venerdì 19 agosto 2016

La morte di Ernst Nolte 
(1923-2016)




Nel  2001, pranzai qui a Roma, in un ristorante  nei pressi della Facoltà di Sociologia,  con Ernst Nolte.  Non da solo ma con un gruppo ristretto di convegnisti, setto-otto persone,  ricordo,  tra gli altri,  Paul Piccone,  Günter Maschke,  Jorge Eugenio Dotti,  Alain de Benoist.  Nolte era giunto a Roma, con la moglie, quale  relatore di punta, in occasione di un convegno internazionale dedicato a Carl Schmitt.  Svoltosi in un clima di assoluta tranquillità. Altro che le tinte fosche di cui leggo questa mattina a proposito di altri incontri italiani…   Roma  accolse lo storico tedesco, sorniona ma sorridente, sotto uno scintillante sole novembrino che illuminava il bel cielo terso di  via Salaria.
Nolte, all'epoca ottantenne, fasciato in un loden,  mi apparve, nonostante l'età  un uomo ancora integro,  dai modi  eleganti, con tratti però  di timidezza, volto affilato, se non diafano,  magro, al limite dell'esilità,  capelli radi e candidi.  Ma dietro la sua apparente soavità professorale si doveva  nascondere  una grande tenacia,  non comune. Altrimenti, mi chiesi,  come avrebbe potuto resistere, così dignitosamente, a anni e anni di attacchi politici e personali? 
Con lui parlai di Weber e della tragedia del nazionalismo tedesco di matrice conservatrice e  liberale. Nolte,  ribadì quasi tagliandomi con lo sguardo,  le sue tesi, a mio avviso fondamentali,  sul ruolo dell’antisemitismo, a sfondo razziale, come punto discriminante tra conservatori e nazionalsocialisti (in termini di etica della politica)  e sull’altrettanto importante  declino  del linguaggio politico, come retorica del male assoluto (ovviamente incarnato dal rispettivo avversario politico), declino che negli anni di Weimar distrusse qualsiasi tentativo di normalizzare il dibattito pubblico.
Oggi, egli aggiunse, fissandomi,  stiamo ricadendo nello stesso errore… Probabilmente Nolte si riferiva (anche) al trattamento che stava ricevendo in Germania, dove in nome di un antifascismo storiografico,  isterico e illiberale,  lo si crocifiggeva come un nemico della democrazia. 
Assurdità, e per capirlo basterebbe leggere i suoi libri, ricchi e documentati, dove il totalitarismo, nazionalsocialista e comunista,  viene ricondotto a un’unica matrice di tipo perfettista:  quella di liberare il mondo, per renderlo perfetto e puro, da borghesi ( il comunismo) ed ebrei (il nazionalsocialismo, nonché il fascismo, per mimesi, dal 1938). Una lotta di “liberazione” dal “male assoluto” che avrebbe  individuato nella  figura dell’ ebreo borghese e capitalista il ruolo (storico) di trait d’union  fra i due principali totalitarismi del XX secolo. Ecco,  ridotto all’osso,  il suo approccio  “trans-storico”,   imperniato su categorie interpretative e concettuali  che consentono di analizzare, trasversalmente, fenomeni storici in apparenza diversi.
Ci lasciammo,  con una vigorosa stretta di  mano.  Di quel  genere che non ci si aspetta da un uomo all’apparenza esile. Che invece confermò la sua tempra.  Dopo di che, giratosi con la secchezza di un ufficiale della Wehrmacht (altra riprova, pensai), s'incamminò verso Piazza Fiume.  Lo accompagnai con lo sguardo mentre si allontanava, con la moglie al fianco, sorridente e  devotissima, il  loden che si gonfiava sotto i fendenti dell’improvvisa tramontana romana che, ignara della gravitas dello storico, infieriva, spettinandolo.  Lo vidi farsi sempre più piccolo fino  a scomparire,  inghiottito dal traffico, dai rumori di una Roma, mite per alcuni, indolente per altri,  che comunque - pensai -  si era lasciata alle spalle, e ormai da un pezzo,  la  guerra, i rastrellamenti, le  paure.
Questo è l’ultimo ricordo che ho di lui.  Che riposi in pace.


Carlo Gambescia

venerdì 5 agosto 2016

Nomine nuovi direttori Rai-Tv
Renzi lottizza. Sai che scoperta…



In Italia,  televisione e  radio  pubbliche contavano qualcosa prima dell’avvento delle consorelle private.  Quello c’era, quello gli italiani  erano costretti  a vedere. La Rai vinceva facile. Sui programmi informativi, chi ne capiva, sapeva, chi non capiva veniva sottilmente influenzato, ad eccezione dell’elettore comunista e neofascista,  più politicizzato. 
Oggi, comunque la si metta,  c'è più concorrenza.  Qualche anno fa,  per ragioni politiche non  ancora chiarite,  andava forte lo sport di  sparare  alzo zero sulle televisioni di  Berlusconi, perché, secondo il mantra sinistrorso,  diseducative e apportatrici di voti a Forza Italia. E sia pure. Ma la televisione pubblica dal 1954 fino all’arrivo delle corazzate antennate del Cavaliere, quanti danni ha causato al cervello degli italiani?  Nessuno  ha mai quantificato il veleno contenuto nello statalismo televisivo iniettato per anni in dosi industriali nell'immaginario collettivo.  Ancora oggi,  e non solo a sinistra, piace ricordare, gonfiando il petto,  il ruolo pedagogico della televisione di stato: il maestro Manzi,  gli sceneggiati,  e perfino il valore culturale dei programmi a quiz.  Come se una televisione pubblica dovesse essere una cattedra scolastica, da cui fare lezione agli italiani minorenni.  Insomma, si rimpiange una televisione, che per mentalità, discendeva da Mussolini.  L'idea di una televisione  come arma più forte del regime: non quello fascista  ma  democristiano (anni Cinquanta) e democristiano-socialista (anni Sesssanta-Settanta).
Tutto qui.  Chiacchiere e distintivo.  Nessuno più ricorda (o fa finta) le ballerine con i mutandoni, il siluramento  di attori, registi e giornalisti che politicamente non si sottomettevano, i silenzi sull’Unione Sovietica e la disinformazione sul dissenso russo, la sbornia gauchista e anti-americana degli  anni Settanta.  E la lottizzazione. Spietata.  Non fra i  partiti  ma tra le correnti della Balena bianca.  Della quale però nessuno parlava. Proprio come durante il fascismo, quando un giornalista se voleva campare doveva tenersi stretta la tessera del PNF. E qui sarebbe interessante chiedere, citiamo un nome per tutti, oggi famoso e comunistissimo,  ad Andrea Camilleri, ex regista Rai,  perché non si licenziò. Forse però la risposta, postuma, c’è:  conseguimento della pensione, e pure elevata.
Il culo di Nadia Cassini, che trasbordava dal teleschermo, anno di grazia 1979,  fu vissuto, da quei pochi  critici televisivi liberi, con lo stesso piacere che i loro nonni liberali provarono  leggendo la Storia d'Italia di Benedetto Croce, pubblicata negli anni del fascismo: un atto di liberazione intellettuale. E dagli italiani, tutti, come  una  rivoluzione sessuale catodica. Poi arrivò Berlusconi che, da  buon eroe dei due mondi televisivi (pubblico  e privato),  operò la moltiplicazione dei culi. E il desiderio collettivo, come insegna la legge di Weber-Fechner, calò.  Non però la voglia (individuale)  di lottizzazione del Cavaliere.  Ma non furono da meno Prodi, Veltroni & Co. 
Bianca Berlinguer,  per la quale  alcuni oggi si strappano i capelli,  da giovane mediocre praticante (chiedere ai vecchi colleghi del “ Messaggero”), venne assunta a TeleKabul da un  direttore targato Pci: preferita ad altri colleghi,  perché portava un nome “pregno di ricordi”…   
Ora, questa mattina, gli orfani di Berlusconi e di Berlinguer (padre) denunciano  Renzi,  perché lottizza.   Sai che scoperta… 

Carlo Gambescia         

                              

giovedì 4 agosto 2016

Ancora una volta in onda  la fiction di Marco Tullio Giordana
“ La meglio gioventù”? Dipende…




Siamo in piena estate  e -  ti pareva -  la Rai ritrasmette  per la milionesima volta “La meglio gioventù”. Inutile tornare sulla trama. La conoscono tutti.  I contenuti ideologici meno. Parliamone allora. 
Film  in salsa post-comunista, da manuale.  Perché post?   Certi registi e sceneggiatori,   anche se non hanno più in tasca la tessera del Pci, continuano a vedere il mondo - e lo fanno vedere, quel che è peggio -  inforcando gli occhiali dell’intellettuale organico.   
Il termine “la meglio gioventù”, come è noto,  rinvia al  Pasolini poeta (che non era male), morto in circostanze oggi leggendarie, e  promosso sul campo a icona della cultura di sinistra.  Intorno all’opera di Marco Tullio Giordana il consenso è stato pressoché universale: premi, critica entusiasta, successo di pubblico, venduto anche in America. Però c’è qualcosa che non va. Il personaggio più  a destra, uno dei fratelli, è un poliziotto che si suicida; l’altro fratello, personaggio positivo - certo, uomo problematico -   è  psichiatra basagliano.  Il che è tutto un programma. In linea con il pensiero  di Zarathustra...  
Il personaggio più liberale, ma in senso bocconiano, è un professore di economia, che studia da ministro, finito  nel mirino delle brigate rosse. Gruppo terroristico verso cui  il  tono generale della fiction è quello, sì di condanna, ma con riserva morale: sbagliano, ma sono sempre compagni. Insomma,  a fin di bene.  
Infine, non possono mancare  la ricerca dell'imprimatur dei professionisti dell'antimafia, della squadra antidroga dei figli della FIGC (non Gioco Calcio, ma Giovani Comunisti), la merda sulla famiglia borghese, sempre fonte di mali e tradimenti, nonché il presepe fiorentino sui giovani volontari del dopo alluvione. Insomma, la meglio gioventù è sempre  quella progressista. E continuano a ripetercelo ogni estate,  dal 2003. 
Un’ ultima notazione. Non secondaria.  Per  tutto il film,  aleggia nell'aria  il fascino del viaggio on the road  verso il Nord europeo, come terra incontaminata, di libertà, eccetera, vecchio lascito del protestantesimo politico italiano. Tuttavia se Giordana e sceneggiatori,  avessero letto la pubblicistica di estrema destra, avrebbero scoperto che quel viaggio negli anni Cinquanta e Sessanta, affascinava molto anche la peggio gioventù: quella neo-fascista. La mistica giovanile  del viaggio  era un fatto intra-generazionale:  al di là della destra e della sinistra. Tra i viaggiatori in camicia nera, ne ricordiamo uno per tutti: Adriano Romualdi, mente brillante, ma fascista, anzi probabilmente nazista, dalla testa ai piedi, che  si spinse  fino a Capo Nord.
Ma quella, come detto,  era la peggio gioventù…

Carlo Gambescia          




mercoledì 3 agosto 2016

36° anniversario della strage di Bologna
Mattarella, un complottista al Quirnale?




Come ogni anno,  ieri è andata in scena  la commemorazione  della  strage di Bologna. Nessuno si offenda, ma è proprio così. Ormai è diventata una liturgia politica, con i suoi tempi teatrali, i suoi primi attori, i suoi stereotipi ideologici. Sui "corpi" delle vittime, sequestrati dalla sinistra, si è consumato il processo alla Repubblica (prima e seconda). Di più: la messa in stato  di accusa (permanente) dei moderati d'Italia, iscritti d' ufficio, tutti,  alla P2.   Parliamo di  un  processo, dentro il Paese, dettato da un riottoso e incattivito immaginario antiborghese e antipolitico. Uno sporco gioco al rialzo.
Da qualche anno però, liquefattosi il centrodestra, non si fischia più. O comunque si tratta di fischi non mediatizzati. Quest’anno ha  partecipato con uno striscione anche la Comunità Islamica di Bologna:  potenza del brand felsineo del Pd.   
Cosa dire?  Che più di vent'anni fa, la magistratura ha ritenuto  colpevoli  tre neofascisti. E che di conseguenza la vicenda dovrebbe essere chiusa. E invece no. Perché?
La prima risposta, quella dell’Associazione che riunisce le vittime, è che si sono condannati gli esecutori, non i mandanti.  Tesi condivisa e mediatizzata, oltre ogni misura, dalla sinistra.  E stando alle dichiarazioni di ieri, molto  apprezzata anche dal Presidente Mattarella.
Ora, che la sinistra, giocando sul più che giustificato dolore delle famiglie,  abbia contribuito nel tempo, alla costruzione sociale del Male assoluto (P2, servizi segreti deviati, Cia e quant’altro), prima secondo Mosca, poi secondo "l'Espresso", ora secondo "il Fatto quotidiano", può pure starci. È la politica bellezza…  Anche perché c’è un risvolto:  la cosa va sottolineata. Negli ultimi due decenni, la stessa  sinistra, delle liturgie del 2 agosto, si è ben guardata, una volta al governo, di aprire i polverosi archivi del Viminale,  sede  degli altrettanto famigerati segreti di stato. E anche questa è politica, non c’è da scandalizzarsi.
Ciò che è grave invece, è che  un potere che dovrebbe essere terzo (quindi rispettoso delle sentenze), come quello incarnato dal Presidente della Repubblica, tra l’altro parliamo di un giurista,  continui a dichiarare che “permangono ancora domande senza risposta e la memoria è anche sostegno a non dimettere gli sforzi per andare avanti e raggiungere quella piena verità, che è premessa di giustizia” (*).
Argomentazione politica, sbilanciata a sinistra,  che fa il paio - nella comune condivisione della tesi complottista, -  con quella della destra neofascista che nega ogni responsabilità.
Diciamo che Mattarella ha sposato le tesi del Male assoluto (cui non può non corrispondere l’evocazione della Verità assoluta).  Qui, delle due l’una.  O Mattarella  non ci crede, perché sa come vanno le cose in politica, però fa finta, come il Principe di Machiavelli, che si mostra devoto, in questo caso,  alla tesi più gradita alla sinistra.  O ci crede veramente, allora al Quirinale c’è un complottista. Però se così fosse, Mattarella dovrebbe esserlo fino in fondo, come si usa dire: a trecentosessanta gradi. E fare due cose: 1) chiamare Renzi e  Alfano e imporre loro  non solo di aprire formalmente gli archivi,  ma di favorire l’accesso a chiunque  voglia documentarsi; 2)  ascoltare tutti, ma proprio tutti,  da Bolognesi, Presidente dell’associazione delle vittime alla Mambro e Fioravanti. 



martedì 2 agosto 2016

Bombardamenti aerei  Usa su Sirte
 L’Italia  e la politica delle patate bollenti




Gli Stati Uniti bombardano dal cielo  Sirte. In pratica, con tutte autorizzazioni del caso (Onu, Governo libico  di unità nazionale), gli Stati Uniti  fanno ciò che  l’Italia si è  rifiutata di fare, dal momento che Obama  ci  aveva offerto  il comando di una operazione in grande stile sul territorio libico.
Rifiutammo  - non solo Renzi, ma anche le opposizioni  -  quella che si poteva e può definire una patata bollente.  E per una serie di ragioni: bassa autostima politica,  mancanza di mezzi (in particolare aerei),  diffidenza, probabilmente giustificata, per la sempre latitante coesione nazionale e  infine -  ed è la ragione più importante -  calcoli, se ci si passa l’espressione” da “patatologi” navigati:  non esporsi con l’Isis, nella speranza di evitare ritorsioni terroristiche senza però scontentare gli Stati Uniti, concedendo magari qualcosa sottobanco.          
Ci siamo rifiutati, e gli americani, probabilmente controvoglia, hanno dovuto (pardon) cuccarsi la patata e  aprire l’ombrello, anzi l' ombrellino. E noi abbiamo concesso, zitti zitti (si fa per dire),  basi logistiche, pare Sigonella.  Qualcuno ha scritto che i libici non ci volevano. Perché, come  per i francesi, non si fidavano eccetera, eccetera.  Può darsi. Comunque sia,  speciali complimenti a tutti i ministri degli esteri della Repubblica (prima e seconda), per avere saputo gestire  "magnificamente"  i rapporti con la Libia, ex colonia, tra l’altro.   Kissinger,  nelle sue memorie, scrisse che tutti i politici italiani gli parlavano della vocazione mediterranea dell’Italia, ma che poi non succedeva niente. Perché? Per paura di scottarsi la manine...    
Chi scrive  non ama la guerra, lo ripetiamo per la milionesima volta. Però ci sono situazioni storiche, talmente gravi,  in cui ci si deve battere, perché è questione di vita o di  morte.  E fare i furbi, come in questo caso,  può costare caro. Per quale ragione?  Perché si rischia di  scontentare alleati e nemici: l'alleato americano, per la nostra ennesima prova di  pulcinellesco egoismo; il nemico jihadista, perché qualcosa al "Satana" statunitense, Pulcinella  ha  comunque concesso. Quindi la patata bollente, come in ogni buona commedia dell'arte,  potrebbe tornare indietro. E con gli interessi.
Qualcuno invece dirà, sfregandosi le mani: "Ecco qui, l' ennesima prova del classico realismo politico italiano, grazie al quale siamo fuori dalla guerra".  Per ora. Come si può parlare di buon realismo politico, senza una strategia generale?  Se non la politica dello scaricare le patate bollenti. E se le patate dovessero diventare troppe? 

Carlo Gambescia   

lunedì 1 agosto 2016

Arma dei Carabinieri (*) 
Nucleo di Polizia Giudiziaria di [omissis]
VERBALE DI INTERCETTAZIONE DI CONVERSAZIONI O COMUNICAZIONI
(ex artt. 266,267 e 268 C.P.P.)
L'anno 2016, lunedì 1 agosto, in [omissis] presso la sala ascolto sita al 6o piano
della locale Procura della Repubblica, viene redatto il presente atto.
VERBALIZZANTE
M.O Osvaldo Spengler
FATTO
Nel corso dell'attività tecnica di monitoraggio ambientale svolta nell'ambito della procedura riservata n. 642/2, autorizzazione COPASIR 3636/3b [Operazione NATO “SCAMBIAMOCI UN SEGNO DI PACE” N.d.V.] è stata intercettata, in data 31/07/2016, ore 08.22, presso l’Arcivescovato di Cracovia, ul. Franciszkanska 3, Polonia , una conversazione intercorsa tra S.S. SANCHO I e MONS. JUAN VENTURA Y PASCUAL, suo terzo segretario. Si riporta di seguito la trascrizione integrale della conversazione summenzionata:

[omissis]


S.S. SANCHO I: “Hai visto quanti ragazzi? Che entusiasmo, che freschezza!”
MONS. JUAN VENTURA Y PASCUAL: “Sì, Santità.”
S.S. SANCHO I: “Visto come rispondono? Quando gli ho detto, ‘Abbiate il coraggio di insegnarci a noi, abbiate il coraggio di insegnarci a noi che è più facile costruire ponti che innalzare muri!’ un’ovazione, un boato!”
MONS. JUAN VENTURA Y PASCUAL: “Sì, Santità.”
S.S. SANCHO I: “E’ piaciuto tantissimo, questo passaggio: ‘E tutti insieme chiediamo che esigiate da noi di percorrere le strade della fraternità. Che siate voi i nostri accusatori, se noi scegliamo la vita dei muri, la vita dell’inimicizia, la via della guerra.’ Chi me l’ha scritto? Me l’hai scritto tu?”
MONS. JUAN VENTURA Y PASCUAL: “Sì, Santità.”
S.S. SANCHO I: [pausa]: “Be’? Juan, mi ascolti?”
MONS. JUAN VENTURA Y PASCUAL: “Sì, Santità. [pausa] Mi perdoni, Santità, m’ero distratto. Le chiedo scusa. No, non l’ho scritto io il Suo discorso.”
S.S. SANCHO I: “Non ti piace?”
MONS. JUAN VENTURA Y PASCUAL: “Sì, Santità.”
S.S. SANCHO I: “Avanti. Parla liberamente.”
MONS. JUAN VENTURA Y PASCUAL [pausa]: “No, Santità. Non mi piace.”
S.S. SANCHO I: “E perché mai? Non hai visto che successo?”
MONS. JUAN VENTURA Y PASCUAL: “Ho visto, Santità, ho visto.”
S.S. SANCHO I: “E allora?”
MONS. JUAN VENTURA Y PASCUAL: “Perdoni, Santità: successo facile. Un adulto, un padre che dice a un giovane, ‘insegnami tu, accusami tu’…il successo è garantito. Troppo facile.”
S.S. SANCHO I: “L’umiltà, Juan! L’umiltà cristiana! [pausa] Cosa fai in ginocchio?”
MONS. JUAN VENTURA Y PASCUAL: “La prego di perdonarmi Santità, non spetta a me criticarLa. Perdoni la mia superbia.”
S.S. SANCHO I: “Su, su, tirati su. Dimmi quel che pensi. Sei un giovane anche tu, no? E allora insegnami.”
MONS. JUAN VENTURA Y PASCUAL  [si rialza] : “Il Suo…il dovere della Chiesa, Santità, è insegnare. Se non insegna la Chiesa, chi lo farà?”
S.S. SANCHO I: “Il dovere della Chiesa è amare, Juan. “
MONS. JUAN VENTURA Y PASCUAL : “Sì, Santità.”
S.S. SANCHO I: “Il dovere della Chiesa è accogliere. Accogliere tutti, Juan.”
MONS. JUAN VENTURA Y PASCUAL : “Sì, Santità.”
S.S. SANCHO I: “Siamo pastori, Juan, non professori.”
MONS. JUAN VENTURA Y PASCUAL : “Sì, Santità.”
S.S. SANCHO I: “Sei mai stato parroco, Juan?”
MONS. JUAN VENTURA Y PASCUAL : “No, Santità.”
S.S. SANCHO I: “Professore?”
MONS. JUAN VENTURA Y PASCUAL : “Sì, Santità. Alla Universidad Catòlica di San Antonio de Murcia.”
S.S. SANCHO I: “Ecco, lo immaginavo. Ti manca l’esperienza pastorale.”
MONS. JUAN VENTURA Y PASCUAL : “Sì, Santità.”
S.S. SANCHO I: “San Antonio de Murcia…[pausa] Mi diceva giusto ieri l’Arcivescovo Monsalve Mejia…conosci?”
MONS. JUAN VENTURA Y PASCUAL : “Sì, Santità. Arcidiocesi di Cali.”
S.S. SANCHO I: “Colombia, bravo. Mi diceva monsignor Mejia, che è morto in odore di santità il parroco della chiesa di San Antonio. Una chiesetta appollaiata su un picco, a cinquemila metri di altitudine…un nido d’aquila, a tu per tu col cielo. Tu soffri di vertigini, Juan?”
MONS. JUAN VENTURA Y PASCUAL : “No, Santità.”
S.S. SANCHO I: “Pressione alta?”
MONS. JUAN VENTURA Y PASCUAL : “No, Santità.”
S.S. SANCHO I: “Allora siamo d’accordo.”
MONS. JUAN VENTURA Y PASCUAL : “Sì, Santità.”
S.S. SANCHO I: “I tuoi parrocchiani saranno molto diversi da te, Juan. Non ci sono professori, lassù. Ma dobbiamo imparare a convivere nella diversità, nel dialogo, nel condividere la multiculturalità non come una minaccia ma come un’opportunità. Giusto?”
MONS. JUAN VENTURA Y PASCUAL : “Sì, Santità.”
S.S. SANCHO I: “Portati gli scarponi e qualche maglione ben caldo, mi raccomando: che lassù fa freschetto anche d’estate.”
MONS. JUAN VENTURA Y PASCUAL : “Sì, Santità.”

Letto, confermato e sottoscritto
L’UFFICIALE DI P.G.

M.o  Osvaldo Spengler

P.S.  Cari amici lettori arrivederci all'inizio di settembre. Buone Vacanze!
                                                                                              Roberto Spengler Buffagni 

(*) "Trattasi" -   tanto per non cambiare stile,  quello  della  Benemerita...  -   di ricostruzioni che sono  frutto della mia  fantasia di  autore e commediografo.  Qualsiasi riferimento  a fatti o persone  reali  deve ritenersi puramente casuale. (Roberto Buffagni)

Chi è il  Maresciallo Osvaldo Spengler?  Nato a Guardiagrele (CH) il 29 maggio 1948 da famiglia di antiche origini sassoni (carbonai di Blankenburg am Harz emigrati nelle foreste abruzzesi per sfuggire agli orrori della Guerra dei Trent’anni), manifestò sin dall’infanzia intelletto vivace e carattere riservato, forse un po’ rigido, chiuso, pessimista. Il padre, impiegato postale, lo avviò agli studi ginnasiali, nella speranza che Osvaldo conseguisse, primo della sua famiglia, la laurea di dottore in legge. Ma pur frequentando con profitto il Liceo Classico di Chieti “Asinio Pollione”, al conseguimento della maturità con il voto di 60/60, Osvaldo si rifiutò recisamente di proseguire gli studi, e si arruolò invece, con delusione e sgomento della famiglia, nell’Arma dei Carabinieri. Unica ragione da lui addotta: “Non mi piace far chiacchiere .” (Com’è noto, il carabiniere è “uso a obbedir tacendo”). Mise a frutto le sue doti di acuto osservatore dell’uomo in alcune indagini rimaste celebri (una per tutte: l’arresto dell’inafferrabile Pino Lenticchi, “il Bel Mitraglia”). Coinvolto nelle indagini su “Tangentopoli”, perseguì con cocciutaggine una linea d’indagine personalissima ed eterodossa che lo mise in contrasto con i magistrati inquirenti. Invitato a chiedere il trasferimento ad altra mansione, sorprese i superiori proponendosi per la sala ascolto della Procura di ***. Richiesto del perché, rispose testualmente: “Almeno qui le chiacchiere le fanno gli altri.”
***

Roberto Buffagni è un autore teatrale. Il suo ultimo lavoro, attualmente in tournée, è Sorelle d’Italia – Avanspettacolo fondamentalista, musiche di Alessandro Nidi, regia di Cristina Pezzoli, con Veronica Pivetti e Isa Danieli. Come si vede anche dal titolo di questo spettacolo, ha un po’ la fissa del Risorgimento, dell’Italia… insomma, dell’oggettistica vintage...