martedì 31 gennaio 2012

Il portinaio licenziato 
per eccesso di giovialità
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Oggi racconteremo una microstoria vera, in certa misura sociologica. Utile per capire - questo l' augurio - che in Italia gli egoismi e le "caste" non esistono solo in alto.

 Si può licenziare un portinaio perché abitualmente lieto, sereno e capace di regalare battute, sorrisi e calore umano a tutti? Un amicone, insomma: categoria sociale caduta in disgrazia, perché oggi vanno tutti di fretta. E poi per giunta portinaio: un signor nessuno. Un povero mestierante sopravvissuto al citofono... Per dirla con Benedetto Croce, "decadenza che si abbraccia a un'altra decadenza"...
 Si può licenziare, allora? Pare proprio di sì. Mi diceva un amico, che vive in Prati, rione a due passi da San Pietro, della triste sorte di Dario (nome di fantasia), tra l’altro padre di quattro figli, gettato in mezzo alla strada per eccesso di giovialità. Naturalmente, la motivazione ufficiale parla di "cattiva esecuzione delle opere di pulizia delle scale condominiali”: il massimo dell'individualismo condominiale, visto che lo sporco è sempre soggettivo. E poi parliamo di un palazzone fine Ottocento, diviso in quattro-scale-quattro, perfetta fotocopia di quello del Totò, immaginifico portinaio-marionetta de “La banda degli onesti”. Insomma, un dinosauro umbertino di circa ottanta appartamenti, che ricorda le caserme con i baffoni spioventi in piazza d’Armi e dintorni. Dove il sole non penetra mai, e più si pulisce, più tutto appare grigio e sporco.
 Qualche riflessione. Certo, in un mondo dove perfino le parole hanno un prezzo, un portinaio amicone che sorride e saluta calorosamente, senza fare servili distinzioni, può sconcertare la desperate housewive firmatissima o il professional in rigatino scuro. Figurarsi poi il portinaio che ami indugiare nell' antico piacere della conversazione, oggi completamente svanito. Che spreco di parole! E poi non sia mai: il "guardaporte" deve stare al suo posto. E così, Dario l'amicone è stato licenziato per eccesso di giovialità da un immusonito condominio post-moderno… Come si fa con quei cagnolini, comprati da genitori egoisti per i giochi dei bambini (così non scocciano...), ma che fanno troppe feste, disturbando adulti e i vicini di casa: un cattivo investimento, insomma.
E la crisi economica? La difficoltà di trovare un altro lavoro? Peggio per Dario, che impari a non sprecare parole ... Infine, a proposito di "caste" (quelle politiche), va però detto che nello stesso palazzone ( o palazzaccio?) umbertino, risiede un compunto e dinoccolato deputato, schieratissimo a sinistra… Il quale - come notava il mio amico - non ha alzato un dito. Evidentemente, la battaglia per i diritti dei lavoratori, lui, il deputato, la fa solo davanti alle telecamere. Accese.

Carlo Gambescia
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lunedì 30 gennaio 2012

A prima vista può sembrare che Roberto Buffagni nel ghiotto post di oggi parli soltanto della sua esperienza di uomo di teatro. In realtà - ecco la magia sociologica ( e metapolitica) di cui gli siamo grati - parlando in prima persona, "racconta" l’Italia e di come sia cambiata in peggio (per primi rispondiamo al suo sondaggio...) negli ultimi venticinque anni. Semplificando: Buffagni coglie le ragioni profonde di una sociomorfosi tuttora in corso, discutendo magistralmente di teatro e di traduzioni dall'americano. Insomma, utilizza gli Stati Uniti di Mamet per spiegare l'Italia di Marchionne... Buona lettura. (C.G.)

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Prima & dopo la cura
di Roberto Buffagni

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In sintonia con il 150esimo dell’Unità d’Italia, mi sento in vena di anniversari, bilanci e morali. Ho cominciato la scorsa settimana con il bilancio di venticinque anni di frequentazione del varietà, ricavandone la seguente morale: com’è triste, il comico italiano!
Oggi la serie prosegue con un altro bilancio venticinquennale: la mia prima (1986) e seconda (2010) traduzione per le scene italiane di Glengarry Glen Ross di David Mamet.
Il banale aneddoto personale servirà per lanciare il seguente sondaggio d’opinione: “Dopo la cura di questi venticinque anni noi italiani, teatranti e no, stiamo peggio o stiamo meglio?” E via con la storiella.
Venticinque anni fa tradussi e adattai per le scene italiane Glengarry Glen Ross di David Mamet (Teatro Stabile di Genova 1986, regia L. Barbareschi, con P. Graziosi, U.M. Morosi). In America Glengarry aveva appena vinto il Pulitzer. Ivo Chiesa, che dirigeva lo Stabile di Genova, mi affidò la traduzione perché due anni prima avevo per primo tradotto e adattato per il Piccolo Eliseo un lavoro di Mamet (American Buffalo, regia F. Però, con M. Venturiello e S. Rubini). Problema: Mamet era ritenuto, con ottime ragioni, intraducibile. Il “Mamet speak”, come lo chiamano negli USA, è uno slang strettissimo dal ritmo jazzistico studiato sul modello criptico della lingua di Pinter, e punteggiato da un turpiloquio di asfissiante monotonia. I suoi personaggi sono così idiosincraticamente e naturalisticamente americani che li identificherebbe a prima vista per tali uno spettatore proveniente da Alpha Centauri. Con American Buffalo m’ero cavato d’impiccio con un radicale adattamento italiano, e avevo trasformato i due balordi di ghetto USA in due balordi italiani di periferia metropolitana, riscuotendo un lusinghiero successo personale. Ma Glengarry non si poteva trasportare in Italia, perché il contesto dell’azione drammatica non aveva un vero e proprio correlativo oggettivo italiano, e dunque avrei finito per riscrivere daccapo un dramma “liberamente tratto” dall’opera di Mamet (che mi avrebbe giustamente mandato in galera).
Che cosa c’era di così alieno per un italiano, nel contesto dell’azione drammatica di Glengarry? La trama è questa. Un gruppo di agenti immobiliari che lavorano al limite della truffa vende terreni farlocchi a prezzi gonfiati. I capi indicono un sales contest mensile: il primo in classifica vince una Cadillac, gli ultimi due il licenziamento in tronco. USA land of opportunities, e vinca il migliore? Mica tanto. La gara è falsata da una specie di Comma 22. Per vendere è indispensabile avere i nominativi di serie A, quelli dei migliori clienti potenziali, che i capi comunicano solo a chi fattura di più; a chi fattura di meno, danno nominativi di serie Z (balordi spiantati). A fine primo atto qualcuno sfonda la porta dell’ufficio e ruba i nominativi di serie A. Chi è stato? Non guasto la festa a chi volesse per la prima volta leggersi il dramma o vedersi il film che ne fu tratto (Americani, 1992, di J. Foley, con Al Pacino, Jack Lemmon, Ed Harris, Alan Arkin, Kevin Spacey e Alec Baldwin, quest'ultimo nella foto in alto, mentre prorompe nella ormai epocale battuta: "Secondo premio: sei coltelli da bistecca"...).
Per l’attore italiano del 1986, e di conseguenza per lo spettatore italiano suo contemporaneo, i personaggi di Glengarry e le loro motivazioni erano totalmente alieni perché:
1) I suddetti personaggi non agiscono in base a motivazioni psicologiche riconducibili alla loro storia ideologica, emotiva, familiare, etnica, sessuale, etc. Non hanno storia personale, non hanno profondità psicologica: in confronto, Arlecchino è un personaggio ibseniano. Come ai personaggi di Pinter, gli è stata chirurgicamente asportata la dimensione del “perché”, sotto tutto i rispetti tranne uno: i rapporti di forza di volta in volta vigenti nella situazione drammatica data. Nel caso di Glengarry, questi rapporti di forza dipendono esclusivamente da due elementi: a) i soldi b) la capacità di ingannare il prossimo allo scopo di fare soldi: un’abilità direttamente proporzionale alla fiducia in sé generata dai soldi fatti nell’immediato prima.
2) Il contesto descritto al punto precedente non produce una commedia magari nera sugli imbroglioni, ma una tragedia esistenziale dov’è questione di vita e di morte perché: a) non esiste la minima provvidenza sociale, né la minima rete di protezione familiare o amicale, per chi perde il posto di lavoro. Se non ne trovi subito un altro (e se non sei giovane e vincente non lo trovi) facile che finisci a dormire per strada e rovistare nei cassonetti b) le spese correnti assorbono tutto il reddito, e anzi è normale campare sui debiti, finché regge il plafond delle carte di credito. Se ti salta il reddito di un mese, non hai di che pagare la consumazione al bar. Se nella competizione per fare soldi (con qualsiasi mezzo) non vinci, vieni dunque annichilito, liquidato, cancellato anche dalla memoria altrui: sei morto e forse peggio che morto.
Insomma, per interpretare credibilmente un personaggio di questo dramma, l’attore italiano di venticinque anni fa non sa da che parte prenderlo. Proponendo i ruoli sulla base di una prima stesura della traduzione abbastanza fedele all’originale, il regista ed io ci sentiamo chiedere più di una volta: “Ma chi è questa gente?! Che storia ha? Perché dice questo?” (Un grande attore caratterista rifiutò il ruolo che al cinema fu di Jack Lemmon perché nel dialogo c’erano troppe parolacce: o gran bontà dei cavalieri antiqui…). Provo a spiegare quel che ho spiegato qui, do fondo alle mie capacità analitiche e retoriche, e vedo certe facce… niente da fare, il messaggio non arriva.
Una legge ferrea del teatro è la seguente: se gli attori non capiscono e accettano a fondo il loro personaggio e le sue motivazioni, tanto meno lo capiranno gli spettatori. Risultato: per quanto si parli e si spieghi, lo spettacolo va a sbattere. Dunque trasformo la traduzione in parziale adattamento, e pur senza modificare radicalmente l’azione drammatica e l’ambientazione, che rimane americana, arrotondo e do spessore psicologico ai personaggi. Dirò senza falsa modestia che feci un ottimo lavoro; infatti, col nuovo copione sbrigammo in quattro e quattr’otto il casting, lo spettacolo ebbe un largo successo di pubblico e di critica, e ci incassai anche un bel po’ di diritti d’autore.
Passano venticinque anni e succedono tante cose: a me, al teatro, all’Italia e agli italiani.
Nel 2010 un nuovo gruppo di attori, guidati da un’altra regista, vuole rimettere in scena Glengarry Glen Ross (Compagnia Jurij Ferrini in collaborazione con il Teatro Stabile di Torino, regia di C. Pezzoli, con J. Ferrini, M. Fabris). Cristina Pezzoli, una cara amica, e Jurij Ferrini che conoscevo e stimavo solo di nome (è un ottimo e inventivo attore) leggono la mia traduzione di venticinque anni prima, la confrontano con l’originale e si accorgono che c’è molta farina del mio sacco. Mi chiedono il perché, e io glielo spiego. Ne parliamo, e visto che il tempo c’è, decidiamo di provare a riavvicinarci all’originale. Riscrivo una traduzione aderentissima all’originale, nel lessico, nel ritmo, nella costruzione dei personaggi, insomma in tutto (un lavoraccio). La proviamo con gli attori, tutti giovani. Risultato: tutti entusiasti. Naturalmente si accorgono che è molto difficile interpretarla bene, ma nessuno fa problemi, nessuno chiede “Chi è questa gente? Che storia ha? Perché dice questo?”. Quando spiego che qui le uniche motivazioni reperibili sono i soldi, nessuno trasecola, nessuno fa la faccia perplessa, tutti annuiscono come quando dici che fuori piove, e in effetti sta scrosciando un temporale. Insomma, si va in scena al Festival di Asti, e Glengarry 2 nella nuova traduzione ottiene un buon successo di pubblico e di critica.
Dipende dal fatto che nei venticinque anni trascorsi dalla prima alla seconda messa in scena italiana di Glengarry David Mamet è diventato famoso anche qui? No. La fama ti garantisce disponibilità all’ascolto, non comprensione; e se un attore non capisce sul serio, sa di non poter fare una decente figura in scena.
No. Dipende dal fatto che in questi venticinque anni, il contesto americano di Glengarry è diventato il nostro contesto. Attori e pubblico italiani non trovano più strano un personaggio senza storia e senza psicologia, motivato esclusivamente da rapporti di forza basati sui soldi e basta. Non trovano più alieno un mondo in cui puoi venire licenziato di punto in bianco, e non avendo la protezione della famiglia, degli amici e dei risparmi, facile che finisci a dormire sotto i cartoni. Uno sviluppo drammatico basato esclusivamente su rapporti di denaro (per somme nient’affatto grandiose, poco più che spiccioli) li tiene col fiato sospeso e la faccia scura perché sanno che si tratta di una tragedia esistenziale dov’è questione di vita e di morte (venticinque anni fa, il pubblico rideva e sorrideva spesso; oggi, quasi mai).
Ah, per finire: di diritti, ci ho preso una miseria. Come mai? Perché venticinque anni prima il Teatro Stabile di Genova produceva lo spettacolo con la sua compagnia (altrettanto stabile e dignitosamente pagata), e garantiva una più che onorevole tournée italiana dello spettacolo. Venticinque anni dopo, il Teatro Stabile di Torino nella teoria produceva lui lo spettacolo, però nei fatti lo dava in franchising per due euro alla compagnia Jurji Ferrini, così: a) attori, regista, scenografo, etc., tutti precarizzati, erano costretti a lavorare per una miseria anticipando le spese vive b) non dovendo ammortizzare le spese di allestimento e riscuotendo egualmente il finanziamento ministeriale e regionale, lo Stabile di Torino non aveva motivo di garantire la tournée allo spettacolo.
Tant’è vero che a un certo punto, parve che addirittura lo Stabile di Torino non volesse ospitare il nuovo allestimento di Glengarry nel suo circuito regionale piemontese. Gli attori erano disperati: rischiavano di lavorare gratis e forse di doverci rimettere di tasca propria. Allora uno di loro, amico personale di Mario Martone, il regista cinematografico che era anche direttore artistico dello Stabile di Torino, inghiotte l’orgoglio e gli telefona. “Caro Mario, come stai?” “Ah, ciao caro ***”. “Sai, Mario, sto facendo Glengarry con Ferrini e la Pezzoli, il lavoro è appassionante, sta venendo molto bene, etc. etc.” “Ah sì? Mi fa molto piacere, poi lo so, Ferrini è bravissimo, la Pezzoli la stimo molto, etc. etc.” “Sì, però, vedi Mario, qui la produzione non ci vuole dare il circuito regionale, siamo disperati, senza quelle piazze finisce che ci rimettiamo di tasca nostra…” “Ma davvero?! Incredibile, dove andremo a finire! E dimmi, chi lo produce lo spettacolo?”
Lo spettacolo lo produceva lui. Lui, cioè il Teatro Stabile di Torino, grande istituzione culturale pubblica da lui diretta. Venticinque anni prima, per risolvere qualche problemino dell’allestimento di Glengarry 1 c’era capitato di dover telefonare a Ivo Chiesa, direttore dello Stabile di Genova e famigerato autocrate: posso garantire che se a volte ci mandò a quel paese, mai e poi mai dubitò di esserne il produttore (anzi, noi ci lamentavamo, poveri ingenui, che fosse troppo padronale; mica è roba sua lo spettacolo, siamo noi artisti che, etc., etc. … perdono, Ivo! Guarda di lassù, come siamo ridotti!)
Alzheimer? Vista l’età di Martone, escluderei. No, è che in questi venticinque anni, i teatri stabili sono diventati macchine celibi: producono soprattutto se stessi (e i redditi che ne derivano). Il resto, cioè il teatro, è un effetto collaterale, una variabile dipendente, un sottoprodotto, un niente. Grande importanza invece hanno assunto il packaging e l’immagine: ecco perché il Teatro Stabile di Torino ha trovato conveniente nominare (e pagare immagino bene) un direttore artistico celebre che avendo altri interessi, fa magari un salto alla conferenza stampa d’apertura della stagione, rilascia qualche intervista, se ne ha voglia produce uno spettacolo suo, e per il resto non disturba i conducenti.
A questo punto, direi che possiamo rispondere alla domanda che ho proposto in apertura: “Dopo la cura di questi venticinque anni noi italiani, teatranti e no, stiamo peggio o stiamo meglio?”
Io inauguro il sondaggio rispondendo: “Stiamo peggio.” A voi la parola.

Roberto Buffagni


Roberto Buffagni è un autore teatrale. Il suo ultimo lavoro, attualmente in tournée, è Sorelle d’Italia – Avanspettacolo fondamentalista, musiche di Alessandro Nidi, regia di Cristina Pezzoli, con Veronica Pivetti e Isa Danieli. Come si vede anche dal titolo di questo spettacolo, ha un po’ la fissa del Risorgimento, dell’Italia… insomma, dell’oggettistica vintage....

sabato 28 gennaio 2012

Allegri, 
avremo il pane fresco ogni domenica!




Avete visto il Tg di ieri sera? Tutti i Tg?. Già largamente anticipati, nei titoli, questa mattina dall'ineffabile triade al bromuro Corriere-Repubblica-Stampa. Ebbene sì, avremo il pane fresco ogni domenica! Evviva!
Che poi sia possibile, e da anni, trovarlo anche in certi supermercati (con forno elettrico o vapoforno), aperti nei giorni festivi, non va ricordato. E chi osi parlarne rischia di essere rimproverato da Napolitano… Perché stupirsi? Con Monti presidente, il grado di servilismo raggiunto dai media che contano, in poco più di due mesi, supera di gran lunga quello complessivo nei riguardi di Berlusconi e Prodi… Siamo veramente al voltastomaco, politico e giornalistico… Che schifo.
Avremo il pane fresco ogni domenica? E con quali soldi lo compriamo? Sappiamo che non è educato. E che non è nel nostro stile… Ma vaffan(bip)!
Carlo Gambescia



P.S. Quando ci vuole ci vuole… ..

venerdì 27 gennaio 2012

In economia, tutto torna. E, probabilmente, anche le compagnie politicamente scorrette... Infatti, come spiega l’amico Teodoro Klitsche de la Grange , gratta gratta... e sotto Monti rischiamo di trovare Hjalmar Schacht (nella foto), il ministro dell’economia di Hitler, poi “dimissionato”, perché contrario (per ragioni squisitamente economiche...) alla politica di riarmo e quindi alla definitiva fusione tra banca e moschetto. Ovviamente, Monti ha davanti a sé non Hitler ma la Merkel. Che tuttavia potrebbe quanto prima "dimissionarlo". Schacht, che pensò di pagare i creditori del Reich con le cambiali MEFO, nel dopoguerra, abilmente riconvertitosi all'economia di mercato, fondò una banca, mettendoci denari propri. Mentre Monti, chissà che fine farà... Per ora, "Super Mario", autorizzando la Pubblica Amministrazione a pagare i creditori con titoli di Stato, non fonda banche, bensì le aiuta… proprio come il primo Schacht. E con i denari di chi? Degli italiani, of course. Buona lettura. (C.G.)
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Schacht e Monti, gratta gratta…
di Teodoro Klitsche de la Grange

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Non credo che l’amico Carlo Gambescia, sia stato colpito da improvviso e incontenibile amore verso il governo tecnico, come la maggior parte della stampa italiana; comunque una delle novità introdotte dal decreto mi è particolarmente piaciuta (aggiungo subito di non essere innamorato: altre non mi hanno suscitato lo stesso sentimento).
Questa è la possibilità - evidenziata dalla stampa - di poter pagare i creditori della P.A. (su richiesta dei medesimi) con titoli di Stato; alla quale vorrei esternare due apprezzamenti, chiedendo fin d’ora scusa ai lettori per le castronerie che scriverò dato che, non essendo un economista, navigo “a vista” (spero meglio del comandante della “Concordia”).
La prima: pagando debiti con titoli e non con moneta si ottengono diversi benefici, sia per i creditori che per i debitori (le pubbliche amministrazioni). Il più importante dei quali consegue al male principale della Repubblica: la presenza di una burocrazia poco efficiente e spesso, guicciardinianamente, orientata al “particulare” (del burocrate). Per cui la scarsità del mezzo di pagamento, cioè del denaro stanziato nei bilanci, diventa la scusa per selezionare tra i creditori quelli più graditi all’Amministrazione (do you remember lady ASL?), disposti a ringraziare concretamente l’ “ufficiale pagatore”. Ma non è solo questo (problema a un tempo di par condicio e di moralità pubblica): gli è che molto spesso la “mora” cioè l’inadempienza del debitore (e l’inefficienza della giustizia) consente sì di pagare con molto ritardo, ma a costi maggiorati (interessi sempre, spesso rivalutazione, danni ulteriori, spese legali). Per cui quello che è un buon affare per il burocrate si rivela spesso mediocre (o cattivo) per l’amministrazione.
Vero che qualcuno, come l’amico Carlo, mi obietta che a guadagnarci saranno le Banche, scontando i titoli: sicuramente è così, ma nell’attuale temperie possono guadagnarci assai di più, aprendo (se loro aggrada) credito a interessi ben superiori a quelli praticati per lo sconto di titoli, alle imprese in difficoltà per i ritardi. Per cui l’interesse delle banche, che trovano sempre nelle istituzioni tutori amorevoli, è salvaguardato da tale sistema, ma – forse – non incrementato.
La seconda: una manovra del genere vuol dire porre accanto al mezzo di pagamento primario, cioè la moneta, un altro mezzo di pagamento: il titolo di Stato. Il che, scusatemi per l’ignoranza economica, significa svincolarsi (in parte) dall’euro (e dalla supremazia tedesca), non essendo più necessario – almeno nell’immediato – essere provvisti di molti euro per pagare. E, peraltro mi pare meno condizionante politicamente avere come creditori tanti italiani che qualche grosso fondo, o magari il FMI, il quale, se presta quattrini, non lo fa sicuramente con spirito francescano.
In sostanza mi sembra che questa soluzione abbia diverse analogie con quello che fece Hijalmar Schacht, Ministro dell’economia di Hitler, il quale trovandosi negli anni trenta a dover risollevare la Germania dalla grande depressione e contemporaneamente a finanziare il programma di opere pubbliche (e di riarmo) tedesco, pensò di pagare i creditori del Reich con le cambiali MEFO, accettate da tale società, garantite dallo Stato e tratte dai fornitori del medesimo (per merci o servizi già resi o da rendere in breve al Reich). Cambiali rinnovabili a lungo termine (cinque anni) e scontabili in ogni momento presso la Reichsbank. Scriveva Schacht che le cambiali MEFO erano “per così dire denaro messo a frutto. Non occorreva tenere la cassa; in essa si potevano mettere le cambiali MEFO” e che “la concessione di credito sotto forma di cambiale, invece di conto corrente o in moneta contante. assicurava un rapporto fra denaro e produzione”. I risultati di queste come di altre misure di Schacht, furono più che positivi, ma poco se ne discute perché, come si sa, i nazisti erano brutti, cattivi e “cretini”. Il brutto non c’interessa, il cattivo lo condividiamo in pieno, ma dissentiamo sul “cretino”. Se lo fossero stati non avremmo rischiato (come scriveva un liberale ebreo come Raymond Aron) che vincessero la seconda guerra mondiale. - almeno parzialmente - da queste misure, come anche da quelle, dopo accantonate, dell’Italia fascista (IRI docet) e del New Deal di Roosevelt, tutte generate dalla crisi del ’29, occorre trarre insegnamento su come superare quella attuale.
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 Teodoro Klitsche de la Grange.

Avvocato, giurista, direttore del trimestrale di cultura politica "Behemoth" ( http://www.behemoth.it/ ). Tra i suoi libri: Lo specchio infranto (1998), Il salto di Rodi (1999), Il Doppio Stato (2001), L'apologia della cattiveria (2003), L'inferno dell'intellettuale (2007), Dove va lo Stato? (2009).

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giovedì 26 gennaio 2012


Il libro della settimana: Mariella Nocenzi e Angelo Romeo (a cura di), I sociologi dimenticati. Antologia del pensiero proto-sociologico italiano, prefazione di Vincenzo Cesareo, Franco Angeli 2011, pp. 180, Euro 22,00. 

http://www.francoangeli.it/


Spesso, oggi, il laureando “medio” in sociologia ignora importanti pensatori del Novecento sociologico, come ad esempio studiosi del calibro di Pitirim A. Sorokin e Georges Gurvitch… Quanto alla sociologia italiana, il futuro dottore in una delle tante, forse troppe microspecializzazioni disciplinari, talvolta mostra di non conoscere figure “maggiori” come Vilfredo Pareto… Figurarsi perciò sociologi “minori” , o meno noti, come Filippo Carli, Alessandro Chiappelli, Fausto Squillace, contemporanei di un gigante come Pareto.
Per quale ragione? Innanzitutto, perché la storia del pensiero sociologico non è più di moda. Nelle Facoltà di Sociologia, dal punto di vista disciplinare, non interessa più il “da dove veniamo” ma solo il “dove andiamo”, grazie a una metodologia, sempre più specializzata, ma in realtà tesa a studiare gli alberelli, anche in formato bonsai, ma non la foresta, ossia la società nel suo insieme.
Inoltre, la sociologia italiana del Secondo Dopoguerra è cresciuta senza padri. Autori, pur grandissimi come Pareto, attivi nell’Italia prefascista, furono prima dimenticati e poi “reimportati” in Italia, sulla scia di riscoperte americane (nel caso di Pareto, galeotto fu Talcott Parsons). Insomma, l’Italia del 1945, si impose di dimenticare, se non cancellare, fascismo e prefascismo, e con essi, quel clima, anche sociologico, di critica, comune destra e sinistra, alla democrazia parlamentare, assai diffuso tra Otto e Novecento.
Fortunatamente, sull’importanza dei “padri”, anche quelli piccoli piccoli (si fa per dire…), è finalmente uscita una interessante antologia, curata da Mariella Nocenzi e Angelo Romeo, I sociologi dimenticati. Antologia del pensiero proto-sociologico italiano ( prefazione di Vincenzo Cesareo, Franco Angeli 2011, pp. 180, euro 22,00 ).
Il lettore comune non si faccia spaventare dal titolo accademico della pubblicazione: i « proto-sociologi» sono i primi sociologi, attivi tra Otto e Novecento; studiosi ancora senza cattedra specifica. E per una ragione molto semplice: all’epoca la sociologia non era entrata ufficialmente nelle università italiane. Parliamo comunque di studiosi ben consapevoli dell’importanza della sociologia quale risposta ai problemi posti dalla società moderna. E in particolare nell’Italia che allora andava industrializzandosi.
Vi entrerà, ma non presto. Come scrivono i curatori, «la prima cattedra di sociologia [sarà] assegnata per l’anno accademico 1924-1925 a Filippo Carli dall’Università di Padova, grazie all’autonomia universitaria riconosciuta agli Atenei dalla Riforma Gentile». Per inciso, sul primo sociologo ufficiale italiano si veda la bella introduzione del compianto Giano Accame a Filippo Carli, L’idea partecipativa ( Edizioni Settimo Sigillo 2003).
Ma di quali sociologi dimenticati parliamo ? Lodovico Francesco Ardy, Filippo Carli, Alessandro Chiappelli, Errico de Marinis, Achille Loria, Vincenzo Miceli, Scipio Sighele, Fausto Squillace, Michele Angelo Vaccaro, Icilio Vanni.
Una ricerca non semplice. Perché, come rilevano i curatori, addirittura su Ardy, di cui sono ripubblicati alcuni brani tratti dall’eccellente L’equilibrio sociale (1895), «non è stato possibile costruire una scheda a causa della mancanza di fonti attendibili». Parliamo di schede bio-bibliografiche, quindi utilissime, collocate in fondo al volume. Di Scipio Sighele, sono perfino riportati i sommari di alcune opere. Una scelta, quest’ultima, molto felice, che forse si poteva estendere - certo, dove possibile - a tutti agli autori antologizzati.
I brani sono raccolti e divisi per argomento: “ I problemi costituzionali della sociologia”; L’individuo, i valori, le istituzioni; “La società e la politica”; “La sociologia dei processi culturali”; “La sociologia e il futuro”.
Dalla lettura emergono due elementi molto interessanti: da un lato la notevole competenza disciplinare dei «proto-sociologi» , non inferiore a quella di altri sociologi dell’epoca, oggi annoverati tra i classici della sociologica, due per tutti: Durkheim e Simmel; dall’altro la ragguardevole capacità di scavare in profondità nelle contraddizioni della modernità. Certo, l’approccio generale è di tipo evoluzionista (ma non social-darwinista, fuorché, probabilmente, per Michele Angelo Vaccaro), cioè si confida nelle sorti progressive, ma senza esagerare… Dal momento che la visione di fondo dei « proto-sociologi» ruota intorno ai sani valori di una sociologia rivolta a studiare le cose come sono e non come dovrebbero essere.
Francamente, su tutti, sembra spiccare la figura di Fausto Squillace, malgrado il giudizio non positivo di Roberto Michels, autore di una celebre rassegna storica (1924-1925, tradotta dal tedesco in Antonio Scaglia, La sociologia europea del primo Novecento, Franco Angeli 1992). Squillace evidenzia notevoli capacità di sintesi teorica e individuazione dei problemi. Non per niente l’editore romano Bonanno ha di recente ripubblicato La moda (1912), a cura di Anna Maria Leonora. Un saggio che stupisce per la modernità come del resto si può scoprire anche dagli estratti antologizzati.
Non va dimenticato che Squillace, nonostante, come scrive Michels, fosse un «autodidatta» che «lavorò quasi sempre nella sua piccola città natale di Catanzaro priva di una qualsiasi strumentazione scientifica», pubblicò un importante Dizionario di sociologia (1905), mostrando, prosegue Michels «contro i pessimisti (…) come la sociologia fosse già abbastanza matura per presentarsi con ampie prospettive nelle vesti di una sintesi presentata con un’opera generale».
Concludendo, un’antologia ben costruita, ricca di stimoli e idee, che si rivolge a docenti, studenti, per le ragioni disciplinari già abbondantemente evidenziate, nonché a quei lettori interessati alle ineludibili questioni legati alle sorti della modernità. Insomma, un libro da non perdere.

Carlo Gambescia

mercoledì 25 gennaio 2012


La politica è teatro o il teatro è politica? La domanda è alla Marzullo, ma in effetti, a scavare bene, il problema esiste... E va oltre la questione dei generi politici e teatrali. Perché? Dove non c’è politico, nel senso schmittiano del termine (della decisione e del conflitto amico-nemico), non c’è il tragico (in senso teatrale, per non dire del resto…), ma non c’è neppure il comico. Di conseguenza, l’attore si trasforma in servo non tanto del potere (che non c’è…), quanto di se stesso (ben presente al mondo), rischiando così di sprofondare nelle più nera malinconia… O se si preferisce nell' impoliticità... Ecco, almeno a nostro avviso, il “succo metapolitico" del gustoso post scritto dall’ amico Roberto Buffagni . Buona lettura! Anzi, buon appetito! Perché, come scoprirete, la sua polpa è ancora più saporita. (C.G.)



Com’è triste, il comico italiano!
 di Roberto Buffagni




Da venticinque anni faccio regolari immersioni nel mondo sommerso del Varietà e dell’Avanspettacolo, frequentandone piani nobili e chambres de bonne ormai eguagliati dalla morte, “ ‘a livella”, nella formula dell’ultimo Imperatore di questa Atlantide italiana, principe Antonio de Curtis. E’ solenne e ammonitorio, un quarto di secolo: vediamo di ricavarne qualcosa…non so, un giudizio, una conclusione, una morale…Ed eccola qua la morale, in esclusiva per Carlo Gambescia e i suoi lettori (ora, anche un po' miei...): com’è bello e com’è triste, il comico italiano! Che sia bello, non ci vogliono venticinque anni per arrivarci. Guardatevi qualche vecchio spezzone di varietà in televisione, e ci arrivate in cinque minuti. La tristezza, invece, sta più in profondo, e per arrivarci ci vuole lo scafandro di un po’ di pazienza e di pensiero.Le prime bucce di questa cipolla di tristezza sono quelle universalmente note dei lustrini che si sfaldano come forfora dall’abito di luce delle soubrette, del lusso in scena con fame nel backstage, dei denti del capocomico che in scena lampeggiano di sorrisi e in camerino addentano le ballerinette, del pubblico che in teatro sogna i grandi amori e all’uscita degli artisti allunga le mani e sbava, etc., etc. Per esser triste è triste, ma qui restiamo nell’ Allgemeine Menschliche: lo scettico cafard apres la fête, il dialettico nesso maschera/volto, il melodrammatico cuore che sanguina mentre il carnevale impazza (“Ridi, pagliaccio!”), e volendo, anche lo scolastico sabato del villaggio. Insomma, restiamo sul generico, e non c’era bisogno di un quarto di secolo di pensierini della sera per arrivarci. C’è invece un nocciolo di tristezza, nel Varietà e nell’Avanspettacolo italiani (e appena avvertibile col senno di poi nella grande forma drammatica da cui discendono entrambi, la Commedia dell’Arte) che è loro proprio: un nocciolo di tristezza italiana. Non faccio il misterioso e ve lo dico subito. Il Varietà italiano è triste perché è solo: ed è solo, solo come un cane in chiesa, solo come un uomo in punto di morte, solo come un orfano, perché gli manca la tragedia. Il posto del comico (come genere drammatico e come attore) è il posto del servo. “Tieni fame? Tieni freddo? Tieni paura? Allora puoi fare il comico.” sentenziava Totò, ed è così dai tempi di Aristofane e di Plauto. Il cibo, il calore e il coraggio li ha il signore: e infatti, è a lui che spetta il tragico. Avendo il cibo assicurato, il calore di una casa avita e il coraggio ereditario, al signore, al tragico signore spetta un altro monopolio, che sul piano drammatico conta ancor di più: il monopolio del senso, della creazione di una storia con un principio, un mezzo e una fine; insomma, la sovranità sull’ordine. Al servo, al comico servo cosa resta? Gli avanzi. Gli avanzi del cibo, del calore, del coraggio, e dell’ordine: la fame, il freddo, la paura; e la sovranità sul disordine, il frammento, il carnevale: insomma, la fantasia comica. Il Varietà si chiama così perché è composto da una varietà, una molteplicità slegata di frammenti drammatici, con giudiziosa modestia chiamati “scenette”.

E’ una distribuzione di ruoli classica, che in conformità all’atteggiamento classico “preferisce l’ingiustizia al disordine” (Goethe). Il comico servo potrà raggirare e imbrogliare il tragico signore, e anche deriderlo quando non è all’altezza del suo ruolo; ma sarà sempre il signore a decidere l’ordine della storia e della vicenda drammatica. Ma – e qui veniamo al dunque, al dunque italiano – se il signore non c’è? Se non c’è il tragico, il comico che fa? Come va a finire? In Italia, infatti, e basta consultare le storie della letteratura e del teatro, il tragico non si può fare. Quando lo si fa, come lo si è fatto per esempio nel Seicento, è una esercitazione letteraria di corte, e non ci crede sul serio nessuno, né chi lo fa né chi vi assiste; e Alfieri è un grande uomo che parla da solo, dialogando con le ombre dei morti eroi: meglio delle figurine Panini, ma purtroppo i morti eroi riprendono vita sulla scena solo quando il pubblico sente l’impellente bisogno di avere degli eroi vivi. Non è che qui manchino le capacità letterarie: a scrivere tragedie ci ha provato anche Manzoni, non proprio l’ultimo venuto, e ha saputo fare solo la tragedia della rinuncia all’azione (l’Adelchi). E’, molto semplicemente, che per fare tragedia bisogna rappresentare credibilmente la sovrana libertà del signore alle prese con decisioni di vita e di morte che riguardino lui, e con lui tutta la comunità; per farla corta e semplificare, le decisioni politiche prese in stato d’emergenza, le decisioni che fondano la legge quando la legge scritta non c’è o non parla più.

Prova a contrario uno: l’unico genere drammatico che si avvicini alla tragedia, in Italia, sono le storie di mafia et similia. Dove l’eroe, in effetti, prende sovrane decisioni di vita e di morte che riguardano lui e tutta la sua comunità; peccato che la sua comunità di masnadieri non possa proporsi come comunità di tutto il popolo. Prova a contrario due: ne Il mestiere delle armi, un film di grande accuratezza scenografica sulla morte di Giovanni dalle Bande Nere, un regista niente affatto spregevole o bugiardo come Ermanno Olmi miracolosamente non si accorge di quanto tutti i contemporanei alla vicenda capirono e scrissero a chiare lettere: che la morte di Giovanni era una tragedia politica, la morte delle ultime speranze d’indipendenza italiana.E dunque, se il tragico e il signore non ci sono, il comico e il servo restano soli. Restano soli e sono tristi, perché si sentono pesare addosso l’ ingiusta responsabilità di creare un ordine, una storia, un senso, e non lo possono né lo vogliono fare. E però bisogna pur vivere, e the show must go on. Il servo comico si carica anche il peso del signore assente, e stronfiando e bestemmiando tira la sua e nostra carretta. La “commedia all’italiana” cinematografica, ultimo atto della tradizione che nasce con la Commedia dell’Arte e ultimo genere drammatico autenticamente nazionale, questo lo ha capito molto bene. Guardate Vittorio Gassman, fastidioso trombone finché si limitò a fare l’attore tragico, profondo interprete da quando lasciò che due metà, la comica e la tragica, gli combattessero dentro: forse non sarà ricordato per i suoi Amleti, Gassman, ma per il suo Brancaleone certo sì.
 C’è stato un momento, nella storia recente d’Italia, che il servo comico ha creduto di non essere più solo, e allora ha dato il meglio di sé. Piaccia o non piaccia, quel momento è stato il fascismo: gli anni del fascismo sono anche l’ Età dell’Oro del Varietà italiano. Il segreto di Pulcinella dell’amore che un comico eccelso come Ettore Petrolini portava al fascismo e a Mussolini sta tutto qui, nella gratitudine per il signore che mettendogli la mano sulla spalla, lo rimetteva al suo posto (per essere felici gli uomini in generale, dice Aristotele, ma in particolare gli artisti, aggiungo io, hanno bisogno soprattutto di questo: di trovare il loro posto). Poi è andata come è andata, cioè male, e non tanto perché l’Italia fascista ha perso, ma perché l’Italia postfascista ha fatto finta. Fatto finta di non essere stata fascista ma antifascista in pectore; di non essere stata occupata ma liberata; di non avere perso ma vinto la guerra. Ora, al servo, che per definizione vive in stato di necessità, è lecito fare finta, imbrogliare le carte e mentire: su che altro se non su questi raggiri si basano i meccanismi comici, da Plauto ad Arlecchino a Paolo Villaggio? Al signore, al tragico signore con la sua sovrana libertà, no: a lui non è lecito, far finta. Senza verità la tragedia è, nel migliore dei casi, melodramma. Un signore che ne trasse le tutte le debite conseguenze fu, per esempio, Raimondo Vianello, il nobilnato Raimondo Vianello: suo padre era Ammiraglio di Squadra della Regia Marina, suo zio, ammiraglio anche lui, precettore del Duca di Spoleto; Raimondo, che non aveva gradito l’8 settembre dei Savoia, da signore si fece comico, e dunque servo (Aneddoto: in tournée a Bologna col varietà insieme a Galeazzo Benti[voglio], altro nobilnato transfuga, Vianello e Benti vanno a far visita di dovere all’anziana contessa Bentivoglio, zia di Benti. Si presentano al portone di Palazzo Bentivoglio in abito blu e mazzi di fiori, suonano. Il maggiordomo apre, si presentano, il maggiordomo va a sentire se la contessa è in casa. Torna e dice: “La signora contessa informa i signori che per loro non sarà mai in casa.”).
 Insomma, dal dopoguerra il servo comico ha dovuto di nuovo caricarsi sulle spalle il peso dell’assenza del signore, il peso di rappresentare da solo la comunità nazionale. Da allora, fa quel che può. Ci fa ridere fino alle lacrime, degli altri e soprattutto di noi stessi. Ci rappresenta peggiori di quel che siamo, e così ci strizza l’occhio, ci rassicura e ci consola; vero, Silvio B.? Ma a pensarci bene, com’è triste, com’è solitaria questa allegria! Che voglia di piangere lacrime di sconforto, di rabbia, di umiliazione, dopo queste risate!.
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 Roberto Buffagni
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Roberto Buffagni è un autore teatrale. Il suo ultimo lavoro, attualmente in tournée, è Sorelle d’Italia – Avanspettacolo fondamentalista, musiche di Alessandro Nidi, regia di Cristina Pezzoli, con Veronica Pivetti e Isa Danieli. Come si vede anche dal titolo di questo spettacolo, ha un po’ la fissa del Risorgimento, dell’Italia… insomma, dell’oggettistica vintage....

martedì 24 gennaio 2012


Ancora sul naufragio della Concordia? Ebbene sì. E per una semplice ragione: Carlo Pompei (*) nei suoi post offre sempre interessanti spunti di riflessione, ponendosi, come dire, a metà strada tra evento e osservatori dell’evento. Scelta che sembra funzionare. Perciò anche sul "caso" Concordia il “metodo”, anzi lo "sguardo antropologico” di Pompei non deluderà chi ci si segue. Ai lettori il piacere di scoprire come e perché. (C.G.)



Il contropotere della Concordia…
A proposito di distrazione 
e Divina Provvidenza
di Carlo Pompei






Su queste “pagine elettroniche” abbiamo già avuto modo di scrivere relativamente al rapporto tra pensiero e azione individuale, nonché di leggere “gustose” interpretazioni dell’incidente navale che ha tenuto incollata al video l’Italia intera e buona parte del resto del mondo (cfr. Roberto Buffagni). Dove “gustose” non significa “divertenti” (diverse), ma “piacevole stimolo di riflessione”. Prendiamo spunto, quindi, non per essere autoreferenziali, ma per ragionare ancora un po’ sulla questione, a “bocce ferme”. Dicevamo: quel che è stato scritto, iniziamo da lì. “… il “Bel Paese” rappresenta per molti stranieri un ottimo luogo per andare in vacanza. In fondo, il nostro ruolo attuale è quello di consigliare al turista giapponese a quali temperature bere il vino bianco dei Castelli Romani… Oppure da quale punto fotografare Fontana di Trevi... Tutto qui. Purtroppo, sotto quest’ultimo aspetto la telefonata tra Schettino e il Comandante della Capitaneria di Porto, che ha fatto il giro del mondo, non gioverà all’immagine dell’Italia… Infatti, la codardia mostrata dal Comandante della Concordia, sembra proprio confermare il peggiore stereotipo dell’italiano irresponsabile e traditore.” (cfr. Carlo Gambescia). Ecco, l’immagine dell’Italia… Fare un parallelo tra la Concordia che affonda e l’agonia del “Transatlantico ITALIC” è fin troppo facile ed infatti è stato fatto da molti (Grillo e Crozza i principali interpreti per bacino di utenza). Ma la questione, pur avendo innegabilmente punti in comune, è ben più complessa.Qualche nota tralasciata da quasi tutti: Costa Crociere è un “sub-brand” (un partner, dicono gli ottimisti) di Carnival Cruise Lines (3655 NW 87th Avenue Miami, Florida 33178), non è più la gloriosa compagnia di navigazione italiana. Da qui, senza sposare l’ennesima tesi complottistica, ci interroghiamo sulle tante “stranezze” dell’accaduto. Ritardi, telefonate fantozziane, eroi veri e presunti, responsabilità e menzogne. Il tutto condito dai facili giochi di parole sulla “Concordia”, sulla “Serena” (la nave gemella) che passa luminosa e chiassosa sullo sfondo del disastro durante il programma televisivo di un sempre più stupefacentemente “marchettaro” Bruno Vespa; fino a giungere a quelli sulla eccessiva vicinanza alla “Costa” e relativo “inchino”. Poi, “Concordia: quanto ci Costa?”, “Vieni avanti, Schettino”, “Scoglione”, etc… Snoccioliamo uno ad uno i punti. Sirena, si parte…
 Al proposito della telefonata tra i due comandanti, siamo sicuri che - a parti invertite - De Falco non si sarebbe comportato come Schettino? Probabilmente no, ma sicuramente sarebbe successo l’opposto: il padre che sgrida il figlio per una stupidaggine ha sempre un tono più autoritario. Poi ci sono gli “sciacalli che premettono di non esserlo”: la maglietta “Vada a bordo, CAZZO!” - peraltro contestata (?!?) nel riportare la frase - è venduta a 12 euro, la comprano tutti gli “Schettino d’Italia” che hanno bisogno della maschera di Pulcinella, che salgono sul carro del vincitore, il quale altri non è, poi, una persona che ha fatto il proprio dovere. Da qui deriva la scarsa credibilità dell’Italia: un uomo normale eletto ad eroe per aver fatto una cosa, appunto, normale, cioè che dovrebbe rientrare nella norma. Quindi non è soltanto il comportamento di Schettino a non giovare all’Italia, ma anche il fatto che De Falco faccia notizia, che venga visto come una mosca bianca.
 È sicuramente un eroe colui che compie un atto mettendo a rischio la propria vita in favore del salvataggio di quella degli altri: nessun altro può essere definito così. Infatti la maggior parte di questi riceve un encomio solenne alla memoria, sono pochi quelli che si salvano. Fortunatamente, nel caso in questione, non sono mancati episodi di vero eroismo, non tutti finiti tragicamente. Una lancia va spezzata in favore del sistema di evacuazione e di chi è riuscito a metterlo in atto. Malgrado defezioni, mancanze, ritardi ha funzionato molto bene, checché se ne dica: mettere in salvo oltre quattromila persone non è una cosa facile da attuare, non è successo per caso e il comportamento di De Falco ha sicuramente contribuito al buon esito. È vero che siamo il Paese del “tanto lo facevano tutti” di tangentopoli, del “2 minuti e vado via” detto al vigile con il blocchetto delle multe in mano, ma siamo anche il Paese che conta il maggior numero di intelligenze della storia, non dimentichiamolo. Le generalizzazioni sono più dannose dell’operato di Schettino: quando Crozza (ancora lui) scodella la facilissima battuta sul popolo di “poeti, santi e … navigatori?” sputtana (non volendo?) tutta una categoria di lavoratori bravi e preparati che dovrebbe indignarsi, invece di ridere e applaudire. Attaccare la satira è stupido; attaccare la satira stupida, non lo è: occorrono i distinguo, altrimenti sono più i danni che i benefici. Addentrandoci nelle questioni tecniche, poi, abbiamo sentito parlare di circostanza fortuita relativamente all’arenamento della nave, che ne ha, di fatto, consentito l’evacuazione, mentre il comandante Schettino si è vantato di aver effettuato tale manovra e, quindi, della relativa perdita contenuta di vite umane. Ebbene, anche se fosse valida e confermata la versione sostenuta dal comandante, un conto è tirarsi fuori da una situazione di pericolo generata da condizioni avverse, tutt’altro è infilarcisi (stupidamente?) coinvolgendo migliaia di persone e poi cercare di limitare i danni. Ammesso e non concesso che si tratti di bravata, atto di coraggio o chissà che cos’altro sia stato supposto. Versioni contrastanti anche sulla traiettoria della nave dopo l’urto (avvenuto in traslazione, non in navigazione rettilinea, altrimenti sarebbe danneggiata la prua e non il fianco in prossimità della poppa), ancore giù prima o dopo l’arenamento, etc. Insomma, una gran confusione.
 E che dire della "scatola nera" rotta, secondo le ultime risultanze, da due settimane? Certo, la "scatola nera" una nave non è esattamente come quella installata sugli aerei, ma rimane comunque un apparato più complesso composto da vari elementi di registrazione degli eventi. E ora invece? Perché mai questi fatti avvengono con inquietante frequenza in Italia o coinvolgono italiani? Ricordiamo Ustica e il Cermis su tutti. Anche in quei casi ci furono radiofari spenti, transponder disattivati, radar difettosi, comunicazioni difficoltose, manovre effettuate ben al di sopra della soglia del rischio accettabile, etc. È diventato un dato di fatto che chi dovrebbe controllare non lo fa? A supporto di queste considerazioni vi è il non trascurabile particolare che gli altri ufficiali di bordo della “Concordia” sono inequivocabilmente corresponsabili: se il Primo comandante scappa, dov’è e che cosa fa il suo Secondo? E così via. Diciamola anche più diretta: chi doveva sparire da quelle acque prima che venissero calate le scialuppe e, soprattutto, prima dell'arrivo della Guardia costiera? Schettino appare sempre più come una sagoma di cartone, l'hanno mandato agli arresti domiciliari per vedere che cosa fa e chi contatta? O perché in galera l'avrebbero accoppato con la scusa di vendicare i morti, ma in realtà l'avrebbero fatto fuori soltanto per non fargli rivelare che cosa stesse facendo realmente così sotto "COSTA" e per quale motivo non ha fatto evacuare immediatamente la nave? Stiamo riscivolando verso il complottismo, ma se si conosce un po’ di storia recente italiana è difficile non caderci… Archiviamo, poi, la sottotrama della ragazza moldava come un tentativo di aggravare la posizione del comandante. Tentativo che, in ogni caso, qualsiasi effetto restituisca, distrae da altre questioni inerenti la responsabilità effettiva dell’armatore. Si chiami Costa o Carnival, non fa differenza, almeno dal punto di vista del fatto fine a se stesso. Fa differenza, invece, dal punto di vista di quotazioni in Borsa, deprezzamenti, acquisizioni e manovre accessorie, ma qui si ridiventa complottisti, quindi ci fermiamo. Certo è che le prenotazioni e le pubblicità di crociere sono aumentate.
Mentre scriviamo, si cerca di ancorare la nave, per evitare "scivolamenti" verso l’abisso, complice il mare grosso. Perfetto. Anche perché se dovesse affondare totalmente, si direbbe addio alle speranze (già ridotte al lumicino) di ritrovare ancora qualche superstite e il danno all’ecosistema sarebbe incalcolabile. Tuttavia, un rapido ancoraggio avrebbe reso più celeri le operazioni di recupero dei carburanti, dei liquidi di lubrificazione e di tutti quei materiali non idonei al contatto con l’acqua. Nasce perciò un’altra domanda: perché non si è provveduto ad ancorare la nave agli scogli durante una settimana di condizioni meteo favorevoli? Si temeva che la nave potesse trascinare l’isola del Giglio nel baratro? O si sperava nella Divina Provvidenza?

Carlo Pompei


Carlo Pompei, classe 1966, “Romano de Roma”. Appena nato, non sapendo ancora né leggere, né scrivere, cominciò improvvisamente a disegnare. Oggi, si divide tra grafica, impaginazione, scrittura, illustrazione, informatica, insegnamento ed… ebanisteria “entry level”.

lunedì 23 gennaio 2012

Gian Franco Lami (1946-2011)
 A un anno dalla morte



Il 23 gennaio 2011 moriva improvvisamente Gian Franco Lami ( http://carlogambesciametapolitics.blogspot.com/2011/01/alatri-2008.html ). Desideriamo ricordarlo, a un anno esatto dalla prematura scomparsa, ripubblicando un suo denso scritto, dove si parla, e acutamente, delle astuzie della tradizione... Un testo in cui sono evidenziati, con grande maestria filosofica, gli auspicabili punti di snodo fra tradizione e modernità. E in particolare fra “scelta tradizionale” e “storicità” economica. Ma in quale modo? Puntando sul recupero dell 'idea di "cavalleria economica", già proposto all'inizio del Novecento da Alfred Marshall. Idea, che Lami, a differenza dell' economista inglese, collega al concetto filosofico di obbligazione politica. Di qui la notevole originalità del sua analisi. Buona lettura. ( C.G.)

Impresa e tradizione (*)

di Gian Franco Lami


Mi sono confrontato di recente con uno scritto di marca “tradizionalista”, nel senso che il suo autore sosteneva le ragioni della “Tradizione”, quella con la “T” maiuscola. La sua posizione, documentatissima, concludeva in un inno all’indirizzo di quel nucleo essenziale di princìpi, comune a tutte le “tradizioni”, quelle con la "t" minuscola, e capace, per ciò stesso, di trascenderle, fino a costituirsi in una specie di cosmo organico e armonioso, al di là della storia del mondo. I suoi riferimenti rappresentativi erano nomi assai noti a ognuno, e andavano da Guénon a Evola, con talune digressioni nella “letteratura fantastica”. Una ricostruzione ineccepibile, che disponeva il lettore alla più nostalgica delle anamnesi e lo rendeva partecipe della natura “pessimistica" di un giudizio finale sul nostro tempo, sulle nostre qualità politiche e sulle stesse risorse della nostra umanità.
Devo dire che, da un tale punto di osservazione, la prospettiva non presenta davvero molto di attraente. E devo dire che anche il mio innato “ottimismo” troverebbe notevoli difficoltà a sopravvivere, se fosse costretto a fare i conti, alla spicciolata, con questa modernità, cui tanto bene pare adattarsi l’immagine profana e sconsacrata, dell’utile economico particolare e immediato. Pure, sento qualcosa che mi spinge a non affrettare anche le mie conclusioni: qualcosa che mi resiste, alla tentazione di voler tutto travolgere con una sentenza di condanna senz’appello.
In effetti, dal momento che io stesso mi avverto come “uomo-della-tradizione”, come uomo che, nel suo irrinunciabile ricorso storico (nella sua “circostanza”, direbbe Ortega y Gasset), non intende perdere di vista il corso di una coscienza (super)storica “ideale eterna”, credo che tale mia “tradizione” (con la “t” minuscola, perché alla mia portata) abbia già in sé il seme della verità e della salvazione.
Sono convinto, insomma, che dovremmo imparare di più dal mondo che ci circonda. Dovremmo imparare dal suo modo di sopravvivere, nostro malgrado, dal suo modo di resistere e di reagire ai mille insulti e alle mille prepotenze, che la nostra presenza distratta dall’egoismo gli arreca quotidianamente. Ecco, io penso che la verità tradizionale sia forte, anzi, fortissima: molto più forte delle tante offese che noi possiamo farle, attraverso i risultati di un’azione dispersa in divagazioni esistenziali. Nello stesso tempo, la mia fiducia nella sua autorevole funzione di crescita dell’uomo, mi impedisce di vederla relegata negli spazi di una metafisica trascendente, separata, e così garantita, dalla corruzione delle cose terrene. Credo che la verità tradizionale cammini con noi accanto a noi, e disegni già in questo mondo il percorso per la sua e la nostra preservazione dalla sconfitta-che-uccide.
È ovvio che, quando parlo di questa “tradizione” non intendo davvero confonderla con il folklore, con la variopinta molteplicità delle “sagre” paesane e delle superstizioni para-confessionali, di cui se mai c’è stata altrettanta abbondanza quanta se ne calcola oggi, fino al punto di arrivare a contendere gli spazi di certo sano scetticismo, nel cuore stesso delle città più emancipate. Ma, non intendo nemmeno confonderla con quel genere di teismo fideista, comodamente sostenuto dalla mistica della fede e della grazia, che tutto e tutti salverà, nel progetto terminale di una volontà-creatrice “buona”. Mi piacerebbe invece accostarla al prodotto di una sedimentazione costante, di una ricerca ontologica, che riscopre ogni individuo in tensione “verticale”, sebbene all’atto di confondersi nell’orizzonte degli interessi mondano. Cosa, che richiama alla mente il platonismo di Cicerone, di quella recta ratio che, da una parte è in omnes diffusa, dall’altra è natura congruens: connaturata a tutti gli uomini e alla realtà intera. La medesima recta ratio che si ritrova in Vico, ancorché in panni barocchi, cui si deve, tra l’altro, l’ambiguità di un messaggio recepito impunemente dall’eredità romantica, come da quella illuministica.
Un discorso così avviato può giungere a considerazioni importanti, in ogni campo pratico. Ma a noi spetta di portarlo a coerenza nel tema che ci siamo proposti. Per questo, occorre capire e accettare, in tutte le sue implicazioni, che tipo di rivoluzione ha segnato nel nostro modo di vivere in società la “religione” del lavoro, l’idea della produttività capitalistica e di un’economia programmata, fino a conseguire dimensioni globali. Sia ben chiaro! Non è mia intenzione rivedere la storia del riscatto umano nell’epoca della “secolarizzazione”, ricollegare con fili significativi l’opera nuovamente coinvolgente – in dimensioni ancora una volta universali - di cui si fecero epigoni gli uomini della Riforma, dopo Umanesimo e Rinascimento, per arrivare alla “società industriale” di Saint-Simon, a Comte e al socialismo mescolato in tutte le “filosofie della prassi” (comprese quella nazionali e liberali) del XIX secolo e del XX secolo. Non spetta certamente a me far notare che la Chiesa Cattolica stessa, dal 1874 (Sesto Centenario della nascita di San Tommaso), ha intrapreso una delle più profonde rielaborazioni della sua dottrina, dando al mondo intero segnali niente affatto secondari di come dovesse andare reimpostato il rapporto tra le forze socio-politiche nella città-mondo.
Sta di fatto che, oggi, solo l’intellettuale meno accorto, per non dire in mala fede, può pensare che l’uomo, o meglio, la stragrande maggioranza degli uomini voglia rinunciare ai benefici del progresso, specie a quelli straordinari degli ultimi decenni. Parlo di “voglia” di rinunciare, ma so benissimo che in molti casi la rinuncia non è più nemmeno data come facoltà, né come possibilità. Del resto non credo che sia stato eccessivo il rammarico, quando, per dirla nei termini più comprensibili, si fu costretti ad abbandonare l’arma di bronzo per il ferro, o il lume a olio per la corrente elettrica.
Ecco! Se si è d’accordo con questo, se si conviene sulla necessità di far conto del patrimonio di cui disponiamo, senza pensare di poterne fare a meno, o di potervi rinunciare, tutti, alla presunta conquista di una nuova povertà, di una totale privazione di quel che invece caratterizza proprio il nostro essere uomini nella nostra generazione e nella nostra era, allora si potrà anche avviare un ragionamento ponderato sul perché e sul come della scelta tradizionale.
Mi si obbietterà: comprendere non vuole dire accettare, sempre. Farsi una ragione della “storicità” di taluni eventi, non vuole dire di allegarli in modo acritico a proprio corredo personale, (quasi) ineluttabile accessorio di un’esistenza pre-determinata. Al contrario! Significherà mettersi in condizione di giudicare bene, per meglio dirigere l’effetto della propria azione. Verissimo! Ed è anzi su questo che la mia dimostrazione fa affidamento, per arrivare a proporre delle conclusioni inconsuete.
Non deve esservi scandalo nell’ammettere che il sistema cavalleresco, tanto vivo nel ricorso di trascorsi tradizionali, a indicare la strada di un’affermazione spirituale e “virile” tra le vanità terrene, possa sopravvivere ancora tra noi, ma sotto forme diverse, per esempio, e tanto per restare in un parallelo terminologico, nella istituzione dei “cavalieri del lavoro”. Non c’è nulla di scandaloso nel vedersi consegnato all’intraprendenza di un’economia nazionale e sopra-nazionale, non semplicemente domestica e mercantile, ma proiettata verso dimensioni di responsabilità operative ormai planetarie, il simbolo di un potere legittimo, quindi autorevole, su cose e persone. D’altronde, c’è forse qualcuno che oggi può pensare in modo verosimile a una società improduttiva? A una società talmente differente da quella attuale da poter eliminare la figura dell’imprenditore?
Penso che tutti - intendo dire tutti noi, giunti a un’età matura - arriviamo a una giustificazione profonda della società lavorativa e imprenditoriale, come della sola in grado di reggere i ritmi del nostro tempo. E quando dico tutti, parlo proprio di tutti coloro che vivono queste nostre stesse esperienze. Anche coloro che le contestano, in chiave più o meno utopica, ma poi anelano a un’affermazione sociale, o si aspettano che la società (“laica”) provveda alle loro esigenze di individui “a-sociali”. In definitiva, non ha torto Eric Voegelin quando sostiene che, nella città moderna, ordine economico e ordine morale sono sostanzialmente corrispondenti. In tali condizioni, le sorti di un’intera umanità si trovano affidate alle mani produttive e redditizie di imprenditori, come anche di economisti, di pubblicitari, di sindacalisti, di finanzieri, di agenti della borsa e della comunicazione d’impresa. E certamente, nella somma degli “operatori” che sostengono i criteri interpretativi di questa “società industriale”, finalizzata alla produzione di beni e servizi per il proprio autosostentamento, c’è spazio per autentiche aristocrazie dello spirito, in linea con la migliore tradizione che si rammenti. O pensiamo davvero che le Gentes della “romanità” fossero qualcosa di altro, nella loro qualifica rappresentativa e ordinante della res publica, dal riferimento agli interessi concreti e pressanti di quei tempi? Sostituite soltanto da strutture sociali più adeguate al mutare dei costumi e delle mentalità sociali?
Il processo di democratizzazione, in atto dal momento in cui l’uomo ha memoria di sé, è linfa vitale di quel moto rivoluzionario che si dimostra compendio ineliminabile alla tradizione dei princìpi. E questi ultimi non devono essere preservati a ogni costo, nel timore di un loro tramonto, a rischio di trasformare in reazionarismo e conservatorismo il costrutto tradizionale. A essi spetterà invece di far valere la propria attualità, pena una eclisse che sembrerà toglierli alla nostra vista e dalla storia, conclusivamente.
La tradizione è astuta, come e più della ragione hegeliana. Oggi, che lo si voglia o meno, che lo si avverta o meno, essa si serve di schemi “corporativi” o “neo-corporativi”, per fare valere il principio basilare del suo essere: è sempre l’autorità che comanda e fonda l’obbligazione politica, non un qualsiasi potere privo di legittimazione. Il legittimo “sovrano” (monarca o assemblea che sia) oggi veste i panni propri della politica economica e finanziaria, tutto piegando a questo genere di rappresentazione. E questo complesso e articolato suo modo di esercitare le funzioni amministrative dell’ordine sociale, non può non avere il nostro libero e spontaneo consenso.

Gian Franco Lami

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(*) Articolo tratto dalla rivista “l’Officina”, n. 9, 2002, pp. 29-31.

venerdì 20 gennaio 2012


Le radici (sociologiche) della crisi economica 
Craze speculativo
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Delle liberalizzazioni ci siamo già occupati qui (http://carlogambesciametapolitics.blogspot.com/2011/12/le-liberalizzazioni-di-monti-paghera-il.html ) e qui ( http://carlogambesciametapolitics.blogspot.com/2011/11/quel-giano-bifronte-del-liberismo.html ), perciò non torneremo sull’argomento. Anche perché le radici profonde della crisi economica affondano, e decisamente, nei comportamenti collettivi: in qualcosa che è a metà strada tra sociologia, psicologia sociale e antropologia. Più precisamente parliamo del craze (mania, smania, voga): di un atteggiamento di tipo emulativo e aggregante. Semplificando, può essere paragonato al timore di perdere il treno - ovviamente quello della vita - sul quale tutti stanno invece salendo... Treno che potrebbe passare una sola volta... Allora, perché perderlo, e magari stupidamente? Il concetto risale a Neil J. Smelser, sociologo statunitense di scuola funzionalista (nel senso, semplificando, che in una società "tutto si tiene insieme"), autore di un dotto libro sociologico, oggi dimenticato, uscito quasi mezzo secolo fa (Theory of Collective Behavior, trad. it. Vallecchi, 1968, pref. di Francesco Alberoni). Il craze, fenomeno collettivo che secondo Smelser ritroviamo anche in altri campi della vita sociale (bandwagon politico, revival religioso, moda), rinvia, come sfondo culturale, per quel che concerne l'economia, alla credenza, piaccia o meno, nella possibilità di arricchirsi. Perciò, attenzione, lo rinveniamo: prima - in termini positivi - alla base di un boom speculativo; dopo - con segno negativo - nella successiva fase di fuga dagli investimenti, per non perdere un "treno", restando in metafora, che ora invece va in direzione opposta. Ma lasciamo la parola a Smelser: “ L’ansietà sorge dall’incertezza sugli esiti degli investimenti abituali delle ricchezze e dall’incertezza sui modi per valorizzare gli investimenti. Questa incertezza, comunque, non porta al panico finché c’è del capitale con cui risolvere il problema. Questa combinazione unica di incertezza, più una quantità di capitale, produce la credenza generalizzata che le incertezze possano essere superate con l’uso di adeguati correttivi” (trad. it. cit., p. 364). Di qui gli alti e bassi "sociologici" del capitalismo, legati appunto alla natura ciclica e collettiva del craze.
A proposito degli “adeguati correttivi”, Smelser parla di “magia istituzionalizzate e di folklore”. Riprendendo le tesi di Pareto, Arnold e Galbraith sulle “derivazioni (ideologiche)” e sul “folklore capitalistico”: sorta di retorica pubblica tesa a placare l’ansia dei consumatori. E quindi necessaria. Attenzione però, esiste anche un folklore, comunista, socialista, cattolico, eccetera…
Ovviamente, le parole non bastano, per ritornare a comportamenti collettivi più stabili (ma comunque craze-dipendenti), occorre scovare nuove fonti per arricchirsi, ossia “modi per valorizzare gli investimenti”.
Concludendo, cosa ci insegna Smelser? Che i correttivi, spesso più retorici che reali - come "liberalizzazioni" italiane - da soli non bastano. E che la recessione in cui stiamo entrando, preceduta da un boom speculativo (craze pre-boom), indica una reazione di fuga ( craze post-boom) da investimenti e consumi.
Non sarà perciò facile uscirne in tempi rapidi. Sempre che il famoso imprenditore-innovatore, descritto così bene da Schumpeter, non scovi qualche innovazione capace di generare sviluppo e investimenti in nuovi settori. Ecco qual è la vera sfida cui deve cicilicamente rispondere il capitalismo: mescolare insieme capitale reale, innovazione, incertezza e craze. Sfida, prima che economica, come abbiamo visto, sociologica, psicologica e antropologica.... Altro che liberalizzazioni alle vongole! Ma il capitalismo ne sarà ancora in grado?


Carlo Gambescia

giovedì 19 gennaio 2012


Il libro della settimana: Umberto Levra (a cura di), Cavour, l’Italia e l’Europa, il Mulino, pp. 268, Euro 20,00. 

http://www.mulino.it


La figura di Cavour ha sempre affascinato gli stranieri, certo non come quelle di Garibaldi e Mazzini, ma di sicuro rimane lo statista italiano più noto e apprezzato all’estero. Naturalmente, non sappiamo se questa fama sia dovuta a quella non proprio eccelsa dei successori. Benché, per restare nella tradizione liberale e democratica, personaggi della levatura di Giolitti e De Gasperi non demeritino affatto.
Non si vuole però proporre alcun sondaggio. Più semplicemente desideriamo parlare del bel volume, curato da Umberto Levra, Cavour, l’Italia e l’Europa (il Mulino, 2011, pp. 268, euro 20,00). Un testo che raccoglie le relazioni presentate all’omonimo convegno , tenutosi a Torino il 6-7 ottobre 2010. E che relazioni! Siamo davanti a un’ottima messa punto dello sfondo culturale, del pensiero e dell’opera, nonché dell’immagine del Conte in Francia, Inghilterra e Germania.
Iniziamo da quest’ultimo aspetto, e in particolare dalla Germania, attingendo dal contributo di G.B. Clemens. Una terra dove, a differenza di Francia e Inghilterra, già unite da secoli, il liberalismo ebbe forti caratteristiche patriottiche e politiche. Di qui, per simpatia, una migliore comprensione del liberalismo nazionale cavouriano, come, ad esempio, nell’opera dello storico Heinrich von Treitschke. Il quale dedicò al Conte una celebre monografia. Osserva Treitschke : «La cosa più utile, che potrei scrivere ora, sarebbe senza dubbio, un saggio su Cavour (…). Una presentazione di quest’uomo potrebbe mostrare al nostro pubblico in modo più efficace di ogni disquisizione generica in che cosa consista la Realpolitik geniale». Insomma, un vero tributo.
Per contro, Cavour, soprattutto in Francia e Inghilterra (più in Francia però…), era inviso a cattolici, legittimisti, democratici e rivoluzionari. Di qui, minore simpatia e, di riflesso, giudizi meno lusinghieri.
Quanto al liberalismo « pragmatico» cavouriano, va segnalato l’interessante contributo di Luciano Cafagna (Libertà di mercato e modernizzazione economica in Cavour). Perché? Cafagna ricorda un intrigante giudizio di un grande storico dell’economia italiana, Carlo Maria Cipolla. Ma lasciamo la parola a Cafagna: « (…) Cipolla quasi a bruciapelo mi disse che Cavour, da ministro, negli anni Cinquanta, aveva sostanzialmente adottato in Piemonte una politica keynesiana avant la lettre. Lì per lì, mi parve un paradosso anacronistico. Ma ripensandoci anni dopo, mi convinsi che l’intuizione di Cipolla era sostanzialmente giusta. Cavour aveva in sostanza una corretta percezione del rapporto tra ampliamento della domanda e stimolo alla crescita e la sua politica economica era effettivamente regolata da questa idea. Anticipò tra l’altro l’uso un po’ disinvolto del debito pubblico, del quale, nella nostra storia finanziaria, si è poi spesso abusato » .
Cavour keynesiano? L’intuizione di Cipolla, ripresa da Cafagna andrebbe esplorata. Perciò, giovani laureati in cerca di gloria accademica, cosa aspettate ? Al lavoro!
Tra i contributi, tutti interessanti, ricordiamo in particolare: Adriano Viarengo (La formazione intellettuale di Cavour), intervento ricco di informazioni sui fermenti culturali nel Piemonte dell’epoca, recepiti anche dal Conte, come quelli di derivazione utilitarista: « “Ti prego di avere massima cura, dei miei Gioia, Romagnosi e Bentham”, scriverà [Cavour] al fratello Gioacchino »; Massimo L. Salvadori (Il liberalismo di Cavour), dove si ribadisce la natura pragmatica del liberalismo del Conte: a metà strada tra liberalismo francese (Guizot, in particolare) e liberismo inglese; Giuseppe Galasso (Cavour e il Mezzogiorno), puntuale ricostruzione delle luci e ombre che costellavano un mito, all’epoca condiviso anche da Cavour: quello del Mezzogiorno, «paese ricchissimo di risorse e doti naturali, che solo il malgoverno di secoli aveva mortificato »; Ennio di Nolfo (Il Piemonte nel gioco delle potenze europee), dove giustamente si evidenzia di nuovo, e in particolare tra il 1847 e il 1861, l’esplicarsi in politica estera della natura concreta del liberalismo cavouriano. Scrive Di Nolfo: «Era un uomo del “giusto mezzo”. Pensava ai fatti che avrebbero potuto dare sostanza all’indipendenza nazionale, ma non si illudeva che questi potessero nascere dalla volontà di poche migliaia di patrioti. Aveva fede nel progresso non come parola vuota ma come fatto concreto: ferrovie, industrie, strade, liberi commerci. Aveva una visione ben precisa dell’assetto europeo e sapeva che, senza quei mutamenti radicali, che certo il Regno di Sardegna da solo non avrebbe potuto provocare, nulla sarebbe mutato in Europa finché le potenze conservatrici fossero rimaste unite. Era dunque pronto a cogliere le occasioni perché i suoi ideali di fondo si realizzassero, non nella fantasia bensì realisticamente».
Perfetto. Aggiungere altro, sarebbe un vero peccato.

Carlo Gambescia

mercoledì 18 gennaio 2012



La politica estera dell’Italia? 
Sopravvivere




Perché meravigliarsi della débâcle di Monti in Europa? Forse con Berlusconi le cose andavano meglio? E prima ancora con Prodi?
Non è difficile capire che l’Italia, geopoliticamente, con la caduta del Muro ha perso qualsiasi interesse per gli alleati americani ed europei. È una fortezza vuota... Al massimo, finché sarà politicamente possibile, lo Stivale potrà svolgere il ruolo di centro logistico e di smistamento verso il Medio Oriente. Oppure di fornire, in modo limitato, truppe Nato, più o meno cammellate.
A questo fattore geopolitico, ne vanno aggiunti altri due. Il primo è economico. In questo campo, l’apporto che può dare l’Italia alla soluzione della crisi è ridottissimo. Il potenziale economico italiano all’ interno della Ue resta a una cifra. Perciò non ha alcun potere di condizionare il predominio economico tedesco.
Il secondo fattore è di tipo culturale. All’estero si diffida dell’Italia: uomini politici di nessuna caratura, frequenti cambi di governo, divisioni interne, antica vocazione alle faide e al tradimento.
Certo, il “Bel Paese” rappresenta per molti stranieri un ottimo luogo per andare in vacanza. In fondo, il nostro ruolo attuale è quello di consigliare al turista giapponese a quali temperature bere il vino bianco dei Castelli Romani… Oppure da quale punto fotografare Fontana di Trevi... Tutto qui.
Purtroppo, sotto quest’ultimo aspetto la telefonata tra Schettino e il Comandante della Capitaneria di Porto, che ha fatto il giro del mondo, non gioverà all’immagine dell’Italia… Infatti, la codardia mostrata dal Comandante della Concordia, sembra proprio confermare il peggiore stereotipo dell’italiano irresponsabile e traditore.
Insomma, parliamo di una media-piccola potenza, che tra le due guerre tentò di farsi grande pur non avendone i mezzi, costretta a navigare a vista - o se si preferisce a sopravvivere - per le ragioni strutturali di cui sopra. Quindi rassegnarsi.
Il che può anche non piacere, ma non possiamo farci nulla. La realtà non è mai romanzesca, è storica. E la storia si vendica sempre. Purtroppo.


Carlo Gambescia

martedì 17 gennaio 2012



Gennaio 2012 
Una malinconia tutta italiana
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Un fantasma si aggira per l’Italia: quello della malinconia. Le navi da crociera vanno a fondo, gli ufficiali al comando si ammutinano o scappano. Come non cadere in depressione ? Del resto la "nave Italia" non è che vada meglio... Il Pdl, diviso e impotente, è più che mai prigioniero di tetri pensieri: sa perfettamente, come direbbe lo zio del Verdone carabiniere, di non contare più un cazzo. Il Pd, costretto ad appoggiare Monti, sa che perderà voti, perciò non può non essere depresso. Lega, Idv, Sel si agitano tanto, troppo, pur sapendo benissimo (di qui la malinconia…) che contro un blocco di potere che va da Napolitano alla Merkel, passando per il Papa e Monti, non c’è partita… Sono però malinconici anche Rutelli, Fini, Casini, probabilmente consapevoli del loro ruolo di figurine Panini della politica. Sono piuttosto avviliti anche i sindacati, costretti a mandare giù di tutto. Bonanni, Camusso, Angeletti cercano di darsi un tono: ma come è possibile darselo davanti al plotone di esecuzione dei mercati… Sono però depressi anche i padroni del vapore: purtroppo i mercati votano tutti i giorni anche contro di loro. Certo, esistenzialmente, se la passano sempre meglio degli operai…
Gli italiani stanno comprendendo che i mercati hanno denti aguzzi. E che lo Stivale politicamente, non conta un cazzo, per dirla sempre con lo zio del Verdone carabiniere. E così rispolverano l’antica arte della sopravvivenza o dell’arrangiarsi: “Se non è possibile vivere, si chiedono, bisogna in qualche modo sopravvivere, perché è sempre meglio che morire”.
Ma sopravvivere non è uno scherzo: come non si può essere malinconici, quando ci si vede costretti a scegliere tra consumi, più o meni vistosi, e spese condominiali? Vado in vacanza o pago l’amministratore? Ovviamente, d'ora in avanti, si partirà con il salvagente nella valigia...
Comunque sia, crociera o rate del riscaldamento ? Ecco, anno di grazia 2012, il "malinconico" dilemma, tutto italiano, per il prossimo "ponte" di Carnevale. Un interrogativo, degno di Pulcinella. E, francamente, è due volte malinconico ricordarlo.

Carlo Gambescia

lunedì 16 gennaio 2012

Oggi Roberto Buffagni   indossa le vesti di Tiresia, il mitologico indovino, per svelare a tutti noi cosa si nasconde sotto il naufragio della Concordia. In realtà, come il lettore scoprirà, lo scopo è un altro: cogliere l’occasione per evocare, e da par suo, un altro affondamento politico, quello dell’Italia. E Buffagni ne ha per tutti, a cominciare da Capitan Silvio, prontissimo, come abbiamo visto, ad abbandonare la nave Italia in caso di naufragio... Un Cavaliere, detto per inciso, che oggi a Palazzo Chigi, al cospetto di Monti tramite Alfano, "ufficializza" la maggioranza badogliana con Bersani e Casini. E attenzione, con una nota peggiorativa. Perché, se ci si passa la metafora storica, è come se Mussolini, Badoglio, De Gasperi e Togliatti si fossero messi tutti d'accordo per governare insieme... Esageriamo? Forse. Ma come definire questi tre traditori di tutti gli elettori ? In fondo, il Capitan Schettino che abbandona nave e passeggeri non è che l'ultima incarnazione, e in sedicesimo, di un' Italia da Otto Settembre permanente.
Ci auguriamo che Dante Alighieri ( autore di una miniserie che pare facesse gola a Mediaset…), possa riservare all’amico Tiresia-Roberto Buffagni, una volta trapassato (tra duecento anni), destino migliore di quello toccato a Tiresia e agli altri indovini… Buona lettura. (C.G.)



Naufragio della Concordia o dell’Italia?
La vera storia
di Tiresia-Roberto Buffagni





Caro Popolo Italiano,
se invece di dare retta alle gazzette, che ormai non servono neanche più a incartare il pesce perché l’inchiostro stinge e ti rovina il branzino, leggessi regolarmente il metacoso, il blog di Carlo Gambescia, non crederesti a tutte le panzane che ti spacciano, tipo quelle che vanno per la maggiore sul naufragio della Concordia.
Va bè: per stavolta ti perdono e ti scodello, calda calda e gratis, la verità sul naufragio della Concordia così come me la trasmettono a mezzo visione certificata le mie fonti al Santuario di Delfi. La prossima volta, però, mi bonifichi un centinaio di buoi, che qua le ecatombi mi costano un occhio della testa.
E via con la vera storia del naufragio della Concordia.
Dunque, intanto la Concordia non è una nave italiana ma americana, perché nel 1997 gli armatori Costa si sono venduti per 445 miliarduzzi di lire alla Carnival Corporation che di navi da crociera ne ha cento, e in crociera ci sono andati loro perché erano stanchi, poverini. Però visto che gli americani sono persone gentili e il marchio Italia, Gondola & Mandolino tira ancora, nel settore entertainment per il popolino, hanno tutti fatto finta di niente, così sembra che sia ancora roba vostra e ci fate più bella figura.
E’/era un bel bestione, la Concordia: tredici ponti, intitolati ciascuno a uno Stato dell’Unione Europea: Olanda, Svezia, Belgio, Greica, Italia, Gran Bretagna, Irlanda, Portogallo, Francia, Germania, Spagna, Austria e Polonia. Ospita (va) il più grande Centro Benessere galleggiante del mondo, il Samsara Spa. Samsara è il nome del ciclo interminabile delle reincarnazioni nella religione indù, vale a dire la pesantissima catena di colpe e illusioni che impedisce agli umani di riunirsi a Dio, per chi ci crede cioè forse gli indiani, qua pochini. Spa non vuole dire società per azioni ma stabilimento termale in tedesco. L’ha battezzata nel 2005 nei cantieri di Sestri Ponente la modella Eva Herzigova, badante slava niente male però scema, perché il proverbiale magnum di champagne non si è rotto contro la fiancata, cosa che notoriamente porta male.
Insomma: la Concordia sarebbe quella garantita fra gli Stati europei, la bandiera sarebbe quella italiana, i padroni non “sarebbero” ma sono gli americani, e tutto sto’ baraccone di allegoria da discount è andato a sbattere. Vedi un po’ tu, popolo italiano, se il megasimbolo in saldo postnatalizio ti interessa. Io per me dico che non solo non c’è più religione, ma anche i segni del Fato sono scaduti a un livello da Lumpen e che ci rovinano la piazza, a noi indovini. Alle nostre proteste, Delfi replica con ciance sulla liberalizzazione delle professioni, sulle caste, sulla democrazia, sulla libera concorrenza e altri Misteri Eleusini, però intanto si fa pagare in franchi svizzeri, quando propongo gli euro cade la linea.
Andiamo avanti. La Concordia sarebbe naufragata all’Isola del Giglio. Balla clamorosa e anche sfacciata, perché con l’allusione botanica anche un deficiente mangia (è proprio il caso di dirlo) la foglia. Giglio, macché giglio! No, bimbi, guardate le cartine: quella lì è l’Isola dei Lotofagi, celeberrima nei giri più elitari del jet set mondiale.
Perché celeberrima, chiedete voi che nel jet set non ci state? Perché all’Isola dei Lotofagi non solo la droga è legale, ma è gratis e non fa male. Cioè, tu vai lì, entri al bar, dici, “Mario, oggi cosa mi consigli?” e Mario il barman ti serve uno dei mille cocktail da lui sapientemente ricavati dal principio attivo del Loto, pianta di esemplare modestia che fa spuntare dal fango (per non dire dalla emme) il suo fiore d’un bianco virginale, commovente come il vestito della prima comunione di tua figlia. Tu te lo bevi e sballi all’istante, ma stai bene, niente problemi di cuore, di naso, di niente! Mai stato meglio! Perché non solo non pensi più ai tuoi guai di adesso, ma ti dimentichi di botto tutti i tuoi guai di ieri, di ieri l’altro, di sempre! Cioè, non ti ricordi più un cavolo! Non ti ricordi più dell’ingiunzione di Equitalia, della lettera minatoria dell’avvocato della tua ex moglie, della tua ultima amante che ti ricatta coi filmini porno (tu protagonista), delle geremiadi lacrimose dei tuoi ex operai rimasti sul lastrico quando hai delocalizzato, degli anni che passano, del tuo urologo che scuote la testa, dei tuoi figli che telefonano solo quando gli bloccano la carta di credito, etc., etc. Zero ricordi, zero tituli, zero via zero! Capito adesso, popolo, perché il jet set non ti ci invita, all’Isola dei Lotofagi?
E andiamo avanti con ‘sto svelamento dell’enigma che mi aspettano al ristorante. Balla numero non mi ricordo più, il capitano della Concordia non si chiama Francesco Schettino, nome ridicolo ma anche qui pesantemente allusivo. “Schettino”, cioè un pattino a rotelle solo, ma dai! Mai visto uno che schettina sull’acqua? Ma neanche quell’ebreo, come si chiama…Gesù Cristo. Con uno schettino solo, poi, cascherebbe per terra o perlomeno zoppicherebbe, dai! E qui c’è il trucco, l’allusione sfacciata e arrogante degli inventori di questa megaballa. Perché dicono i filologi, e Delfo conferma, che c’è un altro, un ben altro capitano di mare che zoppica! Ci siete? Fuochino? No?! Sveglia, ragazzi! Lo conoscete anche voi! E’ Ulisse, no? Ulisse è un soprannome, come l’etrusco Clausus da cui deriva Claudio, e vuole dire zoppo.
Lo so che avete un attention span di tre minuti, ma resistete un altro po’ che ormai ci siamo, dopo voi potete andare alle pagine sportive e io a mangiare.
Allora: il capitano Ulisse Berlusconi, pardon, Bernasconi, il grande eroe, santo, poeta, navigatore, cantante confidenziale, oltretutto pieno di soldi, stava al timone della Concordia, guidandola in un periplo culturale del Mediterraneo, il Mare Nostrum cioè Vostrum, remember?
Nella quotidiana familiarità con l’umile gregge dei suoi passeggeri – trecento parrucchieri addetti al suo trapianto di capelli , pensionati ben forniti di Viagra, lavoratori autonomi ignoti al fisco ma non al suo cuore paterno, impiegate pubbliche assenteiste e sognatrici, insomma di italiani – il capitano Ulisse tanto si compenetrò dei meriti e bisogni del popolo a lui affidato, che un giorno, salito sulla tolda della Concordia, così arringò le plebi: “Je vous ai compris! Io vi ho capiti, poveri sfigati! Non siete fatti per viver come bruti, ma per cuccare un po’ di bella vita anche voi! Dov’è Italo, dov’è il Nocchiero? Ah, sei qua, che parrucchiera ti trombavi? O Italo! O Nocchiero! Fa’ rotta sull’Isola dei Lotofagi!” E zàn, la Concordia alza le vele (si fa per dire, cià dei diesel che ti spostano il Peloponneso) e fa rotta verso il paradiso. Artificiale, va bè: ma te cosa credi, popolo italiano, che c’è anche quello vero? Ah, ecco.
E la nave va. Avvistamento delle coste dell’Isola dei Lotofagi, piccola vedetta lombarda, “Terra, terra,” etc., solito can can. Sul più bello, ma porca boia, drin! Squilla il telefonino del capitano Ulisse, maledetto! Numero privato, numero sacro! Il capitano Ulisse risponde, e capirai se non è Afrodite. “Ve’, ciccio, qua le Ninfe mi fanno una testa così! Cosa gli vai a promettere l’Olimpo per due suonatine di flauto, cretino! Quella civetta di Atena è andata a spiattellare tutto a papà Zeus! Prendi su il libretto degli assegni e vieni qua subito, sennò te lo taglio!” Tenendosi una mano dove immaginate, il capitano salta sull’elicottero e sparisce all’orizzonte, salutando con l’altra manina.
“Belìn!” fa Italo il Nocchiero, “Capitano! Capitano Ulisse, dove va?! Io non la so mica la rotta! Sulle carte non c’è, porca Era! Qua è tutto uno sco…” E SBADABAM, detto fatto la Concordia va a sbattere sul mitico (s)coglione.
Casino tipo Titanic o Mai dire banzai, etc. Un po’ di vecchi ci lasciano la ghirba, dispiace ma tutto sommato li tiriamo giù dalle spese che l’INPS è contenta. Sbarco fortunoso di passeggeri ed equipaggio, saltiamo tutta la descrizione, OK? Che tanto l’avete già visto in TV, come in Lost solo con la nave invece che l’aereo.
I naufraghi arrancano, arrivano in piazzetta, gran bel posto, di classe, e si accalcano al bar. Per fortuna c’è Mario il barista, un grandissimo, che non fa una piega e signoreggia l’invasione barbarica da par suo. “I signori desiderano?” Mario raccoglie tremilacinquecento ordinazioni diverse senza prendere appunti, e senza sbagliarne una le serve con eleganza in dodici minuti netti. Il popolino dei naufraghi fa conoscenza con il prodotto locale, l’inimitabile Loto, e un istante dopo questa decisiva agnizione non gliene può fregare di meno del naufragio, della Concordia, dei dispersi, dei morti, della class action contro gli armatori di cui tutti hanno parlato fitto fitto durante i perigliosi frangenti appena trascorsi, insomma di tutto.
Da quel fatidico istante, (ex) passeggeri ed (ex) equipaggio della Concordia si sono piazzati negli alberghi circonvicini al bar di Mario (tanto mica pagano loro, ci penserà l’assicurazione degli americani) e trincano Loto dalla mattina alla sera, fatti come biglie e contenti come pasque.
L’unico che un po’ guasta la festa è Italo il Nocchiero, che ha l’inveterata abitudine di alzarsi prestissimo, prima che apra il bar di Mario. Intanto che ciondola lì davanti in attesa che Mario tiri su la serranda, parla da solo, Italo, il rude Nocchiero dal cuore di bambino.
“Belìn, dov’è che andavamo? Dove, dove, dove, per i peli di Poseidone?! Ce l’ho sulla punta della lingua!” Lunga pausa, con Italo che si accende una meditativa MS e fissa a bocca aperta l’eterno ipnotico moto delle onde, il volo dei gabbiani, etc. “Ma sì! Ma certo! Dovevamo tornare a casa, a I…a Ita…”
E lì, Italo butta la cicca e smadonna tutte le Nereidi. “Belìn, non mi ricordo più! Com’è che si chiamava? Ita…Ita…Itaca? No, no, no Itaca, porc… (bip)”
Poi per fortuna arriva Mario, tira su la serranda, fa entrare il povero Italo, lo mette seduto al tavolino a leggere il “Corriere dei Lotofagi”, e lo tiene in chiacchiera intanto che gli mixa un cocktail dei suoi, e glielo serve bello fresco nel cristallo scintillante.
“Bè? Com’è, Italo?” fa Mario mentre Italo centellina. “Mario, sei un mago!” (è una coincidenza, Italo non ha letto Thomas Mann) “mi fai passare tutti i magoni!” gli risponde il Nocchiero Italo, col suo faccione adusto che si distende in un sorriso beato. “Sai come diceva il mio nocchiero, quand’ero marò sulla Conte di Cavour? Gennarino Scardamocchia, che marinaio! Quando ci beccavamo il cazziatone del primo ufficiale, Gennarino diceva sempre: ‘Chi ha dato ha dato ha dato, chi ha avuto ha avuto ha avuto, scurdammoce o’ passato, simm’ ‘e Napule, paisà!’ Va là, Mario, fammene un altro e segna in conto, eh?”
Bon, popolo italiano, questa è la vera storia del naufragio della Concordia. Ci sarebbe un epilogo sul capitano Ulisse in grossi casini perché a casa sua ci sarebbero certi Proci che gli trombano la moglie e gli rubano tutto, cosa anche prevedibile avendole egli messo più corna che in un cesto di lumache, ma sono da un canto voci non confermate, dall’altro cavoli suoi. Fine vera storia del naufragio della Concordia.
Caro Popolo Italiano, io dixi, et salvavi animam meam. Tu vedi un po’ di salvare il culo tuo.
Saluti e baci, tuo

Tiresia-RobertoBuffagni.


 Roberto Buffagni è un autore teatrale. Il suo ultimo lavoro, attualmente in tournée, è Sorelle d’Italia – Avanspettacolo fondamentalista, musiche di Alessandro Nidi, regia di Cristina Pezzoli, con Veronica Pivetti e Isa Danieli. Come si vede anche dal titolo di questo spettacolo, ha un po’ la fissa del Risorgimento, dell’Italia… insomma, dell’oggettistica vintage..