giovedì 30 novembre 2023

Migranti e individualismo liberale

 


Cominciamo dalla destra. Nel prossimo fine settimana si riuniranno a Firenze, sotto l’alto patrocinio di Matteo Salvini, gli alleati di Identità e Democrazia, gruppo di destra, rappresentato al Parlamento Europeo. L’obiettivo, probabilmente è quello di un programma unico, da proporre alle elezioni europee del prossimo anno.

Non pochi dei suoi membri,  provenienti da tutta Europa, per un verso si definiscono liberali, come ad esempio l’olandese Geert Wilders, per l’altro però sono contrari a un aspetto fondamentale della concezione liberale, la mobilità spaziale. Cioè alla possibilità di migrare individualmente da un paese all’altro in cerca di fortuna.

Si dirà che le migrazioni, che sono un fenomeno di massa, proprio per questo fatto privilegiano il gruppo sociale rispetto all’individuo: gruppo che, come per il migrante islamico, propugna idee integraliste, quindi l’esatto contrario del neutralismo-relativismo religioso condiviso dal pensiero liberale. Di qui l’appropriatezza – si dice – della posizione liberale. Ovviamente, secondo il punto di vista del liberale spostatosi a destra, che, come aggiunge Wilders, respingendo il migrante di fede islamica, difenderebbe la libertà di religione.

Si dirà pure che quanto asseriamo ha il valore di una inutile disquisizione dottrinaria (roba da fin troppo raffinati storici delle idee) e che, liberalismo o meno, le società devono pensare a difendere la propria identità, nel caso europeo quella cristiana, dall’alieno di fede islamica. Altrimenti – ecco però il nocciolo duro delle ideologie identitarie di destra – si rischia la “sostituzione”, cioè di subire la trasformazione dell’Europa in un lago ideologico islamico. Queste le tesi, tra l’altro, sono il cavallo di battaglia di Salvini, altro personaggio politico che ama definirsi liberale.

In realtà ogni vero liberale non può non condividere l’idea individualistica dell’ ubi bene, ibi patria. E quindi il lasciar fare, il lasciar passare, uomini e beni liberamente. L’autentico liberale rifiuta qualsiasi feticistico concetto politico di identità (bandiere, divise, proclami, adunate eccetera), come pure l’idea stessa di religione unica, cristiana o islamica che sia. Per contro  politici come Wilders e Salvini identificano il liberalismo con il cristianesimo alla stregua del fondamentalismo islamico che non scorge alcuna distinzione tra religione e politica. Siamo davanti perciò a due forme di integralismo, ossia di prevalenza, sul piano delle idee, del gruppo sociale sull’individuo.

Purtroppo il problema è di fondo. Pseudo-liberali come Wilders e Salvini non credono più nella forza dell’individualismo: nella possibilità di trasformazione dell’arcaico contadino – come mostrano i grandi mutamenti sociali otto-novecenteschi – prima in arcigno operaio, poi in placido cittadino di ceto medio.

Non si può perciò escludere a priori che anche il migrante scopra, prima o poi, la forza dell’individualismo liberale. Già il fatto che il migrante guardi all’Europa e all’Occidente come possibilità di una vita migliore è un sintomo sociale – semplificando – di una pulsione individualistica. Una propensione che non si coltiva sbattendo la porta in faccia come propugnano le destre pseudo-liberali.

Veniamo ora alla sinistra che, pur essendo favorevole all’accoglienza, sembra rifiutare al pari della destra l’individualismo liberale.

Infatti la sinistra vede nel migrante non un individuo libero che vuole migliorarsi, ma un assistito, se si vuole una specie umana da proteggere a vita. Se si fosse applicata la logica pietista della sinistra di oggi agli uomini, alle donne e bambini che “fecero” la Rivoluzione industriale, e che centocinquant’anni dopo sarebbero divenuti ceto medio, la Rivoluzione industriale non sarebbe mai avvenuta.

Perciò accoglienza sì, assistenza a vita no. Ovviamente, si tratta di una enunciazione che va poi articolata concretamente. E questo è compito dei politici. Però, si badi, esiste, concettualmente parlando,  un punto fermo, dal quale mai desistere:  l’individuo deve essere lasciato libero di fare le sue esperienze, nel bene come nel male. Quindi di migrare, trovare un lavoro, confrontarsi o scontrarsi con realtà, eccetera, eccetera.

Insomma, di poter liberamente forgiarsi, come individuo, attraverso le inevitabili avversità che caratterizzano i processi di selezione sociale che implicano l’esclusione come l’inclusione, una regolarità, quest’ultima, metapolitica.

Il rifiuto di questo aspetto, schiettamente liberale, è l’inevitabile portato dell’aprioristico rifiuto della destra e della sinistra dell’individualismo liberale.

Sul punto si pensi solo alla metafisica del welfare, una forma di individualismo assistito che è l’esatto opposto dell’individualismo liberale. Cosa accade infatti? Che la destra razzista vuole che a fruirne siano solo i cittadini autoctoni, la sinistra solidarista pretende invece che sia esteso anche gli allogeni.

Concettualmente parlando, non cambia nulla. Perché per la destra come per la sinistra resta comunque centrale la figura dell’assistito: di colui che vive della pubblica assistenza. E che perciò mai riuscirà a formarsi come individuo attraverso la selezione sociale. Dietro la metafisica del welfare si nasconde una logica castale rivolta contro l’individuo in favore della casta degli autoctoni (destra) o della casta degli autoctoni e allogeni insieme (sinistra). Nei due casi, sociologicamente parlando, l’identità del gruppo assistito prevale su quella del libero individuo.

Perciò, come abbiamo già detto, accoglienza sì, assistenza a vita no. Questa è la risposta dell’individualismo liberale. Che non è di destra né di sinistra.

Carlo Gambescia

mercoledì 29 novembre 2023

2024, la crudele buffonata del mercato libero dell’energia e del gas

 


Questa storia del mercato libero dell’energia e del gas, dal 2024, è veramente una buffonata. Un vero caso di studio, però di una buffonata. Per giunta crudele, come vedremo.

Innanzitutto non è un vero mercato libero, le strutture di reperimento, produzione-trasformazione, e distribuzione restano saldamente nelle mani dell’operatore pubblico. La diversificazione riguarda la vendita. Pertanto si tratta di un mercato libero parziale, dove la reale base dei prezzi continuerà a dipendere dai costi di produzione, e i costi di produzione, dal costi di mercato di reperimento della materia prima, nonché di trasformazione della stessa.

Per fare un esempio, si pensi a un treno di dieci vagoni, con unica motrice, che veda però consentita l’applicazione di tariffe libere per prendere posto su ogni vagone.

I vagoni si potranno rendere attraenti o spartani, ma la velocità alla quale viaggerà il treno, cioè i dieci vagoni sarà la stessa. Con una differenza che il passeggero avrà una vita più complicata: perché per prendere posto su ogni vagone si troverà davanti a dieci biglietti diversi.

Una diversità di facciata, perché i margini di profitto, o benefici, delle dieci società proprietarie  dei vagoni (una società per vagone),  riguardano nella migliore delle ipotesi la differenza tra i costi per l’arredo delle carrozze. Dal momento che il vero prezzo dell’energia per far correre la motrice riguarda il gestore pubblico: il proprietario della motrice.

Per contro un vero mercato libero, per rimanere in metafora, imporrebbe dieci motrici differenti. Inoltre, se come  da esempio,  l’arredo di un vagone può essere qualcosa di reale, di confortevole o meno, l’arredo della bolletta energetica praticamente non esiste.

Il punto è importante: dal momento che il rapporto costi-benefici per l’operatore finale delle vendite è dato dalla sua capacità di muoversi all’ interno del margine residuale, rappresentato dalla differenza tra i costi dell’energia sul mercato internazionale e di produzione-trasformazione-distribuzione, da un parte, e il prezzo di vendita al consumatore dall’altra. Margini risicati, forse addirittura inesistenti. O comunque che dipendono dall’operatore pubblico, l’unico in grado di acquistare, produrre, trasformare, eccetera, e quindi di fissare i prezzi interni.

L’operatore finale delle vendite ha le mani legate. Perché si tratta di un “mercato” fasullo in regime di monopolio pubblico. Si tratta perciò di un mercato delle vendite già mezzo morto prima di nascere, che però vedrà i venditori, costretti, pur di sopravvivere, a puntare su una pubblicità e relazionalità (con il consumatore) aggressiva, per magnificare e vendere la famosa isola che non esiste.

Di qui però complicazioni per i consumatori catapultati nel fantasmatico universo della “miracolosa” scelta della “tariffa più bassa”. “Tariffa” che in realtà non potrai mai incidere, pena il fallimento di operatori spazzatura, sui risicati margini di profitto ricordati. Insomma il consumatore rischia di perdere ancora prima di scendere in campo.

Sia chiaro un punto: la colpa non è dell’economia di mercato. Dal momento che l’ economia di mercato imporrebbe le dieci motrici. Cioè un mercato libero vero: dell’ acquisto, produzione, trasformazione distribuzione e vendita dell’ energia e del gas. Un tempo si chiamavano privatizzazioni.

Qui invece siamo davanti a una caricatura. Per giunta pericolosa. Perché, coloro che si oppongono a quella che è una finta liberalizzazione ( di privatizzazione neppure a parlarne), come la sinistra e la destra populista, asseriscono che la colpa è del capitalismo. E ripropongono, spaventando i consumatori con la storiella del salto nel buio, il gestore pubblico unico. Statalismo in dosi massicce.

In realtà la colpa è di un’economia pubblica che non volendo cedere il passo a un’economia di mercato, che potrebbe realmente abbassare il costo della bolletta energetica, si inventa la sua caricatura pur di conservare posizioni di potere e distribuire le briciole ai consumatori, in cambio ovviamente di consenso politico.

Insomma, una buffonata. Però crudele. Sotto c’è l’inganno. Si fa credere al consumatore che, con la “tariffa su misura”,  potrà risparmiare. Il che come abbiamo visto non è vero.

Carlo Gambescia

martedì 28 novembre 2023

Il buffone mediatico

 


Il buffone di corte è una figura piuttosto antica (*). La risata, suscitata dall’evento imprevisto, o presentato come tale, quindi contrario all’ordine consueto delle cose, la si ritrova in tutte le società. E ovviamente, come ogni altro fenomeno sociale, non può non confrontarsi con la stratificazione sociale e politica. Insomma, anche i detentori del potere non possono fare a meno di ridere, almeno ogni tanto.

Il buffone di corte – funzione specializzatasi in professione alla fine del medioevo – aveva questo incarico. Per il resto della società esistevano comici itineranti e cantastorie. La risata era patrimonio di tutti, ma si uniformava all’ordine delle classi e dei ceti.

A queste cose pensavamo a proposito del fortunato programma mattutino di Fiorello. Come pure al riguardo della relazione tra comicità e politica, rapporto oggi così stretto, al punto di influenzare la politica, in particolare dal punto vista retorico e linguistico.

Il comico televisivo, o comunque mediatizzato, volgarizza le grandi questioni e ridicolizza il potere. Perciò ritenere che il buffone di corte di un tempo si sia tramutato in buffone mediatico non è sicuramente un’asserzione originale.

Sono nuove però le conseguenze sociali. Nel senso che in una società aristocratica il buffone di corte era al tempo stesso dentro e fuori di essa: esprimeva una critica popolaresca (quindi era fuori), ma all’interno di una corte (quindi era dentro il potere).

Per contro, nelle nostre società democratiche, il buffone mediatico, esprime una critica popolaresca a un potere, di derivazione popolare (perché eletto dal popolo). Quindi è dentro il potere, non più fuori. Per così dire,  il popolo che parla al popolo. Questo fatto, come detto, implica conseguenze.

Si ascolti Fiorello: ne ha per tutti. Proprio perché, parla in nome del “popolo”, da cui deriva, almeno sulla carta, il suo potere di critica. Se il buffone di corte, parlava quando il re ordinava, il buffone mediatico parla sempre: non attende ordini. Ovviamente ciò è possibile dove non esiste alcuna censura. Sotto questo aspetto le società totalitarie, oltre ad altri fattori negativi, hanno quello di essere tristi.

La risata però, come ogni altra azione sociale, dovrebbe avere il suo tempo. L’ antica saggezza sociologica dell’ “Ecclesiaste” prescrive infatti che c’è un tempo per piangere un tempo per ridere.  Anche i Dieci Comandamenti prescrivono. Però non sono in molti a osservarli. Il che spiega l’uso del condizionale.

Il buffone mediatico ride di tutto: la sua comicità non conosce limiti temporali. Qui ritroviamo quell’assenza di limiti tipica delle monarchie assolute, trasferita però al popolo, al quale si riconosce lo stesso potere assoluto dei monarchi. Con conseguenze sociali che vanno al di là della società di corte, perché il buffone mediatico, a differenza del buffone di corte, si rivolge a una società aperta e non chiusa. A ridere sono milioni e milioni di persone. E alla risata del popolo si attribuisce lo stesso potere taumaturgico – di guarire – che si attribuiva ai re. Una risata così potente, come addirittura si diceva nel ’68, da seppellire il potere. Un comico come Dario Fo, sposando questa filosofia, ha vinto un Nobel per la letteratura.

Perciò ricorrere alla censura, ad esempio di tipo religioso, a nulla servirebbe. Dal momento che oggi si ride di tutto, e collettivamente, perciò si ride anche di dio. Però attenzione: non si può ridere del popolo. Di qui, il riemergere di una volontà di censura, da parte dei “difensori” del popolo, che, ovviamente interpretano il concetto di popolo in chiave ideologica. Sicché esistono comici di sinistra, comici di destra, comici di centro e così via, secondo le varie posizioni e ideologie politiche sulla “natura” del popolo e conseguenti veti incrociati.  Fiorello, probabilmente, è di centro. Accontenta tutti. Il che spiega il suo successo.

Due osservazioni finali.

La prima, è che la risata, di destra, di sinistra, di centro, eccetera, rende comunque la nostra vita più leggera, forse troppo leggera. Però non c’ è rimedio. La nostra è una società di massa, non di corte, e ogni fenomeno si tramuta inevitabilmente in fenomeno di  massa, anche la risata.

La seconda, è che il buffone mediatico, come è capitato in Italia con Beppe Grillo, talvolta, proprio perché si immedesima fin troppo nel suo ruolo di “unica voce” autorizzata del popolo, può perdere la testa e decidere di scendere in politica. Va detto che storicamente parlando anche nel buffone di corte aleggiava un certa vena di follia. In realtà non si tratta di una scelta felice. Il comico in politica rischia di non far più ridere nessuno.

Ma questa è un’altra storia.

Carlo Gambescia

(*) Per un suggestivo volume in argomento si veda Tito Saffioti, Gli occhi della follia. Giullari e buffoni di corte nella storia e nell’arte, Book Time, Milano 2009.

lunedì 27 novembre 2023

"Educare il maschio"?

 


 La storia filosofica dell’Occidente ruota intorno a una questione fondamentale. Ovviamente dalle ripercussioni sociali.

Il principio in questione è il seguente: la conoscenza è virtù? Un principio  in discussione da millenni, almeno a far tempo da Socrate e con forti accentuazioni di pedagogia politica negli ultimi due secoli.

Detto altrimenti: il sapere, dal possesso delle conoscenze più elevate all’essere semplicemente bene informato, implica automaticamente l’ingentilimento morale del costumi rispetto a quel ricorso alla violenza che sembra accompagnare l’uomo fin dalle più antiche civiltà?

Purtroppo, la figura del saggio o (più modernamente) del cittadino bene informato non è frutto della sola istruzione, cioè della accumulazione di nozioni su nozioni. Ma anche dall’educazione morale, che al tempo stesso è assunzione di schemi (nozioni) e di esempi (comportamenti, propri e altrui). Però gli schemi si possono mandare memoria, i comportamenti richiedono invece la volontà di comportarsi in un certo modo.

Per fare un esempio banale: si possono imparare a memoria i Dieci Comandamenti, conoscerne gli aspetti teologici storici e filologici, per poi violarli tutti. Per quale motivo? Perché manca la volontà di applicarsi al bene, per le ragioni più disparate, argomentate o meno. Ragioni che non stiamo qui a indagare.

Il che significa, non che la conoscenza non sia virtù, ma che chi conosce, per non parlare di chi non conosce, può sottrarsi, volontariamente o meno al bene.

Ecco perché l’educazione è sempre una scommessa. Per non parlare poi dell’istruzione sganciata da qualsiasi processo educativo, che, a sua volta, come detto, può generare, comportamenti contrari a quelli che si prefigge di assolvere.

Pertanto, la pretesa di “educare il maschio”, alla stregua della pretesa di educare chicchessia, non tiene conto del fatto che purtroppo la conoscenza non sempre è virtù.

Ciò non significa che i costumi sociali non cambino. Cambiano eccome. Ma lentamente, non per decreto.

La società italiana negli ultimi sessant’anni è mutata. La posizione della donna non è certamente più quella degli anni Cinquanta del Novecento. Siamo addirittura entrati in una fase di accelerazione riformista. Si badi, non semplicemente riformista ma di accelerazione riformista. Il che può generare problemi. E spieghiamo perché.

Gli argini conservatori hanno ceduto. E come avviene inevitabilmente nei processi di modernizzazione, le richieste da parte dei modernizzatori, che avvertono la crescente debolezza della avversario conservatore, che ormai ha ceduto sui principi, si fanno sempre più pressanti e vincolanti. Si accelera.

Il femminismo, come un rullo compressore, è entrato nell’agenda politica mondiale. La sua pressione è fortissima. Il che può essere un male, proprio per il femminismo. Che ovviamente, anche in Italia è entrato in una fase di accelerazione riformista.

Di conseguenza la richiesta di “educare il maschio”, accettata anche in alcuni circoli conservatori, per un verso si fonda sull’idea che la conoscenza sia virtù, e per l’altro sul fatto che il femminismo avverte ormai la debolezza dell’avversario conservatore. Perciò, ogni minimo appiglio, attinto dalla cronaca giudiziaria o politica, diventa occasione per alzare velocemente l’asticella di un riformismo che non interagisce più con il costume, ma che vuole comandarlo a bacchetta, per decreto. Un riformismo accelerato che vuole educare i “maschi”, per dirla alla buona, anche a calci nel sedere.

La retorica femminista, ovviamente,  respinge questa tesi, sostenendo che la società italiana è cambiata per effetto delle “lotte femministe”, dei calci nel sedere diciamo. Il che non può essere negato. Come pure è vero che grazie a queste lotte è stata introdotta una legislazione in materia.

Ma non va dimenticato un altro aspetto, altrettanto importante. In realtà il “maschio”, a poco a poco, ha capito e accettato, a prescindere dagli obblighi normativi e dalle “lotte”, grazie allo sviluppo, frutto di interazioni individuali, di stili di vita più liberi, di  una crescente mobilità sociale e professionale tipica della società di mercato occidentali. Detto altrimenti: attenzione, la modernizzazione è un tutto, non è costituita solo dalle “lotte” femministe.

Certo, sono serviti sessant’anni. Ora però sembra essere giunto il momento dell’accelerazione riformista. La vittoria finale sembra essere a portata di mano, quindi non si vogliono fare prigionieri, per così dire.

Di regola questi processi di modernizzazione accelerata  generano reazioni contrarie. Che possono provocarne il rallentamento, come pure causare l’inasprimento dei conflitti tra i progressisti e quella parte dei conservatori che vuole resistere ad ogni costo.

L’ idea di “educazione del maschio”, fa pensare, all’educazione proletaria, assai amata da Stalin, alla quale si oppose per reazione  l’educazione nazionalsocialista di marca hitleriana.

Si dirà che siamo in una democrazia e che il parallelo è improprio. In realtà, l’accelerazione riformista, ha un risvolto totalitario, o comunque statalista – da stato docente di etica femminista –  perché vuole bruciare le tappe, dal momento che scorge la meta vicina.

Troppa fretta può però provocare contraccolpi conservatori se non addirittura reazionari.

Che fare allora?  Non abbiamo risposte definitive.  Hic sunt leones.

Carlo Gambescia

domenica 26 novembre 2023

L' Italia e il metodo delle promesse improbabili

 


L’Italia ha un problema di metodo. Cosa vogliamo dire? Che la realtà politica viene affrontata con il metodo sbagliato. La questione, piuttosto seria, non riguarda solo l’Italia ma la liberal-democrazia occidentale. Quindi quanto diremo può essere esteso, eccetera, eccetera.

Partiamo da due constatazioni.

La prima, che la politica non conosce più zone franche: l’identificazione tra governo e stato è completa. Il che però rischia di condurre alla soppressione della libertà individuale. Infatti, in questo modo, qualsiasi tipo di domanda sociale – come del resto recita il mantra welfarista – deve avere una risposta in termini di intervento politico-statale. Si varano così leggi su leggi per rispondere in modo soffocante a ogni tipo di problema, dalle misure dei vasi da balcone alle dimensioni delle serrature, impedendo così all’individuo di auto-organizzarsi. Forse esageriamo, ma, piaccia o meno,sono queste le inesorabili linee di fondo della contraddizione – come vedremo – che segna la nostra società.

La seconda, che la risposta politica ai problemi continuamente evocati dai cittadini deve essere di conseguenza rapida e completa. Di qui la naturale drammatizzazione sociologica di ogni problema, da parte dei vari attori sociali,  che alzano la voce proprio per essere ascoltati da autorità politiche strette in una specie di angolo delle promesse irrealizzabili. La gara è a chi grida di più. Purtroppo stiamo assistendo alla metamorfosi del discorso pubblico, da pacato scambio di opinioni differenti a conflitto su ogni ordine di questione, dalla normativa sul cibo per i gatti alla nuova utopia sulla transizione ecologica.

Si vive così  una situazione schizofrenica in cui  una società, composta di individui viziati e piagnucolosi,  chiede  crescente assistenza  a  un apparato istituzionale che invece non è assolutamente in grado di mantenere le sue promesse proprio perché burocratico, quindi sclerotico di per sé. Una strada senza uscita.

Questa schizofrenia sociale rimanda a una irresolubile questione di metodo, almeno sotto due aspetti.

Il primo, che la politica ( dalla destra alla sinistra), pur sapendo perfettamente di non poter accontentare tutti, invece di fare un passo indietro, alza l’asticella delle aspettative sociali sempre più in alto, promettendo tutto a tutti, credendo in questo modo di conservare il potere. Si può parlare di metodologia della promesse improbabili.

Il secondo, che questo metodo, creando aspettative, sfocia inevitabilmente nello scontento e nella disaffezione verso le istituzioni politiche democratico-liberali. In particolare verso la democrazia parlamentare dipinta come elefantiaca e corrotta, perciò incapace di fornire i “servizi sociali” invocati da cittadini viziati e piagnucolosi.

Ciò significa che la discrasia tra il metodo delle promesse improbabili e il crescente scontento del cittadino, che si comporta – ripetiamo – come un bimbo viziato e piagnucoloso, spianano la strada a forme di governo autoritarie. O comunque a partiti poco amanti delle libertà individuali, che però, pur continuando a promettere l’improbabile, sanno di poter disporre, una volta al potere, a differenza delle democrazie liberali, di strumenti più “efficaci”, per contenere lo scontento e indirizzarlo verso la classifica figura del capro espiatorio: il capitalista, il migrante, eccetera, secondo l’illeggibile copione dei totalitarismi novecenteschi.

Conclusioni. Quanto più si persevera nella metodologia delle promesse improbabili per accontentare cittadini viziati e piagnucolosi, tanto più si rischia di favorire l’affossamento di ciò che ancora  resta delle istituzioni liberali.

Carlo Gambescia

sabato 25 novembre 2023

Perché nessuno parla del patriarcalismo economico?

 


La rovente polemica sul patriarcalismo rinvia e si restringe alle battaglie femministe. In realtà si dovrebbe parlare di un’altra forma di patriarcalismo: quello economico. Che riguarda tutti, uomini e donne, perché impoverisce a prescindere dal genere.

Invece nessuno ne parla. Forse qualche panda liberale, annidato nelle università italiane. Quindi un professore statale che tira avanti in contraddizione con il proprio credo personale che dovrebbe spingerlo a tenersi lontano dallo stato. E che invece vede nelle università private – le poche esistenti – solo un possibile  secondo lavoro: le cosiddette “mezze suole”, il rinforzo economico dell’impiegato statale che un tempo, di sera, teneva i conti della drogheria sotto casa. 

Ci scusiamo per la divagazione. Che cos’è il patriarcalismo economico? Un’ economia è patriarcale o  paternalistica quando affida allo stato il ruolo di stato padrone che detta regole, promuove lavori pubblici, assegna contributi, concede bonus , manovra il fisco, lucra sui titoli pubblici. .

Un esempio di patriarcalismo economico? Il Pnrr. Intanto, si legga, per capire quanto questa mentalità sia diffusa, cosa ne scrive “il Giornale”, presunto quotidiano liberale, per giunta di proprietà di una famiglia di notissimi imprenditori.

“Il governo Meloni passa l’esame di Bruxelles. Disco verde, infatti, della Commissione europea alle modifiche del Piano nazionale di ripresa e resilienza corretto dall’esecutivo italiano. Ora il Piano, che include anche un capitolo RePowerEu (sulle energie rinnovabili) ha un valore di 194,4 miliardi di euro (122,6 miliardi di euro in prestiti e 71,8 miliardi di euro a fondo perduto) e copre 66 riforme, sette in più rispetto al piano originale, e 150 investimenti” (*).

Capito? Celebrazione dell’ elemosina di stato. Il patriarcalismo economico è fondato sulla mitica credenza che dio-padre, lo stato, immettendo soldi, come si legge, in larga parte “a fondo perduto” oppure presi in prestito, perciò con oneri da coprire con la crescita della pressione tributaria o l'emissione di titoli,  riesca miracolosamente a far ripartire l’economia.

In realtà, il padre-padrone stato, con una mano dà (finanziamenti pubblici), con l’altra toglie (tasse e inflazione, una forma, quest’ultima, di tassazione indiretta).

Cosa ci insegna invece la metapolitica? Uno, che il progresso economico è l’esatto contrario del patriarcalismo economico, come mostrano nascita e ascesa dell’economia di mercato. Due, che più denaro si immette nel sistema, più si rischia di sminuire il potere d’acquisto della moneta. Quindi, come dicevamo, si diventa tutti più poveri. Altro che crescita…

Una puntualizzazione. La tecnica dei massicci lavori pubblici – le “transizioni” di oggi – risale agli anni Trenta del Novecento, alla Germania nazista, all’Italia di Mussolini, agli Stati Uniti di Roosevelt. E funzionò per due ragioni: 1) perché poteva contare su economie autarchiche (Germania e Italia) o autosufficienti (Stati Uniti), dove il circuito economico si arrestava ai confini, si pensi perciò a un’economia di villaggio, povera e asfittica; 2) perché la parte maggiore dei denari pubblici fu investita (Germania e poi Stati Uniti) nell’industria degli armamenti, nella produzione, per così dire, di lance, archi e frecce per nativi bellicosi o resi bellicosi dalla propaganda nazionalista.

Tribalismo puro. Detto altrimenti:la grande crisi degli anni Trenta fu superata con la guerra,che permise alle industrie, in particolari militari, di funzionare a pieno regime creando occupazione, anche sotto l’aspetto di milioni di uomini come combustibile in divisa da gettare nella fornace della guerra mondiale. Questo fu, in particolare, il nazionalsocialismo.

Fortunatamente nel secondo dopoguerra, la riapertura dei mercati e il processo di ricostruzione permisero il rilancio dell’’economia di mercato e la fuoriuscita dal patriarcalismo economico. Si ebbe un grande progresso economico culminato nello sviluppo del commercio mondiale. L’esatto contrario dell’autarchia patriarcale.

Oggi, purtroppo, si sta ricadendo nella trappola delle economie chiuse, autosufficienti e finanziate dallo stato. I nazionalisti di ieri, anche europei, sono i sovranisti di oggi. 

Quali sono le cause?  Memoria corta? Opportunismo?  Connivenza tra stato e grandi  imprese?  Semplice tirare a campare? Magari tutte queste   ragioni insieme?  

Difficile dire. Comunque sia, con il consenso di un’ Unione Europea che sogna l’autarchia europea, soprattutto nelle componenti politiche di destra, il Pnrr non è che un passo, non secondario, verso il ritorno a un’ economia chiusa, patriarcale, tribale, guidata dal “padreterno” stato. Che poi sia di casa a Bruxelles o Roma è la stessa cosa.

E gli imbecilli del “Giornale”, i presunti liberali, festeggiano.

Che malinconia.

Carlo Gambescia

 

(* ) Qui: https://www.ilgiornale.it/news/politica/arriva-libera-pnrr-superato-lesame-ue-2246610.html .

venerdì 24 novembre 2023

Parenti serpenti. Ciano e Lollobrigida

 


Su Galeazzo Ciano, genero del duce, girano tuttora storielle e barzellette. Le uniche cose giuste ( o quasi) che fece furono due: opporsi (ma non troppo all’alleanza con Hitler), far cadere il 25 luglio Mussolini, col voto di altri gerarchi (forse troppo tardi).

Per il resto  basta leggere i “Diari” per scoprire la mediocrità dell’uomo e del politico, giunto così in alto, e non per meriti suoi. Aveva sposato la figlia di Mussolini, il duce del fascismo.

Francesco Lollobrigida invece ha sposato la sorella di Giorgia Meloni,  ducetta  di Fratelli d’Italia. Inoltre – curiosità storica, ma non troppo – era dai tempi del connubio parentale e politico Ciano-Mussolini, che l’Italia non vedeva due parenti insieme al governo (*).

Perciò, a proposito di parenti serpenti, anche la Meloni, come il duce, ha un problema: il cognato, Francesco Lollobrigida.  Meno raffinato e presentabile di Ciano. Il quale era figura comunque elegante, una specie di Dandy, soprattutto quando non indossava la camicia nera.

Per contro, Francesco Lollobrigida, fisicamente, ricorda il famoso anello mancante nella catena evoluzionista. Inoltre ha tutti i difetti del gerarca, nel suo caso di provincia. Insomma, oggi come oggi, sarebbe inadatto alla Farnesina. Ciano invece fu un flessuoso ed elegante, forse un tantinello impomatato (ma all’epoca si usava così), Ministro degli Esteri.

Giorgia Meloni, che, visto dove è arrivata, dovrebbe conoscere abbastanza gli uomini, probabilmente nel caso di Lollobrigida (sembra ribattezzato dai nemici “Lollo er Bullo”), non ha potuto sottrarsi al vincolo parentale. Sicché ha dovuto nominarlo ministro. Un dicastero non del tutto minore, subito ribattezzato Ministero dell’Agricoltura e della Sovranità alimentare e delle Foreste. Roba da paese sottosviluppato. Ma così volle “Lollo”.

Inutile qui ricordare le stupidaggini di Lollobrigida, tra le altre, sul complotto della sostituzione dei neri ai bianchi, sui poveri che mangiano meglio dei ricchi. Da, ultimo, abusando della sua carica ( “com’è misera la vita negli abusi di potere”…, cantava Battiato, idolo dei Campi Hobbit, quando i neofascisti erano poveri), ha fatto fermare un treno in ritardo di cento minuti sul quale viaggiava (**). Per proseguire con mezzi propri (che poi sarebbero della Repubblica...).  Dove ha imposto lo stop? Ciampino, vicino Roma. “Lollo” era diretto a Salerno e doveva giungere in tempo all’inaugurazione di un parco pubblico a Caivano. L’Italia chiamò? No. “Marchette” politiche, Law & Order, interne a Fratelli d’Italia (***).

Ed effettivamente è arrivato in tempo. Ma come? Ripetiamo, facendo fermare un treno. Una cosa normalissima… Come ben sanno tutti i viaggiatori italiani in ritardo… Si alza il telefono e ci si fa passare l’Ad delle Ferrovie… Una cosetta da nulla…

Battute a parte, il Ciano di Giorgia Meloni, prima o poi ne farà un’altra delle sue.  La ducetta se ne dovrebbe liberare finché in tempo. Mussolini,  il duce,  attese troppo…

Carlo Gambescia

(*) Qui: https://pagellapolitica.it/articoli/prima-volta-parenti-governo-storia-lollobrigida-meloni .

(**) Qui una ricostruzione dei fatti: https://www.open.online/2023/11/23/francesco-lollobrigida-frecciarossa-ciampino-fermata/ .

(***) Sulla cerimonia di Caivano si legga qui: https://www.ansa.it/campania/notizie/2023/11/21/caivano-lollobrigida-inaugura-parco-urbano.-la-fiducia-cresce_14e204aa-55bd-4638-a5e6-dd26437bfca7.html .

giovedì 23 novembre 2023

Società patriarcale, il nemico è in Afghanistan non a Torreglia

 


Come scrivevamo ieri, ragionare per categorie è scorretto e pericoloso. Si fa di tutta l’erba un fascio, nel senso di evocare una precisa “categoria” di “persone”, traendone poi conclusioni sbagliate e pericolose, del tipo “eliminiamole tutte”.

La stessa pubblica opinione, che in una società di massa si traduce inevitabilmente in pressione sociale sugli individui, rischia sempre di trasformarsi in una specie di macigno collettivo capace di schiacciare le opinioni contrarie o non conformi. Insomma, si vizia e rovina il discorso pubblico pur di avere la meglio su un avversario "categorizzato"  e  liquidato come nemico politico.

Si prenda ad esempio la polemica sul “patriarcato”. La società italiana non è un esempio di modernità arrembante ma ha comunque attraversato negli ultimi sessant’anni una fase di notevole evoluzione sociale: i costumi sono cambiati, i rapporti tra uomini e donne sono più liberi, eccetera, eccetera. Insomma è una cosa che si nota a vista d’occhio e comprovata dalle indagini sociologiche.

Certo, esistono ancora nicchie geosociali, come nel Sud (ma non solo), dove la figura del padre padrone e del marito e del fidanzato padrone sussiste. Però il quadro generale non è assolutamente di tipo patriarcale. Anche perché il termine rinvia a una società di tipo tradizionale, quindi premoderna nei suoi costumi, a predominio “del padre” (questa l’origine linguistica del termine), cioè dell’uomo.

Un tipo di società arcaica che si può oggi ritrovare nel mondo islamico, soprattutto nelle aree geopolitiche dominate dal fondamentalismo. Si pensi, solo per fare un esempio, all’Afghanistan talebano.

Ora, se nel caso dei talebani è giusto parlare di società patriarcale, non è giusto usare il termine per definire la società italiana. Evidentemente la differenza di significato attribuita al termine è solo di tipo politico. Non riflette la realtà, la deforma per ragioni di ciclo politico (di conquista del potere): esiste una pubblica opinione, che pur essendo di parte, vuole imporre le proprie idee ad ogni costo, anche falsificando la realtà. Perché, ripetiamo, la libera Italia non è il patriarcale  Afghanistan. Questo deve essere il dato di partenza di ogni discussione, non la fallacia argomentativa della “pars pro toto”. Per capirsi, della categorizzazione…

Infatti dietro tale atteggiamento si nasconde un movente totalitario. Perché, come dicevamo, si “categorizza”: si mettono insieme l’afghano che giustizia a  termini di legge una adultera e un ragazzo italiano, probabilmente disturbato, che ha ucciso l’ ex fidanzata.

Si fa, ripetiamo, di tutta l’erba un fascio. Si crea una specie di macigno ideologico che condiziona il discorso pubblico. Dal momento che il solo richiamarsi, qui in Italia, all’idea di patriarcato per spiegare un omicidio, è profondamente scorretto perché non tiene in alcun conto la differenza fondamentale che intercorre tra l’ Italia, società moderna, e l’Afghanistan, società premoderna. Tra Italia e Afghanistan c’è differenza di specie non di grado all’interno di una stessa specie.

Quali sono i responsabili di questa china pericolosa? Di certo i movimenti femministi e la sinistra che li appoggia senza un minimo di spirito critico. Ma anche una destra, anzi estrema destra, oggi di nuovo al potere, che non ha mai fatto i conti con la modernità.

Diciamo pure che si confrontano due radicalismi opposti, che si rinforzano a vicenda, travisando così la realtà:  quello della sinistra, per cui Afghanistan e Italia pari sono, e quello dell’estrema destra, che ripropone pari pari il dio patria e famiglia, che non ci riporta all’Afghanistan, ma di sicuro al regime fascista, che nella donna vedeva una macchina demografica senza rotelle.

La società italiana non è patriarcale. E comunque sia, è in  via di nettissima evoluzione. Se le femministe e la sinistra vogliono sporcarsi le mani e combattere la società patriarcale il nemico è in Afghanistan non a Torreglia.

Carlo Gambescia

mercoledì 22 novembre 2023

La guerra dei generi

 


Il colmo dell’imbecillità, lo diciamo da studiosi di metapolitica, si tocca quando alcune femministe proclamano che il potere maschile è finito.

Il che può anche essere vero, ma non significa che sia finito il potere del potere. Nel senso che il potere tende sempre a ricostituirsi, quindi una volta scomparso il potere maschile, ad esso di sostituirà il potere femminile, diviso al suo interno, secondo una gerarchia del merito, in relazione alla stratigrafia sociale, nonché frutto, talvolta amaro, del caso.

Per dirla alla buona, una volta finita la battaglia, questa volta vittoriosa per il genere femminile, toccherà ai maschi giocare in Serie D mentre le donne giocheranno in Serie A, B e C. Quindi “gerachicamente” suddivise, come in precedenza gli uomini.

Se le cose stanno così – e stanno così, perché il potere tende sempre a ricostituirsi – che senso ha la guerra dei generi? Perché, tutto sommato, chiunque vinca non potrà sottrarsi alla forza di gravità del potere e alla inevitabile spartizione del bottino tra i vincitori. Insomma a vincere sarà lo stato redistributore, democratico o meno, moderna personificazione del potere.  Spieghiamo perché.

Quanto diciamo ha un senso obiettivo, metapolitico, perché riflette, due fondamentali regolarità: la persistenza del conflitto amico-nemico come pure la presenza del ciclo politico di conquista, conservazione e perdita del potere.

Però ne ha anche uno soggettivo, che riguarda gli attori politici: che senso può avere la sostituzione del potere maschile con quello femminile? Potere che, a sua volta, si struttura in gerarchie interne ed esterne ai generi? Infatti la spartizione del bottino (sociale) cui abbiamo accennato non potrà che rispondere ai poteri di uno stato finalmente espugnato, ma non meno forte di prima. E’ matematico.

Invece di inveire contro gli uomini o contro le donne, di inneggiare al patriarcato o al matriarcato, si dovrebbe semplicemente fare spazio al merito. Come? Lasciando fare, lasciando passare. Le società si strutturano e ristrutturano, lentamente e non per decreto. Implicano flussi e riflussi, spesso lacrime e sangue, per usare una espressione letteraria

Perciò, dal momento che il potere del potere è inevitabile, l’unico modo per favorirne una redistribuzione è quello di lasciare che sia il  setaccio sociale, e non lo stato occupato da questo o quel genere,  a selezionare  il materiale umano migliore,  prescindendo  per l’appunto  dal genere.

Si dirà, qui, che le donne partono svantaggiate, che bisogna rettificarne prima la posizione socilae  ed economica, per metterle alla pari con gli uomini, e solo allora, eccetera, eccetera. Uguaglianza sostanziale insomma, dei punti di arrivo. Classica filosofia welfarista, estranea allo stato di diritto.

In realtà, ogni diritto concesso, al di là della doverosa statuizione dell’ uguaglianza formale,  giuridica, preziosa conquista del liberalismo moderno, non è gratis, perché è sempre “pagato” da qualcun altro. Si pensi qui alle quote rosa, vera e propria discriminazione di genere “pagata” dagli uomini. Di solito le femministe rispondono che è giusto che sia così, perché gli uomini per secoli hanno oppresso le donne, eccetera, eccetera.

In realtà il concetto di riparazione storico-politica è molto pericoloso perché implica due fattori: 1)un attore che lo faccia rispettare, in questo caso lo Stato e 2) la collaborazione fattiva di un altro attore, la vittima.

Pertanto quanto più si applica la logica riparativa tanto più si estende il potere dello stato che, piaccia o meno, converte la giustizia in vendetta delle vittime sul colpevole, che nel caso delle battaglie femministe (come di ogni altra battaglia categoriale, come ora vedremo) non è più rivolto a un uomo con tanto di nome e cognome (cioè lo è, ma in un secondo momento), ma contro una “categoria” di soggetti.

Il diritto, “martellato” dallo stato diventa così il veicolo giuridico armato di una guerra “totalitaria”, come capitato in passato, contro il borghese, l’ebreo, il liberale, il capitalista. Oggi tocca al genere maschile. Che a sua volta, rispondendo agli attacchi, giustificati o meno, categorizza quello femminile. E così via lungo una spirale di odio e di imbecillità, perché, per dirla alla buona, tra i due litiganti è il terzo a godere: lo stato.

Ripetiamo: a trarne vantaggio è solo il potere dello stato, questa volta, messosi al servizio del potere femminile. Ciò significa solo una cosa: che pur “cambiando padrone” il potere dello stato non sarà meno esteso. Come detto, il concetto applicato di giustizia riparativa trasforma lo stato in una specie di Angelo Vendicatore che dispone di larghissimi poteri.

Tutto questo può essere evitato solo facendo un passo indietro, soprattutto da parte dello stato. Come? Permettendo a uomini e donne di trovare la propria strada da soli e farsi largo grazie ai propri meriti. Ne guadagnerà la selezione delle élite dirigenti che “pescherà” talenti in un mare più grande.

Il che, ovviamente, imporrà più tempo, più sacrifici, forse più dolore, ma contribuirà a evitare due fenomeni socialmente disastrosi: la categorizzazione totalitaria del nemico e la guerra dei generi, o detto altrimenti, la guerra imbecille tra patriarchi e matriarche.

Carlo Gambescia