sabato 31 dicembre 2022

Un blog pericoloso…

 


Comunico agli amici lettori che tra il serio e il faceto mi è stato suggerito di lasciare in pace Giorgia Meloni, che, testuale, si “sta occupando del bene di questa nazione”. Non dirò di più. Per ora.

La prima cosa che ho pensato è che il mio blog non è quello di Beppe Grillo. Diciamo che ho un piccolo gruppo di lettori, culturalmente agguerriti, di varia estrazione politica, che mi segue con attenzione e simpatia. Diciamo quattro gatti.

Qualche dato. Il mio blog risale al fine del 2005, e da allora, a grandi linee, ho ricevuto quasi un milione di visite uniche per due milioni di pagine lette. Insomma, niente di significativo rispetto a giganti, ripeto, come Beppe Grillo.

Il fatto che però mi incuriosisce è che rispetto al passato, distinto da alcuni attacchi pirata (regolarmente denunciati alla polizia postale), dalla vittoria di Giorgia Meloni in poi avverto intorno a me un crescente clima di malcelata insofferenza. Si tenga pure presente che, oltre che a destra, non sono benvisto a sinistra, ma neppure gli stessi liberali mi amano: quelli di sinistra mi reputano troppo a destra, quelli di destra troppo a sinistra. Insomma, sono un disastro digitale, da manuale del perfetto antilike.

Un’ insofferenza che non riesco a giustificare, dal momento che i miei articoli non sono ripresi dalla stampa a grande tiratura e dai siti più importanti e diffusi. Per non parlare dei famosi “like”, che non superano mai le dieci-venti unità. Per non parlare delle condivisioni, opera di due o tre affezionati.

Anche perché la reazione diciamo “normale” sarebbe quella di alzare le spalle verso chi, come me, che in termini di grandi numeri resta ai nastri di partenza o poco più in là.

Però, evidentemente, coloro che contano mi leggono. Stando anche alle provenienze istituzionali, che rilevo su Shinystat…

Perciò i miei lettori sono avvisati: Carlo Gambescia è pericoloso.

Dimenticavo. Buon 2023 a tutti! Anche a coloro che non mi sopportano.

Carlo Gambescia

venerdì 30 dicembre 2022

Conferenza stampa di fine anno: un medico di famiglia così così

 


Non sappiamo se l’articolo di oggi abbia o meno un contenuto sociologico. Probabilmente, si tratta di un giudizio impressionistico. Però il lettore prenda nota, perché non si sa mai.

Veniamo subito al punto: la conferenza stampa di fine anno di Giorgia Meloni ci ha fatto pensare a quei medici di famiglia, così così, che però trattano i pazienti come bambini, convinti di saperla lunga (cosa che non è) e di poter eludere qualsiasi domanda impegnativa. Medici, in fondo insicuri, che, quando e se capita, fanno morire di cancro gli assistiti, per non avere voluto prescrivere, per paura di incorrere in un’ispezione, un test dirimente al momento giusto, o peggio ancora per aver formulato una diagnosi sbagliata, ovviamente con l’aria sicura: Massì è un foruncolo”. Poi si scoprì, troppo tardi, che era qualcosa di brutto.

Un medico di famiglia, così così, si può sempre cambiare, anche subito (sebbene la qualità dell’assistenza di base sia scarsa). Invece Giorgia Meloni, “votata dagli italiani”, dagli assistiti, per ora non si può sostituire. Dobbiamo tenercela.

Della legge finanziaria, in netta continuità con i governi precedenti, già abbiamo scritto (*).Inutile tornare sul punto. Sotto questo aspetto, Giorgia Meloni incarna quella routinizzazione welfarista della politica che fa apparire i politici tutti uguali, proprio come i medici di famiglia, altri routinizzati. Con una differenza, non da poco, nel caso della Meloni: le radici missine, e di rimbalzo neofasciste.

Ad esempio, la sua insistenza sulla repubblica presidenziale è sospetta. Dal momento che proviene da un’area politica che ha sempre ammirato, se non addirittura venerato gli uomini forti. E che rivendica, addirittura con orgoglio, anche per bocca della Meloni, l’ appartenenza storica a un partito neofascista. Quindi la repubblica presidenziale potrebbe essere il classico Cavallo di Troia.

Insomma, sotto il camice bianco, Giorgia Meloni, saccente ma insicuro medico di famiglia, potrebbe indossare la camicia nera.

Si dirà, dopo aver letto l’ennesimo titolo di “Libero”, ma allora i “comunisti”? I rossi del Pd per dirla con Feltri? Sono quel che sono per carità, ma non hanno mai fatto i salti di gioia, almeno fino a oggi, per la repubblica presidenziale. Una scelta quella del re-presidente (semplificando), che, per intendersi, se non ha tradizioni liberali e democratiche alle spalle, come in Italia ad esempio, rischia di tramutarsi, ripetiamo, in una specie di Cavallo di Troia dell’autoritarismo.

Quel che più preoccupa è l’atteggiamento degli italiani, che ricorda quello della gente seduta (non sempre) nelle sale d’aspetto dei medici di famiglia. Ci si preoccupa che nessuno salti la fila, ma non del fatto che una volta davanti al medico, si troverà dall’altro lato della scrivania un dottore così così. Capace pure di condannare a morte con una diagnosi sbagliata o a scoppio ritardato.

Gli italiani, si sa, politicamente parlando, si accontentano. Sono di bocca buona. Mandano giù tutto. Perciò in qualche misura si meritano la Meloni.

Carlo Gambescia

(*) Ad esempio qui: https://cargambesciametapolitics.altervista.org/legge-di-bilancio-e-malinconia/ ; https://cargambesciametapolitics.altervista.org/la-solita-legge-di-bilancio/ .

giovedì 29 dicembre 2022

Il decreto legge sulle Ong e la vergogna sociale

 


Il lettore perdoni lo sfogo, non del tutto sociologico. Ma a volte è veramente dura.

Un piccolo passo indietro. Il senso di vergogna sociale, cioè il vergognarsi per un altro, non va mai sottovalutato.

È un importante termometro della qualità della vita sociale, dal punto di vista della cooperazione tra individui e più in generale dei gradi o livelli diffusi di solidarietà. Ci spieghiamo meglio.

A volte capita di provare vergogna, individualmente, ossia a ognuno di noi, di sicuro ai più sensibili, quando un interlocutore dica all’improvviso qualcosa di cattivo gusto, di sgradevole, di ripugnante, come se fosse la cosa più normale del mondo.

Certo, può accadere che talvolta il cattivo umore ci spinga a dire, cose di cui dopo ci vergogniamo. Ma dire le stesse cose sgradevoli, senza sbalzi umorali e senza provare vergogna, indica che c’è qualcosa di sbagliato nell’atteggiamento del nostro interlocutore verso il mondo. Un fatto che ha conseguenze sociali, gravissime in politica. E qui veniamo al punto.

Si prenda il decreto legge sul “nuovo” codice di condotta dell’Ong che operano nel Mediterraneo. Da quel che riportano le agenzie ha un evidente intento punitivo: si cavilla, si parla di un solo salvataggio, di tempistica brevissima per raggiungere il porto più vicino dopo autorizzazione, si introducono sequestri e multe salatissime (*).

Come non si può non provare un senso di vergogna verso un legislatore che tratta le organizzazioni umanitarie alla stregua di organizzazioni criminali? Che le punisce?

Quale sarebbe invece l’ atteggiamento normale? Quello di collaborare con chiunque salvi vite umane. Di conseguenza, il contrasto tra normalità (salvare vite umane) e anormalità (fare in modo, cavillando, che non si salvino) genera la vergogna.

Chi scrive prova vergogna per il comportamento di Piantedosi e del Governo che lo sostiene. Un ministro della Repubblica che con questo decreto legge viola, al di là delle leggi internazionali, il riflesso stesso, umanissimo, che ad esempio spinge ogni essere umano a sostenere, chi vicino a noi, scivoli o cada in terra all’improvviso.

Allora, nel caso di questo decreto legge, per tornare all’incipit, cosa indica il termometro sociale? Che i gradi di solidarietà, si pensi al vecchi termometri al mercurio, sono al di sotto degli stessi riflessi sociali. La linea del mercurio non sale, perché ciò che era antisociale è diventato sociale. Si lasci pure annegare il migrante, nel rispetto delle norme, non sia mai…

Sicché non serve più il termometro sociale. O ne serve uno di nuovo tipo che scorga perfino nel riflesso solidarietà una pericolosa febbre sociale da tenere sotto controllo.

Chiunque si comporti così, ignorando perfino i riflessi sociali naturali, può essere capace di tutto.

Che tristezza. Alla vergogna aggiungiamo anche la pena verso coloro che hanno votato questa gente.

Carlo Gambescia

(*) Qui: https://www.agi.it/cronaca/news/2022-12-28/migranti-nuove-regole-per-ong-allo-studio-del-viminale-19390824/ .

mercoledì 28 dicembre 2022

Ignazio La Russa, Isabella Rauti e le radici che non gelano

 


Innanzitutto Isabella Rauti non sembra conoscere affatto il pensiero politico del padre. Capita anche nelle migliori famiglie.

Quando Pino Rauti, giornalista e storico mai banale, un politico-intellettuale, rara avis, parlava di “radici profonde che non gelano”, si riferiva evolianamente al mondo della Tradizione (quella con la maiuscola), che il fascismo, dalle origini plebee, addirittura socialiste, aveva imperfettamente reincarnato.

Insomma, Pino Rauti con la nascita del “partito” Movimento Sociale – celebrata ieri anche da Ignazio La Russa (*) – non ha alcun rapporto intellettuale . Che poi la sorte lo condusse a fare politica, fuori e dentro il Movimento Sociale, con alti e bassi politici, è un’altra storia, ma comunque collegata alla difesa pinorautiana, piaccia o meno, di un “Ordine Nuovo”, legato alla rivincita di valori premoderni, giudicati come radicati nell’eternità. Le famose radici profonde che non gelano sono queste e non altre.

Ma Isabella Rauti non è nuova a certe curiose uscite. Una volta, durante un convegno, disse che il padre, coautore di una storia del fascismo in sei volumi, discutibile ma notevole, aveva scritto un’enciclopedia del fascismo. Insomma i Fratelli Fabbri editori… Tra padre e i figli capita anche questo.

Detto ciò, non si può non notare che celebrare la fondazione del Movimento Sociale, nato il 26 dicembre del 1946, è quanto meno di cattivo gusto. Perché – basta leggere Fascisti senza Mussolini di Giuseppe Parlato (il Mulino) – per scoprire che i reduci di Salò, repubblica fantoccio antisemita nelle mani dei nazisti, erano in maggioranza tra i fondatori. Si accettava la democrazia, con il retropensiero al fascismo da instaurare di nuovo, al momento con le buone ma se necessario con le cattive. Poi negli anni, come naturale, il gioco parlamentare risucchiò molti duri e puri, ma non le idee reazionarie. Ancora oggi la cultura che ruota intorno a Fratelli d’Italia è antimoderna, anticapitalista, antiliberale.

E qui affiora la responsabilità di Giorgia Meloni, che, anche di recente, ha favorito con alcune dichiarazioni l’orgoglio neomissino. Ad esempio “Il Movimento Sociale era un partito democratico”. Forse lo era nella forma, obtorto collo, non nella sostanza.

Ha ragione allora la sinistra nel chiedere le dimissioni di La Russa e della Rauti? La Russa è seconda carica dello stato, la Rauti sottosegretario di stato alla difesa.

Dal punto di vista relativo della repubblica antifascista sì. Da quello assoluto della repubblica antitotalitaria no.

La sinistra, in particolare quella che non ha mai fatto i conti sul serio con l’ideologia comunista, ha la coda di paglia. Applica il solito metro dei compagni che sbagliano in buona fede, mentre, come da mantra, le intenzioni di fascisti e neofascisti erano e rimangono cattive. Quindi per capirsi: Ingrao, Iotti, Napolitano sì, La Russa no.

Si chiama politica delle buone intenzioni. Nel senso che se si aspira, come i comunisti, all’uguaglianza tra gli  uomini si possono anche giustiziare milioni di persone, se invece si aspira, come i fascisti, alla disuguglianza neppure un cinghiale.

Ovviamente è un ragionamento scorretto, perché dal punto di vista della difesa della vita umana e della libertà individuale di decidere ciò che è giusto o meno, hanno torto gli uni e gli altri.

Ma così è. Di conseguenza in Italia il dibattito politico continua a svolgersi lungo i binari morti del conflitto tra buone e cattive intenzioni politiche. Nel silenzio assordante, come sempre, della cultura liberale che invece è, e giustamente, antifascista e anticomunista. In una parola antitotalitaria, ma purtroppo relegata nell’angolo fin dalla fondazione della Repubblica. Secondo alcuni si sarebbe invece “autorelegata”.

Comunque sia, stiamo assistendo all’ennesima tragicommedia con due protagonisti: l'ex comunista buono e l'ex fascista cattivo e viceversa. Perché la politica delle intenzioni è questione di punti di vista; “Io ne ho uccisi meno di te”, “Non è vero, tu ne hai uccisi più di me”, eccetera, eccetera. Questo il confronto tipo. Insomma, una filosofia politica su macabre basi contabili.  E, se ci si pensa bene,  in ultima istanza  edificata  su quell'infantilismo di cui parlavamo ieri (**)

In realtà sono radicalmente cattivi e pericolosi tutti e due, perché gli ex fascisti e gli ex comunisti sono, culturalmente parlando, nemici della libertà.

Dire una cosa del genere è addirittura banale. Eppure…

Carlo Gambescia

(*) Qui, per i fatti: https://www.adnkronos.com/pd-chiede-dimissioni-la-russa-e-rauti-dopo-post-su-nascita-msi_5JrLgUS6UIdM82u3RaG9Ws .

 
(**) Qui: https://cargambesciametapolitics.altervista.org/linfantilizzazione-del-discorso-pubblico/ .

martedì 27 dicembre 2022

L’infantilizzazione del discorso pubblico

 


Oggi sulla “Stampa” Vito Mancuso risponde a Michela Murgia che critica l’ “infantilizzazione di Dio da parte del cristianesimo”. Il primo è un teologo progressista, la seconda è altrettanto progressista ma tuttologa (*).

La polemica in sé è priva di qualsiasi importanza, ma resta indicativa dal punto di vista della sociologia della conoscenza, in particolare della sociologia del discorso pubblico. Dal momento che se proprio vogliamo parlare di infantilizzazione, cioè di una superficialità di approccio alle grandi questioni, come quando si cerca di spiegarle ai bambini, il livello del nostro dibattito pubblico è veramente infantile.

Di chi è la colpa? Innanzitutto, della diffusa pretesa – sbagliata – che tutti possano parlare di tutto. Il che spiega perché Michela Murgia, si ritenga autorizzata a dire la sua un argomento complesso di natura teologica. Ma anche Mancuso è colpevole, perché da progressista, ritiene che tutti possano parlare di tutto, perché segno di uguaglianza. Di conseguenza si sente doverosamente autorizzato a rispondere semplificando. Cioè scende sullo stesso terreno dell’interlocutore, infantilizzando e infantilizzandosi.

Si tratta di un fenomeno che abbraccia anche altre forme di sapere complesso, dalle scienze sociali alle scienze mediche. Con risultati disastrosi, studenti che pretendono di saperne più dei professori, come pure i pazienti nei riguardi dei medici, e così via. In fondo che ci vuole? Basta un giretto su Internet e il gioco è fatto. Un principio pseudo cognitivo che vale per la Murgia come per qualsiasi sofferente di coliche renali.

Si può uscire dal vicolo cieco infantilista? No, almeno per ora.

Per la semplice ragione che si dovrebbe rinunciare allo straripante credo ugualitarista. La cui diffusione totalitaria, o quasi, ha semidistrutto un importante  principio cognitivo, che è alle basi stesse della civiltà, non solo occidentale: che chi sa deve insegnare a chi non sa. Ciò significa che chi non sa deve applicarsi, apprendere, e poi a sua volta, eccetera, eccetera.

Ovviamente, come storia e sociologia insegnano, c’è chi approfitta, tramutando la cultura in potere, giocando con le paroline “magiche” in favore del principe, democratico o meno. Però la risposta giusta non può essere quella di far giocare tutti con le parole difficili, ovviamente non più tali, proprio per poter essere evocate da tutti. Il che ha generato una specie di corto circuito dell’ignoranza collettiva. O meglio di una presuntuosa ignoranza di massa.

Ci potrà salvare il “merito”, proclamato, come carta vincente, dall’attuale governo di destra? Il merito rimanda a comportamenti sociali che possono essere premiati o puniti secondo una certa scala di valori. Che mutando influisce sui giudizi di merito. Il giudizio sull’abilità nel saper fare soldi è profondamente diverso a seconda dei valori che sono professati, socialisti o liberali ad esempio. Di qui altre divisioni, diciamo ideologiche, sullo stesso concetto di merito.

Se alle divisioni ideologiche si aggiunge il disconoscimento, in nome dell’uguaglianza, del “chi sa che deve insegnare a chi non sa”, come si può intuire, le nostre società rischiano per un verso l’infantilizzazione e per l’altro la paralisi sociale.

Come uscirne allora? Serve un atto di umiltà, proprio da parte degli intellettuali, che devono evitare l’infantilizzazione del discorso pubblico. Come pure da parte dei frequentatori della Rete, che devono prendere atto delle gerarchie cognitive.

Dopo di che basterà lasciar fare a quel gigantesco setaccio naturale che è rappresentato dall’ interazione sociale tra individui. Una selezione naturale dei meriti sul “campo” che dà esattamente, una volta esclusi i casi limite, a ciascuno ciò che merita in termini di intelligenza e volontà, anche come capacità di trasformare una sconfitta in vittoria. E quindi, come si diceva un tempo, di comportarsi da uomini e non da bambini.

Carlo Gambescia

(*) Qui (il taglio basso): https://www.giornalone.it/prima-pagina-la-stampa/  .

lunedì 26 dicembre 2022

Roma senza romani

 


Prima l’antefatto “culturale”. Poi l’analisi.

«Roma, città eterna e silenziosa durante il lockdown: la mostra al Vittoriano»

«Webuild presenta “Roma. Silenziosa Bellezza”: le fotografie di Moreno Maggi raccontano la città eterna durante i giorni del lockdown. La mostra è aperta al Vittoriano, il volume sarà edito da Rizzoli.La meraviglia dell’architettura, il fascino degli spazi urbani, i ritmi, le prospettive, i tagli di luce e di ombra che scandiscono i materiali della città eterna, la pietra, il marmo, il vetro, il cemento. Perché è una città realmente eterna, in cui passato e presente si intersecano, quella che emerge tra le immagini di “Roma. Silenziosa Bellezza”, progetto promosso da Webuild, con il patrocinio del Comune di Roma, che sarà presentato in una mostra, visitabile fino al 28 febbraio 2023, nella Sala Zanardelli del Vittoriano (…). A ritrarre Roma, infatti, è stato Moreno Maggi, esperto fotografo italiano di architettura e di fotografia Industriale, durante i mesi del lockdown. Strade, piazze, slarghi, vicoli, solitamente tumultuosi di persone, diventano contesti metafisici, luoghi onirici in cui perdere e ricalibrare gli abitudinari punti di orientamento. “L’assenza delle persone e il vuoto generato dal lockdown hanno riacceso il dibattito sui temi legati alla concezione di città vivibile, di urbanistica e di mobilità” – si legge nella prefazione del volume a firma di Pietro Salini, AD di Webuild, Gruppo nato nel 2020 da Salini Impregilo e tra i maggiori global player nella realizzazione di grandi infrastrutture complesse. “È necessario sfruttare l’occasione di questo cambiamento epocale per ripensare completamente gli ambienti e le infrastrutture, partendo dai bisogni delle comunità in una nuova ottica di sostenibilità, dai centri alle periferie”, continua Salini, ponendo l’attenzione sull’importanza di raccontare l’esperienza del vuoto creato dall’epidemia Covid–19, per “Avviare nuove riflessioni sul futuro che ci attende”. “La mostra e il progetto rientrano in pieno nelle nostre linee d’azione”, ha spiegato Edith Gabrielli, direttrice generale dell’istituto VIVE – Vittoriano e Palazzo Venezia (…). Attraverso le immagini realizzate durante i mesi di chiusura dovuta alla pandemia, la mostra interattiva, a ingresso libero, racconterà una Roma diversa dal solito: silenziosa nella sua straordinaria bellezza, emozionante, preziosa. L’esposizione, a cura di Roberto Koch e Alessandra Mauro, comprende foto, video e proiezioni multimediali (…). Nel volume, inoltre, sarà ospitato anche l’intervento del filosofo Massimo Recalcati, che parla di una primavera che ci ha fatto vivere “L’inaudita esperienza dello svuotamento e della desertificazione della città”. A documentare il viaggio storico delle foto nelle piazze e tra i monumenti iconici delle città è invece lo storico dell’arte Claudio Strinati: “Il fatto di vedere tutto senza vedere nessuno – commenta Strinati – consente a chi legge il libro di percepire come meglio non si potrebbe il respiro della storia, la grande bellezza degli spazi e dei monumenti, il senso di eletto decoro e di profonda spiritualità che promanano persino dagli angoli più remoti ma amorevolmente rintracciati da questa significativa sequenza di fotografie”» (*).

Qualche spiegazione. Webuild, come si legge, non è altro che la nuova denonominazione di Salini Impregilo, un colosso multinazionale delle costruzioni. Quanto ai nomi di autori e curatori, si tratta semplificando, a partire da Recalcati del fior fiore delle pagine culturali di “Repubblica”.
 

Infine, alla presentazione del progetto ha partecipato il sindaco di Roma, Roberto Gualtieri, che ha dichiarato:

“È un progetto bellissimo che ci restituisce la Roma silenziosa e bellissima dei mesi drammatici del lockdown e che ci ha fatto rendere ancora più consapevoli dell’unicità di questa città. Una città che si è sempre trasformata e che deve continuare a trasformarsi nel segno della sostenibilità ambientale, del rapporto con la sua storia, con lo straordinario patrimonio culturale e con la diversità dei suoi quartieri. Immaginiamo una città verde con servizi di prossimità e capace di parlare al mondo” (**).

Al di là del romanticismo estetizzante, che può anche attrarre il lettore sprovveduto, siamo davanti a un esempio del blocco di potere politico e culturale di sinistra che punta alla trasformazione di Roma in un specie di museo, dove, se ci passa la caduta di stile, i romani residuali e pendolari, al massimo potranno staccare i biglietti… Diciamo Roma senza romani.

Le riflessioni da fare sono così tante, che imporrebbero la stesura di un  libro. Ne evidenziamo solo tre: 1) l’antiumanesimo (l’elogio di una città vuota, senza essere umani: bellezza uguale silenzio; 2) il costruttivismo ( la costruzione e imposizione dall’alto di un modello di sviluppo: la “città verde” ); 3) L’economicismo (perché è impossibile che Salini Impregilo non ottenga nulla in cambio in termini di ritorno economico “fuori città”: abitazioni intensive per i futuri pendolari sotto mutuo?).

Infine – osservazione che riguarda le destre – non scorgiamo nel blocco politico opposto, né le capacità, anzi diremmo la finezza culturale per mettere insieme un nutrito gruppo di intellettuali (come dire?) di chiara fama e un grande editore,  né una visione, che può piacere o meno, che   si è  comuqnue  concretizzata ad esempio nel MAXXI, nell’Auditorium Parco della Musica e in tante altre  lodevoli iniziative.

La sinistra, piaccia o meno, ha una marcia in più. In realtà, quel che purtroppo manca è una cultura liberale capace di imporsi, tra una destra reazionaria, rozza e incapace,  e una sinistra acculturata che purtroppo difende la causa sbagliata della mitologia ecologista.

Così è.

Carlo Gambescia

(*) Qui: https://www.exibart.com/fotografia/roma-citta-eterna-e-silenziosa-durante-il-lockdown-il-volume-e-la-mostra/ .

(**) Qui: https://www.adnkronos.com/presentato-progetto-roma-silenziosa-bellezza-la-capitale-mai-vista-prima_5kLF3WuZXF0Tf8txPvR503 .

sabato 24 dicembre 2022

Legge di bilancio e malinconia

 


Come definire la legge di bilancio approvata poche ore fa alla Camera? Può sembrare comico, ma se c’è un segnale forte di destra, nel senso di una cultura delle armi, risiede nel permesso ai cacciatori di poter abbattere i cinghiali selvatici che si intrufolano nelle città.

La retorica è quella del giustiziere della notte, sebbene applicata al mondo animale. Una specie di contentino per i facinorosi di Fratelli d’Italia, con in testa il sovranista alimentare, Lollobrigida, cognato di Giorgia Meloni.

Si dirà che il nostro tono è scherzoso. Ma come prendere sul serio una legge di bilancio tutto sommato in linea con le manovre dei precedenti governi. L’assistenzialismo – a parte l’ odio antisinistra contro i disgraziati percettori del RdC – resta la scelta scontata di una classe politica, da destra a sinistra, incapace di pensare la libertà. Ad esempio, l’idea del taglio del cuneo fiscale è roba vecchia, da governo Prodi. Per non parlare degli interventi, tra l’altro onerosi per il bilancio pubblico, sul caro bollette, roba degna dei munifici governi Conte. Le tendine che vanno e vengono sul tetto al contante, rinviano concettualmente a un'idea illiberale di digitalizzazione forzata che accomuna destra e sinistra, incapaci, come dicevamo, di pensare la libertà.

In realtà, si continua a privilegiare, o comunque a giocare, sul bisogno di sicurezza, perché fonte di voti e consensi. Nell’ultimo rapporto il Censis ( che assorbe rilevanti contributi pubblici anche in questa legge di bilancio) ha certificato la crescente malinconia degli italiani.

Ecco, per andare al di là delle battute, si potrebbe definire la legge di bilancio malinconica.

La malinconia ha una storia sociale che viene da lontano. Rimanda a principesse e principi, ancora prima che Colombo scoprisse l’America, che avevano tempo a disposizione per piangersi addosso. O che comunque non dovevano occuparsi della propria sopravvivenza.

Oggi la malinconia è diventata un “lusso” democratico che invece possono permettersi tutti. Il che significa, semplificando, che è in relazione scalare con il reddito. Perché soltanto, chi non ha problemi con il consumo di beni primari, può fantasticare, quindi immalinconirsi, sulla ricerca di beni secondari, terziari, anche immateriali. Nelle nostre società di ceti medi a benessere diffuso la malinconia è il rovescio della medaglia economica.

In sintesi, più è alto il Pil più si è malinconici. Perché un Pil alto consente di vagare con la mente e di inventarsi “fallimenti individuali” negli ambiti più diversi della vita privata e pubblica.

Ora il lettore si chiederà: Gambescia è matto. Che rapporto ci può essere tra legge di bilancio e malinconia?

Una società di malinconici è una società bisognosa d’affetto. Quindi di cure e sicurezza, anche i termini strettamente farmacologici (come comprovano gli alti consumi di psicofarmaci). Inoltre la malinconia è incapacitante. La nostalgia, che ne è una componente non secondaria, rende il presente sgradevole e il futuro minaccioso. Di qui, il ricorso allo stato sociale, che si tramuta sempre più in stato terapeutico. Però le “terapie” costano, e i governi, di destra e sinistra, pur di non perdere il consenso dei “cittadini malinconici”, si indebitano puntando su leggi di bilancio, come quella che è stata appena approvata alla Camera. Ne segue la crisi fiscale dello stato, eccetera, eccetera.

Una politica del genere nullifica i progressi del Pil (che in sé sono buoni), come pure distrugge le basi economiche di una società libera.Che però per essere tale deve comporsi di cittadini, per così dire, liberi e allegri, soprattutto sicuri di se stessi, non tetri e irresoluti.

Qualche anno fa abbiamo scritto un testo intitolato Liberalismo triste (*). Proprio per opporsi a quel liberalismo ottimistico, di stampo liberalsocialista,  che imponendo mete irrealizzabili, magari con l’aiuto sistematico dello stato, finisce per generare nei cittadini un senso di malinconia, vuoto, fallimento.

Una malinconia che si trasforma in tratto caratteriale, addirittura collettivo. Non si dimentichi mai che la tristezza è passeggera, la malinconia invece è permanente, insomma un fatto strutturale non transitorio. Per capirsi un individuo può lasciarsi alle spalle la tristezza, non la malinconia.

Ciò significa, per tirare le fila del discorso, che questa legge di bilancio non aiuta: si mangia il Pil, aumenta il debito pubblico, accresce il senso di malinconia nel cittadino.

Un circolo vizioso, che di regola porta al suicidio: gli individui come le società.

Carlo Gambescia

(*) Qui: https://www.ibs.it/liberalismo-triste-percorso-da-burke-libro-carlo-gambescia/e/9788876064005 .

venerdì 23 dicembre 2022

“Storicizzare” Voltaire

 


Per capire come Voltaire ancora viva e lotti insieme a noi liberali, basta accendere la radio e apprendere che in Afghanistan alle donne viene impedito l’accesso all’ università. L’intolleranza non è mai stata sconfitta del tutto. E chi sa se lo sarà mai. Di qui l’importanza di continuare a leggere e rileggere Voltaire: il filosofo, il drammaturgo, lo scrittore, il “giornalista” e, ultimo ma non ultimo, lo storico.

E qui giunge a puntino, come si dice, quel “monumento” cartaceo appena uscito, che consiste nella raccolta delle sue Opere storiche , cura di Domenico Felice, autentico stacanovista della storia del pensiero illuminista (Giunti-Bompiani/il Pensiero Occidentale, pp. 3120, testo a fronte, euro 90.00). Raccolta preceduta da un’altra opera fondamentale in ambito di storico, sempre di Voltaire, uscita nel 2017 nei Millenni Einaudi, curata ça va sans dire dal professor Felice, il celebre Saggio sui costumi e lo spirito delle nazioni.

Sicché, chi voglia respirare dell’aria fresca, anche in Occidente, dove l’organicismo welfarista e il fondamentalismo del politicamente corretto (a destra come a sinistra) non sono da meno, seppure secondo “modalità dolci”, non afghane, ora dispone di un quadro pressoché completo.

La raccolta, frutto di un eccellente lavoro a più mani, di curatela e traduzioni, coordinato da Domenico Felice (che tra l’altro si avvale di una dotta e sottile introduzione di Roberto Finzi, altro illustre specialista, scomparso di recente) comprende i seguenti studi: 1) Sulle diverse maniere di scrivere la storia (raccolta di scritti vari metodologici, come si direbbe oggi) a cura di Riccardo Campi; 2) Storia di Carlo XII re di Svezia, traduzione di Luigi Delia, rivista e annotata da Pietro Venturelli; 3) Il secolo di Luigi XIV , traduzione di Carlo Tugnoli, rivista e annotata da Domenico Felice; 4) Annali dell’Impero dal Regno di Carlo Magno e Appendice, a cura di Domenico Felice; 5) Storia della guerra del 1741 e Appendice, traduzione di Carlo Tugnoli e annotazione di Domenico Felice; 5) Storia dell’Impero russo sotto Pietro il Grandee Appendice, traduzione di Simón Gallegos Gabilondo, rivista e annotata da Piero Venturelli; 6) Compendio del secolo di Luigi XV e Appendice, curata da Riccardo Campi.

La lista può apparire noiosa, ma a differenza delle cattedrali medievali, opere quasi sempre anonime, questa “cattedrale” storica voltairiana ha i suoi architetti, che meritano la nostra riconoscenza. Di qui l’importanza dei nomi e dei cognomi.

Solo un’ultima cosa, prima di entrare nel merito della raccolta. Come ricorda Domenico Felice, altri lavori storici dei quali il cultore avrà rivelato l’assenza ( come Histoire du Parlement de Paris Fragments sur l’Inde et sur le général Lalli), verranno pubblicati in una successiva raccolta di scritti giuridici.

Croce o Diaz? Ecco il dilemma. Che si pone, per chiunque abbia in biblioteca due opere che in ambito italiano racchiudono ermeneutiche opposte, o quasi, sulla natura del lavoro storico voltairiano: il Croce di Teoria e storia della storiografia (1927) che parla di astrattezze e “prammatismo” . Il Furio Diaz, di Voltaire storico (1958) che invece ne rivendica la concretezza. Probabilmente semplifichiamo troppo. Del resto non siamo storici delle idee ma umilissimi sociologi.

Per dirla altrimenti, e proprio in sociologhese: nell’opera storica di Voltaire, il mutamento sociale rinvia alle libere scelte degli individui e a una “certa” idea di progresso, storicizzato secondo le concrete possibilità delle differenti epoche (Diaz)? Oppure tutto si riduce a un astratto e antistorico accumulo di curiosità nei più diversi cassettini storici, sempre in bilico tra astrattezze e convenienze del momento (Croce)?

Il gruppo di fucilieri che ha introdotto e curato l’articolata raccolta, Finzi, Felice, Campi. Venturelli sembra essere dalla parte di Furio Diaz: tutti pronti ad aprire il fuoco contro certi eccessi cuochiani di Croce.

E qui si noti una cosa. Dal punto di vista della (presunta) astrattezza, Hayek, che in Legge, legislazione e libertà, cita Voltaire una sola volta nel testo, e quasi di sfuggita, lo riconduce, diciamo a grandissime linee nell’alveo dei costruttivisti. Però – ecco il punto interessante – si guarda bene dall’approfondirne il pensiero: Hayek fiuta il pericolo e preferisce concentrare il suo fuoco, e giustamente, su Bentham, vero e proprio ingegnere sociale (*).

Cosa significa? Che il pensiero di Voltaire è complesso, o meglio molto articolato. E che della cosa, prudentemente, si è accorto anche il più grande teorico del liberalismo novecentesco. Che, infatti, a Croce non piaceva. Ma questa è un’altra storia che riporta alla mancata edizione italiana, per i tipi di Laterza, de La via della schiavitù.

Articolato in che senso? Che la pallottola che uccide Carlo XII, o il vaiolo che porta alla morte Luigi XV, sono secondo Voltaire fatalità che si possono trasformare in opportunità. Che gli uomini devono riuscire a cogliere: nel primo caso concentrandosi, post factum , sulle vere riforme interne, nel secondo ricorrendo al vaccino. E cos'è tutto ciò?  Se non un'occasione di progresso ben individuata da Voltaire (oggi si direbbe “ una finestra”)?

E qui va fatta un’altra osservazione: l’invenzione – anche istituzionale – procede lungo un cammino dall’alto verso il basso: saranno i nobili a farsi inoculare il vaccino per primi dando così l’esempio. La spirale del progresso, secondo Voltaire, ha bisogno, per essere avviata, degli uomini migliori, comunque eccezionali e in circostanza (che costituiscono l’eccezione ambientale). Uomini che però sono quasi sempre in alto, come ad esempio Luigi XIV e Pietro Il Grande.

Qui risiede la differenza tra Voltaire e Guizot. Non sobbalzino sulla sedia gli specialisti di storia delle idee.

Tra Voltaire e Guizot si frappongono la Rivoluzione e Napoleone. Voltaire crede nello statista illuminato, Guizot (ma anche Constant e Tocqueville) ne ha invece assaggiato la frusta. Di qui una diversa valutazione, ad esempio, dello sviluppo delle istituzioni parlamentari in Francia e in Gran Bretagna: entrambi ammiratori, ma Voltaire alla luce della Francia pre-rivoluzionaria, Guizot, di quella post-napoleonica. E qui sarebbe interessante rileggere la Histoire du Parlement de Paris in parallelo con le opere guizotiane dedicate alle sviluppo delle istituzioni rappresentative in Francia, a partire da De gouvernement répresentatif (1816).

Sicché – forse sintetizzando troppo – nei processi di innovazione (chiediamo scusa per il sociologhese) per Guizot i grandi uomini sono l’eccezione ambientale, per Voltaire la regola.Come dire? Il necessario plusvalore innovativo.

In Guizot, i processi sociali vanno assecondati (dal basso verso l’alto), in Voltaire esiste invece il gusto della sfida dell’uomo di eccezione ( dall’alto verso basso). A Voltaire sembrano sfuggire, in termini di effetti di ricaduta,  le asprezze cripto-totalitarie. Non per colpe proprie, ma per semplici ragioni anagrafiche: perché nato e morto prima.

Ciò non significa, come sostiene giustamente Diaz, che Voltaire, pur nel suo élitismo (che a dire il vero ritroveremo, rivisto e corretto anche nel Guizot politico “dell’arricchitevi”), talvolta schematico, ignori come il progresso si nutra di tutti gli aspetti della realtà, nel bene come nel male.

Proprio secondo Guizot, Voltaire sapeva cogliere, come scrittore, gli aspetti poetici, diciamo romantici, anche positivi della realtà, perfino di certe usanze sociali di quei secoli “bui”, che in qualche modo ancora persistevano nel secolo XVIII. Però Voltaire, aggiunge Guizot, risentiva dello spirito di questo secolo, e perciò  secondo un micidiale  gioco di azioni e reazioni  tendeva a condannarlo in blocco (**).

La domanda probabilmente è oziosa, però in qualche modo intellettualmente necessaria: come avrebbe reagito Voltaire alla Rivoluzione e Napoleone? Natura o cultura? Colpe umane, frutto di un antropologia negativa? O abuso della ragione?

Hayek e Guizot hanno parlato di abuso della ragione. Ma post factum. Troppo facile. Ciò significa, che anche Voltaire, in coerenza con la lezione di Diaz, va “storicizzato”. E in questo senso la raccolta curata da Domenico Felice è un importantissimo contributo alla discussione critica e scientifica. Ma anche, cosa non meno importante, a far sì che Voltaire possa continuare a vivere e lottare insieme a noi liberali.

Carlo Gambescia

(*) Si veda F.A. Hayek, Legge, legislazione e libertà, Il Saggiatore, Milano 1989, p. 37.
(**) Il punto è svolto in F. Guizot, Storia della civiltà in Francia, a cura di R. Pozzi, Utet, Torini 1974. pp. 767-768.

giovedì 22 dicembre 2022

Falce e Mirtillo, la scomparsa di Alberto Asor Rosa

 

 


Qualcuno un giorno dovrà scrivere la storia “non autorizzata”, come recitano certe biografie statunitensi, della Facoltà di Lettere della Sapienza. Prima nelle mani di professori di storia romana e letteratura latina, in attesa del pucciniano “ sole” di Roma, reinventato da un nuovo Cesare in camicia nera, poi nella seconda metà degli anni Sessanta del secolo scorso, possesso di diritto quiritario (visto che siamo argomento) della nomenclatura intellettuale del partito comunista e dell’azionismo più sfegatato. Inutile fare nomi, a destra come a sinistra, per un rispetto verso professori che comunque sia dal punto di vista tecnico la sapevano lunga. Ne facciamo solo due, Sapegno e Paratore.

A questo pensavamo a proposito della scomparsa del professor Alberto Asor Rosa, allievo di Sapegno, ma privo di quel superiore fare olimpico del suo Maestro. Asor Rosa fu invece nemico giurato di professori liberali o socialisti democratici come Romeo, De Felice, Garosci, che negli anni settanta tentavano di fare lezione. De Felice, passò (ma sarebbe meglio dire si rifugiò) a Scienze politiche, dove però fu contestato altrettanto ferocemente. Per la cronaca, tra i contestatori, vi era un giovane Paolo Cento, allora come oggi, fervente illetterato.

Di queste persecuzioni nel 2022, per ragioni di bon ton politico, non si parla più. Non è elegante. Invece sarebbe utile e giusto sapere che negli anni Settanta, Romeo e De Felice, due grandissimi storici, pensarono seriamente di trasferirsi all’estero. Sartori, altro professore liberale, di fama mondiale, invece mise in atto. E fece bene.

Comunque sia, Asor Rosa, che, se ci si passa la caduta di stile, negli anni perse il pelo ma non il vizio, coccolò sempre l’estremismo politico. Al punto di evocare nel 2011, un colpo di stato per togliere di mezzo Berlusconi. Attenzione, Asor Rosa, non pensava e felpati professori tipo Monti, ma a esercito, polizia e carabinieri (*).

In realtà Asor Rosa resta il classico leninista da strapazzo. L’espressione può apparire volgare, ma come definire chi per tutta la vita di professore ha teorizzato la storia della letteratura italiana solo in termini di puri rapporti di potere, incendiando, come si diceva un tempo, le menti dei “giovani virgulti? Per poi fare che cosa? Una splendida carriera accademica in termini di falce e mirtillo? Di proclami incendiari e tisane al mirtillo.

Non ne facciamo una questione di coerenza rivoluzionaria, alla Renato Curcio per intendersi, uomo comunque intelligentissimo (forse più di Asor Rosa), passato dai laboratori sociologici alla pratica rivoluzionaria. Ma parliamo di una specie di leninismo, per l’appunto da strapazzo, dilettantistico, ma non meno pericoloso, che rischia quasi sempre di mandare al massacro gli altri, per poi scusarsi, non tanto per i frutti avvelenati della predicazione, ma per non aver saputo intercettare le condizioni storiche della rivoluzione perfetta.

Sotto questo aspetto l’intera produzione scientifica di Asor Rosa non è degna di essere definita tale. Si pensi ai faldoni di atti giudiziari che i commessi dei tribunali trascinano stancamente su carrellini a rotelle. L’ intera opera di Asor Rosa è una specie di processo politico alla letteratura italiana. Ad esempio, le sue pagine sulla cultura dell’Italia Unita (Einaudi), in particolare quella dopo il Risorgimento, hanno un carattere giudiziario: i suoi non sono giudizi storici ma sentenze della Corte di Cassazione, e senza rinvio.

In argomento, si metta a confronto la pagina di Sapegno, che aveva assorbito, pur allontanandosi, la pietas crociana, da quella di Asor Rosa che non perdonava nessuno.

Va però detto che le sue critiche al Pasolini romanziere, in Scrittori e popolo, restano fondate. Però il punto è che il romanticismo politico pasoliniano, sul piano della pratica rivoluzionaria, ha fatto meno danni della Letterepoli critico-giudiziaria di Asor Rosa.

Ovviamente, il populismo è non meno pericoloso del terrorismo. Però resta un fatto di mentalità, certo non facile da contrastare. Ma sempre preferibile al famigerato “armi della critica” ( tra l’altro titolo di un’antologia celebrativa di scritti anni Sessanta di Asor Rosa), che si trasforma quasi sempre in “critica delle armi”.

Dopo di che, c’è sempre chi andrà a sorbirsi una tisana al bar e chi invece preferirà impugnare una pistola.

I primi si chiamano anche cattivi maestri.

Carlo Gambescia

(*) Qui un nostro commento del 2011 : https://carlogambesciametapolitics2puntozero.blogspot.com/2011/04/asor-rosa-lo-stato-di-mergenza-un.html .