venerdì 30 luglio 2010


Berlusconi "caccia" Fini 
Legislatura agli sgoccioli?



E’ finita. Ma non in Parlamento. La "cacciata" di Fini apre un periodo di seria instabilità, in fondo al quale rischiano di esserci le elezioni anticipate.
Alcune osservazioni.
Dal punto di vista dell’immagine, il PdL esce a pezzi. Di fatto e (tra poco) anche di diritto, il partito del predellino non esiste più. Inoltre, sarà facile per la sinistra riciclare l’immagine del Berlusconi padre-padrone. E a Fini di presentarsi agli occhi (iniettati di sangue) degli antiberlusconiani come vittima designata e difensore della moralità nazionale. Ma come si comporteranno con l’ex delfino di Almirante, in caso di elezioni, gli elettori del centrodestra? Sarà un massacro. Fini sembra destinato a subire la sorte di Segni (altro ambiziosetto, prima "ipercoccolato", poi scaricato dai salotti mediatici di sinistra). Detto altrimenti, condannato a sparire per mancanza di truppe elettorali: gli elettori fascisti-fascisti e quelli arciberlusconiani lo odiano, rispettivamente, quanto Badoglio e Prodi, mentre per i moderati antiberlusconiani c'è già bello e pronto Casini. Certo, resta sempre la possibilità di presentarsi - contrattando da posizioni di minoranza i singoli collegi elettorali - all'interno di una gigantesca e fantasiosa alleanza anti-Berlusconi (da Bersani a Nichi Vendola e Italo Bocchino). Ma, una volta eletto, Fini rischierebbe di dover dipendere dall'umore altalenante e dalla puzza sotto il naso del centrosinistra, al cui interno i quattro gatti finiani sarebbero la classica "destra foglia di fico". E nel quadro di uno schieramento complessivo improvvisato e perciò destinato a durare, in caso di vittoria, ancora meno del Governo Berlusconi.
Dal punto di vista politico, si prepara, come accennato, un periodo di seria instabilità. L’appoggio esterno promesso dai finiani rischia di trasformarsi alla prima occasione in voto contrario. Inoltre, sarà molto difficile per il Cavaliere scalzare Fini dalla Presidenza della Camera. Per quanto ne sappiamo, non esiste norma che contempli le dimissioni di Fini. Si prepara perciò un autunno tempestoso. Anche perché in caso di crisi, non crediamo nella possibilità della nascita di un governo tecnico. Uno, perché Napolitano non è Scalfaro. Due, perché il Paese, e non solo quello filoberlusconiano, lo giudicherebbe una specie di "microcolpo" di stato. Tre, un governo tecnico, a sua volta, non avrebbe i voti del Pdl e probabilmente neppure quelli della Lega. Di qui la prospettiva di una vita parlamentare altrettanto instabile e breve. Insomma, dietro l'angolo in caso di avvitamento della crisi si scorgono solo le elezioni anticipate...
Dal punto di vista della lotta politica, diciamo che Berlusconi ha aspettato troppo per “espellere” Fini dal PdL, permettendogli così di organizzarsi e di poter rappresentare, grazie a una cinquantina di deputati, una seria minaccia per la sopravvivenza del Governo. Per contro, Fini ha tirato troppo la corda, spinto dal proprio ego e da quello ancora più spropositato di consiglieri presuntuosi e poco avveduti Perché la mezza sconfitta di oggi, rischia di tramutarsi, in caso di elezioni, in sconfitta totale o, come abbiano accennato, in un modesto contratto di guardiania notturna (perché di giorno impresentabile...) all'interno di un centrosinistra a banda larghissima. Infine, sorvolando sulle questioni antropologiche di fondo (opportunismo, ingratitudine, grettezza, presunzione, eccetera) resta veramente difficile credere nella buona fede dell’ ex “Fascista del Duemila”. Dal momento che Fini quando è “entrato” (perché l’idea era di Berlusconi) nel partito del predellino, conosceva benissimo gli insoluti morali del Cavaliere, i suoi amici e frequentazioni, nonché la sua volontà di usare il panzerfaust nelle questioni giudiziarie… Poteva perciò rifiutarsi di "co-fondare" - verbo che piace tanto a Fini... - il partito unico. Perché non ha parlato subito chiaro e tondo ?
Una cosa comunque è sicura: il voto degli italiani anche in questa occasione sembra contare meno di zero. Povera democrazia.

Carlo Gambescia

giovedì 29 luglio 2010

La rivista della settimana: “Catholica”, Été 2010, n. 108, pp. 144, euro 12,00.

http://www.catholica.fr/

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Ghiotto, come sempre, il fascicolo appena uscito di “Catholica” (Été 2010, n. 108, pp. 144, euro 12,00 ). La rivista si apre con un interessante editoriale di Gilles Dumont - docente di Diritto Pubblico all'Università di Nantes - dove si sviscera una questione oggi fondamentale. Quella della progressiva disarticolazione delle identità storiche, cui si affianca lo sviluppo di artificiali “culture” dei diritti, contrarie alle idee di bene comune e di doveri condivisi.
Siamo perciò davanti a una società che "commercia" - e commerciando controlla gli individui - in diversità culturale. Spesso creandola ad arte come un qualsiasi bene economico. Un tema, questo, brillantemente sviluppato nella parte monografica della rivista, dedicata appunto a “Le grand marché de la diversité” . Dove spicca la pirotecnica analisi di Claude Polin (Retour à Proudhon?). Si badi, un "ritorno" in senso ironico... Dal momento che Polin, offrendo interessanti materiali di riflessione, mostra di scorgere in Proudhon il padre di una visione impolitica del sociale, basata sul miracoloso equilibrio di interessi "diversi". Un credo oggi molto diffuso e condiviso, che rinvia
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"a un anarchismo ben temperato o a un liberalismo intelligentemente egoista o illuminato. Una concezione che si può appunto ritrovare nella dottrina proudhoniana e che culmina, come sempre capita quando si rifiuta la trascendenza, in una società basata esclusivamente sui rapporti di forza. O per dirla altrimenti, nella società priva di qualsiasi forma di vera socialità” (p. 27).
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Seguono, sempre in argomento, alcune interessanti riflessioni di Bernard Dumont, direttore della rivista (La subsidiarité comme piegé), di José María Marco (Une pédagogie d’autodestruction), di Juan Manuel de Prada (La nouvelle tyrannie). Gli ultimi due articoli aiutano a capire la deriva laicista spagnola. In particolare lo scritto di Marco si occupa dell’opera di Francisco Giner de los Ríos (1819-1915), un pedagogista spagnolo progressista, poco conosciuto all’estero, ma che ideologicamente precorre e spiega il zapaterismo.
Inoltre, segnaliamo l’intervista a Pierre Perrier, matematico, membro di importanti accademie (Le scientisme, menace permanente), nonché la bella galoppata in punta di filosofia del diritto di Xavier Pottier (La justice pénale, du droit naturel classique à la postmodernité).
Ricca come al solito la sezione recensioni: vero fiore all’occhiello di “Catholica”, ai cui redattori sembra non sfuggire mai nulla di quel che di stimolante esce in Francia o altrove. Ci limitiamo a segnalare il testo di Jean Pierre Ferrier ( Le Kurdistan et ses Chrétiens): un' ottima recensione all’omonimo libro di Mirella Galetti (Cerf 2010). Nonché l' eccellente scheda di Bernard Dumont, che non disdegna i piccoli colpi di cesello, su due libri di Robert Spaemann: Rousseau Cittadino senza patria (Edizioni Ares 2009); Nul ne peut servir deux maîtres. Entretiens avec Robert Spaemann (Hora Decima 2010).
Buona lettura e alla prossima...


Carlo Gambescia

lunedì 26 luglio 2010

I diciannove morti di Duisburg
Love Parade 
e “cultura dello sballo”


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I diciannove morti di Duisburg, tra cui una giovane italiana, schiacciati dalla folla che premeva per entrare e assistere all'annuale “Love Parade”, parlano da soli… La colpa va equamente divisa tra organizzatori e polizia. Perché non scegliere prudentemente un altro luogo? Perché, una volta scelto quella specie di maledetto imbuto, non si è provveduto a segmentare gli ingressi, suddividendo il pubblico in piccoli gruppi? Proprio per evitare i perniciosi effetti di ricaduta dei fenomeni di folla, a cominciare dal panico di massa?
E con i morti sembra morta anche la Love Parade. Infatti l'organizzatore Rainer Schaller ha annunciato la fine definitiva. della manifestazione che dal prossimo anno non si terrà più. La Love Parade era nata nel 1989 a Berlino, poco prima della caduta del Muro, su iniziativa del Dj Matthias Roeingh, alias Dr. Motte. Fra i primi ad esprimere dolore ai familiari delle vittime ieri sera, la cancelliera Angela Merkel: “Quei giovani - ha dichiarato - erano andati a festeggiare e invece ci sono morti e feriti”.
Bel modo di divertirsi e festeggiare quello dei Rave Party e dei megaraduni… Tra musica assordante, sconfinamento nell’animalità ipnotica e uso massiccio di droghe … Ma la Merkel, in fondo, riflette un sentire oggi diffuso...
E qui vorremmo fare alcune riflessioni di carattere generale. Ma fino a un certo punto.
Innanzitutto - prendendola alla lontana - è vero che le ragioni profonde per cui l’uomo ricorre all’uso della droga sono misteriose. Ma è altrettanto vero che nel XX secolo il consumo di sostanze stupefacenti è cresciuto enormemente, soprattutto in Occidente, dove gli stili di vita hanno parallelamente conseguito una straordinaria razionalizzazione ( o standardizzazione), sotto tutti gli aspetti. Probabilmente un ruolo decisivo nella diffusione sociale dell’uso di droghe è stato giocato dalla massificazione e dalle tecniche capitalistiche di produzione e riproduzione sociale dei beni economici. Un capitalismo sempre più povero culturalmente, puntando sul binomio lavoro-consumo, ha promosso in modo sistematico e crescente una ricerca collettiva della felicità individuale a buon mercato.
L’uso della droga, in quanto legato alla massificazione dei consumi, riguarda le più diverse classi sociali, e perciò va a situarsi in un contesto sociale, dove spesso una condotta razionale di vita (lavoro, famiglia, amore, vacanze), finisce per includere, razionalmente, anche l’uso sistematico della droga come "aiutino" o valvola di sfogo... Tuttavia - ecco il fatto interessante - il punto di sutura sociale tra razionalità e irrazionalità è rappresentato, soprattutto nei giovani, dalla cosiddetta cultura dello “sballo” (per usare un termine giornalistico): il voler essere felici a tutti i costi fino a farsi male... Una cultura che però va a situarsi razionalmente, nella catena razionale di vita dei giovani (scuola, lavoro, famiglia, eccetera). Dal momento che celebra lo "sballo" come il momento “fisiologico” di una specie di irrazionalità-razionale. Infatti lo "sballo", quale dispositivo sociale (rave, megaraduni, eccetera), viene visto come simbolica e momentanea rottura degli schemi “razionali” di vita quotidiana, a patto però di rientravi subito dopo. Ecco l'inderogabile "condizione" sociale che razionalizza l'irrazionale. E spiega il perché di una manifestazione come la Love Parade. Dove però il dispostivo sociale dell’’irrazionalità-irrazionale finisce per scontrarsi con il cattivo dispositivo organizzativo reale… Insomma, se ci si passa la caduta di stile: il diavolo (capitalista) fa la pentole (il Rave) ma non i coperchi (la cattiva organizzazione nel caso specifico).
A prescindere da questi "incidenti di percorso" il crescente uso sociale della droga rischia di essere inarrestabile. E per una ragione molto semplice: l’ uso sociale e “razionale” della droga è parte passiva di quel processo di razionalizzazione di tutti gli aspetti della vita sociale che ha segnato il destino dell’Occidente moderno, descritto da Max Weber.
E la riprova di questo fenomeno è nel fatto che l’ uso sociale della droga viene sempre più giudicato come “normale e benefico”: occasione di sballo nel quadro di una noiosa vita razionale. Come appunto rivela l’espressione della Merkel: “giovani che erano andati a festeggiare”. Del resto chi si diverte, anche drogandosi, acconsente al sistema...
Tuttavia, il fenomeno rischia di riguardare non solo i giovani. Proprio perché tutti noi siamo “soggetti” alle pressioni di un vita razionale e burocraticamente organizzata. Una vita che al tempo stesso favorisce e integra sistematicamente la "trasgressione"…
Questo meccanismo sociale di crescente razionalizzazione dell'irrazionale non ha eguali nella storia umana. E per alcuni è il fiore all'occhiello dell'Occidente. Questione di punti di vista...

giovedì 22 luglio 2010

Il libro della settimana: Roger Scruton, Il suicidio dell’Occidente, Intervista a cura di Luigi Iannone, Le Lettere, Firenze 2010, pp. 72, euro 9,50.

www.lettere.it

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Non c’è dubbio che il sessantenne Roger Scruton, filosofo britannico, sia il più interessante tra gli esponenti viventi del pensiero conservatore. Va perciò elogiata l’idea di Luigi Iannone di proporre “in pillole”, intervistandolo, le sue idee in un ghiotto volumetto: Il suicidio dell’Occidente, (Le Lettere, Firenze 2010, pp. 72, euro 9,50). Impresa, tra l’altro, già ben riuscita al curatore, che nella stessa collana (“Il Salotto di Clio”), ha pubblicato nel 2008 una altrettanto brillante intervista a Ernst Nolte (Storia, Europa e modernità). Iannone è uno studioso, serio e preparato, che oltre a padroneggiare il pensiero europeo della crisi, pratica la non facile arte di porre ai suoi ben scelti interlocutori le domande giuste. E senza fare sconti.
Veniamo a Scruton. Davanti a che tipo di conservatore ci troviamo? Non è un pessimista storico, nel senso che ritiene possibile fermare la caduta libera dell’Occidente. Non è un fondamentalista religioso, dal momento che, come Tocqueville, attribuisce alla religione il compito di contrastare non la democrazia, ma il materialismo democratico. Non è un fanatico del mercato, pur credendo nel valore morale dell’iniziativa privata.
Si può perciò asserire, con Giuliano Ferrara, che Scruton, si ponga il “problema di fissare il limite della modernità dal di dentro della modernità”? Sì. Ecco come il filosofo risponde a una affilata domanda di Iannone sulla natura pervasiva della tecnica moderna:
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“La scienza entra nelle cose come technè mai come aretè. Non può dirci come dovremmo vivere, ma solo come scegliere i mezzi per i nostri fini. C’è tanto spazio per la fede, ma la disciplina per la fede è dura; ed è per questo motivo che noi fuggiamo da essa”.
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In realtà, come ribadisce Scruton qualche pagina più avanti,
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“saremo sempre capaci di tenere la tecnologia sotto controllo; ma vorremmo sempre farlo? Tutto dipende dalla nostra determinazione che è stata fortemente indebolita” .
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Tuttavia, su come curare l’indebolimento della volontà, Scruton, sembra non avere ricette precise. Il filosofo pare non andare oltre il generico appello alle “radici”, alle piccole comunità, alla sana educazione di una volta, al buon senso, ai valori tradizionali. Dispiace dirlo, ma purtroppo siamo davanti a un pensatore non sistematico. Scruton, “pensa”, e anche bene, ma “per saggi”. Come risulta anche dalla composizione del suo Manifesto dei conservatori e dallo stesso modo di scrivere: offre qui e là spunti, spesso però non collegati tra di loro, rischiando così di cadere in contraddizione. E oggi un conservatorismo forte, di tutto ha bisogno eccetto che di incoerenze.
Un esempio? Incalzato da Iannone (“Quali sono i valori cardini a cui deve ispirarsi nel terzo millennio un cittadino che non vuole abbandonarsi alla deriva modernista?”), Scruton risponde così:

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“L’amore, la conoscenza e il perdono”.
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Valori nobili che però non si conciliano con quanto il filosofo sostiene alcune righe più avanti:
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“Immagino un terzo possibile scenario. Un’alleanza di tutte le nazioni democratiche per difendersi dai poteri dittatoriali ed espansionisti capaci di contenere la Cina e la Russia e anche di controllare le emigrazioni”…
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E a proposito di queste ultime:
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Un politico deve avere un carattere forte per dire ‘sto difendendo gli interessi degli italiani indigeni’, piuttosto che gli interessi degli zingari romeni, degli immigrati africani o dei lavoratori emigranti dall’Europa. E’ ancora possibile farlo. Il coraggio non è interamente svanito dal nostro mondo” .
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Il che può pure andar bene. Ma, se le parole significano qualcosa, il coraggio è virtù guerriera, mentre amore, conoscenza (di Dio, di noi stessi, dei nostri simili) e perdono fanno parte del repertorio francescano dell’accoglienza e della pace. Delle due l’una: gli zingari o vanno amati o vanno cacciati.
O no, professor Scruton?


Carlo Gambescia 

mercoledì 21 luglio 2010

Lavorare meno, lavorare tutti? 
O non lavorare affatto? 
O lavorare troppo? Quale futuro ci attende?
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Capitalismo e società del non lavoro
Partiamo dalla possibiltà di realizzare una società del non lavoro all’interno del quadro economico e sociale capitalistico, segnato dalla continua innovazione tecnologica. Strada, sia detto subito, non facilmente praticabile.
Innanzitutto sarebbe assai ingenuo puntare sul ruolo salvifico del progresso tecnologico. Dal momento che i processi di innovazione non sono qualcosa di socialmente neutrale. Perché, di regola, vengono gestiti all’interno del quadro di rapporti gerarchici e di potere esistenti, di cui riproducono le stratificazioni. Pertanto l’uso sociale dell’innovazione tecnologica resta ancorato ai rapporti di classe, o di ceto, per usare in terminologia più soft. Senza poi considerare il fatto che il capitalismo per riprodursi ha necessità di tassi elevati di crescita ( e non di decrescita…).
Di conseguenza nel capitalismo l’innovazione tecnologica, per un verso è usata dalle élite dominanti per ridurre i costi; per l’altro viene “spalmata” sulle esistenti gerarchie sociali, nonché collegata alle esigenze di continuità del sistema. In buona sostanza, l’obiettivo è quello di tagliare le spese per il fattore lavoro, ma senza provocare consistenti mutamenti e/o sommovimenti sociali ed economici. Insomma, anche se in camice bianco e seduti davanti allo schermo di un computer si resta operai, condannati a lavori ripetitivi e spesso poco retribuiti. Quanto alla gestione della manodopera, il “sistema” può ricorrere, come già sta avvenendo, a un mix di flessibilità, allungamento dell'età pensionabile, immigrazione, delocalizzazione, welfare minimale, sorveglianza sociale e consumismo. Legando così, a scopi di controllo sociale, il produttivismo al divertentismo a buon mercato, se ci si passa l'espressione. Si tratta di un meccanismo imperfetto, moralmente discusso e discutibile, che tuttavia funziona. E che nelle sue linee pratiche, anche se criticato dagli intellettuali anticapitalisti, resta gradito - piaccia o meno - alla maggioranza della gente comune in Occidente e invidiato o ambito nel resto del mondo. Non è sicuramente la quadratura del cerchio, ma vi si avvicina...
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Socialismo e società del non lavoro
Secondo altri la società del non lavoro potrebbe tuttora nascere in un quadro economico e sociale completamente diverso: di gestione socialista dell’innovazione tecnologica. Tuttavia anche in tale circostanza, resterebbe sempre la questione che l’uso sociale della scienza, anche se rivolto al progresso tecnologico disinteressato, implica sempre al suo interno lo sviluppo di gerarchie di scienziati, esperti ed organizzatori: uomini che continuerebbero, oggettivamente, a comportarsi come membri di una casta.
Di conseguenza il punto "sociologico" della questione è che ogni specializzazione rinvia a una gerarchia di dipendenze esterne ed interne al gruppo sociale che la gestisce: una società più è articolata, più si regge su una stratificazione sociale complessa. Che, a sua volta, si compone di numerosi gruppi ed élite, poste ai vari livelli della scala sociale delle professioni. Gruppi ed élite con i quali anche in una società socialista in transizione verso forme comuniste, il potere politico (la élite delle élite, che tende sempre a ricostituirsi) non potrebbe non contrastarsi al suo interno. A che scopo? Ma per individuare il giusto mix di socialismo e produttivismo: una miscela, come mostra la tragica storia del comunismo novecentesco, non sempre facile da “scoprire”, soprattutto in una società che si voglia pretenda fondata non sul profitto ma sulla liberazione dal bisogno. Una società che perciò non potrebbe rinunciare, proprio per lo scopo titanico che si propone, a buone basi di crescita economica. Le cui modalità, come è noto, implicano però divisione del lavoro e forme, anche larvate, di profitto e di redistribuzione del medesimo. Per farla breve: una impossibile quadratura del cerchio…


Decrescita e società del non lavoro
Secondo altri ancora, una terza possibilità di società del non lavoro, potrebbe essere rappresentata dalla rinuncia a ogni tecnologia come a ogni bisogno di tipo consumistico: una società della decrescita.
Una scelta del genere però imporrebbe non solo una profonda rivoluzione culturale in chiave anti-materialistica (dalle "modalità" sociali tutte da scoprire...), ma anche la necessità di produrre comunque mezzi economici e militari per fronteggiare le restanti società del lavoro. Le quali non vedrebbero sicuramente di buon occhio, nel quadro di un capitalismo mondiale ancora dominante, una società che scegliesse volontariamente la decrescita, violando l’ “alleanza” capitalistica de mercati. Certo, va giustamente presa in considerazione anche l'ipotesi di una simultanea conversione alla decrescita e al non lavoro di tutte le società. Ma in che modo? Anche qui le "modalità" sociali sarebbero tutte da scoprire... Pacificamente? Le rivoluzioni, anche se permanenti, non sono mai indolori. E la decrescita - ripetiamo - includerebbe anche quella delle forze armate e dell'industria pesante? Come riuscire a far quadrare il cerchio ?
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Concludendo...
Per non complicare le cose abbiamo lasciato fuori dalle nostre riflessioni la questione del rapporto tra religione e politica a proposito, ad esempio, delle varie dottrine sociali; questione che avrebbe condotto troppo lontano.
Ci limitiamo, infine, a porre alcune domande sul problema della rappresentanza o forma politica: liberalismo e democrazia parlamentare sono conciliabili con la società del non lavoro e della decrescita? La società del non lavoro e della decrescita si accorda con il socialismo? Liberalismo e socialismo sono conciliabili con la critica all'idea di sviluppo? Oppure no? Esiste un liberalismo sobrio, privo di ricadute consumiste e mercatiste ? Esiste un socialismo non materialista e antiburocratico.

Come si può notare, i problemi non sono pochi e facilmente risolvibili. Certo, resta sempre la possibilità del "cataclisma" sociale, che alcuni avventurieri delle idee addirittura auspicano. Ma da una società "post-catastrofe", basata sul ritorno all'autodifesa, sulla paura vera, e distinta dall'uso della forza allo stato puro, che tipo di sistema economico e sociale potrebbe nascere?

Carlo Gambescia


P.S. 22.7.10
"Sotto questo sole è bello pedalare sì ma c'è da s(t)ud(i)are./ Sotto questo sole rossi e col fiatone e neanche da bere. /Sotto questo sole è bello pedalare sì ma c'è da s(t)ud(i)are./Sotto questo sole rossi e col fiatone e neanche da bere..." (C.G)
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martedì 20 luglio 2010

Nichi Vendola come Gabriele D’Annunzio?


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Nichi Vendola è un mistero antropologico. Ci fa o c’è?

Narciso (si dia un'occhiata al suo sito...), colto scrittore e istintivo poeta, "Nichi" è un uomo politico che quando parla affabula e spiazza, un po' meno quando governa. In Puglia avrebbe potuto scegliere ( o non farsi imporre) migliori compagni di cordata
Ma torniamo alla nostra domanda: Vendola crede in quel che dice o fa finta? Il modo in cui ha "sciabolato" la sua candidatura alla guida del centrosinistra, bruciando sul tempo gli avversari, è da manuale. “Tecnicamente” si è mosso seguendo le regole, per dirla con Carl Schmitt, della migliore politesse. Ora "Nichi" c’è. Bersani, Franceschini & compagnia cantante sono avvisati.
Al tempo stesso, il Governatore della Puglia ha dichiarato, surfando sull'onda del successo dei baresi “stati generali delle fabbriche", dove appunto si è candidato:
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Io non sono il generale di questa armata. Sono solo un curioso. Per il momento, penso che sia importante accumulare questa esperienza e diffondere luoghi sociali che mettono insieme la contestazione della cattiva politica di destra, di centro e anche di sinistra con buone pratiche. Ricostruendo un’idea di bellezza un po’ più elevata e un po’ meno legata alla processione delle veline. La bellezza dell'incontro, della sfida culturale, della conoscenza”.
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Precisando, da sciamano vivente del verso libero, la grande importanza
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“ di connettere la materia della vita produttiva all’anima della vita civile. Connettere la battaglia su quei diritti sociali che rischiano di essere stritolati anche con l’alibi della crisi, connetterli con quei diritti civili che sono compressi a causa di una politica malata di ipocrisia e vigliaccheria. Oggi noi diciamo che viviamo una deriva sudamericana, ma alludiamo a un Sud America che non esiste più. Perché lì, oggi, le grandi nazioni si sono civilizzate, vanno verso obiettivi di modernità, di progresso, di liberazione umana e noi siamo diventati la parte più vecchia e più conservatrice del mondo. E abbiamo un leader che è l’incarnazione della tenebra: uno dei più vecchi culturalmente del mondo. Persino tragico nel suo tramonto".

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Che dire? Parole che appartengono più a un intellettuale-esteta “della Magna Grecia”, che a un politico di professione… Per ritrovare un approccio del genere - certo, dai contenuti "politici" differenti - si deve risalire a Gabriele D’Annunzio…
Qual è allora il vero Vendola? Quello che abilmente brucia sul tempo le star e starlette del centrosinistra, o quello che intende la politica, sulle orme del "Vate", come ricerca della bellezza?
Ora, ammesso pure che il Governatore della Puglia faccia sul serio, va ricordato che D’Annunzio, alla fine fu emarginato. Nel lusso, ma emarginato.
La poesia quando si scontra con la politica è destinata a perdere. E per quale ragione? Perché, come ricorda, il grande Jean Cocteau, “la massa può amare un poeta solo per un malinteso” .

Carlo Gambescia

venerdì 16 luglio 2010

Inglese, padano o italiano? Mettetevi d’accordo...
Bittescèn, noyo volevàn savuàr l’indiriss... ja?”


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Lingua inglese, italiana o padana? Dipende. Ecco una breve cronistoria in tre capitoli di una politica “alle vuvuzelas”, nel senso che tutti i politici soffiano nella famigerata trombetta, mentre in realtà ognuno va per conto proprio.
Capitolo Primo. Giuliano Cazzola, vicepresidente della Commissione Lavoro della Camera, quando l’anno scorso Calderoli per gratificare l’Umberto, tirò fuori dal cilindro un Ddl che voleva rendere obbligatorio il dialetto a scuola, se ne uscì così: “Con tutto il rispetto per i dialetti, gli italiani, in particolare i giovani, hanno un handicap ben più serio: la scarsa confidenza con le principali lingue straniere e segnatamente con l’inglese che è ormai l’idioma del mondo. Non si trova lavoro in Europa parlando correntemente bergamasco”.
E l’italiano? Poco elegante. Cazzola pare vestire solo in “fumo di Londra”.
Dopo di che la questione dialetti venne accantonata. Ma solo apparentemente perché, Capitolo Secondo, di recente il “Ministero Gelminiano della Pubblica Istruzione” nelle linee guida per i nuovi istituti tecnici, ha ribadito la volontà di introdurre nella scuole di secondo grado lo studio del dialetto. Nelle “schede di lavoro” relative al prossimo biennio , il Ministero chiede ai futuri studenti dei primi due anni delle superiori “competenze”, ovvero conoscenze generiche, in “registri dell’italiano contemporaneo, diversità tra scritto e parlato ma anche rapporto con i dialetti”. Rivendicando: “con forza la necessità di queste conoscenze sui dialetti e le tradizioni locali per favorire la conoscenza dei luoghi in cui si vive, delle proprie radici”.
E l’inglese? Non sia mai. A che scopo studiare l’idioma della “Perfida Albione”? Meglio il bergamasco.
E veniamo al Capitolo Terzo. Ieri l'altro, la Camera ha dato il via libera alla relazione della Commissione politiche comunitarie sul programma di lavoro per l’anno 2010. Il sì è arrivato con le sole eccezioni di Giorgio La Malfa e dei radicali italiani. Ora però viene il bello. Nel documento, si sottolinea l’importanza della lingua italiana e si chiede al governo di opporsi al trilinguismo che limiterebbe la traduzione dei documenti dell’Unione europea nelle sole lingue inglese, francese e tedesco. L’Italia, ha spiegato Andrea Ronchi, gonfiando il petto e portando la mano sul cuore, “non potrà mai accettare ipotesi basate sul trilinguismo”. Anche perché “l’assunto che le tre lingue considerate dalla Commissione come procedurali siano considerate quindi lingue di lavoro non è fondato su alcun criterio oggettivo ed è contrario alle disposizione del Trattato”. Di conseguenza “l’Italia si oppone con fermezza a tali prassi, opponendosi sia a livello politico che in sede giurisdizionale”. Insomma, il ministro delle Politiche europee “è pronto a mettere il veto”. La relazione votata a grande maggioranza impegna il governo a “contrastare con intransigenza ogni tentativo di violazione del regime linguistico delle istituzioni dell'Ue e di marginalizzazione della lingua italiana”. Caspita… Mica scherza l'ex An Ronchi, il più bello, si dice, tra i ministri. Qui si fa sul serio: “Taciti ed invisibili, partono i sommergibili!/ Cuori e motori…”.
Ora però è giunto il momento di capire dove può portare la politica “alle vuvuzelas”. Riassumendo: a scuola Cazzola vuole l’inglese, la Gelmini e la Lega strepitano per il dialetto, mentre l’intero Parlamento invoca in Europa l’uso dell’ italiano. Ma se in classe i nostri ragazzi studieranno solo l’inglese o solo il dialetto, o una sorta di “italobergalese”(italiano, mettiamo bergamasco più inglese) in Europa, ammesso pure che i burocrati della Ue, per evitare i “siluri” di Ronchi, acconsentano all’uso “procedurale” della lingua italiano, come finirà? Cioè in che lingua parleranno gli italiani a Bruxelles. Di sicuro quella di Totò e Peppino a Milano: “Bittescèn, noyo volevàn savuàr l’indiriss... ja?”.


Carlo Gambescia

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giovedì 15 luglio 2010

Il libro della settimana. Ernesto Galli della Loggia, Tre giorni nella storia d’Italia, il Mulino, Bologna 2010, pp. 162, euro 10,00.

https://www.mulino.it/isbn/9788815137098
Esistono due tipi di saggi storici: quelli che si divorano subito e quelli che dopo poche pagine si chiudono per non riaprirli più. L’ultima fatica di Ernesto Galli della Loggia, Tre Giorni nella storia d’Italia (il Mulino 2010, pp. 162, euro 10,00), appartiene decisamente alla prima tipologia. Parliamo di un storico non prolifico, ma che quando pubblica lascia il segno. Chi scrive spera tuttora nel ritorno in libreria della nuova edizione, condotta fino ai giorni nostri, de Il mondo contemporaneo (1945-1980): vero gioiello di sapienza e preveggenza storiografica, pubblicato da Galli della Loggia nel 1982.
Ma quali sono i tre giorni più rappresentativi nella storia d’Italia novecentesca? 28 ottobre 1992: marcia fascista su Roma, cui seguirà lo scivolamento nella dittatura; 18 aprile 1948: prime elezioni libere, vinte della Democrazia Cristiana e “dall’Occidente”; 27 marzo 1994: decisiva affermazione elettorale di Berlusconi e di un’ alleanza, spiccatamente a destra, inconcepibile per i centristi della Prima Repubblica.
Secondo lo storico, caratteristica comune dei tre momenti è il riproporre regolarmente la sfida tra le istituzioni italiane e la modernità: una contesa però mai vinta, almeno politicamente, da quest'ultima. Dal momento che

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“il 1922, il 1948, il 1994 (…) hanno corrisposto rispettivamente all’avvio dell’allargamento della masse alla vita pubblica entro una prospettiva ostile a quella liberaldemocratica; allo stabilimento di una democrazia proporzionalistica dei partiti d’impianto fortemente statalistico; infine al passaggio da questa forma di stato dei partiti con innesti di costituzionalismo anglosassone a un sistema a leadership rafforzata e personalizzata nel quadro di una più ‘aggiornata’ ideologia sociale di tipo acquisitivo. Al tempo stesso ognuna di tali date ha corrisposto all’affermazione di regimi, formazioni e culture politiche molto peculiari dello specifico nazionale”.

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In questo “bailamme” storico, Galli della Loggia individua alcuni fattori di persistenza: 1) la forte “divisività italiana” che sfocia in contrapposizioni frontali (laici/cattolici, fascisti/antifascisti, comunisti e anticomunisti, berlusconiani/antiberlusconiani); 2) l’inclinazione a trasformare la lotta al nemico interno in “regime” (fascista, democristiano, consociativo); 3) la ricorrente tendenza a delegittimarsi tra “nemici” . E quel che è peggio con qualsiasi mezzo; 4) l’incapacità di metabolizzare fisiologicamente il nuovo e di conseguenza 5) ogni cambiamento rischia sempre di essere traumatico ed esterno al sistema politico dominante (squadrismo, sconfitta bellica, minaccia sovietica, “mani pulite”). Conclusioni:
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“Accade così che, essendo dalla vita politica e perciò anche da quella pubblica esclusa la continuità, in Italia possano esserci sempre, e di fatto sempre ci siano, ‘reduci’, e ‘nostalgici’ (e naturalmente ‘trasformisti’ a iosa), ma ben difficilmente conservatori”.

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Questa la “griglia”, questi gli “ingredienti”. Lasciamo al lettore il piacere di scoprire la bontà delle singole portate. Ci limitamo a servire solo un piccolo antipasto. Scrive Galli della Loggia, rischiando sicuramente di farsi molti nemici:
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Quello che si chiama berlusconismo non è il frutto di qualche oscura degenerazione morale (…). Esso corrisponde a una fase di incertezza, di trapasso. In certo senso corrisponde sì a un vuoto (…) ma non a un vuoto morale. Piuttosto a un vuoto d’immaginazione e di pensiero sociale, di idee e prospettive forti (…) . Berlusconi ha saputo vedere e interpretare meglio di ogni altro questo vuoto e lo ha utilizzato per costruirvi uno disegno politico a suo gusto e misura. Non già facendo appello a chissà quali pulsioni liberticide (…). Bensì strizzando l’occhio complice (…) ”
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agli italiani come
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“uno di loro, incommensurabilmente diverso, ma al tempo stesso familiarmente uguale”.

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Insomma, il vuoto già c’era… E qui potrebbe esserci materiale di riflessione per la sinistra riformista. Berlusconi ne ha profittato, gli italiani lo hanno scelto e votato. Altrimenti detto: “è la democrazia bellezza”… Certo, all’italiana, contorta e difficile, ma democrazia. Qualcuno lo ricordi a Gianfranco Fini, eletto con i voti degli stessi italiani che hanno scelto Berlusconi.


Carlo Gambescia

mercoledì 14 luglio 2010

Tasse e senso civico 


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P2, P3... A quando la P4? Mah... Intanto, per Berlusconi i neopiduisti sono soltanto un "pugno di sfigati": "lui", il Cavaliere, assolve sempre gli amici (per qualcuno "amici degli amici"). Mentre per la sinistra, Fini e Bocchino, l'Annibale piduista sarebbe di nuovo alle porte: "loro" condannano sempre, ovviamente i nemici ( e gli amici dei nemici).
Non vogliamo però invischiarci, almeno per oggi, nel tormentone Cavaliere Sì/Cavaliere No, argomento sul quale molti blogger specie d'estate "campano", bensì affrontare un argomento di respiro più ampio in chiave metapolitica ma con leggerezza, perché fa troppo caldo... Quale? Quello del rapporto fra tasse e senso civico degli italiani. Un terreno accidentato, dove i politici, come vedremo, danno il "cattivo esempio".
Non è certo una novità che gli italiani fanno i furbi e non pagano le tasse… Ad esempio nel 2009 l’Italia ha tristemente confermato il suo “primato” europeo con il 51,2% del reddito imponibile non dichiarato. Nei primi dieci mesi del 2009, l’imponibile evaso in Italia è cresciuto del 11,7% raggiungendo i 369 miliardi di euro l’anno, come mostra l’ indagine effettuata da KRLS Network of Business Ethics per conto dell’Associazione Contribuenti Italiani.
Ma è tutto colpa del popolo minuto? Insomma, dell’italiano medio dalla ganassa larga? Sì e no.
Sì, perché l’Italia, come alcuni sostengono, non è un Paese “unitissimo”, e non solo per gli imperversanti particolarismi locali , ma anche per certo furbo egoismo made in Italy che spinge a “fregare” sistematicamente lo Stato e ad affossare ogni senso civico. Come appunto mostra l’evasione fiscale, giunta quasi a livelli montenegrini.
No, perché i politici - quindi non solo il cittadino medio - sono i primi a dare il cattivo esempio, anteponendo la loro, di ganassa, al bene comune.
Si pensi al caso Scajola. E non soltanto alla storia dei microassegni, ma pure, come pare di capire, al basso valore dell’immobile dichiarato davanti al notaio per pagare meno tasse… Nella migliore delle ipotesi l’intero l’affaire non brilla per trasparenza fiscale.
Ma anche a sinistra non si scherza. Nel 2003 Prodi, da padre tenerissimo, donò ai figli 870mila euro per acquisizioni immobiliari, sfruttando proprio le “inique detassazioni” approvate dal governo di centrodestra. E come si difese? Asserendo di aver agito “secondo quanto prevedeva la legge”. Al tempo, un politico deve rappresentare un esempio: se una legge è iniqua non la si sfrutta a fini privati. Dal momento che un comportamento del genere rischia sempre di favorire nella gente comune analoghi atteggiamenti di tipo opportunistico. Il famigerato: “perché lui sì, io no…”.
Il problema - per metterla sul metapolitico - è quello della esemplarità politica. Ci spieghiamo subito.
Esiste un principio che nobilita ( o almeno dovrebbe nobilitare…) la politica. Quale? Quello dell’esemplarità. Tradotto: il politico, soprattutto se di altissimo livello deve rappresentare, o comunque sforzarsi di rappresentare, un esempio “edificante” di comportamento. Insomma, un modello positivo da emulare.
Un po’ di scienza politica, per capire meglio. Rousseau, che era una mammoletta, nel senso che credeva nella bontà dell’uomo, non si stancò mai di ripetere, testuale: “Proponiamoci grandi esempi da imitare, piuttosto che vani sistemi da seguire”. Come dire: “Caro uomo politico, poche parole, molti fatti”. E di quelli buoni.
Machiavelli, che al contrario di Rousseau non era un buonista, riteneva che anche il “cattivissimo” Principe, dovesse comportarsi in modo esemplare. Ed essere, anche a costo di fingere, un buon esempio per il popolo…In Italia l’uomo politico - e potremmo ricordare tanti altri casi - non solo non finge ma se ne frega alla grande sia di Rousseau, sia di Machiavelli, per non parlare del popolo…
Perciò siamo ben lontani da qualsiasi modello, anche in scala ridotta, di “esemplarità” politica. Anzi, trascurando le seconde e terze file del mondo politico, sembra proprio che i suoi massimi protagonisti, al folle ritmo di uno scandalo al giorno, si preoccupino soltanto di dare in pasto agli italiani il peggio di se stessi. Si pensi alle quattro ore trascorse in procura per “chiarire” i suoi rapporti con Balducci, persino di Sant’Antonio Di Pietro da Montenero di Bisaccia…
Purtroppo, la situazione è così seria, che non si può neppure consigliare ai nostri concittadini di fare quello che suggeriva nei suoi Sonetti il grande Gioacchino Belli: “Lei facci sor maestro/nò quer ch’er prete fa ma quer che dice”.
Perché i politici di oggi, a differenza dei preti ottocenteschi del poeta romano, sembrano razzolare male e predicare peggio.

Carlo Gambescia

martedì 13 luglio 2010

Rapporto Eures-Ansa  2009 

Famiglia e omicidi




La famiglia vacilla? Purtroppo non è una novità. Ieri a Napoli un marito ha accoltellato la moglie, ferendola gravemente. Perché lei voleva lasciarlo. Meno di un mese fa un ventenne di Verona aveva ucciso e fatto a pezzi il padre. Molti ricorderanno anche il caso della madre di Passo Corese (Rieti) accusata di aver gettato la figlioletta di sei mesi dalla finestra.
E questi terribili fatti di cronaca non sono che la punta dell’iceberg. E in ogni caso indicano una situazione di grave sofferenza sociale, soprattutto familiare.
E qui forse è utile ricordare qualche dato, tratto da un recente rapporto Eures-Ansa (2009) sull’omicidio volontario in Italia. La famiglia, purtroppo, si conferma come una specie di vulcano in continua eruzione. Dal momento che anche nel 2008 ha costituito il principale gruppo sociale in cui avvengono omicidi (171 casi, il 28% del totale). Benché - e questo va riconosciuto - dal 2000 (226 omicidi, il record del decennio) ad oggi il numero dei casi di omicidio al suo interno sia in calo. Quasi la metà di questi delitti avviene nel Nord (78 casi), ma in termini relativi i valori più elevati si registrano in Calabria (14 vittime, pari a 7 per milione di abitanti). In circa un terzo di questi omicidi (56 casi) la vittima è il coniuge-convivente. Nella relazione genitori-figli si consuma un omicidio familiare su quattro (22 genitori uccisi dai figli e 21 figli uccisi dai genitori). Il movente passionale risulta prevalente (in 45 omicidi), seguono litigi e dissapori (40 vittime).
Che dire? A rischio di essere banali, si può intanto asserire che la famiglia è lo specchio della società. E che in certo senso finisce per riflettere le crescenti tensioni esterne, prodotte da una società oggi sempre più “atomizzata” e a rischio. Dove sembra prevalere culturalmente una visione agonistica della vita. Detto altrimenti: del “tutti contro tutti”. Un modello conflittuale che finisce per diventare un quadro di riferimento anche all’interno della famiglia, dove, più che l’amore romantico - certo, frutto di una visione desueta - pare ora dominare nel migliore dei casi la reciproca sopportazione. Un atteggiamento che non sempre, come mostra la cronaca, sfocia nella rassegnazione. E spesso i più deboli finiscono per soccombere.
Comunque sia, si pensi a quei giovani - non per forza “bamboccioni” - obbligati a vivere in famiglia, perché condannati da un mercato avaro a svolgere lavoretti scarsamente retribuiti. E quindi non soddisfatti di se stessi e a rischio di nevrosi. Ma anche, ad esempio alle numerose coppie che, pur di non affrontare una costosa e rischiosa separazione giudiziale, preferiscono continuare a vivere insieme, ma da separati in casa. E non sempre in mondo armonioso…
Per esaminare un caso particolare, quali sono i modelli che la società propone alle cosiddette “mamme-funambole”, divise tra lavoro e famiglia? Parliamo di donne spesso con i nervi a rischio... E, secondo alcune indagini, potenzialmente capaci di gesti violenti, spesso autolesionistici. Certo, la donna è sicuramente la parte più debole... Ma non è suggerendo modelli culturali intrisi di violenza, seppure in termini simbolici, che si potrà risolvere la questione.
Ad esempio, qualche anno fa la pubblicità di una casa automobilistica, enfatizzava un gruppo di “mamme-funambole”, pronte a darsi al carica ogni mattina, ricorrendo al grido Maori, riscoperto dalla società dello spettacolo, grazie ai successi della squadra di rugby neozelandese. Una specie di rito guerriero, primordiale, ma necessario per affrontare gli impegni giornalieri divisi tra lavoro, la cura dei figli, cura della casa…
In certo senso, in quella pubblicità si proponeva uno stile di vita aggressivo e di successo… Si chiedeva alle mamme-funambole di farsi muscolose, cattive e violente, come un massiccio giocatore di rugby…
Insomma, la logica del colpo su colpo. Questo oggi passa il convento. E francamente, non aiuta. O no?

Carlo Gambescia

lunedì 12 luglio 2010

Stato, Regioni, 
welfare e tasse


La rottura o quasi tra Stato e Regioni sulla manovra pone una questione fondamentale. Che non è il federalismo di cui si parla troppo, ma quella molto più concreta del rapporto tra tagli e spesa pubblica. Questione che rinvia al meccanismo di finanziamento del welfare (sanità e istruzione).
Rispondere è facilissimo. Il welfare può essere finanziato esclusivamente attraverso le tasse: più tasse più servizi, meno tasse meno servizi. Non esiste una terza via. La sola alternativa allo scambio tra tasse e servizi è rappresentata dalla privatizzazione del welfare. Dopo di che - semplificando al massimo - il welfare sarebbe finanziato direttamente dai cittadini attraverso polizze assicurative private.
Anche la sussidiarietà, di cui tanto si parla, non è altro che una forma larvata e periferica di privatizzazione, dove allo Stato subentrano famiglie, associazioni di volontariato, micro-imprese private. Il federalismo fiscale, in certo senso, rientra nel quadro della sussidiarietà, con la variante di Regioni e Comuni che in luogo dello Stato, ripropongono a livello periferico lo scambio tra tasse e servizi di cui sopra.
Pertanto negare come fa Tremonti che le tasse non aumenteranno, mentre al tempo stesso il Governo vincola i contributi regionali al welfare (sanità) ai tagli, significa soltanto scaricare sulle Regioni, tutta l’impopolarità di un aumento del carico fiscale per fornire servizi di welfare.
Questi sono i veri termini della questione, tutto il resto è puro fumo politichese.
Infine la “storiella” della riqualificazione-razionalizzazione della spesa pubblica ( la lotta ai famigerati sprechi) è una pura e semplice versione di comodo. Perché se è vero che la spesa pubblica italiana per sanità e istruzione è per il 90 per cento assorbita dalle spese correnti (salari e stipendi), è altrettanto vero che resta tra le più basse della Ue. Quindi “razionalizzare” significa solo licenziare, magari in settori chiave come la sanità, già sotto organico. Il che vuol dire prendere in giro i cittadini e umiliare il personale medico e soprattutto paramedico.
Il problema è che il welfare richiede tasse elevate. E le tasse elevate impongono lotta all'evasione e aliquote fortemente progressive. Ovviamente nel quadro di un’economia capitalistica dinamica con tassi di crescita altrettanto elevati. La "ricetta" si chiama capitalismo sociale di mercato. Purtroppo, il “Paese del Welfare dei Balocchi”, tanti servizi poche tasse, non esiste, né mai esisterà. La solidarietà costa. E si nutre - come tutti i diritti sociali - di un forte e diffuso senso dei doveri pubblici.
Certo, per accelerare la crescita, resta sempre possibile girare la testa dall'altra parte e tagliare le spese, soprattutto quelle di welfare, sperando che la “macchina mercato” riparta miracolosamente da sola… Ma fino a che punto ciò è possibile? Un uomo che oggi mostra di non credere più in Dio, perché dovrebbe credere nel suo surrogato? Nei miracoli di una misteriosa entità semidivina chiamata mercato? Possibile che non si capisca più che il welfare ha rappresentato un importante fattore di pace sociale e benessere? E che il suo “smantellamento” porterà inevitabilmente con sé la moltiplicazione dei conflitti sociali?Inoltre un clima di crescente insicurezza rischia di provocare la caduta dei consumi pubblici e privati. E il conseguente deterioramento della crisi.
Tutto ciò può essere ancora evitato. Il sistema economico è ancora forte. Quel che manca è una politica degna di questo nome.


Carlo Gambescia
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venerdì 9 luglio 2010

Cavalcare la tigre dell’informazione? 
Sì, ma serve coraggio



Oggi i giornalisti scioperano contro la “legge bavaglio” sulle intercettazioni. Mah… Il nostro parere in merito lo abbiamo già espresso.  Perciò non torneremo sull’argomento specifico.
Vorremmo però affrontare con parole semplici la questione dei meccanismi informativi. Come funzionano? Come sempre Karl Kraus, già ai suoi tempi, aveva visto lungo: “La missione della stampa è quella di diffondere lo spirito e al tempo stesso distruggere la ricettività”, ossia la capacità di riflessione (Sprüche und Widersprüche. Aphorismen, 1909) . Parole durissime. Ma cerchiamo di capire meglio.
I meccanismi dell’informazione ricordano quelli di una grande macchina (ma non solo, come vedremo più avanti) che riceve notizie, le filtra, e le trasforma in eventi. Si può chiedere a una “macchina” di essere obiettiva? No, perché l’obiettività riguarda gli uomini. Si può però parlare di una sua impersonalità, e non in senso positivo. Facciamo un esempio: il “delitto di Cogne, triste storia di violenza familiare, almeno secondo i giudici.
Una notizia, inizialmente uguale a tante altre simili, trasformata in un evento che continua ad appassionare alla gente, certo meno di qualche anno fa (ma questo fa parte del gioco…). Un ruolo decisivo è stato giocato dall’iniziale e massiccia presenza dei mass media (giornali e televisioni), richiamati dal drammatico coinvolgimento di un bambino in un gravissimo fatto di sangue. Su questo elemento, che oggettivamente fa “audience”, si è subito messa in moto la macchina dell’informazione. E così si è innescato il consueto meccanismo competitivo-iterativo: dare la notizia prima degli altri, dare più dettagli capaci di suscitare interesse e di funzionare come "moltiplicatori" dell’ ”audience”, ripetendo le stesse operazioni informative di base (volte a “scavare” nella notizia sempre più a fondo). Grazie, si fa per dire, a un uso razionale (le tecniche informative) dell’ “energia motrice”, trasmessa alla “macchina” da un “evento” in apparenza misterioso.
Quel che però va sottolineato è l’impersonalità. Una volta che la macchina informativa si è messa in moto è difficile fermarla. E’ tuttavia possibile puntare i riflettori su altre notizie-evento, e quindi determinare uno spostamento di interesse, fino al punto di sostituire un argomento all’altro, ricorrendo alla giustificazione “circolare” del calo di audience (o di lettori). In tal senso restano esemplari le vicende dei vari “faccendieri”, usate, di volta in volta, con sapiente dosaggio, dai media di destra e di sinistra per coprire o scoprire le magagne dei rispettivi fronti politici.
Certo, la macchina informativa ha comunque una sua forza politica (come il Watergate insegna, ma non troppo...), o più genericamente una buona capacità “competitivo-iterativa” di scavare a fondo, soprattutto quando si tratta di "cronaca nera". Si pensi al caso, tuttora aperto, della povera Simonetta Cesaroni, dove la stampa romana ha giocato un ruolo di pungolo nei riguardi della magistratura.
Ad ogni buon conto, Henry Louis Mencken - grande giornalista statunitense - aveva già compreso tutto e molto prima di tanti spocchiosi professori di Scienze della comunicazione. E in due battute: “Tutti i giornali sono incessantemente queruli e bellicosi. Se possono evitarlo, non difendono mai nessuno e nulla; se sono costretti a farlo, assolvono questo compito denunciando qualcuno o qualcos’altro” ( Prejudices. First Series , 1919). Mencken si riferiva al modello "esemplare", quello americano, che poi ha fatto (e fa) scuola in tutto il mondo.
Va tuttavia ricordato che i giornalisti non sempre agiscono in modo impersonale. Stretti tra l’imperativo della macchina (“scavare” più degli altri colleghi) e gli imperativi editoriali (“scavare” fin dove la proprietà consente), spesso i giornalisti si trovano al centro di conflitti tra scelte politico-professionali individuali e necessità di non perdere il lavoro.
Pertanto è comprensibile (ma non giustificabile) come in uno spazio morale così ridotto e conflittuale, il giornalista non sempre riesca a conservare il necessario equilibrio per svolgere con obiettività il suo lavoro.
Si trova nella difficile situazione di dover cavalcare la tigre, per usare l’incisiva metafora evoliana: una tigre informativa che però appartiene ad altri. Da qui discende la difficoltà di far coincidere, la propria sensibilità politica, sia con gli istinti “predatori” di una tigre, che reclama sempre carni o notizie fresche, sia con gli “spostamenti di riflettori” graditi e imposti dalla proprietà, o comunque, detto brutalmente, da chi paga conti e stipendi.
Sotto tale aspetto il massimo di libertà può essere goduto solo dal giornalista (fortunato) che lavora presso una testata di cui condivide, e non per ragioni venali, la linea editoriale. E che può così continuare a cavalcare una tigre, di cui però, in qualche misura, si sente parte.
Quanto all’obiettività nei riguardi dei lettori è difficile dire. Spesso, come mostra la maggior parte degli studi in argomento, i giornali, sono acquistati in base a precise abitudini ideologiche (non in senso stretto, politico): il lettore cerca e vuole conferme, più che informazione obiettiva. E in certo senso un’informazione oggettiva può essere rappresentata solo come possibilità di poter leggere, se ci sono voglia e tempo, più giornali politicamente differenti.
Quanto alla tigre informativa, solo il giornalista che riuscirà a cavalcarla a lungo, può sperare, mantenendo però ben stretta la presa, di avere la meglio. O comunque di non essere sbranato.
Il "problemino" è che serve coraggio. Virtù - dal momento che conosciamo i nostri polli... - che pochi giornalisti possiedono. E che non si misura “collettivamente”, abbaiando una tantum secondo i voleri del sindacato, ma “individualmente” nel normale lavoro di redazione, ogni giorno, mettendo a rischio la propria scrivania.



Carlo Gambescia