sabato 30 maggio 2020

Politica, governo  e magistratura
Le parole di Mattarella…



Mattarella parlò: “Se i partiti politici e i gruppi parlamentari sono favorevoli a un  Consiglio Superiore della Magistratura formato in base a criteri nuovi e diversi, è necessario che predispongano e approvino in Parlamento una legge che lo preveda”.  Perfetto. Da prendere alla lettera.
Dal punto di vista generale  dello stato di diritto,  il concetto di   divisione di poteri  dovrebbe rinviare alle istituzioni, mai  al governo.  Pertanto la magistratura  dovrebbe  essere sempre messa nelle condizioni istituzionali,  stabilite dalle costituzioni,  di non subire pressioni governative.  
Perché usiamo il condizionale?  In  Italia,   - sia dia una scorsa all’articolo 104 della Costituzione (dal Titolo IV, sull’Organizzazione della Magistratura) -     il  Governo, che è emanazione del Parlamento, sui cui banchi siedono i gruppi politici di maggioranza,  vota  in seduta comune  la   nomina di un  terzo  dei componenti del Consiglio Superiore della Magistratura, ( con  funzioni di autogoverno della magistratura).  Che a sua volta  è presieduto dal Presidente della Repubblica, organo costituzionale eletto dal Parlamento in seduta comune e integrata,  quindi, ripetiamo, anche dai gruppi politici  di maggioranza.   Come si può intuire, la Magistratura, quanto meno per una parte dei componenti il suo organo direttivo, nonché nella sua figura apicale,  non è  realmente indipendente dalla maggioranza di governo e comunque sia, sociologicamente parlando,  dallo scambio  politico-parlamentare. Altro che divisione dei poteri...
Del resto l’articolo 110, sempre dal Titolo IV,  è una specie di capolavoro di oscurità: “Ferme le competenze del Consiglio superiore della magistratura, spettano al Ministro della giustizia l’organizzazione e il funzionamento dei servizi relativi alla giustizia”.   
Il senso e significato dei “servizi relativi”  è in pratica rimesso nelle mani del Governo  e della maggioranza su cui si regge, nonché  dei giuristi-virologi - se ci si passa la battuta - che non mancano né mancheranno mai. Parliamo di una situazione vischiosa  prodotta dalla stessa  Costituzione:  uno strumento giuridico che invece  dovrebbe tutelare istituzionalmente la Magistratura  dalle sempre  possibili pressioni politiche del Governo.
Ciò significa che va  rivista la  Carta, a cominciare dagli articoli 104 e 110.  Proprio per salvaguardare  lo  stato di diritto e la divisione dei poteri. Altrimenti sarà sempre difficile, se non impossibile,  garantire la reale indipendenza della magistratura.  Necessità  di cui il Presidente Mattarella, come riferito all'inizio, sembra rendersi perfettamente conto. Il che è lodevole. 
Un ultimo punto,  non secondario.   Al magistrato, quanto meno nell’esercizio delle sue funzioni si imporrebbe l’assoluta apoliticità. Cosa ovviamente difficile, se non impossibile,  sul piano  antropologico e sociale.  Tuttavia in Italia, crediamo si sia andati ben oltre la fisiologia politica. Al riguardo  si dia  un’occhiata alle cronache politico-giudiziarie degli ultimi venticinque anni. Altro che magistratura indipendente dalla politica… 
Anche su questo punto, molto importante  sarebbe auspicabile una decisa presa di posizione  del Presidente Mattarella, ovviamente  ufficiale.


Carlo Gambescia        

venerdì 29 maggio 2020

Trump contro Twitter (e Twitter contro Trump)
L’ipocrisia fa male alla libertà di stampa

Le libertà di stampa resta  la  rappresentazione più alta della modernità. Se c’è una differenza tra la libertà degli antichi e la libertà dei moderni,  per riprendere un storica diatriba, questa differenza è nella tutela della  libertà di opinione, messa nero su bianco dai moderni.
Ovviamente,  l’esercizio concreto della  libertà di stampa  è negato e criticato  dai nemici della società aperta (o moderna): fondamentalisti di ogni tipo,  fascisti, comunisti, islamisti, populisti, welfaristi, ecologisti.  Tutti insieme  evocano forme di libertà “più alte”, da opporre alle false e corrotte  libertà  liberali  schiave di un pugno di ricchi capitalisti.
La reazione di Trump, che vuole chiudere la bocca a Twitter,  è liberale  o  fondamentalista?  Prima di rispondere, va riconosciuto che il principio della libertà di stampa non può  conoscere limiti.  Certo, esiste il rischio  della diffusione di notizie tendenziose o false. Un rischio, che con l’avvento dei social,  si è moltiplicato. Che fare allora?  Nulla. Perché,  per dirla fuori dai denti,  al di fuori dello stretto lavoro scientifico, non esistono fatti ma solo opinioni. Di qui, il nostro scetticismo sull’ utopistica  adozione  da parte dei nuovi media, di alcuni criteri come quello del fact checking per combattere la disinformazione. Un   fenomeno quest'ultimo, che purtroppo più che alla "natura" dei fatti resta legato alla  "natura" umana:  alla credulità degli uomini, che al capire preferiscono sempre il credere. Insomma, siamo dinanzi a un fenomeno difficile, se non   impossibile da contrastare,  senza a mettere a rischio la libertà di stampa. Il che è un problema con il quale imparare, finalmente, a convivere. 
Per tornare ai "fatti",   Trump  si è  ritrovato sotto un suo tweet, l’invito ai lettori  della Piattaforma  di andare  verificare su una apposita pagina, assemblata dai redattori di Twitter, la veridicità di   quanto egli  aveva scritto sul voto per posta, presentandolo come  causa certa di brogli. Una pagina dove perciò si metteva in discussione la tesi di Trump.  
Si è trattato  chiaramente di un atto politico: Twitter è contro Trump, e Trump,  replicando  da par suo, ha minacciato, in sostanza,  di introdurre una specie  bavaglio economico-legale contro quelle piattaforme “che vogliono mettere a tacere le voci dei conservatori”.  In pratica, Trump ha firmato un decreto, che ovviamente andrà discusso e votato, in cui  si  propone di  ridurre l’immunità legale delle piattaforme, esponendole, per ciò che terze  parti vi scriveranno,  al rischio di cause milionarie. 
Diciamo che la sproporzione tra quel che è successo e la reazione di Trump è evidente.  Che le  grandi piattaforme  social siano poche, come afferma il Presidente, quindi espressione di un’oligarchia mediatica (questo il concetto sotteso), non è una buona ragione per limitare  la libertà di stampa, perché un provvedimento del genere, andrebbe a ledere la libertà dei  piccoli editori social, che non sono pochi. Insomma, Trump, uomo di estrema destra,   si comporta come Allende, politico di estrema sinistra,  che negava la carta, per ragioni “ufficiali” di “pluralismo  economico”  ai giornali cileni di opposizione, anch’essi giudicati come longa manus dell’oligarchia.  Quella di Trump, non è una reazione liberale...  
Twitter è contro il Presidente? Sì.  E non c’è nulla di male.  Trump ne deve   prendere  atto in nome della  libertà di opinione.   Come  Twitter del resto. Che però dovrebbe  uscire allo scoperto, senza  nascondersi  dietro  le regolette del fact checking.   Come d'altra  parte  Trump,   che invece si acquatta sotto le fresche frasche di norme giuridico-economiche solo in apparenza neutrali.
La libertà di espressione è un valore moderno, probabilmente  fin troppo elevato  per quella che è la natura umana. Dobbiamo prenderne atto. Ma resta, come dicevamo,  una grande conquista dei moderni, di poche nobili menti.  Siamo dinanzi a qualcosa che distingue, dalle altre, la nostra civiltà liberale e di cui andare fieri, qualcosa che va difeso.  E di certo,non con l’ipocrisia.        

Carlo Gambescia

           

giovedì 28 maggio 2020

Quel  “grande uomo” di Giuseppe Conte
L'Italia di Sandra Milo


Il  "film"  di  Sandra Milo  incatenatasi in guanti davanti a Palazzo Chigi (*),  in difesa dei lavoratori autonomi dello spettacolo (che, poverini, non avrebbero  ricevuto il contributo straordinario  Covid-19), rappresenta la  perfetta metafora di un’Italia piagnona,  ma con un occhio solo.  Perché quello aperto è rivolto verso il potere. Una  metafora  che  ha il suo culmine  nella  Milo che all'uscita,   una volta ricevuta,   dipinge   Giuseppe  Conte come  un “grande uomo”. Giusto,   dopo la recita, pure l'inchino.  
Lo spettacolo… Un settore che come tanti altri vive di sovvenzioni.  E che  invece di affrontare a viso aperto la sfida della creatività  chiede soldi pubblici: attori, registi, tutti  imprenditori culturali di se stessi,  autonomi sì,  ma con i soldi dello Stato...  Roba da vergognarsi.  E invece si protesta. Ci si incatena…
Si parla molto in questi  giorni del “dopo-Covid”. Di come l’epidemia, anzi la  pandemia come dicono i virologi noleggiati dai populisti,  abbia  cambiato gli italiani, eccetera, eccetera.
Ne siamo proprio sicuri?  In realtà, come mostra  la protesta della Milo, gli italiani non sono mutati, sono  i piagnoni di sempre, che proprio questa mattina -  basta sfogliare i giornali -  si stanno accapigliando sulle vacanze.  Evidentemente, i soldi girano. In un’ Italia alla fame  nessuno si preoccuperebbe di Ferragosto.
Un passo indietro. Perché, in fondo, meravigliarsi degli attori?  Anche i  dentisti, altri lavoratori autonomi,  in marzo  hanno chiesto il bonus... Poverini...
Paese senza vergogna.  Che  “grande uomo”  Conte…  Certo, il Signore delle Mance… “Giri a sinistra Dotto’ ”, ora a destra, grazie Dotto’ "…

Carlo Gambescia   


mercoledì 27 maggio 2020

Giunta Senato,  no al processo  a Salvini 
L’elettore primitivo

La Giunta del Senato ha salvato momentaneamente dal processo Matteo Salvini.  Non entreremo  nel merito della questione. Né tantomeno della cucina politica, indagando da retroscenisti  il  senso del voto di questo o di quel partito.  Anche perché,  il razzismo di Salvini è innegabile: basta fare un giro su internet. Il “Capitano” dice cose razziste, talvolta in modo velato, talaltra meno, quindi figurarsi  in privato, o comunque quando lontano dai riflettori... 
Di più,  da Ministro dell’Interno è passato all’atto:  ha chiuso  i porti   mostrando di essere privo  di qualsiasi elementare senso di umanità.  E cosa peggiore:  con il suo comportamento ha sdoganato tra la gente gli antichi  stereotipisti razzisti.  Il che prova che  dietro Salvini, come ad esempio si evince dai fatti di Macerata,  si nascondono, e neppure più di tanto,  le peggiori “frange lunatiche”: gente ancora più dura  e razzista del “Capitano”.  Il che è tutto dire.
Attenzione: il fatto che certa sinistra veda astutamente  nell’immigrazione, anche clandestina, uno strumento per  rinfocolare in Italia un’odiosa lotta di classe, non diminuisce la gravità del razzismo  salviniano, pericoloso di per sé.
Tuttavia, la stessa sinistra che inveisce contro l’ex Ministro dell’Interno usa due pesi due misure, come ad esempio nei riguardi di Israele, cadendo nella trappola antisemita. Si combatte giustamente il  neonazismo, per poi accusare  il governo "coloniale"  israeliano di ricalcare le orme di Hitler. Di qui  le  accuse della sinistra  a Salvini di essere al tempo stesso  razzista e amico di Israele.  Una specie di nazista al quadrato… 

Il vero  problema  è che il razzismo e l’antisemitismo  non sono mai stati del tutto  metabolizzati dagli italiani, di destra come di sinistra. Sicché alla prima occasione i nostri concittadini si spogliano degli abiti civili  e  seminudi si aggrappano urlando alle liane. Classico richiamo della foresta.  
Purtroppo si tratta di un feroce  approccio alla politica, ereditato dalla cultura fascista e comunista, legato all’uso  della forza e  delle vie extralegali o semilegali, in nome del populismo giudiziario, contro avversari  trasformati regolarmente in nemici assoluti. 
Pertanto il vero punto della questione non è quello di processare o meno Salvini, dal momento che  in un Paese Normale - insomma civile e liberale -   il problema neppure si porrebbe per la  mancanza di politici e cittadini razzisti e antisemiti. O comunque contenuti per punti percentuali nei limiti del pittoresco politicamente ininfluente.
Un processo - attenzione -   che  rischia addirittura di aggravare le feroci divisioni esistenti, senza incidere sulla questione di fondo. Quale?  Ripetiamo, il primitivismo politico italiano.   Perché Salvini  è   così amato e odiato al tempo stesso?  Perché  un uomo privo di umanità  è così  votato e  contrastato? E dagli  elettori dell’una  e dell’altra parte?  Elettori  che, tutti insieme,  come gli scafisti, getterebbero a mare, alla stregua di rifiuti umani, i clandestini come gli ebrei?

Carlo Gambescia                       

                          

martedì 26 maggio 2020

Populismo e totalitarismo
Arrivano le  “guardie civiche”…


Una premessa. Sulle “guardie civiche” o  come diavolo le chiameranno, prendiamo subito le distanze dai falsi critici: a destra, si veda  il titolo del “Tempo” di oggi; a sinistra, invece, si dia uno sguardo alla prima pagina del “Manifesto”.
Esageriamo?  Il “Tempo”, ad esempio,  quando si tratta di vigilantes  e di ronde anti-immigrati, sollecitate dalla destra razzista,  si guarda bene dall' evocare il  pericolo fascista.  Come del resto guai a toccare ai redattori del “Manifesto”  i cosiddetti gruppi antagonisti, ultracomunisti", anima violenta di cortei e manifestazioni.
Insomma, chi scrive non vuole avere nulla a che fare con questa gente. Che si atteggia a liberale solo quando torna utile politicamente.
Veniamo finalmente al punto. L’idea del reclutamento, a qualsiasi titolo (economico o gratuito),  di sessantamila spie è devastante. Ci si pone contro, distruggendolo,  qualsiasi quadro politico liberal-democratico.   
I lettori sappiano che  il liberalismo  non ha nulla in comune con lo strapotere dello  stato sociale, con l’estensione totale  del distruttivo, economicamente parlando,  principio di  precauzione, con l’elogio della delazione fiscale e dell’algoritmo tributario,  con l’istituzione  delle spie anti-movida.

Giuliano Ferrara,  sul “Foglio”, oggi,  ironizza  sulle solite buffonate italiane (questo il succo del suo ragionamento).
Un momento,   anche il fascismo fu una buffonata. Tragica.   Per non parlare del comunismo, di cui è bene ricordarlo, solo la caduta fu una farsa.  Dopo, però, settant’anni di durissima dittatura. 
Populismo e welfarismo , mescolati insieme, sono pericolosi quanto fascismo e comunismo. Non si guardi agli uomini, meno che mediocri (Boccia, Decaro, Conte, Di Maio, eccetera),  ma all’idea totalitaria del  perseguimento della sicurezza sociale attraverso l’impiego di qualsiasi  mezzo, dall’algoritmo alla guardia civica. Si progetta una nuova Società degli Eguali, di babeuviana memoria, puntando sul totalitarismo etico del socialismo sanitario.   
Purtroppo, il vecchio “centralismo democratico” comunista, esteso all’intera società,  ereditato dal Pd, e il nuovo feroce attivismo verticale propagandato dal M5s, hanno una forza d’urto su una psiche collettiva debilitata dalla paura della morte da virus, pari a quella del fascismo e del comunismo. Movimenti, non dimentichiamolo, che  uscirono rafforzati dalla guerra e dal dopoguerra.  In fondo, non si parla anche oggi di "Guerra al Virus", di necessità di vincere a tutti i costi, eccetera, eccetera?  Non si fa uso della stessa  stantia retorica pseudopatriottica  dell' union sacrée da osservare  dinanzi al nemico comune? 

Ovviamente Ferrara,  vecchio comunista, pentito o meno, non capisce o fa finta di non capire…  Oggi ironizza sul "MinVirPop".    Intanto, chi scrive, il “Foglio” non lo compra più, dal mese di marzo, quando Ferrara  si tramutò in embedded ("Non è il momento questo, eccetera, eccetera"),  tradendo i lettori liberali. Veri. Che, attenzione, non hanno nulla in comune, con populisti,  fascisti, comunisti, sovranisti antivaccinisti, signoraggisti, complottisti,  e compagnia cantante. 

Il populismo (di destra come di sinistra)   è la  prosecuzione del totalitarismo con altri mezzi, quelli dello Stato Sociale.
Si rida pure delle “guardie civiche”…  Purtroppo, come insegna  un vecchio  adagio popolare:  "Ride bene chi ride ultimo"...   E qui  a ridere,  potrebbero essere i populisti.  Svegliati  Italia  prima che sia troppo tardi!  

Carlo Gambescia              
    

lunedì 25 maggio 2020

Oggi è lunedì!
Cappuccino, cornetto e “Linea” (settimanale)...


 Il numero 13 è scaricabile gratuitamente  qui:

http://linea.altervista.org/blog/


Editoriali, articoli, servizi, recensioni di Carlo Pompei,  Roberto Pareto, Federico Formica,  Carlo Gambescia... 

sabato 23 maggio 2020

La casella Fb dei messaggi filtrati
Perché  cercarsi ancora a distanza di  anni?

Quasi mai presto attenzione  ai messaggi filtrati della  mia casella di posta su Facebook.  A volte passano molti mesi… Anche perché,  di regola, si ricevono messaggi stravaganti  dalla proposta finanziaria, alla richiesta di aiuto, dal video sgradito   all’ invito  a sfondo sessuale.  
Alcuni giorni fa però ho trovato  nella mia casella  il  messaggio, che era lì da più di un mese,  di una persona che un tempo frequentavo. Desiderava sapere come stavo, sentirmi, eccetera, eccetera.    
Che dire?  La gente comune sembra non  comprendere  che la vita relazionale  ha natura ciclica, inizia e finisce.  Perché si sta insieme, ci si frequenta, eccetera, eccetera?   Per  legami familiari, di amicizia, di lavoro. Tradotto: per ambiente, piacere, interesse.  Sono situazioni sociali che nel corso della vita biologica degli essere umani mutano:  si esce di casa, si cresce e si matura, si frequentano altre persone, si trova e si cambia lavoro.  Come detto: si aprono e si chiudono cicli vitali  (in base all’età), sociali (alla professione) e culturali (allo status e al ruolo). Pertanto, i rapporti tra persone  non possono non mutare, lo impone la ciclicità stessa della vita biologica e relazionale.
Insomma, a prescindere dalle ragioni dichiarate o meno, cercare a distanza di anni una persona con la quale  non si hanno  più rapporti è totalmente inutile dal punto di vista della densità morale e affettiva della relazione. E per quale ragione? Perché, ripeto, nel frattempo si sono aperti e chiusi dei cicli di vita e sono cambiate le coordinate culturali e individuali degli attori sociali.
Non si è più, biograficamente, come venti  o trent'anni prima,  e di conseguenza la densità morale e affettiva della relazione  non potrà mai essere  quella di allora. Cosa spinge  le persone a cercarsi? Curiosità, noia, nostalgia condizionale (non per la persona in sé  ma per “il tempo che fu”), interesse,  rimorso o rimpianto morale, talvolta anche un  senso retroattivo di  giustizia. Ovviamente, la letteratura morale enfatizza l’importanza delle relazioni, creando "doveri" sociali "di ricerca".  Oggi, tra l'altro largamente facilitati, sul  piano pratico (basta un clic),  dall'indiscreta  capillarità dei social.  Del resto, modernità o meno dei "veicoli sociali",  l’uomo necessita, da sempre,  di un rinforzo ideologico capace di nobilitare le sue azioni. Un compito che viene assolto dalla  morale, dalla religione, dalla tradizione.
Tuttavia, sotto l’aspetto sociologico, le ragioni che spingono le persone a cercarsi (noia, nostalgia, eccetera), sociologicamente parlando possono costituire una motivazione, ma  non possono  favorire la   ricostituzione della relazione:  di  “quella” relazione,  legata a un ciclo vitale e sociale, superato e  chiuso per sempre.
È banale dirlo, ma nelle società, come nelle acque del fiume  della metafora eraclitea, non ci si bagna due volte:  le acque non saranno mai le stesse.  Eppure, per gli uomini prenderne atto, sembra difficile se non addirittura  impossibile… Forse perché  c’è qualcosa di più profondo  dietro la curiosità, la  noia, la nostalgia condizionale,  l’ interesse,  il  rimorso o rimpianto morale, il   senso retroattivo di  giustizia?
Non lo so e non lo voglio sapere:  come sociologo mi attengo alle motivazioni reali ricordate; come uomo, invece,  la questione mi lascia totalmente indifferente.   

Carlo Gambescia    
                       

venerdì 22 maggio 2020

  Libertà  avvilita  a risorsa politica
Limiti e disastri del trasformismo


In questi giorni la  destra   sembra  aver riscoperto il valore della libertà individuale, mentre la sinistra  pare tuttora    schierata  in modo compatto (o quasi)  dalla parte  di una logica dell’obbedienza. Probabilmente, il fatto che  in questi  mesi così complicati  la sinistra sia stata  al governo e la destra all’opposizione aiuta a capire   la tempistica del differente  allineamento politico.  Se la destra fosse stata al governo avrebbe optato per l’obbedienza, al contrario una sinistra all’opposizione avrebbe invitato alla disobbedienza civile. Si chiama trasformismo politico, vecchia malattia italiana, che già una volta uccise  la democrazia liberale.
In realtà, nella fase per così dire più cruenta del “confinamento” collettivo, pensiamo  in particolare al mese di marzo (ma anche quasi tutto aprile), destra e sinistra, culturalmente parlando,  hanno  subito, senza aprire bocca, le  misure liberticide introdotte dal Governo Conte.   
Gli italiani, impauriti,  rinchiusi in casa,   hanno dovuto  subire un gigantesco martellamento politico-mediatico. I rari intellettuali e politici  che hanno osato muovere critiche  sono stati liquidati come figure   lunatiche ed eccentriche, mosse da idee complottiste,  comunque impolitiche.  
Ora però che  il ciclo epidemico sembra essersi esaurito,  la destra  rimprovera alla sinistra  gli   eccessi  dei quali però  la destra è  stata silenziosa  complice.
Una figura esemplare di questo doppio gioco, ai danni delle libertà civili degli italiani, è  ben compendiata da Luca Zaia, Governatore del Veneto, il quale, improvvisamente,  tra la fine di aprile e l’inizio di maggio si è  tramutato  - semplificando -  da inflessibile  secondino in libertario a tutto tondo.
Disordini psichici?  No,  Zaia, ovviamente con tonalità proprie in tempi mediocri,  è un politico molto abile, capace di fiutare la direzione del vento e così precedere nelle scelte politiche gli stessi compagni di partito. Sicché, appena ha intuito che il ciclo epidemico volgeva al termine,  si è  subito tramutato in difensore delle libertà civili.

La  capacità di  carpire,  magari   solo un minuto prima degli altri politici,  i mutamenti di situazione,  consente di durare  nel tempo, ovviamente rinunciando a qualsiasi vincolo di coerenza. Per contro,  il Governatore della Lombardia,  Attilio Fontana,  sembra invece restato  vittima  della sua ridotta  capacità di adattamento ai mutamenti di situazione politica. Al contrario di Zaia,  Fontana pare tenere  in gran contro la coerenza politica. Il che, quanto più una situazione è fluida,  come nel caso degli effetti politici di ricaduta della  “curva epidemica”,  tanto più  si rischia di trasformarsi nel  bersaglio ideale  di coloro che invece, molto più “abilmente” ,  navigano a vista.   
Un   altro rabdomante, ma a sinistra,  è  Vincenzo  De Luca, Governatore della Campania, abilissimo nel cambiare rapidamente  posizione in base  alle scelte dell’avversario, catapultando le accuse ricevute  sugli  avversari,  spiazzati dall’improvviso rovesciamento di fronte e dal suo  spirito sardonico, assai apprezzato, pare, dagli elettori.          
Come si può  capire, il  gioco delle parti tra destra e sinistra, soprattutto a proposito delle  grandi questioni di libertà, sulle quali, in una democrazia liberale  non si dovrebbe mai  scherzare, può aprire  al  porta al peggiore avventurismo politico:  un tipo di mentalità che nella libertà non scorge qualcosa di sacro, di transpolitico, comune alla destra come alla sinistra, modernamente intese in chiave liberale, ma solo  una risorsa politica come un’altra, da sacrificare alla conquista e  conservazione del  potere.  Tutto ciò  si chiama, ripetiamo, trasformismo.
E i risultati, purtroppo, sono sotto gli occhi di tutti.

                                                                                  Carlo Gambescia                                                                                                                                                        

giovedì 21 maggio 2020

La Movida e la libertà dell’Occidente
Basta con il  paternalismo!


Un segno, certo tra tanti altri, della vitalità dell’Occidente,  quale  voglia di vivere  secondo le scelte individuali, è ben rappresentato  dalla  Movida: dalla  convivialità dell’aperitivo, delle passeggiate, delle chiacchierate con gli amici, insomma da tutto ciò che può rappresentare animazione  e divertimento notturno, tipico soprattutto della città, la cui aria, come si diceva  un tempo rendeva liberi dai feudatari  quei contadini che vi si rifugiavano.  Ecco, la libertà continua ad essere, attraverso la Movida,  lo scopo  sociologico fondamentale  della città.      
Un modo di vivere leggero, di buttarsi alle spalle, per alcune ore,  i problemi quotidiani,  un mondo fatto di battute, ironia e disincanto.  Alla fine degli anni Ottanta  del secolo scorso, Michel Maffesoli,  sociologo francese,  vide  nella  multiforme  “colonizzazione del tempo notturno” da parte dei giovani,  un risposta sociale  capace di creare nuove comunità di vita, non meno valide delle tradizionali,   sulla base non della spada  ma   di un abito, di una pettinatura, di un   lessico amicale: un sistema di abitudini e costumi   in grado  di colmare lo spazio interstiziale tra il tempo del lavoro e  dello studio  e della condizione familiare, magari di tipo  tradizionale.
Piaccia o meno, ma  l’Occidente  è la  vita serale e notturna, soprattutto dei giovani.  E che tra di essi vi siano alcuni  fainéant  non significa che il fenomeno Movida non abbia una sua coerente funzione sociale.  
Ovviamente, uno  stile di vita aperto, dedito  al tirare a far tardi,  non poteva e non può piacere alle componenti sociali, politiche e religiose  arroccate su  visioni del mondo di tipo autoritario e moralistico: concezioni patriarcali e paternalistiche  della vita, incapaci di capire l’importantissima funzione sociale  degli  spazi interstiziali come manifestazione di libertà.  

Del resto, chi scorge  solo doveri,  ai quali educare i giovani il prima possibile, non potrà mai capire. Fortunatamente le società sono intelligenti,  si riproducono, prescindendo dalle convenzioni esistenti, creandone però altre, e così via, adattando e favorendo al tempo stesso  il cambiamento: le società non dormono  mai.       Di conseguenza,  in universi sociali come il  nostro,  dove  è l’individuo a decidere cosa fare del proprio tempo libero, la Movida non può essere cancellata con un paternalistico colpo di spugna.  Dopo secoli di “tempo” scandito dalla clessidra del  prete e del feudatario,  gli individui di oggi, senza alcun  bisogno di coordinarsi,  possono scegliere finalmente  ciò che ritengono sia bene per se stessi: si chiama libertà.  E lo è anche   un aperitivo tra amici.  Sicché  attraverso il tacito tam-tam sociologico della mano invisibile   gli individui si aggregano, senza volerlo, indirettamente,  in tribù della Movida,  pronte a colonizzare il tempo notturno:  un porto franco  libero dallo studio e dal lavoro. Ecco la funzione sociale della Movida: l’organizzazione senza l’organizzazione del tempo libero, altra invenzione, quest’ultima, dei moderni, che  organizza senza la pretesa di  organizzare, non più l’otium di pochi privilegiati,  ma il piacere collettivo, certo più prosaico, di molti. Un’opera sociale e sociologica  di tutto rispetto,  senza ricorrere a imperativi collettivistici di tipo totalitario.      
Sull’universo  ormai antropologizzato ( e socializzato) della Movida si sono però abbattute, come improvvisa tempesta,  le severissime misure anti-epidemiche governative.  
Probabilmente per le nuove  tribù dell’aperitivo si è trattato di qualcosa di innaturale e devastante.  Eppure i giovani,  in modo disciplinato, hanno obbedito.  Un punto, questo, che dovrebbe far riflettere sulla perfetta integrazione esistente nelle nostre società tra tempo libero e tempo di lavoro. 

In qualche modo il Lockdown  è stato inteso dai  giovani quasi come un "normale" prolungamento del tempo di  studio e di lavoro. I  ragazzi hanno dato una grande  prova di maturità,  nonostante, in modo paternalistico,  si  continui a ritenere il contrario, come  il Presidente Conte nell'intervista di oggi  al   "Corriere della Sera".
Come concludere?   Ora  che la famigerata “curva” sembra non essere più tale,  basta con il paternalismo!  Perché prendersela con  giovani?  Che,  giustamente,  dopo mesi di clausura, sono tornati  alle  abitudini di prima?  Valorizzando la Movida, e con essa i valori di libertà  dell’Occidente?

Carlo Gambescia                                 

mercoledì 20 maggio 2020

Il mondo dello spettacolo e il Covid-19
Artisti di Regime?


Uno dei fenomeni culturalmente più interessanti di questi difficili mesi rimanda all’improvviso predominio  di  una cultura dell’autorità, subito largamente maggioritaria, che ha spinto nell’angolo  la   cultura della libertà.      
Un esempio?  Non si capisce perché molte figure pubbliche, le stesse che  prima dell’epidemia  difendevano qualsiasi causa (semplificando) “liberal”,  abbiano invece appoggiato, quasi a prescindere,  le misure autoritarie del Governo Populista.  Ovviamente, la versione più accreditata, veicolata dai  mass  media  resta  quella di un ammirevole impegno civile per difendere provvedimenti “presi per il nostro bene”.  
Insomma, nel giro di pochi giorni,   il massimo del libertarismo si è tramutato nel massimo dell’autoritarismo. Il fenomeno non ha riguardato solo l’Italia, ma l’intero Occidente, e i primi a scendere in campo, spendendosi  in favore del “confinamento”,  sono stati, attori, cantanti, artisti in genere:  le cosiddette élite prive però di un reale potere.  Che in qualche misura  hanno  obbedito, come colte da un riflesso pavloviano, agli ordini non scritti del potere politico. 
Hanno agito allora senza alcuna consapevolezza? In realtà alcuni giorni fa, non ricordiamo bene chi, comunque un noto  cantante italiano, chiedendo un occhio di riguardo, probabilmente fiscale,  per “la categoria”,  ha rivendicato il ruolo svolto, insieme ai suoi colleghi,  durante la crisi, nel  trasmettere un messaggio politico di coesione e collaborazione  a tutti gli italiani  confinati in casa: “Senza di noi   - queste le sue parole,  cito a memoria -  il Governo non ce l’avrebbe fatta”.  
Affermazione  che rimanda alla cosiddetta riscossione dei dividendi sociali. Dei sacrifici affrontati, durante la “guerra al virus”  presentanti  ufficialmente come patriottici, dietro i quali, come pare,  si nascondevano invece non poche  riserve mentali.
La metafora della guerra,  introdotta  dal governo, spiega, come per ogni conflitto,  quel criterio, una volta vinta la guerra, antichissimo criterio, della “spartizione del bottino”, alla quale evidentemente le “élite senza potere” degli artisti desiderano comunque partecipare.
Di qui, evidentemente, la rivendicazione dei meriti dal punto di vista della partecipazione  alla battaglie propagandistiche del  Governo Populista.  Artisti di Regime? Decida il lettore.
Comunque sia, il fatto che  la cultura della libertà, per l’artista contemporaneo valga così poco,  al punto di barattarla, per poche briciole,  lascia veramente perplessi.
Il libertarismo, o meglio pseudo-libertarismo, del mondo dello spettacolo, sempre pronto a firmare manifesti per le più astruse e pittoresche forme di libertà, ha dato prova di non essere assolutamente consapevole del valore della libertà che invece pretende di difendere.
Il che impone una riflessione su quanto le nostre società, a partire dalle élite,  siano realmente liberali. Se in occasione dell'epidemia,  la parte, per antonomasia, più libertaria, quella della cinema, della televisione, delle grandi arene, sembra essere stata  la prima a cedere,  figurarsi il resto...

Carlo Gambescia      
                 

martedì 19 maggio 2020

Su "Linea"  numero  12...

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Norma e normalità, morale e morale
di Carlo Pompei

La norma crea normalità, ma la norma crea anche la normativa, quindi la legge. Essa spesso poggia su principi morali, quindi una morale positiva e non negativa che affossi medesima parola al maschile: il morale. Un popolo demoralizzato non si rialza, neanche se ha a disposizione   [...]





Linea c’è…
di Carlo Gambescia

Se c’è qualcosa di cui “Linea” deve andare fiera,  è lo straordinario lavoro svolto da Carlo Pompei  sui numeri reali del Coronavirus. Vera manna per un  lettore confinato in casa,  travolto o quasi  dalla  megamacchina del giornalismo embedded,  tutto catastrofi e "volemose bene"  [...]
        ***



Gli articoli continuano qui,
su “Linea settimanale” n. 12:
linea.altervista.org/blog/



Si può scaricare gratuitamente.


Buona lettura!





lunedì 18 maggio 2020


“Potete ingannare tutti per qualche tempo e qualcuno per sempre, ma non potete ingannare tutti per sempre”
(Abraham Lincoln) 

Altrimenti detto:
tutti a leggere  il numero 12 di Linea, un settimanale che vi  dice sempre la verità,
scaricabile gratuitamente qui:






Editoriali , articoli,   rubriche e  servizi di
Carlo Pompei, Federico Formica,  Roberto  Pareto, Carlo Gambescia e altri collaboratori



Buona lettura!

domenica 17 maggio 2020

FCA e sindacati  in perfetto accordo sul prestito statale  
Il patto corporativo

Al “patto corporativo” tra gruppi di pressione abbiamo dedicato alcune pagine finali di Passeggiare tra le rovine,  dimostrando in un' ottica comparativa e scientifica che i nostri sistemi sociale e politici  rischiano di morire di spesa pubblica contrattata (e dilapidata) all’arma bianca. 
Un esempio?  La richiesta di una garanzia statale da parte di  FCA  appoggiata dai sindacati sul prestito da 6.3 miliardi…  FCA ha sede all’estero, come è giusto che sia,  scelta di libertà  per ragioni di tasse più basse,  che chi scrive  condivide.   
Quel che invece non  accettiamo è il furbo ripudio della libertà economica per contrattare un prestito con lo stato italiano. Un liberalismo da straccioni…  
Questa gente  rappresenta veramente la rovina del libero mercato, ridotto a opzione, ovviamente se e quando conviene…  Come mostra il perfetto accordo tra FCA e sindacati, un gruppo di  pressione, quest’ultimo,  notoriamente autarchico, che infatti sembra  credere o meglio vuole credere alla storiella che il prestito servirà a difendere il lavoro italiano... Roba da sindacato fascista...    
Se lo stato non regalasse soldi a nessuno,  queste cose non accadrebbero.  Come pure  ne saremmo fuori  se il prelievo fiscale sulle imprese  fosse  più basso in Italia.  Cosa che purtroppo non è.
Già sentiamo la lagna:  quale sarebbe la sorte dei lavoratori, se lo stato rifiutasse l'aiutino? E giù lacrime, con un occhio solo...  
La verità è  che si tratta di  un  duplice  ricatto:  dell'imprenditore  furbastro, liberale a corrente alternata, che vuole  intascare  i soldi pubblici,  e del sindacato parassita, che non si preoccupa  dei tassi stellari, non competitivi,  di un   costo del lavoro al metadone.  Senza dimenticare  gli   effetti  di traslazione  finanziaria  del prestito sul debito pubblico, che andrà a ricadere, in termini di straripante pressione fiscale,  sulle spalle dei cittadini, tutti i cittadini...

Ripetiamo: si chiama patto corporativo, di cui lo stato è garante perché tira fuori il soldi, togliendoli però dalle tasche di tutti cittadini. Insomma, alcuni, i furbi,  si avvantaggiano a spese di altri, gli stupidi...
Il che può  funzionare, seppure in modo costoso, finché il Pil  cresce. Appena però  la produzione cala, e la torta si fa più piccola, il sistema non funziona più: perché le fette si fanno sempre più sottili.  
Eppure, come sta accadendo, i gruppi di pressione, fingendo di non capire,  non  rinunciano al dessert (a dire il vero, neppure alle altre portate): costi quel che costi. Sicché il patto corporativo  si trasforma in una specie di nodo scorsoio che lentamente  toglie il respiro alla società  fino a farla  morire per mancanza d’aria…
C’è un rimedio? Sì,  libera concorrenza  e lotta legislativa agli oligopoli  non necessari,  perché  a danno dei consumatori.  Ad esempio,  il costo delle  autovetture FCA in Italia (ma anche in Europa) non è concorrenziale.   
O comunque sia,  stop ai  finanziamenti pubblici di qualsiasi genere: imprese e sindacati si rimettano al giudizio dei mercati.  Già però sentiamo i “sindacalisti”: gli eventuali licenziamenti? Che si fa?  
Un Pil  crescente  produce  sempre nuovi posti di lavoro.  E di conseguenza in un sistema non governato da patti corporativi, trovare lavoro diventa la cosa più facile del mondo...
Pecchiamo di ottimismo?   D’accordo.  Allora  non restano che due strade: patto corporativo fino all’autodistruzione o trasformazione del patto corporativo in corporativismo fascista vero e proprio. Però anch’esso,  come prova la storia, conduce alla rovina.   
Certo, dimenticavamo, resta l’ipotesi del glorioso cammino verso il luminoso socialismo, reale o meno. Auguri… 

Carlo Gambescia
                                             

                      

sabato 16 maggio 2020

Liberalismo vs Costruttivismo
Una interessante nota di Massimo Maraviglia ( e la mia replica)


                                

Caro Carlo, 
Nel tuo articolo (*) viene tratteggiata una importante linea di demarcazione politica tra una prospettiva costruttivista - che culmina nella pretesa di ricostruire l'intera società degli uomini sulla base dell'individuazione di un Bene astratto, in nome del quale si prescinde da ciò che le persone considerano bene per sé - e una contraria al costruttivismo, identificata nel liberalismo.
Leggendo il tuo intervento Carlo Gambescia   - di livello elevatissimo, come lo sono sempre i tuoi - mi veniva in mente Edmund Burke e la sua critica alla rivoluzione francese. Poi, per associazione, sono passato ai grandi pensatori controrivoluzionari e ho notato che essi, da punti di vista non certamente liberali, hanno pure combattuto il costruttivismo rivoluzionario.
Anzi, diciamo che il tratto fondamentale di questi pensatori è la convinzione che la monarchia assoluta sia quella forma “normale” di governo che, garantendo la pace, può lasciare che la società sviluppi il più liberamente possibile le sue potenzialità. Perché “normale”? Perché confermata dall’esperienza storica. Come Burke aveva di fronte a sé la tradizione liberale - che, prima di affermarsi, aveva prodotto una guerra civile e il taglio di qualche testa - De Maistre e Donoso Cortés avevano in mente la tradizione continentale di una monarchia non certo innocente quanto a guerre e devastazioni, ma ai loro occhi sviluppatasi proprio secondo quella logica di lenti e secolari aggiustamenti che ne facevano il regime meglio funzionante nella "realtà".
Sempre ai loro occhi il liberalismo, con la sua ingegneria costituzionale e la sua separazione dei poteri, doveva apparire un'assurda forma di costruttivismo, il costruttivismo di coloro che, da un punto di vista borghese e in nome di diritti dalla formulazione astratta, rifiutavano la naturale propensione delle società ad affidare a un certo gruppo di uomini il comando e ad uno solo, il re, l'ultima istanza decisionale. Tutto normale: c'è un potere sociale dell'aristocrazia e un potere politico della monarchia, il tutto garantito dalla cornice di legittimazione offerta dall'autorità religiosa della Chiesa.
Quest'ultima "giustamente" si scandalizza per eresie come la libertà di espressione, di stampa e di religione: cose appunto giustificate da una ragione astrattamente neutrale, ma che poi, concretamente, significano che non si adora più il vero Dio, ci si ribella alla sua giustizia e al fatto "naturale" che ogni autorità proviene da Lui...di qui al Terrore, la strada è brevissima...
Quale novità è dunque mai questa di un potere separato in tre organi, di un legislativo dove si discute e basta, di una Chiesa spogliata della sua maestà, e di un re che, udite udite, regna ma non governa??? Uno dei nostri realisti (in tutti i sensi) controrivoluzionari, dando uno sguardo sulla storia, direbbe - ha detto - che una volta aperta la porta al "costruttivismo" liberale, la via verso quelli democratici e socialisti è ormai tracciata e diventa molto difficile trovare strade alternative.
Ovviamente .... relata refero e ambasciator non porta pena ...
Un abbraccio,

Massimo Maraviglia


Caro Massimo,
trovo le tue osservazioni molto sottili, congrue e interessanti. 
In effetti, quale pensiero politico è  totalmente indenne dal costruttivismo? La politica, in quanto tale,  oltre che pensiero è azione, quindi trasformazione delle idee in istituzioni.  
Il punto vero però  è come intendere  questo  processo di trasformazione.  
Ora, da un punto di vista sostanziale,  sociologico,  a prescindere insomma  dalle etichette politiche,   Burke, De Maistre, Donoso,  hanno la stessa visione della dinamica sociale, come esito  di un naturale sviluppo delle istituzioni, Però mentre in Burke (via Hume, come alcuni studiosi ritengono), le istituzioni sono frutto di un’esperienza indotta da interazioni umane  non finalizzate ( quindi istituzioni quale  esito non intenzionale di una specie di provvidenza  intrasociale), in De Maistre e Donoso, dietro  le istituzioni vi sarebbe sempre, per così dire,  lo zampino della provvidenza divina, un fattore  extrasociale. Differenza che non è da poco,  perché  tra  due piani: immanente e trascendente. Detto altrimenti: per  Burke le istituzioni sono un prodotto dell’esperienza, qualcosa di storico, per De Maistre e Donoso della tradizione, qualcosa di astorico (che  - concedo  -  si fa storia, eccetera).
Ora se è vero, che il costituzionalismo (solo in seguito definito liberale, soprattutto nel Novecento, certo con qualche anticipazione, anche importante,  ottocentesca…)  è una forma di costruttivismo,  lo è come  qualcosa che viene dopo e non prima del processo sociale. 
Ripeto: l’esperienza si forma storicamente, quindi è un fattore storico,  la tradizione invece è metastorica, pur incarnandosi eccetera.  Pertanto il costituzionalismo liberale è un prodotto del (suo) tempo,  che non è venuto prima ma dopo secolari  sommovimenti:  a far tempo, per darsi un minimo sindacale di termine a quo,  dalle guerre di religione e dalle rivoluzioni inglesi, americane e francese. Attenzione: sommovimenti storici  - è agli atti -  che erano liberali senza saperlo. Per contro,  la monarchia, con la sua natura divina, secondo il pensiero controrivoluzionario, era invece lì da sempre.
Pertanto, riguardo ai pensatori citati, ci troviamo dinanzi a due forme di critica del costruttivismo dai differenti fondamenti cognitivi.
Ciò non significa negare la natura costruttivista del costituzionalismo,  ma soltanto ricordare che viene “dopo”. E in quel “dopo”  c’è una visione della dinamica sociale che aprirà all’interno del pensiero liberale ( che come tale si costituisce solo alla fine del ciclo rivoluzionario) una riflessione sul ruolo politico del liberalismo nella gestione dei processi sociali che vedrà  delinearsi posizioni differenti, archiche, micro-archiche, an-archiche, macro-archiche, quindi anticostruttiviste e costruttiviste. Nel quadro però di una migliore aderenza, in particolare del liberalismo archico e micro-archico,  come scrivevo ieri, ai processi sociali come dinamica interattiva e afinalistica (quanto al concepimento intenzionale delle istituzioni) tra individui.

Ricambio l’abbraccio,


Carlo Gambescia