mercoledì 31 maggio 2017

Per andare oltre l' addio del capitano della Roma 
Le lacrime di Totti
di Fabrizio Borni




Se a pochi giorni  dall'ultima partita di Francesco Totti ancora si parla di lui, della sua lettera, di uno stadio pieno, degli occhi lucidi dei tifosi vuol dire che Totti non era uno come gli altri, ma soprattutto Totti è un uomo fuori epoca e per questo il suo addio è stato un evento vero che ha commosso milioni di persone.
Quanti trofei abbia vinto, o quanti milioni abbia guadagnato è nulla rispetto ad una cosa che nel calcio di oggi è semplicemente una cosa improponibile. Venticinque anni con la stessa maglia dicendo no a lusinghe di grandi club inglesi e ai corteggiamenti della Spagna, anzi del Real Madrid, che insieme al Barcellona è il calcio spagnolo, europeo e mondiale.
In un'epoca in cui non ci si commuove più di fronte a niente, dove si cena e si beve un bicchiere di vino mentre a tavola i ragazzi chattano col cellulare e la televisione mostra il volto di una bimba uccisa dall'ennesimo pazzo estremista convinto di andare in paradiso, molti si scandalizzano e si indignano verso chi ha pianto per l'addio di Totti o contro le lacrime dello stesso. Un milionario che ha avuto tutto dalla vita e che ha tutto piange come un bambino perché non tirerà più calci ad un pallone.
Quelle lacrime vanno però spiegate.
Si piange anche all'isola dei famosi, nelle stanze del grande fratello, nel privato del confessionale davanti a milioni di persone. Si, si piange, ma per cosa?
In questi casi per scena, per inadeguatezza, per audience... è finzione; nel caso di Totti si piange per commozione. E' un'altra cosa.
Ci si commuove perché finisce quel legame, quell'esempio di appartenenza, quella fede, in cui tutti hanno bisogno di credere e che solo in pochi casi è manifesta.
Totti è Roma. Lo è nella sua parlata, nel suo sorriso, lo è nel suo modo di esprimersi e di essere simpatico senza saper far nulla di particolare se non giocare a pallone. Totti è Roma nella sua fisionomia, nel suo naso, il suo mento, il volto tipico di uno dei tanti Cesari scolpiti nel marmo nei musei capitolini. Totti è semplice, ride e fa ridere perché accetta i suoi limiti e ne fa una caratterizzazione unica e personale; ma Totti è anche un padre che abbraccia i suoi figli, che vuole essere loro da esempio, che ne è idolo e per i quali ha delle responsabilità.
Sento e leggo: “C'è da piangere per cose vere...altro che per Totti”, ma Totti è qualcosa di vero, forse l'unica cosa vera che la gente conosce perché per il resto forse la verità non la saprà mai nessuno.
Nel suo discorso ha detto una cosa: “Ho paura”. Cosa che in pochi sanno comprendere. Si può aver paura quando nella vita hai avuto tutto? Quando sei ricco? Quando hai tanti amici? Si, si può aver paura e dirlo non è facile.
Si ha paura perché quando finisce un ciclo che credi non debba finire mai (e spesso cerchi di autoconvincerti di questo), non sai cosa accadrà. Si può avere paura anche di perdere il consenso, il successo, gli amici e quanti, quanti di voi non hanno paura. Quanti di voi, sinceramente, non hanno paura di non essere più “visibili”; di perdere delle amicizie virtuali e con loro i tanti mi piace che sottolineavano un selfie, una foto chissà dove.
Non si pensi che i soldi sistemano tutto, perché come ho già scritto, di ricchi infelici e stupidi ce ne sono a migliaia.
“Ma si può piangere per uno che va in pensione?” diceva oggi un signore al bar.
Che visione mediocre.
Ciò per cui si piange è la fine di un ciclo, di una storia. Di un qualcosa che ha fatto la differenza in un epoca in cui tutto è effimero e non ci si “attacca” più a nulla. In un'epoca dove tutto è dovuto e nel calcio il dio denaro fa diventare molti giocatori “puttane” delle maglie colorate. Dove il ciclo di un calciatore in una squadra dura in media tre anni.
Totti è stato fedele, non ha ceduto e non lo ha fatto per il suo amore per Roma, per i suoi tifosi e per la sua squadra, non è forse questo un esempio da seguire?
Quanti sono i politici rimasti fedeli al loro simbolo negli ultimi 25 anni? Quanti sono i calciatori? Quanti le mogli o i mariti, quanti i manager di multinazionali o di banche.
Fedeltà ad un colore, ad una bandiera ecco cosa ha scatenato la commozione in quella gente, in quei bambini, in quei tifosi venuti da ogni parte del mondo per festeggiare una fine in gloria di un esempio di lealtà. Perché tutto prima o poi ha una fine, ma mai come in questo caso, una fede, non religiosa,  è durata così a lungo.


Fabrizio Borni



Fabrizio Borni, manager, docente, scrittore,  presidente dell'Anpoe  (Associazione Nazionale Professionale tra Produttori e Organizzatori di Eventi -  http://www.anpoe.it/ ).  Qui le sue recenti pubblicazioni:http://www.lafeltrinelli.it/libri/fabrizio-borni/1052864

martedì 30 maggio 2017

Legge elettorale, crescono le probabilità di successo del modello tedesco
Deutschland über alles



Qual è il compito di un sistema elettorale?  Trasformare i voti in  seggi, garantendo però la governabilità.  Al riguardo esistono due tipi di sistemi (semplifichiamo): proporzionale e maggioritario, il primo rispecchia fedelmente il rapporto  voti-seggi,  il secondo no. 
E sul piano della governabilità?  Il primo rende necessarie le coalizioni parlamentari, che come è noto non favoriscono la stabilità; il secondo, le favorisce in sede elettorale se il sistema politico è pluripartitico, il che non depone in favore della governabilità;  se invece il sistema  è  bipartitico, il maggioritario, assicura il massimo della stabilità politica.  Per fare due esempi  classici: la Gran Bretagna da un lato (maggioritario  e collegi uninominali), dall'altro la Francia della IV Repubblica (proporzionale puro).
Il sistema tedesco, di cui si parla in questi giorni, è  misto:  metà maggioritario, metà proporzionale, con soglia di sbarramento al cinque per cento, più il meccanismo, per così dire post-elettorale, della sfiducia costruttiva (chi vuol far cadere il governo deve disporre di  una maggioranza parlamentare di ricambio, altrimenti si va a nuove elezioni).
In Germania, questo sistema ha assicurato fino a oggi la governabilità  e soprattutto ha impedito  che entrassero in parlamento micro-partiti, soprattutto di estrema destra e di estrema sinistra. A dire il vero fino a un certo punto,  come provano il trascorso  successo dei  verdi e l'incombente minaccia populista.
Come si spiega l’improvviso innamoramento italiano del modello tedesco? Insomma, il Deutschland über alles che affascina Renzi, Grillo e Berlusconi ? Semplicissimo:   spirito di vendetta, calcoli post-elettorali,  gusto di sedersi al tavolo del poker. Di sicuro, non si guarda assolutamente alla governabilità.
Spirito di vendetta nei riguardi dei rispettivi cespugli; calcoli post-elettorali al ribasso, in particolare del Pd renziano verso un' alleanza con Forza Italia; gusto dei rischio da parte del Movimento Cinque Stelle, che punta a far saltare il banco, insomma alla vittoria totale.  Alla quale, sembra vagheggiare, anche Renzi, quando come Grillo (e  Berlusconi),   parla di introdurre nel modello tedesco il premio di maggioranza.  Quanto allo strumento della sfiducia costruttiva, nessuno finora si è pronunciato, anche perché, visto che tutti, almeno a parole, vogliono andare a votare, il solo discuterne allungherebbe i tempi.
Piccolo cabotaggio, insomma. Però, con il modello tedesco, nella migliore delle ipotesi, l' Italia  rischia di ritrovarsi, stando alle simulazioni,  con un  parlamento diviso in tre tronconi: uno più grande  (il Pd), uno più piccolo (Fi) e con “dentro” - il terzo blocco -   una forza eversiva molto consistente come il movimento pentastellato.  Potrebbe, infine, aggiungersi un ultimo, come dire "tronchetto" - il quarto -  fascio-leghista, però altrettanto eversivo come il M5s.  Insomma, per la cronaca: l’esatto contrario dello scopo - escludere dal parlamento  le forze estremiste -   concepito  a suo tempo dai  saggi legislatori tedeschi.
Va detto, che per ridurre la forza del M5s,  si potrebbe confidare sulla parte uninominale (maggioritaria) della legge e sulla riorganizzazione dei collegi, che andrebbero ridotti  nelle dimensioni e ritagliati a misura della forze moderate e riformiste. Un' autentica revisione dei  collegi però  richiederebbe almeno quattro-sei mesi di tempo e, cosa più importante, un patto politico  (anti-Grillo)  tra le forze moderate. Qui, invece tutti chiedono di votare subito.  Ovviamente, qualcuno bleffa, qualcun altro ci crede. Vedremo.


Carlo Gambescia  

                    

lunedì 29 maggio 2017

Arma dei Carabinieri (*)
Nucleo di Polizia Giudiziaria di [omissis]
VERBALE DI INTERCETTAZIONE DI CONVERSAZIONI O COMUNICAZIONI
(ex artt. 266,267 e 268 C.P.P.)
L'anno 2017, lunedì 29 maggio, in [omissis] presso la sala ascolto sita al 6o piano
della locale Procura della Repubblica, viene redatto il presente atto.
VERBALIZZANTE
M.O Osvaldo Spengler
FATTO

Nel corso dell'attività tecnica di monitoraggio svolta nell'ambito della procedura riservata n. 945/3, autorizzazione NATO n. 219/2a [Operazione “FOLLOW UP” , N.d.V.] è stata intercettata in data 28/05/2017, ore 10,34 la seguente conversazione telefonica tra le utenze 333.***, intestata a FINZI MATTIA, e 356***, intestata a MARCHINI WANNA.
[omissis]


MARCHINI WANNA: [voce contraffatta]: “Un momento per cortesia, dottore. Le passo la dottoressa Marchini.” [tramestio, un bicchiere che si rovescia, imprecazione soffocata. Con la sua voce:] Caro Mattia, come stai?”
FINZI MATTIA: “Bene gra…ma scusi, non ho capito bene il suo nome. Dottoressa…?”
MARCHINI WANNA: “Dottoressa Marchini, Mattia bello, la tua dottoressa personale!”
FINZI MATTIA: “Guardi che ha sbagliato numero, buongio…”
MARCHINI WANNA: “Impossibile, me l’ha dato il Papa.”
FINZI MATTIA: “Come il Papa?!”
MARCHINI WANNA: “Il Papa, il Papa, quanti ce n’è di papi? [a parte] Ve be’ che ce n’è due…[a FINZI MATTIA] Papa Sancho, Mattia, l’unico e il solo. Sei Mattia Finzi sì o no?”
FINZI MATTIA: “Sì, ma temo di non ricordare quando ci siamo cono…”
MARCHINI WANNA: “…Ci conosciamo adesso, Mattia. Il Papa mi ha detto, ‘Chiama quel ragazzo, Wanna, passa un momento difficile ma è uno che ha dei numeri.’ “
FINZI MATTIA: “Be’, grazie, ringrazi il Santo Pa…”
MARCHINI WANNA: “…Allora, lo fai o no questo accordo col Silvano?”
FINZI MATTIA: “Ma veramente, io…”
MARCHINI WANNA: “…No, perché se lo vuoi fare io te lo sistemo in quattro e quattr’otto.”
FINZI MATTIA: [ride] “Ah sì? E come?”
MARCHINI WANNA: “Ci vediamo in settimana tutti e tre, dal Papa.”
FINZI MATTIA: “Dal Papa?!”
MARCHINI WANNA: “Dal Papa. Non ci vieni dal Papa? E Silvano? Secondo te gli dice di no? Che purtroppo ha un impegno?”
FINZI MATTIA: “Ma…no…cioè sì, certo, ci vengo dal Papa, se mi invita ci vengo.”
MARCHINI WANNA: “Ecco. Silvano non l’ho ancora chiamato, ma vedrai che viene anche lui. Base della proposta: tu e Silvano fate un bell’accordo, subito, sulla legge elettorale: proporzionale puro, democrazia perbacco!”
FINZI MATTIA: “Scherziamo? Così il governo non si farà mai!”
MARCHINI WANNA: “Aspetta. Dici per via dei Cinque Stelle? Ci ha già pensato il Papa. Tu e Silvano fate l’accordo sulla legge elettorale, poi conferenza stampa con il Papa. Il Papa dice: ‘Questi due bravi ragazzi si sono messi d’accordo per dare la parola al popolo, al pueblo! El pueblo unido! Io non vi dico per chi votare, ma…”
FINZI MATTIA: “…ma?”
MARCHINI WANNA: “…e lì una pausa di tre minuti, i giornalisti con la lingua di fuori. ‘Io non vi dico per chi votare, ma…tà-tà-tà-tààà! Vi dico che non c’ due senza tre.”
FINZI MATTIA: “Ma che cavolo vuol dire?!”
MARCHINI WANNA: “Aspetta, è lì il bello. I giornalisti si chiedono anche loro, ‘Ma che cavolo vuol dire il Papa?!’ Suspense, brusio, attesa spasmodica. Finalmente uno alza la manina e fa, ‘Scusi Santo Padre, ma cosa vuole dire non c’è due senza tre?’ ”
FINZI MATTIA: “E cosa vuole dire?”
MARCHINI WANNA: “E lì il Papa, colpo di scena. Tira fuori il cellulare, fa un numero e chiama. ‘A chi cavolo telefona adesso’, si chiedono i giornalisti? E zàn! Telefona a Beppe Grilletto! Convenevoli, come sta la famiglia, ti ho visto in TV, sei un bel birbante, eccetera eccetera. Poi gli fa, “Accendi un po’ la TV, Beppe. Visto che sono qua con Silvano e Mattia? Questi bravi ragazzi hanno scelto el pueblo, la democrazia,  il progresso. Manchi solo tu!”
FINZI MATTIA: “Sì, quello gli mette giù il telefono.”
MARCHINI WANNA: “Al Papa? In diretta TV? Poi gli spiega la situazione, e gli fa: ‘Vedi Beppe, io lo so che tu non sei un ideologo dell'astratto, come purtroppo ne abbiamo tanti qui in Vaticano. Qui el pueblo ha un problema: il lavoro! Vuoi dare una mano anche tu, o vuoi fare il pessimista? La faccia da funerale? Il bastian contrario per partito preso? Scegli, Beppe: ma scegli subito, adesso, qua. Garantisco io!’ “
FINZI MATTIA: “Non ci credo.”
MARCHINI WANNA: “Tu non ci credere ma è vero, dopo ti senti col Papa e te lo conferma lui. E lì Beppe cosa vuoi che faccia? Dice di sì, per forza, sennò tanto vale che si mette a vendere le enciclopedie.”
FINZI MATTIA: [pausa] “Senta, dottoressa. Non nego che la proposta sia…sorprendente, ma lei si rende conto che ci devo pensare su…devo discuterla con i miei collaboratori, lei mi capisce.”
MARCHINI WANNA: “Non ci davamo del tu? Va bè, se vuoi fare…se vuole fare il prezioso, faccia pure. Cosa gli dico al Papa?”
FINZI MATTIA: “Dica a Sua Santità che lo contatterò presto per discutere con lui della sua idea.”
MARCHINI WANNA: “Va bene. Presto cosa vuol dire?”
FINZI MATTIA: “Diciamo in settimana.”
MARCHINI WANNA: “Faccia come vuole. Guardi però che il giochino del non c’è due senza tre si può fare in tanti modi.”
FINZI MATTIA: “Scusi?”
MARCHINI WANNA: “Diciamo che se un giorno lei ricevesse una telefonata dal Santo Padre che le dice, ‘Caro Mattia, accendi la TV’ sa già qual è il seguito. Solo che col Papa non ci saranno lei e Bernasconi, ma Bernasconi e …”
FINZI MATTIA: “…e Grilletto?!”
MARCHINI WANNA: “Mi stia bene, dottor Finzi, la saluto cordialmente.” [chiude la comunicazione]
FINZI MATTIA: “Pronto? Pronto, dottoressa Marchini? Pronto?”

Letto, confermato e sottoscritto
L’UFFICIALE DI P.G.
M.Osvaldo Spengler

(*) "Trattasi" -   tanto per non cambiare stile,  quello  della  Benemerita...  -   di ricostruzioni che sono  frutto della mia  fantasia di  autore e commediografo.  Qualsiasi riferimento  a fatti o persone  reali  deve ritenersi puramente casuale. (Roberto Buffagni)


Chi è il  Maresciallo Osvaldo Spengler?  Nato a Guardiagrele (CH) il 29 maggio 1948 da famiglia di antiche origini sassoni (carbonai di Blankenburg am Harz emigrati nelle foreste abruzzesi per sfuggire agli orrori della Guerra dei Trent’anni), manifestò sin dall’infanzia intelletto vivace e carattere riservato, forse un po’ rigido, chiuso, pessimista. Il padre, impiegato postale, lo avviò agli studi ginnasiali, nella speranza che Osvaldo conseguisse, primo della sua famiglia, la laurea di dottore in legge. Ma pur frequentando con profitto il Liceo Classico di Chieti “Asinio Pollione”, al conseguimento della maturità con il voto di 60/60, Osvaldo si rifiutò recisamente di proseguire gli studi, e si arruolò invece, con delusione e sgomento della famiglia, nell’Arma dei Carabinieri. Unica ragione da lui addotta: “Non mi piace far chiacchiere .” (Com’è noto, il carabiniere è “uso a obbedir tacendo”). Mise a frutto le sue doti di acuto osservatore dell’uomo in alcune indagini rimaste celebri (una per tutte: l’arresto dell’inafferrabile Pino Lenticchi, “il Bel Mitraglia”). Coinvolto nelle indagini su “Tangentopoli”, perseguì con cocciutaggine una linea d’indagine personalissima ed eterodossa che lo mise in contrasto con i magistrati inquirenti. Invitato a chiedere il trasferimento ad altra mansione, sorprese i superiori proponendosi per la sala ascolto della Procura di ***. Richiesto del perché, rispose testualmente: “Almeno qui le chiacchiere le fanno gli altri.”
***

Roberto Buffagni è un autore teatrale. Il suo ultimo lavoro, attualmente in tournée, è Sorelle d’Italia – Avanspettacolo fondamentalista, musiche di Alessandro Nidi, regia di Cristina Pezzoli, con Veronica Pivetti e Isa Danieli. Come si vede anche dal titolo di questo spettacolo, ha un po’ la fissa del Risorgimento, dell’Italia… insomma, dell’oggettistica vintage...


sabato 27 maggio 2017

Sociologia di un fuorionda
Flavio Insinna potrebbe essersi fatto male…




Un proverbio italiano recita “altezza, mezza bellezza”,  perciò molti “tappetti” non avranno gradito  il  fuorionda di Flavio Insinna.  Dove il conduttore, sproloquiando,  liquida una concorrente come “nana di merda”.  “Striscia”, che ha rivelato la storia,  parla addrittura di “femminicidio”,  con un occhio però ai suoi di ascolti.  I fans si sono subito divisi  tra innocentisti (un momento di stanchezza) e colpevolisti ( innanzitutto, il rispetto delle persone ). E i Social, naturalmente, continuano a   sguazzarci dentro. 
Si dirà, con il terrorismo dentro casa, interrogarsi su quanto sia "carogna"  il Flavio dei pacchi ( perché quel che sembra emergere è un Insinna subdolo,  buono  fuori, cattivo dentro) dovrebbe essere l’ultimo dei nostri problemi. Giustissimo. Però,  il fuorionda, sempre in agguato (che non è un’ intercettazione, coperta dal segreto istruttorio, ma questa è un’altra storia…),  può essere  la giusta nemesi per certa incombente  ipocrisia mediatica:  quel mare di  melassa che rischia di sommergerci tutti H24. 
Non si tratta però solo di questo.  
Ora, che lo spettacolo  sia finzione,  nel senso che il personaggio non è mai  l’uomo,  sembra qualcosa di scontato, eppure chi guarda,  fortunatamente non tutti e non sempre,  tende a identificare, quasi spontaneamente,  le due figure, sospendendo il giudizio di realtà.  Questa sospensione cognitiva, che può essere ricondotta all'antropologia del mito (Pareto-Jung 1 a 0), è tanto più forte quanto più la società si fa pedagogica,  tendendo a fornire modelli, fortemente mediatizzati, di comportamento collettivo chiavi in mano.   
Sotto tale aspetto,  il cosiddetto buonismo (il volere, attenzione, apparire, non essere buoni) è uno di questi modelli (Dio però ci guardi anche da coloro che vogliono essere buoni a tutti i costi…).  Pertanto,  Insinna, come tante altre figure dello spettacolo,  può essere definito un vero e proprio simulacro, per usare il concetto -  una tantum, esatto - coniato da  Baudrillard: la "statua" che dovrebbe rappresentare una  "divinità" però secolare, che quindi, proprio perché secolare, non è divinità. Insomma, il modello (il conduttore Insinna) di un altro modello (il buonismo mediatico): immagine  di un’altra immagine,  Il che spiega lo tsunami, secolarizzante, come dire,  al quadrato,  che si è abbattuto sui fans, dividendoli.  
Concludendo,  gli dei sono caduti due volte.  E Insinna potrebbe essersi fatto male...

Carlo Gambescia                               

      

venerdì 26 maggio 2017

I miei tre anni su Facebook
Grazie “amici”!



Tre anni fa, proprio di maggio, lo “sbarco” su  Facebook.  Che mi proponevo? Sarò sincero: rilanciare, ampliandone il raggio d’azione,  il  mio blog,  Metapolitics,  che un mese prima aveva subito un duro attacco pirata, con relativa denuncia alla polizia postale, eccetera, eccetera (mai  venuta a capo di nulla…). In quell’occasione mi fu di grande aiuto il geniale  Carlo Pompei, caro amico dai tempi di "Linea", un  quotidiano  al  quale  mi onoro di aver collaborato.
I danni furono consistenti,  chiusura in automatico del blog da parte di Google, perdita del mio server di posta e di  alcune decine di migliaia di mail… Insomma, ero con il morale a terra. Però, come anticipato, rilanciai.  Perché mollare, mi chiesi? Avrei fatto un favore, come si dice, ai miei nemici,  tra i quali c’era sicuramente, l’autore dell’attacco pirata a un blog,  senza falsa modestia,  che in poco meno di nove anni di vita - parlo del 2014 - aveva macinato un milioncino di visitatori unici.  Niente di che, ma  neppure poco.
Dicevo di Fb. All’inizio recuperai subito, tutti i miei lettori, quelli che mi seguivano  sui giornali e sul blog. Poi altri, altri ancora, fino a raggiungere i 3400  “amici”, da tutto il mondo.  Subito però notai  la  differenza tra i lettori del blog, un circolo di amici, soprattutto nella vita, quindi vicini  a me intellettualmente, e  quello di Fb, popolato in maggioranza da “amici”, in realtà perfetti sconosciuti (ecco il perché delle virgolette), con una preparazione  culturale media, talvolta mediocre, politicamente oscillanti, a parole,  tra il ribellismo e la rassegnazione,  tutti però -  ovviamente,  quelli che dopo essersi avvicinati continuano a leggermi -   mai stanchi di trovare una perfetta consonanza tra ciò che pensano e le tesi espresse nei miei scritti. 
Si chiama consonanza cognitiva: uno dei più potenti motori (insieme all'altro fenomeno della dissonanza cognitiva) di socializzazione culturale.  Mi spiego meglio: dall’Età della pietra lo scrittore migliore (anche sulle pareti della caverne) resta colui che dice cose che i suoi lettori vogliono sentirsi dire.  Più sei “bravo”, più sei banale. E la "democrazia" comunicativa - i Social, insomma -   ha semplicemente agito da cassa di risonanza, o se si vuole da moltiplicatore,  del più  vieto senso comune, anche quando ci si atteggia a rivoluzionari o scettici blu.
La vera cultura,  quando esiste, è sempre per pochi: è aristocratica, non democratica. Tradotto: piaccia o meno,  non può essere su Fb.  Figurarsi che smacco, dover cedere, dopo tutto, al folclore cognitivo del Social, per uno scrittore, come ritengo di essere, abituato a  privilegiare le domande alle risposte. E la mia pagina, penso in particolare ai commentatori,  pur nei limiti del social-tribalismo, per dirla con  Totò,  si difendicchia.
Comunque sia, questo oggi passa il convento.  Tuttavia, se il Blog, era una finestrella sul mondo, dove si discuteva principalmente  tra vecchi  amici, anche nella vita, di cose nobili e difficili,  la Pagina Fb  è una specie di  camera con vista panoramica sulla natura umana,  i suoi luoghi comuni,  i suoi tic collettivi, nel bene come nel male,  dal fascino del carisma  all' invidia sociale, eccetera, eccetera.   Ciò significa che per il sociologo  c’è sempre da imparare qualcosa.
Perciò, grazie “amici”  di questi tre anni. Vissuti insieme: voi, per così dire,  sul lettino,  io a osservare.  O quasi.     

Carlo Gambescia

         

giovedì 25 maggio 2017

Ancora sull’attentato di Manchester
Tornare a Kissinger




A proposito dell’attentato di Manchester invito a leggere  gli articoli di Vittorio  Feltri e  Massimo Fini, usciti oggi  rispettivamente su “Libero” e sul “Fatto  Quotidiano”. Per quale ragione? Perché riflettono due posizioni estreme pro o contro l’Occidente  che andrebbero assolutamente evitate: 1) il chiudersi in casa e buttare la chiave (Feltri); 2) il J’Accuse contro la presunta ’ipocrisia degli occidentali (Fini).  Senza però dimenticare una terza posizione, comune agli editorialisti dei  giornaloni né di destra né di sinistra, un tempo si diceva di  regime (“Corriere della Sera”, “Stampa”, “Repubblica”), che invece 3)  chiedono, in modo contraddittorio, più controlli di polizia e  porte aperte a tutti.
Naturalmente, e veniamo al punto, né Feltri, né Fini, né gli “editorialisti riuniti” hanno una qualche idea su come vincere una guerra, perché di questo si tratta.  Per Feltri,  dovremmo  cacciare a calci gli immigrati, per Fini, chiedere loro scusa, e  magari convertirsi, per gli “editorialisti riuniti”, accogliere tutti per dare una lezione di umanità  a Trump.   
Insomma,   divisi su tutto ma uniti nell’incapacità di capire che siamo in guerra.  E di religione. Il che può rendere le cose più difficili, perché,  noi  europei e occidentali, siamo abituati a  considerare la religione un optional, una questione secondaria. E quindi ci sfugge il nodo del problema.  
Facciamo un esempio:   Obama e Trump, pur tra le divisioni politiche,  hanno una visione comune sul ruolo della religione nella vita politica: in una parola laica.  Insomma,  tra i due presidenti americani da un lato,  e  i capi di stato saudita e  iraniano dall’altro  esiste una profonda divisione prodotta da una diversa concezione mondo.  In Arabia e  in Iran, un gay viene messo in prigione e giustiziato, da noi è un cittadino come un altro. E così per le donne, eccetera, eccetera.  La legge coranica prevale sui valori laici. E l’Occidente che separa rigidamente il sacro dal profano, il pubblico dal privato, eccetera, eccetera, viene considerato come una specie di reprobo, da convertire, con le buone o le cattive.  E mano a mano che si scende socialmente, le divisioni tra Occidente e Islam,  si fanno al tempo stesso, più semplici e forti nei contenuti.  Perché se il teologo condanna, il popolo approva, il terrorista uccide.
Pertanto negare che sia in atto una guerra e per giunta religiosa è un errore fondamentale. Che nasce dalla nostra incomprensione della radicale differenza, non semplicemente di natura  politica, bensì, più netta,  "di visione",   laica in Occidente, religiosa nell’Islam.    
Ovviamente, la politica ha le sue regolarità, si nutre anche di alleati,  e l’Occidente ha i suoi: la logica politica, spesso accomodante,  può senz'altro  ignorare, la logica delle idee collettive, Ma non per sempre. Altrimenti si rischia di  commettere  un grave errore, non  tattico ma strategico.  
Cerchiamo di capire meglio.  In qualche misura,  Stati Uniti ed Europa, rifiutano, come dire, la saggia dottrina di  Henry Kissinger.  Cosa sostiene l’ex Segretario di Stato, profondissimo studioso di politica.  Egli ritiene  che la costruzione di un ordine internazionale, fondata sull’equilibrio,  deve tenere conto del comportamento di  quelle nazioni che a parole  accettano l'ordine, ma nei fatti, e ancor più ideologicamente, lo combattono o si preparano a distruggerlo.  Pertanto, per usare una metafora, se gli interessi politici, e giustamente,  talvolta spingono a trattare anche  con il diavolo, non si deve mai dimenticare che del diavolo si tratta. E quindi va tenuto il dito sul grilletto.
Kissinger sostiene - semplificando la sua tesi -  che il diavolo, con il quale si può occasionalmente trattare, è consapevole di essere tale,  mentre Stati Uniti e Occidente, ritenevano, ad esempio all'epoca della "Guerra  Fredda" - non tutti i leader  naturalmente, Nixon per primo -    che il diavolo si sarebbe prima o poi convertito ai  nostri valori, grazie agli effetti della pace, della cultura e dei commerci. Il che è stato possibile. Però, come si chiedeva Kissinger,  in che modo?  Porgendo l'altra guancia e aspettando? No. Politica del contenimento, due blocchi,  quindi conflitti locali a rischio atomico,   nonché tempi lunghi per trattare e capirsi sul piano degli interessi, con due nodosi bastoni, neppure tanto nascosti, dietro la schiena. Senza trascurare, infine, un fatto fondamentale, dirimente: l’accettazione preventiva da parte del nemico sovietico  dei valori moderni, insomma, di larga parte dell'eredità illuministica (1).
Inutile, qui aggiungere, che per contro  nel mondo islamico, con qualche eccezione,  il diavolo  è rappresentato   dall’Occidente e dalla modernità illuministica nella sua interezza.  Sicché l’Islam  ci ha sempre combattuto. E se  è scesa a patti,  ciò è avvenuto  per ragioni contingenti legate a crisi politiche interne  o a seguito di una sconfitta.  Pertanto -   ecco il punto kissingeriano da non dimenticare mai -  l’idea di ordine internazionale dell’Islam è profondamente diversa dalla nostra, perché di tipo religioso, a sfondo universalistico, fondata sulla conversione degli infedeli all’Islam.  Quindi, sovvertitrice di ogni ordine politico laico, imperniato sulla separazione, particolaristica, per stati,   tra potere politico  e potere religioso, incarnata dai  valori  vestfaliani. 
Ciò non significa che l’Occidente debba proclamare nuove crociate  e alimentare  il fanatismo a sfondo pseudo-religioso o razzista, ci mancherebbe altro. L'Occidente, proprio perché dotato di storica freddezza e razionalità,  non deve non mai dimenticare la natura religiosa e universalistica, a sfondo coercitivo, del nemico. E di conseguenza, oltre a trattare,  se necessario, schierare,  visto che detiene la supremazia militare,  una forza superiore per schiacciarlo  ( o in chiave di escalation, minacciarlo seriamente di).  
Piangersi addosso, sperando che il nemico si commuova, è pura stupidità politica, che  può condurci alla rovina. Pertanto dobbiamo tornare a Kissinger.

Carlo Gambescia       
               

(1). Si veda in particolare H. Kissinger, Ordine Mondiale, Mondadori 2015, in particolare capitoli 3, 4, 7.          

mercoledì 24 maggio 2017

L’attentato di Manchester
Islam vs consumismo, chi vincerà?




Dopo ogni attentato terroristico jihadista, ultimo quello gravissimo di Manchester, si  assiste alla stessa recita  politico-mediatica: dai titoli dei giornali alla reazione dei politici.  Che succede?  Prevale, anzi domina,  la logica sociale  della lotta alla criminalità e del musulmano che sbaglia, come un tempo si diceva dei “compagni comunisti” con il passamontagna.   
Di certo,  due catastrofiche guerre europee hanno giustamente insegnato agli europei i pericoli delle guerre ideologiche.  Come del resto il lungo periodo di pace interna ha ammorbidito gli animi e  addolcito i costumi.  Si vive, insomma,  nella e della rassicurante convinzione che il nemico prima o poi la smetterà, e che qualsiasi atto di guerra da parte nostra potrà solo complicare le cose e precipitarci in una inutile guerra simmetrica nei riguardi di un fenomeno asimmetrico come il terrorismo islamico.  Guai, insomma, a chi osi parlare di una terapia militare .     
Sicché le uniche strategie  per difenderci dal terrorismo, ogni volta riproposte, sono le crescenti  misure di polizia,  il dialogo con le comunità musulmane europee, e un aiuto tecnico, economico e militare, laddove si combatte il fenomeno jhiadista.  Infine, per una di quelle ragioni occulte, misteriose, sconfinanti nell’autodistruzione dei popoli, ragioni più o meno nobili che dovranno spiegare gli storici del XXIV secolo, ci si oppone, soprattutto a livello politico, al  controllo dei flussi migratori verso il continente europeo.
Insomma, a meno che la cadenza degli attentati non divenga giornaliera,  il cittadino europeo,  sembra essere disposto, pur di vivere in modo semi-normale,  a subire tutto il peso di uno stato di polizia. Al di là di alcuni gruppi  razzisti - che però  non vanno oltre la logica dei controlli estesi alle frontiere - la stragrande maggioranza degli europei, a partire dai militari di carriera,  non ha alcuna voglia di battersi lontano dall’Europa, né di cambiare programmi legati a uno  stile di vita, secolarizzato, più che soddisfacente,  che ruota intorno ai  processi di produzione e consumo di beni e servizi, materiali e immateriali. 
Il che facilita il ruolo della politica, dalla sinistra alla destra, nell’affrontare il terrorismo solo in termini di politica interna e di  terapia culturale. Come ben prova, sul piano dell'immaginario, la retorica politicamente infantile, ma legata a un sistema routinario di vita, quindi difficilmente sradicabile,  “dello sconfiggeremo il nemico,  andando come ogni anno  in vacanza”. 
Si potrebbe parlare, semplificando, di un razionalizzazione consumistica del nemico,  nel doppio senso 1) di sedurlo con uno  stile  vita che 2) ha sedotto gli  occidentali. Sul punto ritorneremo più avanti.  
Per ora,  se  reazione ci sarà  a livello sociale,  verrà  quando il terrorismo, intensificando la sua attività distruttiva, impedirà il normale svolgimento della vita sociale  e  l’attuazione stessa dei singoli programmi di vita: come andare al lavoro, a  un concerto, in vacanza, partire per un viaggio, spostarsi in automobile, treno, aereo,  recarsi al cinema, in biblioteca, godersi un aperitivo e una passeggiata. Difficile dire quale aspetto potrà assumere la reazione, molto dipenderà dal tasso di risentimento sociale, dai livelli di inclusione e dalla distribuzione del potere tra i diversi gruppi collettivi.  
Alcuni sostengono, come anticipato, che la razionalizzazione consumista, potrebbe estendersi, coinvolgere e convertire il nemico jihadista.  Indubbiamente,  si tratta di una sfida interessante. La secolarizzazione dei costumi è un'importante fattore di trasformazione sociale.  Per ora, tuttavia,  non sembra funzionare, almeno all’interno delle seconde generazioni di immigrati islamici.
Il vero  problema sociologico riguarda la tempistica sociale: la conversione o razionalizzazione consumista sembra essere  più lenta ( e meno efficace)  di quella religiosa.  Lo stile di vita europeo  ha impiegato circa duecento anni per radicarsi.  E può  provocare, dove la tensione religiosa è forte, crisi di rigetto. Quindi la terapia culturale ha tempi lunghi e non sempre funziona. Del resto la terapia militare , come abbiamo visto, non viene presa in alcuna considerazione. Sicché sembrano non restare che le misure di polizia e l’attesa che la terapia culturale funzioni, ossia che musulmani, semplificando,  si convertano tutti  al consumismo.   Sempre che, a suon di bombe, non siano gli occidentali a convertirsi all’Islam. In fondo, non si diceva un tempo meglio rossi che morti?  La conversione forzata o meditata,appartiene alla logica del pacifismo piuttosto che a quella della guerra civile.  La terapia culturale, mai dimenticarlo, un po' come la democrazia di massa,  è un'arma a doppio taglio, può favorire tutto e il suo contrario.   
Certo, contro l’Unione sovietica, “l’ Islam del XX secolo" (Monnerot),  alla fine vinsero i frigoriferi. Con l’islamismo, quello autentico,  del XXI secolo, potrebbe però essere più dura.      

Carlo Gambescia                   

                                  

martedì 23 maggio 2017

Alessandro Campi e la delegittimazione (a singhiozzo) del leader 
Spiegare Panebianco ai lettori del “Messaggero”…



Non sappiamo veramente cosa pensare di Alessandro Campi. E della sua  politologia scientificamente a singhiozzo:  del predico bene e razzolo male...  Ieri sul  “Messaggero” l'ex direttore di Fare Futuro, ai tempi belli di quando Gianfranco Fini era il cocco della sinistra anti-berlusconiana, ha sviluppato un impeccabile  ragionamento alla  Angelo Panebianco. 

La democrazia, stando ai manuali, è il fisiologico alternarsi al governo di leader e partiti, tutti egualmente legittimati a ricoprire quel ruolo, deciso dagli elettori. Ma cosa capita quando la parte perdente, ovvero momentaneamente all’opposizione, convinta magari di rappresentare il lato giusto della storia e i valori autentici di libertà e giustizia, non accetta il verdetto delle urne e ricorre ad ogni mezzo pur di metterlo in discussione o modificarlo? Non si rischia, delegittimando chi si trova legittimamente al potere, di inficiare la stessa procedura democratica e di alimentare la sfiducia collettiva nei confronti di quest’ultima? 


Secondo Campi  sarebbe  ciò che è capitato a  Berlusconi (appuntarsi il nome) e  sta accadendo con Trump e Renzi.  Insomma, a suo avviso,  insieme all’acqua sporca delle calunnie e dei sospetti  ad   leaderam ( ci si perdoni il latino maccheronico), si rischia di  gettare via il bambino, ossia le istituzioni  democratiche.  
Che dire? Giustissimo. Tra l'altro, si noti un'autorevolezza che sembra essere lì da sempre.  "Sembra", perché, in realtà, qualche hanno fa  il professore dell'Università di Perugia razzolava male, anzi malissimo... Il Campi, che oggi si atteggia a Panebianco,  è  proprio sicuro di non aver dato il suo contributo al debunking istituzionale  quando  era il  Sir Biss  di  Fini?   Il "Che fai, mi cacci?" non favorì forse  la “delegittimazione  di chi si  trovava legittimamente al potere”?   La pugnalata politica di Fini a Berlusconi, razionalizzata dal professor Campi, non fu forse alle origini della successiva via crucis populista che da Monti  giunge a Grillo? 
Nelle interviste e scritti successivi alla gilded age finiana,  Campi invece  risponde allineando una serie di bottiglie politologiche vuote:  che lui, di lì a un anno, si era già dissociato;  che furono  i fliellini  a non capire il grande valore di un’operazione di alta politica; che Fini doveva dimettersi da Presidente della Camera, per avere le mani libere e rifondare il centrodestra, e Berlusconi accettare gaiamente la Presidenza della Repubblica. Come se i politici  mollassero il potere a comando... Machiavelli, del quale Campi si dice cultore,  lo licenzierebbe  in tronco.   “Fired!”, per dirla con Trump.           
Farsi un esame di coscienza professore?  E magari ammettere che, pur di poter "voltolare un sasso" ministeriale, si  è  data  una  mano a confezionare il pacco regalo pentastellato?  Certo, è molto più comodo, come disse Pasolini di Brera (“Spiega Gadda al popolo”), spiegare  Panebianco ai lettori del  "Messaggero"…  Oggi però.   

Carlo Gambescia   

lunedì 22 maggio 2017

Arma dei Carabinieri (*)
Nucleo di Polizia Giudiziaria di [omissis]
VERBALE DI INTERCETTAZIONE DI CONVERSAZIONI O COMUNICAZIONI
(ex artt. 266,267 e 268 C.P.P.)
L'anno 2017, lunedì 22 maggio, in [omissis] presso la sala ascolto sita al 6o piano
della locale Procura della Repubblica, viene redatto il presente atto.
VERBALIZZANTE
M.O Osvaldo Spengler
FATTO

Nel corso dell'attività tecnica di monitoraggio svolta nell'ambito della procedura riservata n. 432/5, autorizzazione COPASIR 329/3 [Operazione “PLUS ULTRA” , N.d.V.] è stata intercettata in data 21/05/2017, ore 16,25 la seguente conversazione telefonica tra le utenze 334***,  in uso a BERNASCONI SILVANO, ex Presidente del Consiglio dei Ministri  e 338***, in uso a DUDU’[cane barboncino, ex presidente PAC (Protezione Animali Cristiani) registrato in proprietà dell’On. SALTINI MATTIA].


BERNASCONI SILVANO: “Allora, ci hai pensato?”
DUDU’: “Ci ho pensato. No.”
BERNASCONI SILVANO: “Come no?! Dico, presidente d’onore! D’onore, Dudù! Tappeti rossi, trattamento da VIP dovunque vai, nessuna responsabilità politica! Meglio di così… ”
DUDU’: “Con la politica ho chiuso.”
BERNASCONI SILVANO: “Ma questo è il Movimento animalista! Il tuo partito, Dudù! Fatto apposta per te!”
DUDU’: “Prego: io sono un cane, non un animale qualsiasi. Un cane barboncino, per la precisione.”
BERNASCONI SILVANO: “Be’? Non sei un animale anche tu?”
DUDU’: “E allora?”
BERNASCONI SILVANO: “Sarai mica razzista?”
DUDU’: “Ah no! No il trucco del razzismo!”
BERNASCONI SILVANO: “E invece sì, scusa. Io che ti conosco lo so che non sei razzista, ma gli altri? Cosa vuoi che pensino gli altri? Che sei razzista. Prima fai il presidente della Protezione Animali Cristiani, adesso rifiuti il Movimento Animalista…fai due più due, vedrai come ti tratta la stampa.”
DUDU’: “Protegge i lupi, il Movimento animalista?”
BERNASCONI SILVANO: “Be’…non so…sì, immagino di sì…”
DUDU’: “A me i lupi mi sgranocchiano come una merendina.”
BERNASCONI SILVANO: “Ma sono pochi, stanno in montagna…chi vuoi che se li tenga in casa, i lupi, dai…”
DUDU’: “Sono pochi per adesso. E i pitbull?”
BERNASCONI SILVANO: [pausa]: “I pitbull sono cani come te. Certo, vanno addestrati, educati, integrati…”
DUDU’: “Ti sei mai trovato a tu per tu con un pitbull?”
BERNASCONI SILVANO: “Sì, certo.”
DUDU’: “A tu per tu, Silvano. Senza il padrone che lo tiene al guinzaglio, e senza le guardie del corpo.”
BERNASCONI SILVANO: “Fa’ il presidente del Movimento, e di guardie del corpo ne avrai quante ne vuoi.”
DUDU’: “E gli altri?”
BERNASCONI SILVANO: “Che altri?”
DUDU’: “Gli altri cani piccoli come me. I barboncini, i chihuahua, i pechinesi…Gli dai le guardie del corpo anche a loro?”
BERNASCONI SILVANO: “Mah…lo sai anche tu…sono troppi, a tutti non si può…”
DUDU’: “E allora io sto con quelli come me. Fallo fare a un pitbull, il presidente.”

Letto, confermato e sottoscritto
L’UFFICIALE DI P.G.
M.Osvaldo Spengler

(*) "Trattasi" -   tanto per non cambiare stile,  quello  della  Benemerita...  -   di ricostruzioni che sono  frutto della mia  fantasia di  autore e commediografo.  Qualsiasi riferimento  a fatti o persone  reali  deve ritenersi puramente casuale. (Roberto Buffagni)

Chi è il  Maresciallo Osvaldo Spengler?  Nato a Guardiagrele (CH) il 29 maggio 1948 da famiglia di antiche origini sassoni (carbonai di Blankenburg am Harz emigrati nelle foreste abruzzesi per sfuggire agli orrori della Guerra dei Trent’anni), manifestò sin dall’infanzia intelletto vivace e carattere riservato, forse un po’ rigido, chiuso, pessimista. Il padre, impiegato postale, lo avviò agli studi ginnasiali, nella speranza che Osvaldo conseguisse, primo della sua famiglia, la laurea di dottore in legge. Ma pur frequentando con profitto il Liceo Classico di Chieti “Asinio Pollione”, al conseguimento della maturità con il voto di 60/60, Osvaldo si rifiutò recisamente di proseguire gli studi, e si arruolò invece, con delusione e sgomento della famiglia, nell’Arma dei Carabinieri. Unica ragione da lui addotta: “Non mi piace far chiacchiere .” (Com’è noto, il carabiniere è “uso a obbedir tacendo”). Mise a frutto le sue doti di acuto osservatore dell’uomo in alcune indagini rimaste celebri (una per tutte: l’arresto dell’inafferrabile Pino Lenticchi, “il Bel Mitraglia”). Coinvolto nelle indagini su “Tangentopoli”, perseguì con cocciutaggine una linea d’indagine personalissima ed eterodossa che lo mise in contrasto con i magistrati inquirenti. Invitato a chiedere il trasferimento ad altra mansione, sorprese i superiori proponendosi per la sala ascolto della Procura di ***. Richiesto del perché, rispose testualmente: “Almeno qui le chiacchiere le fanno gli altri.”
***

Roberto Buffagni è un autore teatrale. Il suo ultimo lavoro, attualmente in tournée, è Sorelle d’Italia – Avanspettacolo fondamentalista, musiche di Alessandro Nidi, regia di Cristina Pezzoli, con Veronica Pivetti e Isa Danieli. Come si vede anche dal titolo di questo spettacolo, ha un po’ la fissa del Risorgimento, dell’Italia… insomma, dell’oggettistica vintage...






domenica 21 maggio 2017

Milano, Assisi, Palermo
La sinistra dei finti buoni




Milano. La sinistra, quella che va dal no al ni a Renzi,  sfila,  perché “migrante” è bello e possibile. E guai a chiunque provi ad avanzare timide critiche. Perché  accoglienza e ordine pubblico si  conciliano benissimo: i carabinieri  possono  cucinare, medici e infermieri, servire a tavoli.
Assisi, marcia la sinistra populista dei cinquestelle, nemica giurata di Renzi. Grillo si  paragona a San Francesco ed evoca una pensioncina gratis per tutti. E guai a chiunque sottolinei  l’ingiustizia di foraggiare i poltroni.  In fondo,  siamo tutti “migranti” , basta aggiungere un posto a tavola.  Per il resto come sopra:  i carabinieri   cucinano, i  medici e gli  infermieri servono.         
Palermo. Tra qualche giorno, i professionisti dell’antimafia, celebreranno  Falcone e Borsellino come i nonni nobili di Woodcock.  Ergo,  i carabinieri, ovviamente solo in questo caso, non possono non tornare a fare i carabinieri per arrestare Renzi e famiglia.  Ci mancherebbe altro.      
Che dire?  Questa sinistra Peace & Love,  vuole solo sembrare  buona. Diciamo che fa finta. E soltanto per distruggere il nemico politico del momento.  Si citano il Poverello di Assisi e  Papa Francesco, ma si applica Carl Schmitt.  Anche alla nonna di Renzi.
Va detto che non c’è un vero e proprio disegno politico, ma solo l' odio inveterato verso chiunque proponga qualsiasi tipo di riforma  alternativa  all’idea di un’ Italia formato Caritas,  pronta però  a trasformarsi in lupo mannaro contro i “nemici del popolo”.  
Il che però  non significa che abbiano ragione i cattivisti di destra, da  Salvini ai razzisti fascio- complottisti.  In realtà, gli aspiranti seguaci del KKK italiano fanno semplicemente il gioco dei buonisti di sinistra.  Gli uni rinviano agli altri e viceversa.   Con una differenza però:  che i buonisti di sinistra hanno dalla loro  il consenso, per dirla in gomorrese, di “pezzi” importanti,  “delle istituzioni”.  Esageriamo? Allora, portiamo qualche fatto.
Durante la manifestazione di  Milano ha parlato  la seconda carica dello stato. Invece,  sulla Marcia di Assisi, una pulcinellata populista,  le altre due (alte cariche) si sono ben guardate dal replicare  alle  stupidaggini di Grillo.  In quel di Palermo, a telecamere riunite, sfileranno i soli noti,  con l’idea  fissa del complotto politico-criminale e con la pala a portata di merda (pardon), per  inzaccherare chiunque non condivida la vulgata di Fabio Fazio. Ovviamente,  con il  buon Mattarella, silente in salotto davanti alla televisione.   

Carlo Gambescia   
                

       

venerdì 19 maggio 2017

I guai di Trump, la sfida populista  e la selezione delle élites
E se le masse non si sentissero tradite?



I guai di  Trump, per un verso dipendono dall’uomo (un “cialtrone”, politicamente parlando,  secondo Giuliano Ferrara), ma per l’altro  rinviano ai ferrei  meccanismi di selezione e legittimazione delle élites e della classe dirigente  che riguardano tutti i sistemi politici,  in particolare quelli democratici.
Il principale  problema  di Trump  è il non disporre di personale politico all’altezza della situazione.  Il che rimanda al reclutamento, che a sua volta  rinvia al tasso di  credibilità presso le élites dirigenti del programma populista. Quindi  la scelta  se  aderirvi o no.
Ora, a meno che non si tenti il colpo di forza,  non si può  imporre  ai quadri direttivi di una società (1) un programma politico in netto contrasto con i  valori e  gli  interessi infra-sistemici che sono alla base dei processi di legittimazione politica, economica e sociale della élite dirigente che ci si propone sostituire. E per giunta, pretendere di condurre a termine  il  processo di ricambio in pochi mesi: a Ronald Reagan e Margaret Thatcher, due formidabili innovatori (altro che Trump),  non bastò un decennio o poco più...
Insomma, occorre tempo. E soprattutto serve  la dimostrazione, con i fatti, circa la  bontà del “nuovo che avanza”. Ma come dimostrarlo, se  il ciclo politico, non supera una o due legislature e  i poteri dell’esecutivo limitati? E le società complesse? Si dovrebbe uscire dalla democrazia e dalla concertazione. Il che però imporrebbe l’evocazione  di un’altra formula politica. Come dire, alternativa.  E perciò il rischio dello scontro totale, come nella prima metà del Novecento, dai costi sociali incalcolabili.              
Qui  torniamo a Trump, il cui  progetto politico protezionista e decisionista,  in una società liberale e concertazionista, non può non suscitare reazioni negative da parte della classe dirigente.  Non è una questione di complotti, ma di “specifico sociologico”, di persistenza di valori e interessi, istituzionalmente incarnati (2), che inevitabilmente assumono nel tempo forza propria  perché  ritenuti necessari, non solo da parte delle élite dirigenti, ma  di tutti coloro che intendono farne parte - magari senza poi riuscirvi -   per essere inclusi nei processi di selezione economica, sociale e politica.
A differenza di ogni altro regime -  e qui pensiamo agli aspetti dinamici delle istituzioni politiche -  il ciclo liberal-democratico  implica il libero convincimento attraverso il discorso pubblico, il voto e il legittimo consenso.  Il che però non significa, che come ogni altro sistema, non abbia la sua formula politica, in questo caso  fondata sul sistema di mercato e la democrazia rappresentativa:  formula  alla quale  si chiede fedeltà, sul piano delle credenze diffuse, quindi informale (qualcosa che si respira nell’aria, di democratico, insomma),  per essere inclusi nei processi di selezione sociale delle élites dirigenti. Processo di  inclusione, a differenza di altre formule politiche, che si può liberamente contestare e al quale ci si può, altrettanto liberamente, sottrarre.    
Trump, come del resto i populisti europei, ripetiamo, punta invece su un'altra formula politica: protezionista e plebiscitaria.  Il che spiega  il duro conflitto in corso  negli Stati Uniti,  come ovunque si cerchi di imporre una formula politica, semplificando, radicalmente anti-liberale.  
Quest’ultima,  diciamo, è la cattiva notizia. La buona è che, come hanno provato le recenti elezioni politiche europee e le proteste pubbliche  negli Usa,  i valori della formula liberale sono tuttora condivisi da un largo numero di elettori, se non addirittura dalla maggioranza di essi.  Pertanto il consenso infra-sistemico  non riguarda  solo  le  élites, legate, come spesso si pretende, solo dagli interessi, bensì le “masse”, per le quali gli interessi sono una promessa racchiusa nei valori. Si chiama fiducia.
Insomma, la gente comune “ci crede”. Ciò significa che il “sistema” liberal-democratico, nonostante tutto, gode ancora di fiducia diffusa. Il compito dei politici, probabilmente il più difficile,  è di  non tradirla.  Riusciranno i nostri eroi?  A partire da Macron?  
Carlo Gambescia           
       

                            

(1) Politici,  intellettuali, scienziati e professori , dirigenti e burocrati pubblici, magistrati,  uomini d’affari e imprenditori, personaggi del giornalismo,  dello spettacolo,  dell’intrattenimento, eccetera.

(2) Si studia nelle stesse università, si crede negli stessi valori, si frequentano gli stessi ambienti, si appartiene agli stessi circoli, si fanno affari insieme,  eccetera. 

                 

giovedì 18 maggio 2017

Dall’ “Ami du peuple”  al  “Fatto Quotidiano”
In principio era Marat...



Quando nasce il  giornalismo di denuncia?  Quello feroce che oggi invoca la ghigliottina mediatica? Insomma, per dirla tutta,  quali sono i nobili, più o meno,  avi de “Il Fatto quotidiano?   
Bisogna innestare la retromarcia e andare molto indietro.  Chi ha sentito parlare  de “ L' Ami du Peuple” di Jean - Paul Marat?   Forse qualche specialista della Rivoluzione francese, pochi, e neppure “buoni”  in Italia.  Per tutti gli altri,  Marat, medico fallito, rancoroso, egocentrico ( “l’aquila vola sempre da solo, il tacchino fa comunella”, come amava ripetere),   ma amico e interprete unico del pensiero del popolo, resta quasi un illustre sconosciuto.   
Marat, come anticipato,  era il proprietario, editore, direttore amministratore unico de “L'Ami du Peuple”,  dalle cui colonne, negli anni caldi della Rivoluzione francese, denunciava tutto e tutti,  chiedendo il taglio di montagne  di teste,  aristocratiche e non, sulle quali sedersi.  Insieme al popolo francese, of course.  “ Un anno fa -   scriveva -  cinquecento o seicento teste mozzate vi avrebbero resi liberi e felici. Oggi dovremmo tagliarne diecimila. Tra qualche mese ne taglierete centomila, e farete benissimo, perché non avrete pace finché non avrete sterminato i nemici implacabili  della patria fino all’ultimo rampollo”.  Lo stesso odio implacabile che si ritrova, certo, evocando la ghigliottina mediatica, nelle pagine de “il Fatto Quotidiano”…
Quando  si scorre  “ L' Ami du Peuple”,  interamente scritto da Marat,  si resta colpiti per la violenza del tono, per la durezza dei contenuti, per l’assurdità delle accuse  politiche e soprattutto per il clima di complotto permanente  contro la Rivoluzione della Virtù che egli scorgeva ovunque.  Politicamente, Marat erano decisamente più a sinistra di Robespierre.  Fortunatamente, sia l’uno che l’altro finirono prestissimo i lori giorni, Marat, assassinato, Robespierre sulla ghigliottina. Invece, noi auguriamo lunga vita, lunghissima,  ai Marat di oggi…
Quel che resta di sorprendentemente moderno, e che pone  l' "Ami du Peuple", alle origini di certa stampa, che oggi vive di  moralismo e  denunce,    è il gusto della rivelazione, quasi sempre inventata o frutto di delazioni e spionaggio.  Oggi si chiamano intercettazioni…
Marat era poliziotto, giudice e  carnefice al tempo stesso: le sue idee erano perfette, ripeteva,  perché egli era sempre dalla parte del popolo contro il privilegio. In lui, ritroviamo un tipo argomentazione presente negli editoriali dei giustizialisti dei nostri giorni. Quale?  Se, in un giudizio,  un certo accusato si difende, usando gli stessi argomenti, impiegati da un altro accusato, ma in un processo differente,  tutto ciò viene giudicato segno di colpevolezza. Come leggevamo proprio  ieri su “il Fatto Quotidiano”,  a proposito del girondino Renzi che  si difende usando le stesse argomentazioni di Berlusconi, amico di Danton,   e che quindi... 
Di Marat è stato scritto: "Il sanguinario, il rifornitore della ghigliottina, la cui prosa corrosiva richiede sempre nuove condanne, costituisce forse uno degli esempi migliori della frenesia umanitaria generata da tutte le grande crisi sociali" (1).
Giunti fin qui,  riteniamo inutile fare il nome del Marat dei nostri giorni...

 Carlo Gambescia

(1)  G. Martin, J.-P Marat. Oeil et l'ami du peuple,  Rieder, Paris 1938, p. 84. Anche per le altre citazioni.  Su "L'Ami du Peuple",  per una documentazione diretta, si veda qui: http://gallica.bnf.fr/ark:/12148/cb32691640p/date 

        

mercoledì 17 maggio 2017

Corruzione, malaffare e  mafia  tra   percezione e realtà
Se perfino l'ottimo Maltese…


Ieri sera è andata in onda  l’ultima puntata di “Maltese”, un'ottima fiction, grande ritmo,  bravi gli attori,  eccetera, eccetera. Però, vi si respirava  un’aria da ultimi giorni di Pompei. Peccato.
Detto altrimenti, il solito mantra:  il potere mafioso governa l’Italia e tutti i politici sono corrotti.  Si tratta di un ritornello, post Tangentopoli, che da anni  viene rilanciato  quotidianamente dai mass media. La pressione politico-mediatica  è così forte  che si è giunti al punto che le pensioni, difese fino alla morte dai sindacati, quando si tratta di parlamentari e politici in genere, sono degradate a privilegi tout court... Infatti si parla di vitalizi: una specie di  concessione dall’alto, anzi dal basso (il popolo sovrano)  che però  non spetterebbe ai politici, ormai  giudicati, a torto o ragione, tutti ladri e nelle mani della mafia. Termine, quest'ultimo,  oggi  usato a sproposito. Ma così è.
Per ora, siamo allo stadio  dell' insofferenza crescente.  Insofferenza  che però rischia di sfociare in una vera e propria rabbia, che  rischia di  esprimersi, come è sotto l'occhio di tutti,  nel voto  ai partiti populisti,  neofascisti  e neocomunisti, per ora fortunatamente ancora minoritari. Fino a quando però?
Insofferenza e rabbia.  Sono due  termini,  che rinviando al tasso di sensibilità  verso fenomeni come corruzione, malaffare, mafia,  sembrano  essere  quelli giusti per capire natura e origine della nostra deriva. Spieghiamo perché.  
Studi e ricerche   provano  che la corruzione, sempre esistita come risorsa politica,  era  più diffusa prima del 1789.  Quindi non oggi. Il punto è importante,  perché quel che invece è mutato con l’avvento dei regimi liberal-democratici  è solo la percezione sociale del fenomeno.  Come scrive  lo storico Sergio Turone,  in altre età gli uomini erano abituati a tutto,  perché segnati da una vita colma di incertezze e miserie da subire con religiosa  rassegnazione.  Sicché, se nei secoli passati, “l’umanità poteva sopportare senza rivolgimenti sociali un tasso di corruzione, poniamo del 40 per cento, oggi la convivenza civile può reggere in proposito un tasso del 3 per cento: se il livello di malcostume pubblico va oltre questo limite, la società rischia il disfacimento” (1).
Diciamo che Turone  si ferma al dato oggettivo del 3 per cento, non cogliendo il dato soggettivo della percezione che agisce da moltiplicatore.  Di qui però,  la caccia mediatica alle streghe  e l’uso politico improprio non della corruzione,  ma  - attenzione -  della percezione collettiva della corruzione.    
Ovviamente, non si tratta di negare -  come Don Ferrante a proposito della peste -  l’esistenza di corruzione, malaffare, mafia,  e neppure di rimpiangere il "senno"  dei rassegnati  uomini del passato, bensì di comprendere che  esiste una corruzione percettiva.  O per dire meglio,  un fattore percettivo che, agendo come il moltiplicatore keynesiano degli investimenti, in questo caso “investimenti” mediatici e politici sulle credenze collettive, dilata e  deforma sistematicamente i contorni storici e le proporzioni sociologiche  della corruzione, del malaffare e della mafia.   Una vera manna per quelle  forze anti-sistemiche, che per ignoranza, stupidità, invidia sociale, romanticismo politico, culto della lotta di classe, mito dell’uguaglianza sostanziale,  vagheggiano di regolare i conti con la civiltà  post 1789. 
Il processo è in atto, e non riguarda solo l’Italia, ma l’ intero esperimento liberal-democratico. Che in realtà è il meno corrotto della intera storia umana. Tuttavia,  nessuno lo dice, neppure l’ottimo Maltese.

Carlo Gambescia                      


(1)  Sergio Turone, Politica ladra. Storia della corruzione in Italia. 1861-1992, Laterza, Bari 1992, pp. 5-6, nota 1.