venerdì 27 luglio 2018

Mai parlare male dei Social…
Un interessante confronto su Fb  con Ruggero D’Alessandro



In principio, era Fabio Macaluso…  Ci scusiamo per l’incipit biblico, ma in effetti il post di oggi, che spero interessante,  nasce da una notevole intervista  di Fabio   Macaluso, avvocato ed esperto di diritto d’autore e comunicazioni,  a Ruggero D’Alessandro,  sociologo e docente presso le Università dell’Insubria e della Sapienza (1).
Alla quale, ieri,  ho  subito replicato con il seguente commento,  apparso  sulla Pagina Fb di Macaluso:

Grazie Fabio Macaluso. Come sempre, molto interessante. I miei complimenti a Ruggero D’Alessandro. 
Vengo al punto. Il fuoco dell’intervista ruota intorno a un preciso meccanismo sociologico, che si può definire costante o regolarità metapolitica. In particolare, penso alla costante movimento-istituzione. O se si preferisce, “politologizzandola”, a quella potere costituente-potere costituito. 
Ruggero D’Alessandro, se ho capito bene, sembra essere dalla parte del movimento, soprattutto quando rivendica il ruolo dell’utopia, indicando tra l’altro una precisa linea di pensiero: Bakunin, Durruti e Spartachisti. Tuttavia, quando egli parla del discrimine tra destra e sinistra, citando giustamente Bobbio, rivendica il ruolo (a sinistra) della lotta contro le disuguaglianze. Il che implica, piaccia o meno, un apprezzamento del momento istituzionale, rispetto a quello movimentista. Ossia - attenzione - del potere costituito che interviene per eliminare quelle diseguaglianze evocate e stigmatizzate dal potere costituente.
Ora, poiché la sociologia e sette-ottomila anni di storia-storia insegnano che ogni movimento, ha davanti a sé tre strade (1.dissoluzione; 2.trasformazione in istituzione; 3. regressione a setta o altro micro-gruppo), rivendicare il ruolo dell’utopia, come fa D’Alessandro, quindi del solo momento, semplificando di nuovo, movimentista, costituente se si vuole, risulta riduttivo sul piano sociologico-analitico e pericoloso sotto quello storico-costruttivista. Insomma, l’utopia, per usare la terminologia poetica di autore sicuramente caro a D’Alessandro, ossia “il trasumanar”, anche nelle veste derivata e secondaria, di lotta alle diseguaglianze, chiama in causa, inevitabilmente, “l’organizzar”. E l’ “organizzar” rinvia ai processi di istituzionalizzazione e tutto ciò che ne segue in termini di stratificazione economica, sociale, politica e culturale. E questa è sociologia. Dopo di che: Hic sunt leones... 
È vero pure che nessun potere è eterno - nel senso però di potere-contenuto non di potere-forma - e che quindi è più che giustificato sperare, proporre, ideare, eccetera, eccetera, tuttavia, esistono delle regolarità o costanti, che rinviano al potere-forma (quindi qualcosa di indipendente dai contenuti storici e culturali), regolarità e costanti, dicevo, che si possono definire metapolitiche, di cui si deve tenere conto sia analiticamente che politicamente. 
Sempre che non si creda nel mitico concetto di “rivoluzione permanente” che però è fuori dalla portata della sociologia e della storia… E che per giunta, di riflesso, non si evochi la figura del credente politico capace di vivere in funzione di una qualche mistica rivoluzionaria, a sua volta, in grado di fondere, nell’incandescente fornace della rivoluzione permanente, il trasumanar con l’organizzar… O, peggio ancora, non si ritenga, sul piano personale, di essere a conoscenza del segreto stesso della storia. Del suo senso ultimo. E che quindi, prima o poi, si potrà vincere Campionato e Champions League. Dell’Umanità (con la maiuscola, naturalmente). 
Mi scuso con tutti per essermi dilungato.

Dopo di che  è  seguita l'elegante  controreplica di Ruggero D’Alessandro:

Caro professore, grazie dell'apprezzamento e del suo stimolante intervento a cui cerco di rispondere come merita (nel senso migliore, s'intende !). Mi soffermo velocemente sui punti per me più significativi. 1. La dialettica movimento/istituzione e' sicuramente una costante (inevitabile?) nella dialettica politica. La lotta alle diseguaglianze e' la priorità oggettiva e capace, forse, di scardinare poco a poco gli equilibri malati del tardo capitalismo globalizzato da ormai una 30ina d'anni. Lei sostiene che i due aspetti sarebbero in contrasto giacche' il movimento (se interpreto correttamente il suo pensiero) non può non rifarsi al sostegno dell'istituzione (Potere, con la P maiuscola come lo denota Foucault), finendo perciò con il far retrocedere il movimento stesso, se vuole lottare contro le diseguaglianze. 2. Io invece leggo una forte coerenza nei due aspetti, nel senso che il movimento, di massa, duttile, ispirato a un modello consiliare diffuso sul territorio, lotta contro le diseguaglianze nel momento stesso in cui lotta proprio CONTRO l'istituzione (anziché allearvisi, per poi finire risucchiata). Perché l'istituzione è influenzata mafiosescamente dalle lobbies del Capitale e della Finanza, collaborando istituzionalmente all'attivazione di nuove diseguaglianze e al mantenimento delle vecchie. Penso ad esempi fra '900 e 2000 che vanno dai due milioni di spagnoli che mantengono viva ed efficace la rivoluzione sociale anarchica nella Spagna fra 1935 e '38; oppure alle lotte portate avanti mondialmente dal World Social Forum (1999/2007) con il modello di assemblee di quartiere nella città brasiliana di Porto Alegre - con 100/200.000 cittadini che discutono e decidono su temi in genere istituzionalmente sottratti loro per essere decisi dai consigli di amministrazione/politica. Come alle lotte del 2010/12, fra Plaza del Sol a Madrid e "Occupy Wall Street". 3. Il pasoliniano doppio momento del <<trasumanar e organizzar>> non è assolutamente destinato a un inevitabile scontro foriero di contraddizioni, quindi di scacco matto finale. Marcuse ribatte nel '70 a un bel dibattito accanito con Popper evidenziando che la <<Storia non è un istituto di assicurazioni>> e sta agli uomini coscienti e organizzati prendere di petto l'intollerabile provando a scioglierlo nell'acido come merita. In Tal modo ribellandosi a ciclicità e costanti create dall'Uomo stesso. 4. Foucault dice più volte in lezioni e interviste che di fronte a qualsiasi Potere vi sarà sempre qualcuno che si opporrà. Aggiungo che il problema, ovviamente, sarà chi e quanti sono e come si organizzano e quali finalità hanno questi "qualcuno". Domande che decideranno dell'efficacia o del fallimento di tale orizzonte di lotte sociali. 5. Le costanti sociali, le regolarità di cui parla esistono senz'altro: ma lo spazio occupato finalmente da un'utopia concreta, con soggetti in carne e ossa significa, ripeto, mettere finalmente in questione tali regolarità che sono pur sempre altro da una costante K in fisica dei fluidi o in geometria riemaniana. Qui le scienze sono, per fortuna, umane. 6. La rivoluzione che si fa fine assoluto spiana la strada ai riti omicidiari, ai moderni "auto da fé" da Inquisizione rossa: stile Mosca 1935/38. Dio ne scampi e liberi! Milioni di persone hanno già dato (Conquest calcola in circa 27/28 milioni le vittime di purghe, persecuzione dei kulaki e i due piani quinquennali, Kolyma e vari gulag nella Russia di Stalin nel 1924/53). Sono io a essermi dilungato realmente ma il suo bell'intervento meritava che mi spremessi le arrugginite meningi. Un caro saluto e alla prossima chiacchierata "facebookiana".

Come si può osservare, si tratta di un confronto d’idee aperto, dai contenuti impegnativi.  Dove i "duellanti" danno prova di  un notevole sforzo cognitivo e argomentativo:  un confronto che non poteva assolutamente finire sepolto su Fb.
Come  posso rispondere  alle pertinenti critiche di  Ruggero D’Alessandro?
Nonostante tutto, continuo  a ritenere  che  ogni movimento, a prescindere dai contenuti storici  di cui si fa portatore, proprio per una socio-logica (definiamola così) di natura formale,  in primis organizzativa (quindi dipendente dalle abilità e dalla allocazione delle risorse interne e dai conseguenti conflitti, che implicano gerarchie sociali del valore ),  non può non trasformarsi in istituzione, pena la perdita di qualsiasi potere sociale. E dunque, come tale,  perire 
Pertanto, quanto più i conflitti sono duri,  come nel caso di specie  indicato da Ruggero D'Alessandro, quello della lotta alle diseguaglianze,  dove  sono in gioco risorse primarie materiali e simboliche, tanto più diviene (come dire?) naturale  il passaggio dal movimento all’istituzione.
Il problema è dove fermarsi.  Ossia quale e quanta sia l’incidenza dell’uomo in questi processi sociali e politici. Nessuno sembra saperlo con certezza. 
Io  ritengo che le istituzioni liberali della democrazia rappresentativa e della società di mercato,   espressione istituzionale  dei  grandi  movimenti sociali e politici  tra il Sette e  l’ Ottocento (ma si  potrebbe risalire fino alla Riforma protestante e alla Rivoluzione inglese), garantiscano quello che Pareto  chiamava  l’equilibrio sociale. Insomma, per farla breve:  dove fermarsi, per evitare che i conflitti  degenerino.  Pareto però era un conservatore.
D’Alessandro, come mostra la simpaticissima foto,  non lo è.  Quindi crede in altre forme di equilibrio sociale (insomma, dove, per lui, ci si debba  fermare…).   Però l'invito che gli rivolgo, molto modestamente,  è quello di   non dimenticare mai che quanto più la lotta si fa dura, tanto più si esce dalla mediazione liberale, e tanto più si corre il rischio di scivolare  in quell’ottica rivoluzionaria dove i bullet contano più dei ballot.  Perché  è vero che esiste (ed è anche moralmente giusto)  sempre chi si opporrà al potere,  il punto però è come. E soprattutto dove (fermarsi).  Qui nascono le preoccupazioni di  Popper e di  numerosi pensatori liberali intorno al destino della democrazia della rappresentanza. Che, non da oggi,   ha numerosi nemici, a destra come a sinistra.
La mediazione liberale, finora, storicamente parlando, ha mostrato di costituire, per quanto imperfetta, il migliore dei mondi possibili.   Oltre essa, e le sue istituzioni (parlamento e mercato)  nessuno sa cosa ci sia.   Perché,  “l’intollerabile”,  di cui  parla D'Alessandro, rimanda alla questione dell’equilibrio sociale, o meglio a  ciò che sia ritenuto, come  tale,  dal progressista o dal conservatore.  E la mediazione liberale, offre un punto d’incontro, procedurale, razionale,  tra gli uni e  gli altri. La democrazia diretta, ad esempio,  con il suo fondo emotivo, no.
Ovviamente, quest’ultimo punto di vista è inviso ai rivoluzionari, ai grandi semplificatori, che disdegnano, definendola un’inganno,  la democrazia liberale.  Per non parlare delle istituzioni di mercato giudicate  dagli stessi alla stregua dell' Anonima assassini.  Non credo  però sia questa la posizione di Ruggero D'Alessandro.  Anche se i suoi  riferimenti storici alle  forme di democrazia assembleare mi preoccupano:  in particolare il cenno  all’esperimento anarchico  nella Spagna della guerra civile: Durruti fucilava i gay e chi tentennava a uscire dalla trincea, proprio come il Caudillo). Però può essere un mio limite:  di liberale che crede nella democrazia rappresentativa,  nella società di mercato e nella composizione, per così dire amichevole, dei conflitti sociali.  Come può essere un altro mio limite, diciamo euristico - qui concordo con  D'Alessandro sulla differenza tra regolarità fisiche e sociali -  il confidare, forse troppo,  sulla “forma” delle relazioni metapolitiche piuttosto che sui “contenuti” storici.
Ma come, capitato a  Comte,  anch’io, nel mio piccolo,  rimasi  affascinato,  da giovane sociologo, dall’esempio storico del movimento-cristianesimo  trasformatosi in istituzione-chiesa, capace di durare,  rappresentando uno straordinario canale di mobilità e consenso sociale,   più di duemila anni. Altro che i movimenti di protesta di oggi.  Anche  Sorel, altro ateo, lo aveva capito.   
Certo, D'Alessandro  mi può rispondere che il comunismo, o qualcosa che vi si avvicini,  rappresenta un nuovo cristianesimo,  però secolarizzato,  e che quindi siamo solo agli inizi.   Benissimo.  Però, non sarà con la democrazia consiliare che il comunismo, diventerà  tale.  Forse agli inizi, come tra i primi cristiani che vivevano in  piccole comunità.  Del resto  anche i martiri  sono importanti (si pensi al destino di Gramsci, e ancora prima della Luxemburg, per non parlare dei semplici militanti). E lo sono per "inventare" una tradizione (la teoria di Hobsbawm deve valere per tutti...).  Poi  però, ingrossatesi le fila e agguantato il potere,   servono,  certo anche  le preghiere (il “trasumanar” dei  Majakovskij ),   ma soprattutto il  ferro e il fuoco (l’"organizzar" dei Lenin).  
Bando, insomma, alle ingenuità cognitive.  Il dato è sociologico:  il “destino metapolitico”  di ogni movimento è segnato,  trasformarsi in istituzione  o perire.    Il punto "umano" della questione,  come dicevamo,  è dove fermarsi.
Il liberalismo, piaccia o meno,  di fatto,  ha risposto.  Gli altri movimenti, inutile negarlo, hanno fallito. La stessa Chiesa, oggi  sembra sotto scacco.   Ovviamente, per molti,  la speranza è l'ultima a morire.   Ma la questione del dove  fermarsi,  permane. A ognuno di noi la libertà di scegliere. 

Carlo Gambescia