia, diciamo questo, solo per  puro  buon senso. Che oggi manca.

Carlo Gambescia

   

giovedì 21 novembre 2019

Il post di Alberto Rosselli
A proposito di “vuoti pneumatici torricelliani”…



Alberto Rosselli (nella foto sotto)  è uno storico prestato al giornalismo.  Lo conosco da molti anni, mi fu presentato da un editore di destra, Enzo Cipriano, con il quale felicemente collaboravo.  Mi colpirono subito la vivace intelligenza e la capacità di individuare  sentieri storici poco frequentati. Mi stupì in particolare un suo libro sulla resistenza anticomunista in Europa orientale. Attualmente Rosselli dirige la  rivista “Storia Verità” . Ha all’attivo una tale  quantità di libri storici che mi resta difficile formularne  il  numero preciso.  
Ultimamente, come si usa tra amici,  mi “tagga”  su Fb. Posta riflessioni che in genere condivido o comunque rispetto. Diciamo che Rosselli  è più a destra di me. Credo vicino al binomio politico Salvini-Meloni. Credo.
Ora però, da un storico ci si aspetta sempre  l’approfondimento e in particolare da Alberto Rosselli che, ripeto,  ha le carte in regola. Perciò il lettore può immaginare la mia sorpresa nel leggere un giudizio del genere: 

"La verità è che la Sinistra non ha più niente da dire o proporre. Nulla. Non rappresenta il popolo e neanche un'ideologia da baraccone. Non è nulla, ripeto. E' una scatola cranica vuota, il vuoto pneumatico torricelliano della politica italiana. Forse, se fa una scorpacciata di sardine (contenenti fosforo) rinviene per un mesetto per poi finire all'obitorio dei dementi perseveranti.
Con XXXXXXX  e altre 49 persone. " (*)  

Certo, è un post pubblicato su Fb,  per così dire una sede,  come  altre forme di comunicazione "urlate", che non aiuta a conservare equilibrio di giudizio. Però da uno storico, ripeto,  mi aspetterei  di più. O no? 
Cosa significa che la “Sinistra non ha più nulla da proporre”? Perché la destra illiberale,  populista o neofascista, egemonizzata da Salvini, che  ha da proporre? Assistenzialismo e odio razziale?  Così come la sinistra propone  assistenzialismo e amore razziale…    
Certo,  che  sul piano dei contenuti le  “Sardine”, chiamate in causa da Rosselli,  rappresentino   il  “vuoto pneumatico torricelliano”, è indiscutibile. Però  Rosselli si è mai interrogato da storico su quanto  il dibattito politico italiano, a destra come a sinistra,  sia caduto in basso, almeno a far tempo dalla sbornia moralistica di Tangentopoli? E quindi precipitato "nel vuoto"? 
Negli ultimi trent’anni  il discorso pubblico  ha  sempre più  assunto il carattere di una guerra di religione, dove i contenuti, ad esempio  liberalizzazioni e riconsacrazione del merito,  sono passati in secondo piano per lasciare spazio alle inchieste giudiziarie a orologeria,   alla faziosità, alle scomuniche, alle promesse  demagogiche,  tipo "diminuiremo  le tasse e aumenteremo le pensioni". Sullo sfondo di una crescente violenza verbale condivisa dalla destra come dalla sinistra. Sicché le  “Sardine” non sono che l’ultimo sottoprodotto di questo clima.
In Italia manca tuttora  un grande partito liberale (non liberal),  rispettoso del discorso  pubblico e perciò capace di ricondurre la politica  nei binari della  normale dialettica politica tra una sinistra socialdemocratica e una destra liberal-conservatrice. 
Cosa che  non sono i partiti  capeggiati  da Salvini e Zingarelli. Per non parlare di altri ancora più a destra o più a sinistra...   

Certo, si potrà sempre sostenere  che i miei sono solo sogni: un'idealizzazione del  "Modello Westminster"  che oggi è in crisi perfino  dove è sorto.  D’accordo.  Però, ripeto  non è da Salvini né da Zingarelli che giungerà la salvezza. Né sia chiaro dai rottami del fascismo o del comunismo. Sotto qualsiasi pelle d'agnello si presentino.
Che fare allora?  Bella domanda.  Dipende dalla pericolosità che si attribuisce  alle due parti in causa. E qui ci aiuta la storia. 
Semplificando, l’Italia ha subito di fatto e di diritto  una dittatura fascista ma non comunista, area politica, quest'ultima, in cui affonda le radici il centrosinistra, in senso largo ma non esclusivo. Pertanto, a meno che non si sia proprio nostalgici fascisti, ogni richiamo politico  al "Ventennio", e in particolare all’universo ideologico che Tarmo Kunnas riconduce alla “tentazione fascista”, non può che essere  giudicato  pericoloso proprio perché esistono “precedenti”.  E che precedenti.
Il lettore, se in buona fede, tragga da solo le conclusioni. Il che credo valga, ovviamente,  anche per Alberto Rosselli. O meglio,  per lo storico Alberto Rosselli…

Carlo Gambescia  

mercoledì 20 novembre 2019

In libreria la raccolta curata da Domenico Felice
Voltaire per sociologi


Tutti volterriani, nessun volterriano... Riteniamo che l'espressione  rispecchi  bene il clima culturale di un Occidente  che in realtà di volterriano non ha mantenuto proprio nulla. Oggi sono tornati a volare gli asini. E il numero dei credenti sembra  crescere  a vista d’occhio. 
Sotto questo aspetto non può non essere considerata idea eccellente  proporre  una raccolta  di frasi, detti e pensieri di Voltaire, Certo, un vademecum, ma anche, per dirla modernamente, un guida for dummies (*):  principianti, testoni, negati ( ma non solo, come vedremo più avanti).  Dummies che però in cuor loro, magari senza darlo troppo a vedere,  intuiscono  che  gli asini hanno qualche difficoltà con le ali.  Dummies, forse recuperabili. 
Ottima idea dunque.  Soprattutto perché la raccolta è dovuta alla mano esperta di Domenico Felice, specialista universitario, se ci si passa l’espressione, dell’Illuminismo dal volto umano.  Chi scrive  è ancora sotto l’effetto benefico della sua magnifica edizione  delle  Opere  di Montesquieu (Bompiani, 2014, 2017: si attende, e con ansia da regali sotto l'albero, il terzo volume, Recueils, Correspondance e "Scritti privati"...). Tra l’altro, come nota Ernesto Ferrero nella brillante prefazione, a Felice si deve la prima edizione completa del Dizionario filosofico, condotta con Riccardo Campi (Bompiani, 2013). Il professore è una macchina da guerra euristica. Mentre scriviamo,  sentiamo uno stridio di cingoli. 
Dicevamo, volto umano.  Parola grossa, dal momento che tutto l’Illuminismo è rivolto al nobile innalzamento dell’uomo.  Tuttavia, sul punto la pensiamo come il buon  Hayek, sperando ovviamente di non incorrere come l’economista austriaco nella scomunica degli storici delle idee:  c’è Illuminismo e Illuminismo. 
Usando il machete  del dilettante:  da un lato abbiamo materialisti  e ideologi, che via Napoleone, giungeranno fino a Comte, padre della sociologia,  grande dispensatore di filosofie  costruttiviste e  ricostruttiviste; poi c'è Rousseau, protoromantico con tensioni, seppure non sempre dichiarate, giacobino-autoritarie; infine Montesquieu e Voltaire, solo per fare due nomi,  anticostruttivisti per eccellenza. E  protosociologi.
Un lato, quest'ultimo, che  intriga. Perché va oltre il  for dummies. Un Voltaire, per dirla tutta, che può parlare anche ai sociologi,  che della demistificazione si proclamano maestri...  Sicché, da umili studiosi di scienze sociali  siamo subito andati  a leggere le voci sociologiche, grazie anche all'indice e agli utilissimi  rimandi introdotti dal curatore: una vera manna per chiunque ami saltabeccare  concettualmente.  Senza dimenticare, sia detto per inciso,  il puntuale apparato iconografico, preziosa appendice al volume.
Ad esempio, Società. Cosa si scopre? Che “i nostri differenti costumi non permetteranno mai, è vero, di collegare la stessa idea del giusto alle medesime nozioni: quel  che è delitto in Europa sarà virtù in Asia (…). Ma, se tutte le società non avranno le medesime leggi, nessuna sarà senza leggi” (p.  448).  Tradotto: non possiamo obbligare un cinese a pensare come un newyorkese, introducendo dall’alto - ecco il costruttivismo respinto da  Voltaire -   principi e regole di stampo diverso.  Xi Jinping è avvisato:  capitalismo sì, ma  con accorto dosaggio... 

Ancora un esempio di sano relativismo sociologico, anticostruttivista. Si prenda la voce Costumi: “Gli antichi  costumi  orientali sono così  enormemente diversi dai nostri che nulla deve sembrare straordinario a chiunque sia un po’ istruito. Un Parigino rimane colpito quando apprende che gli Ottentotti fanno tagliare il testicolo ai loro figli maschi. Gli Ottentotti sono forse stupiti che essi li conservino entrambi” (p. 155). Tradotto, ogni società produce, e dal basso, le sue regole di comportamento, e per quanto possano sembrare strane, riflettono differenti visioni del mondo, che vanno rispettate.  I ministri occidentali del welfare e all’immigrazione sono avvisati: fare attenzione al dirigismo sociologico e  al costruttivismo  morale...
Un  atteggiamento  che ritroviamo, quando andiamo  a spulciare la voce Pregiudizio, concetto classico da manuale di sociologia,del primo anno: “Sbarazziamoci di tutti i nostri pregiudizi quando leggiamo autori antichi o ci rechiamo in paese lontani. La natura è la stessa dappertutto, mentre gli usi sono dappertutto diversi" (p. 404). I sociologi anti e filoccidentali sono avvisati.  Come del resto  turisti e migranti... 

Ma tutta la raccolta è piena zeppa di utilissime citazioni contro la tremenda filosofia della morale unica,  calata dall’alto e uguale per tutti. Voltaire, sia detto con tutto il rispetto per il  maestro della sociologia della Terza Repubblica, è una specie di anti-Durkheim.  Voltaire ci aiuta a diffidare della  morali sociologiche uniche, repubblicane e non.  Dalla raccolta, in definitiva,  si  potrebbe ricavare  materiale  per un magnifico seminario di sociologia della conoscenza dedicato proprio a Voltaire. 
Il "Patriarca dei Lumi"  tra i classici del pensiero sociologico?  Un passo indietro.  In una raccolta antologica, come un tempo si diceva,  "ad uso degli studenti", edita da una grande casa editrice universitaria italiana negli anni Settanta del Novecento,  Voltaire era  totalmente ignorato.  Mentre si celebravamo come pionieri,  giustamente per carità,  Montesquieu e Rousseau.  A quanto ci risulta il vuoto è rimasto tale,  anche perché le storie disciplinari non sono più di moda negli atenei italiani. Ma questa è un'altra storia.
Ecco, la bellissima raccolta curata da Domenico Felice, sociologicamente parlando, colma  un  vuoto.  Grazie.

Carlo Gambescia

(*) Voltaire, Taccuino di pensieri.  Vademecum per l’uomo del terzo millennio, a cura di Domenico Felice, prefazione di Ernesto Ferrero, Mimesis/Filosofie, Milano 2019, pp. 534.

martedì 19 novembre 2019

Italia escrementizia


Basta dare  una scorsa alle prime pagine dei giornali di oggi (*) per  scoprire  un’Italia impazzita. Qui, vorremmo usare un altro termine, volgare, ma per rispetto dei lettori ne impieghiamo uno come da vocabolario dei sinonimi educati.

Che sta succedendo allora?  
Escrementi fascistoidi  sul Parlamento, per i 4500 emendamenti alla finanziaria, frutto invece  di regolarissime tattiche procedurali. Non è insomma la fine del mondo.  Fine del mondo sarebbe il Parlamento occupato da squadristi o sardine, rosse o nere.
Escrementi spionistici sulla Trenta, ex ministro della Difesa, perché occuperebbe in modo abusivo  un alloggio dello stato, eppure esiste un regolare  contratto registrato, quindi pubblico, firmato liberamente dalle parti.  Non è insomma la fine del mondo. Fine del mondo  resta invece il contratto con la pistola alla tempia del servilismo verso il dittatore per  Villa Torlonia,  affittata a suo tempo a Mussolini per 1 lira annua.       
Escrementi populisti su Mittal, perché avrebbe  fatto un passo indietro. Però non si dice che lo ha fatto perché  stanca dei balletti assistenzialisti italiani. Non è insomma la fine del mondo. Fine del  mondo invece   è pretendere di  produrre acciaio in perdita, svuotando le tasche dei cittadini.
Escrementi a pioggia  sull’Italia, perché di questo passo le cose andranno sempre peggio. E questa può essere la fine del mondo. 
Esageriamo? No. Perché  non è  il sistema economico a non funzionare. Nonostante i piagnistei dei  talk e  il razzismo della destra contro la sinistra  e della sinistra contro la destra,  l’Italia, per fortuna,  va avanti per contro proprio. Certo il Pil è quel che è, però con questo clima generale fare affari non è così  facile. Eppure, le esportazioni marciano.
Esiste miracolosamente  una coazione a ripetere, frutto per metà di sana anarchia economica, per metà di senso del dovere,  una mano invisibile dell'economia che,  per ora, permette all'Italia di sopravvivere, anche benino. 
Quel che invece non è promettente è la mano visibile della politica, che si bea della caccia alle streghe, grazie al'aiutino (si fa per dire)  di  mass media ormai specializzati in calunniologia e digraziologia.   Del resto, in quest'opera di disfacimento,  destra e sinistra  pari sono. Perché,  salvo rarissime eccezioni, si tirano in faccia, e quotidianamente,  gli escrementi di cui sopra, rilanciati dai social,  in un clima di parole d'ordine dal sapore tersiteo. Per non usare un altro termine.  
Finirà male, molto male.  E a testa sotto, perché quel che sta accadendo, come racconta una famosa barzelletta, rappresenta solo l’ora d'aria.  


Carlo  Gambescia  

lunedì 18 novembre 2019

Liberilibri pubblica l’importante opera di   Jonah Goldberg  
 Occidente tra Miracolo e Suicidio…   


Esistono in Italia  intellettuali in grado di scrivere un  libro come quello di   Jonah Goldberg, uscito l’anno scorso negli Stati Uniti?  E meritoriamente tradotto da Liberilibri?  No. Perché da noi  manca, a parte rare eccezioni, qualsiasi volontà di difendere il capitalismo e il liberalismo.
Un vuoto che si ripercuote sull'inveterata  forma mentis, sostanzialmente romantica, ma occasionalista, dell’intellettuale italiano, portato a difendere un’idea di società chiusa, anche quando si dichiari  progressista. 
In Italia si  deifica  lo stato, e non a vuoto  ma  tra il consenso e gli applausi interessati  dei cittadini. Del resto qual è la frase più comune anche quando cade  un vaso dal balcone? La risposta è  semplice:  “ Lo Stato dov’era?”.        
Ma torniamo al nostro argomento.   Di quale  volume parliamo? E chi è Jonah Goldberg? 
Goldberg è professore  all’American Enterprise Institute e caporedattore della “National Review” (*). Dunque un conservatore,  liberale ma  contrario a Trump. E di conseguenza  neppure vicino all’ universo liberal incarnato da politici come Barack  Obama, e un paio di gradini sotto, Hillary Clinton. Per non parlare dei socialisti, o quasi,  come Bernie Sanders.
Il titolo del suo libro - ben prefato da Armando Massarenti e tradotto assai bene da Sabina Addamiano -  è tutto un programma:  Miracolo e Suicidio dell’occidente. Come la rinascita di tribalismo, populismo, nazionalismo e politica dell’identità  sta distruggendo la democrazia liberale (**).
Il Miracolo (con la maiuscola)  è nella nascita e sviluppo,  negli ultimi trecento anni del “capitalismo liberale”. E, attenzione,  in un mondo  governato in modo autoritario se non totalitario per millenni.  Si parla  di un sistema di libertà politiche, civili ed economiche  che “funziona” e che  ha decisamente cambiato, migliorandole, e di molto,  le condizioni di vita degli uomini. 
Il Suicidio (sempre con la maiuscola),  è nel non voler  capire  che l’esperimento liberale di società aperta,  unico nel suo genere, rischia la dissoluzione, perché preso d’assalto, da una sorta di nostalgia romantica per la società chiusa, insita, quasi carnalmente,  in uomini  vissuti almeno per seimila anni  nel mito di un potere assoluto e paterno.  Goldberg (nella foto), ne parla come di una “ruggine”, quella del richiamo della giungla, sempre pronta ad aggredire il sottile  tessuto civile, fiorito negli ultimi tre secoli.  

L’opera, ottimamente divisa in tre parti,  nella prima si concentra sull’analisi della natura umana, ossia sul carattere artificiale, positivamente artificialmente,  della civiltà, come  forma di controllo degli istinti dissolutivi insiti nell’uomo. Siamo agli antipodi, tanto per fare  nomi famosi,  di Freud e soprattutto Marcuse.
Nella seconda, si diffonde sulla nascita, in fondo misteriosa,  del capitalismo in Occidente: il “Miracolo” per l’appunto.  Goldberg riprendendo in qualche misura  la tesi  hayekiana dell’ordine spontaneo, generato da milioni di interazioni individuali  apparentemente prive di finalità collettive. Egli però  affianca  alla maestria di Hayek,  quella  altrettanto grande  di Schumpeter, facendo tesoro, della sua tesi sulla  dinamica  capitalista, come distruzione creatrice. Distruttrice tuttavia anche di legami sociali fondamentali, quale tessuto che tiene insieme uomini e cose.  Di qui, contro la burocratizzazione,  il ruolo della società civile, che Goldberg, sulla scia di Tocqueville, reputa essenziale.  Proprio  per evitare  quella atomizzazione che facilita il compito dei nemici della liberal-democrazia.
A costoro, e al loro  preoccupante riemergere, è dedicata la terza parte, dove sono affrontati i pericoli del tribalismo (o nazionalismo),  del romanticismo politico e  del populismo.  Fenomeni che sono il portato  di  quel vuoto sociale  che processi economici, fondamentali per la crescita,  possono però causare  in assenza di una società civile che non riesca  a  stare al passo con la dinamica capitalistica della distruzione creatrice.

Sicché l’individuo, finisce per ritrovarsi, implorante,  al cospetto  di   uno stato  onnipotente, che promette ciò che non potrà mantenere, perché nemico delle libertà economiche e civili, quindi delle uniche  forze culturali che possono favorire la  produzione  di reddito.
Ora, secondo Goldberg, non capire o ignorare la dinamica accentratrice dello stato, che non può surrogare la società civile, significa  sospingere al  Suicidio  l’esperimento liberale.
Soprattutto nella terza parte, forse la più americana del libro, Goldberg affronta le questioni dell’ascesa delle politiche identitarie, del politicamente corretto, dell’economia  pubblica, che dividono e tagliano in due la società statunitense, producendo fenomeni politici, uguali e contrari, come  Sanders da una parte e Trump dall’altra.  Siamo al cospetto di romantici della politica, che attribuiscono allo stato, imbarbarendo il dibattito pubblico, poteri onnipotenti, ignorando la sovranità della  legge e della costituzione,  interpretate secondo gli interessi politici del momento.
Il tema della società civile sembra perciò giustamente assorbire l'interesse dell'autore:  dal ruolo centrale della famiglia, come primo fattore di socializzazione,  a quello di una cultura delle istituzioni, dalle università alle imprese, in grado di creare una specie di zona franca, libera e produttiva di senso,  tra cittadino e stato, restringendo così meritoriamente il ruolo di quest’ultimo.  Sono forse queste le pagine più belle e appassionate dell’intero libro. Ma lasciamo la parola Goldberg:

“La mia tesi è che il capitalismo e la democrazia sono innaturali. Ci siamo imbattuti  in essi un istante fa, nel corso  di un processo fatto di tentativi ed errori ma anche di cieca fortuna, contingenza e casualità. Il sistema di mercato dipende dai valori borghesi, cioè principi, idee abitudini e sentimenti che tale sistema non ha creato, e che non può ristabilire una volta che siano andati perduti. Questi valori possono essere trasmessi solo in due modi: mostrando o raccontandoli, vale a dire modellando i comportamenti corretti e formando le persone, con parole e immagini, a capire cosa assomigli a un comportamento corretto. Le istituzioni, e non lo stato, sono i meccanismi principali che consentono di comunicare e apprezzare tali valori. Inoltre la modernità stessa richiede che i cittadini abbiano forme di fedeltà distinte e diversificate. Una di queste è la fedeltà a se stessi: tutti noi abbiamo il diritto di perseguire la felicità così come la concepiamo. Ma altre includono la fedeltà alla famiglia, agli amici alla fede religiosa, alla comunità al lavoro, etc. I nostri problemi   odierni possono essere ricondotti al fatto che non proviamo più gratitudine per il Miracolo e per le istituzioni e le consuetudini che lo hanno reso possibile. Dove manca la gratitudine - e dove manca lo sforzo che la gratitudine implica -  si riversano tutti i risentimenti e le ostilità. ” (p. 240).

Sicché, nell’indifferenza, quale effetto di ricaduta dell’ingratitudine, torna  a affacciarsi “la ruggine della natura umana”…
L’approccio  realista di Goldberg, in particolare sul carattere residuale della natura umana,  ricorda quello di  Pareto (mai citato, così sembra, dall’autore).
Nelle prime  pagine infatti egli sottolinea che la sua analisi prescinderà da dio (“In questo  libro dio non c’è”), nella conclusione  però, forse memore del famoso  detto di Dostoevskij,  invita ad agire, come se dio ci vedesse…  Insomma, la tesi è quella classica della religione come forma di controllo sociale. Ma per così dire,  rispetto a Pareto. con un supplemento di motivazione protestante, nel senso, come  scrive Goldberg, che

“la teoria  secondo cui il capitalismo  è emerso dal protestantesimo  potrebbe non spiegare tutto, ma spiega molto: credere che Dio non solo  ci veda, ma abbia grandi aspettative nei nostri confronti crea un certo tipo di società. Credere di ottenere ‘like’ su Facebook, Twitter, Instagram o Snapchat (…) crea indubbiamente un altro tipo di individui e di  società.” (p. 316).

Goldberg, come  un Pareto che abbia letto e condiviso Max Weber? Probabile.  In Italia, non abbiamo letto, o letto male, o se si preferisce letto e subito dimenticato il  primo come il secondo.  Ben vengano dunque libri come questo. Anche un ripassino non può far male...

Carlo Gambescia           

(*) Qui il suo profilo ufficiale:  https://www.aei.org/profile/jonah-goldberg/

(**) Qui le informazioni editoriali:    https://www.liberilibri.it/index.php/prodotto/miracolo-e-suicidio