martedì 30 settembre 2014

Una breve (ma utilissima) storia del rapporto tra giustizia e politica
  “Manettaro” avvisato, mezzo salvato...
di Teodoro Klitsche de la Grange




L’indagine giudiziaria a carico dei (due) amministratori ENI è tra le più preoccupanti avviate dalla pubblica accusa.
Da quel che si legge sulla stampa, si tratta del pagamento da parte dell’ENI di una consistente tangente a favore di un ministro di un paese africano.
Che il tutto possa essere successo è ovvio; perché anche per chi non avesse visto il bel film di Rosi sul caso Mattei, il fatto che per estrarre petrolio, occorra “ungere” i governanti dei paesi produttori, è cosa che non sorprende. Anzi la notizia – in senso giornalistico – sarebbe che non fosse capitato.
Molti si lamentano dell’invadenza del terzo potere: talvolta le lagnanze sono fondate ma, per lo più, pubblici ministeri e giudici non fanno che il proprio mestiere di perseguire i reati.
Se un comportamento, anche se opportuno (nel senso della conformità all’interesse generale) è un reato, i giudici hanno il dovere di perseguirlo. Se, di converso, il comportamento è opportuno, nel senso cennato, va realizzato anche se è un reato.
La teologia politica cristiana con la doppia morale (diversa per chi governa e chi è governato) e la dottrina della Ragion di Stato sono state le premesse i presupposti e l’attuazione di tale distinzione. I cui precetti fondamentali sono per la politica salus rei publicae suprema lex; per la giustizia fiat iustitia pereat mundus. Ma ovviamente, dato che lo Stato è uno, e bisogna coordinare principi così diversi, anzi antitetici, diversi sono stati i sistemi.
All’inizio dello Stato moderno il problema non si poneva. Montesquieu descriveva la distinzione dei poteri, grosso modo così, il principe fa delle leggi, e corregge o abroga quelle esistenti (potere legislativo). In base al potere esecutivo, fa la pace o la guerra, invita o riceve delle ambascerie, garantisce la sicurezza, previene le invasioni. In base al terzo lo Stato punisce i crimini, o giudica le liti dei privati. Quest’ultimo potere sarà chiamato il potere giudiziario, e l’altro, semplicemente, potere esecutivo dello Stato.
Ma data la concentrazione dei poteri e l’irresponsabilità del monarca (e di fatto dei suoi funzionari) di occasioni di frizione ce n’erano poche.
Con lo sviluppo dello Stato moderno il problema però si poneva; ed era risolto sia con le deroghe alla giurisdizione (ad es. l’ “atto politico”) sia con la giustizia politica; peraltro la dilatazione dei compiti (e delle strutture) dello Stato faceva sì che attività che prima non potevano produrre conflitti (perché non pubbliche e non d’interesse pubblico) sono diventate campo di battaglia. In uno Stato minimo, e quindi con compiti ridotti, la produzione e il commercio di beni o servizi ora “pubblici” (nel senso cennato), sarebbe stato affare privato e del pari il pagamento di “tangenti” per ottenerli o fornirli.
Per lo Stato “sociale” il problema si presenta quindi maggiorato. D’altra parte se è vero che l’istituzione-Stato ha per compito principale di tutelare l’esistenza politica, cioè l’essere della comunità, ha anche quello di provvedere al benessere, inteso come mantenimento di un decoroso stile di vita; pertanto non può – neppure lo Stato minimo – disinteressarsi delle condizioni che lo consentono.
Ciò stante che l’ENI provveda all’approvvigionamento di gran parte del petrolio consumato, e che l’Ilva e Finmeccanica siano tra le maggiori imprese nei rispettivi settori, non è indifferente per il benessere degli italiani.
Se processi ancorché giuridicamente fondati e neppure contrari a criteri di giustizia mettessero in pericolo – o creassero danni – al sistema Italia, sarebbe, anzi è dovere della politica, prendere delle misure, anche di carattere eccezionale per assicurare l’ordinata esistenza (e buona esistenza) comunitaria.
Perché il petrolio è indispensabile oggi per la vita economico-sociale; così come le entrate – anche dall’estero – assicurate dalla (residua) grande industria; e le regole sono importanti, ma presuppongono di applicarsi ad un organismo vitale, e in buona salute. Quello che l’Italia appare sempre meno.

Teodoro Klitsche de la Grange

Teodoro Klitsche de la Grange è  avvocato, giurista, direttore del trimestrale di cultura politica“Behemoth" (http://www.behemoth.it/ ). Tra i suoi libri: Lo specchio infranto (1998), Il salto di Rodi (1999), Il Doppio Stato (2001), L'apologia della cattiveria (2003), L'inferno dell'intellettuale (2007), Dove va lo Stato? (2009),  Funzionarismo (2013) 

lunedì 29 settembre 2014

Il dibattito sul Jobs act
Renzi dice cose di sinistra 
e la destra pure…



Al di là di  tutte le chiacchiere  che si fanno  sul Jobs act,  va sottolineato  un fatto.  Renzi  a “ Che Tempo  fa”  ha detto una cosa di sinistra - certo,  inzuccherandola -   ma decisamente di sinistra: «L’imprenditore non è uno cattivo, deve avere diritto di lasciare a casa un lavoratore ma lo Stato no».    
Esiste in Italia, al di la delle  sparate elettorali, una destra capace di dire cose di destra? Durissime, da un punto di vista sociale, ma di destra?  No. Una destra  in grado di far notare a  Renzi, quando dice cose sinistra,  come ieri sera,   che al disoccupato  non  deve pensarci lo Stato ( e quindi i contribuenti) ma  i sindacati, le casse professionali,  le assicurazioni private ed eventualmente (se se la sentono) le amministrazioni locali (di sinistra): lo Stato deve rimanere neutrale e rinunciare a qualsiasi funzione “provvidenziale”.  Parliamo di quella mission  redistributiva alla Robin Hood,  tipicamente di sinistra, (togliere al presunto ricco per dare al presunto povero),  che, come è noto,  finisce sempre per risolversi  in tasse, tasse, tasse e ancora tasse...   
E invece nessuna reazione.  Quindi la vera domanda è: esiste in Italia una destra capace di distinguere tra senso dello Stato,  come ad esempio  senso del decoro delle istituzioni (si pensi solo a come oggi il cittadino viene trattato da impiegati pubblici, poliziotti, magistrati, medici di base e ospedalieri)  e lo  statalismo, soprattutto economico dei finanziamenti a pioggia, in nome di presunti diritti inventati - per farla breve -  dai socialdemocratici? E pagati profumatamente dal contribuente? Ripetiamo,  no.  La famigerata rivoluzione liberale di Berlusconi è  tuttora, e  giustamente,  oggetto di risate… Di più:  gli ex democristiani, gli  ex socialisti gli  ex missini, dentro o fuori Forza Italia,  fanno a gara   nel  promettere tutto a tutti, pur di “acchiappare” voti…       
Concludendo, un  modesto consiglio  agli elettori conservatori e moderati:   fino a quando la destra dirà cose di sinistra,  inutile votarla.  


Carlo Gambescia       

sabato 27 settembre 2014

iPhone Day in  Italia, tra  file e attese
 C’è coda e coda…


Le solite anime moraleggianti, di regola della sinistra e della destra estreme,  ironizzano   sulle code  davanti ai negozi per acquistare  iPhone 6… Si fanno anche “gesti goliardici”, in attesa di tirare fuori manganello, olio di ricino e confino -  non date retta -  sempre a portata di mano…   
Il punto  è  semplice:  tutti questi signori (si fa per dire) odiano il mercato, la libertà economica e, cosa  fondamentale,  la libertà di scelta.  Perché pretendono di sapere a menadito ciò che sia bene  per ogni individuo.  Insomma, sono quelli  del solidarismo  per legge e dello stato come braccio armato  del bontà umana… La “loro” s’intende.
Eppure in Unione Sovietica, paradiso dei comunisti,  dove il  mercato non c’era, le file si facevano lo stesso. Per mangiare però.  E non per comprare liberamente  un gadget tecnologico. Anche  nell’Italia fascista, da alcuni addirittura rimpianta,  ci si metteva in coda,  ma in divisa:  per andare a combattere in Africa, Spagna e in seguito, dovunque ordinasse Hitler. Per morire o tornare privi di gambe.
Si dirà,  sono argomenti vecchi…  Certo, come il  desiderio di libertà  insito in ogni uomo. Che si concreta nel diritto di  fare le proprie scelte, grandi  o  piccole che siano.  
Anche se fatica sprecata, qualcuno  tenti di  spiegarlo  a comunisti e fascisti.

Carlo Gambescia   

venerdì 26 settembre 2014

Risposte difficili se non impossibili...
L’Italia è un paese moderno?





Per rispondere si dovrebbe prima fornire una definizione condivisa del concetto di modernità. Cosa difficilissima. Proviamoci, semplificando (magari troppo).
Che cos’è la modernità? In sintesi:  individualismo come libertà, per così dire, esposta alle intemperie della vita. Libertà nuda e cruda. E gli italiani sono profondamente individualisti. Di riflesso, si potrebbero considerare moderni.  
Abbiamo usato il condizionale, perché l’individualismo  made in Italy  è particolare:  non è un individualismo rigoroso, dichiarato, a rischio e quindi fragile  perché  contrario a privilegi e raccomandazioni. Allora che cos’è? Si tratta di un individualismo protetto e contraddittorio,  nel senso che si vuole al tempo stesso il massimo della protezione sociale (quindi dei legami) e il massimo della libertà individuale ( come totale indipendenza dagli altri). In qualche misura è una libertà di tipo feudale: ha bisogno di un livello superiore da cui dipendere e al tempo stesso di un livello inferiore su cui comandare.   
Insomma, libertà limitata, non assoluta.  Protetta, non vulnerabile.  Che  naviga tra il servilismo e la licenza.   Libertà degli antichi e non dei moderni? Neppure, perché priva delle forti venature politiche che distinguevano la libertà nella polis. Per farla breve:  non viviamo in un  paese moderno né  antico… E in fondo nemmeno feudale, perché dal feudalesimo, secondo alcuni studiosi, nacque la libertà dei moderni.  Ma, allora,  l'Italia che cos’è?       

Carlo Gambescia      

giovedì 25 settembre 2014


O rivolta esistenziale…O il nulla
La filosofia del filugello
di Giuliano Borghi 




Sovranità personale e patrimoniale dei Cittadini, Sovranità monetaria, Cittadinanza, Reddito di Cittadinanza, Poli-archia e Poli-crazia, economia del dono, formazione del Ceto Politico… sono sicuramente, tra altre, le guise necessarie per poter vivere in una giusta res-publica.
Ma la condizione sufficiente, imprescindibile, che garantisce la qualità della vita pubblica è la presenza e la vigenza nella Città del cittadino responsabile. Se un tale tipo di cittadino, e di uomo, dovesse mancare, o non prevalere, sarebbe la stessa Città ad oscurarsi, nonostante i cambiamenti d’organizzazione politica che potrebbero essere stati attuati.
Nell’attuale temperie politico-esistenziale, sembra, piuttosto, che continui ad aleggiare sulla Città, come ombra di Banco, lo spettro di ben altro tipo umano.
Quello dell’homo vulgaris, quello dell’uomo dalla “razza sfuggente”, amante indefesso della bétise che se soit mise à penser, cioè il rovescio radicale del Cittadino responsabile.
La labilità, l’evasività, la allegra irresponsabilità, la disinvolta scorrettezza, l’insipiente distrazione fioriscono di continuo nella banalità della vita quotidiana. Si è diffuso il mentire, spesso il mentire gratuitamente, senza uno scopo particolare. Spesso, persone che ci si illudeva di conoscere come amici, e soprattutto come uomini aventi una certa tenuta interna, appaiono irriconoscibili.
Sembrano caduti nell’oblio la capacità di raccoglimento, il silenzio, lo stato di pausa e di calma nel quale si ritrova se stessi, in se stessi essendo rientrati.
Quasi ogni individuo trova “ naturale” di essere solo un “avente diritto” e se gli si rinfaccia una simile impudente pretesa reagisce con un insofferenza vicina all’isteria.
L’odierna “società civile”, purtroppo, non appare migliore della “casta politica” che attualmente la governa. La “casta politica” non è altro che lo specchio deformato della “società civile”.
Nella Città è chiaramente manifesta l’assenza di una classe politica dotata di carattere, di prestigio e di un qualche rango esistenziale. I movimenti e i partiti di oggi appaiono dimentichi della polis e dei suoi politoi, e si esauriscono con individui,  che sono assai spesso uomini di paglia al servizio di interessi finanziari, industriali o sindacali, attenti solamente a mercanteggiare e a patteggiare, pur di assicurarsi un potere personale tanto effimero, quanto vuoto di una qualsiasi idea superiore.
I “rappresentanti” sono quello che sono, perché tali sono i “rappresentati”.
E, così, ad un inesistente Cittadino responsabile fa riscontro un altrettanto inesistente Politico responsabile.
Stiamo soffocando in un afrore di intristente nichilismo, dove quello che rimane è solo il piagnisteo o la rassegnazione, in una fatalistica attesa di una finis Europae.
Che fare?......... È ancora possibile agire?........
Il filugello, per fortuna, non ha mai smesso di  tessere la sua seta.
E i Trenta tiranni  si sono ritirati dal mondo, ma sono pronti a ritornare, se lo si vuole.
Allora, andiamo a cercarli!!!


Giuliano Borghi

Giuliano Borghi, docente di filosofia politica nelle università di Roma e Teramo. Ha pubblicato studi su Evola, Platone, Nietzsche, il pensiero tragico e la filosofia della crisi.  Si occupa in particolare dei rapporti tra pensiero politico ed economico dal punto di vista dell'antropologia filosofica.

mercoledì 24 settembre 2014

Articolo 18 e dintorni
I sacri totem di Bersani




«L'articolo 18 non è un simbolo, ha certo un aspetto simbolico, e non si può buttarlo via. Grazie all'art.18  il lavoro non è solo salario, è la tua dignità, la tua libertà, il tuo diritto alla trasformazione di questo mondo». Così l'ex segretario del Pd Pier Luigi Bersani a “Dimartedì”  su La7.
Che dire? Purissima  archeologia sindacale e socialista.  Dietro la quale si nasconde il timore della vecchia guardia del Pci e di qualche paelodemocristano di sinistra come la Bindi  di essere  fatti fuori per sempre dalla politica che decide.  La questione dell’articolo 18, tecnicamemente parlando,  è puramente marginale. Infatti riguarda pochissime imprese e  poco più della metà  dei lavoratori dipendenti.  Insomma, non è un problema così  diffuso e sentito, come si vuole far credere. Al riguardo si veda  l’ottimo articolo di  Lidia Baratta (*). Quindi perché non lasciare certe sparate a quel trotskista di Landini? 
Ciò però  non significa che in linea principio non siano necessarie tutele. Il problema  è  quello del come.  In  Italia, dove la produzione legislativa ha raggiunto punte impressionanti, rallentando i processi economici, non occorrono  nuove leggi,  bensì  una magistratura civile (attenzione, non strettamente del lavoro) capace in poco tempo, sulla base di  principi generali ( e non di leggi speciali, come ad esempio lo Statuto dei Lavoratori), di rendere giustizia a chi  liberamente vi si rivolga.   
Per farla breve,  a Bersani andrebbe ricordato che i magistrati dovrebbero lavorare di  più. Ci ascolterà.  Non crediamo. Perché  in Italia,  la sinistra  socialcattocomunista  oltre al totem del  sindacato ha quello dei giudici...

Carlo Gambescia  



martedì 23 settembre 2014

Responsabilità civile dei giudici: lo scaricabarile tra Stato e Magistratura
E io (cittadino) pago...

di Teodoro Klitsche de la Grange



Il problema della responsabilità civile dei magistrati appare affrontato nel teatrino della politica in un aspetto parziale ma che è il più rilevante in una mentalità sanzionatoria; e la cui componente trascurata – di converso – è la più interessante.
Il punto apparente, oggetto di scontro politico, è se il magistrato debba risarcire direttamente – e di tasca propria (anche se limitata) il danneggiato – ovvero se a indennizzarlo debba provvedere lo Stato. L’argomento che spesso emerge, ma è molto più presupposto che esternato, è che non sia giusto che lo Stato (cioè i contribuenti) debbano pagare per atti e comportamenti di funzionari sprovveduti, negligenti e infedeli.
In realtà, se si dilata il campo d’osservazione anche nel tempo, la questione del chi debba tenere indenne il danneggiato è secondaria, e quasi sempre risolta in modo diverso: cioè che l’obbligo di risarcire sia dell’istituzione e non del dipendente della stessa.
Veniamo al primo aspetto: ciò che interessa di più è che il danneggiato sia risarcito: risulta che nel periodo di vigenza della legge attuale (quasi venticinque anni), di domande di risarcimento dei cittadini ne siano state accolte quattro. Una percentuale così infinitesima rispetto al contenzioso, fa pensare che l’infallibilità del soglio di Pietro sia stata infusa nella giustizia italiana.
Sul punto la Corte di giustizia dell’Unione Europea (tra i tanti) ha ritenuto e statuito in diverse sentenze che la normativa italiana era lesiva dei diritti dei cittadini UE (italiani compresi) e che andava cambiata. È questa la ragione delle pronunce – e della non conformità della legislazione ai principi (anche della costituzione vigente).
E in ciò si adeguava allo spirito costituzionalista (liberale) e del common sense: ciò che realmente interessa non è tanto che il funzionario negligente paghi, ma soprattutto che sia risarcito il danneggiato, che dall’atto o dal comportamento del magistrato è stato leso nei propri diritti (molto spesso garantiti da costituzioni e trattati internazionali).
Quanto al secondo aspetto, occorre rifarsi da un lato al droit commun, cioè, con qualche approssimazione (da non poter approfondire in un articolo), a quello privato.
Se un’azienda, una società ma anche un ente pubblico svolge un’attività e lede diritti di chicchessia per errore dei propri dipendenti è l’ente (o la società) a rispondere civilmente e non i collaboratori dello stesso. Peraltro tale principio era stato da secoli esteso agli atti dei funzionari pubblici, se lesivi di diritti dei sudditi; pagava il fisco, cioè la “cassa” del monarca.
Tale principio, con qualche rarissima eccezione (quali per l’appunto la responsabilità dei magistrati e dei conservatori dei registri immobiliari e tanti aggiustamenti) rimase sostanzialmente invariato fino alla Costituzione vigente.
Nella quale con l’art. 28 fu deciso di istituire il principio della responsabilità (diretta) dei pubblici funzionari. L’on. Codacci Pisanelli alla costituente rilevava che si trattava di una novità: e aveva pienamente ragione perché la costituzione trasformava in principio generale ciò che era tassativamente disposto per poche classi di dipendenti pubblici. Ma, continuava a permanere comunque la responsabilità dell’Ente (e quindi dello Stato), anzi “rafforzata”.
La Legge 117/1988 attualmente vigente, emanata dopo  il referendum abrogativo delle norme sulla responsabilità dei magistrati, confondendo, con tutta probabilità volutamente, tra responsabilità del magistrato e quella dello Stato ha realizzato l’obiettivo  di non consentire il risarcimento dei danni (solo quattro casi in più di vent’anni!!) usando le garanzie istituzionali della magistratura al fine di non far pagare a nessuno i risarcimenti che, secondo i principi generali, avrebbe dovuto pagare lo Stato, come qualsiasi istituzione pubblica e privata.
Per questo ben vengano norme che – in sostanza – ritornano alla responsabilità del fisco: il quale così si addosserà, come qualsiasi soggetto economico, il relativo rischio.
Sarà poi il soggetto-Stato a valutare – anche in ciò come da principi generali - se nell’attività del funzionario ricorrano i presupposti per eventuali sanzioni. Ma dei diritti dei cittadini, conferma la recita in corso, non cale a nessuno dei commedianti: storia vecchia e tante volte ripetuta.

Teodoro Klitsche de la Grange 

Teodoro Klitsche de la Grange è  avvocato, giurista, direttore del trimestrale di cultura politica“Behemoth" (http://www.behemoth.it/ ). Tra i suoi libri: Lo specchio infranto (1998), Il salto di Rodi (1999), Il Doppio Stato (2001), L'apologia della cattiveria (2003), L'inferno dell'intellettuale (2007), Dove va lo Stato? (2009),  Funzionarismo (2013)


                                                                                   

lunedì 22 settembre 2014

Il  bel "gesto" (poco tecnico) del romanista Florenzi...
Viva la mamma? 
No, viva la nonna




Ora i soliti dietrologi a comando, parleranno di sceneggiata, magari con sponsor… In realtà, il  bel "gesto" (poco tecnico)  di Florenzi,  corso dopo il gol ad abbracciare la nonna  in tribuna è di quelli che commuovono.  E fanno sperare.  In che cosa?  In un’Italia diversa, non buonista per legge, ma buona per sentimenti. Spontaneamente. Senza calcoli.  Senza bava alla bocca, a destra come a sinistra.   E lo diciamo da laziali storici.  Ovviamente, mai antiromanisti. Anzi, molto  rispettosi dei cugini, soprattutto quando giocano magnificamente. L’antismo (essere contro qualcuno o qualcosa, a prescindere),  su queste pagine  criticato  tante volte, vale in politica,  ma anche nello sport. Il tifo aggressivo è roba da  frustrati.  Quindi forza Roma, forza Florenzi… Viva le nonne, viva i nipoti e viva pure  l’Italia. Buona settimana a tutti.

Carlo Gambescia             

giovedì 11 settembre 2014

A proposito del discorso di Obama
Gli Stati Uniti sono un impero?


Non siamo esperti di politica estera ma "l'Obama's Speech on Isis" è  veramente  deludente.  Possono bastare  retorica a buon mercato, bombe dall’alto, aiuti umanitari  per contrastare il fenomeno  jihadista? (*)  No.  Purtroppo,  il principale problema della politica estera americana resta quello del rifiuto di  ragionare a lunga scadenza.  O se si vuole, come un impero. Ci spieghiamo meglio. Probabilmente, negli ultimi  cinquant’anni gli unici presidenti capaci di orientare la politica estera,  senza pensare ( o almeno solo) alla  rielezione,  sono stati  Nixon e Reagan.  Certo, il nemico, rappresentato dalla sfida sovietica, era ben visibile e compatto. Senza dimenticare - cosa molto importante -  che Nixon, ebbe come consigliere politico un personaggio  del calibro di Kissinger.  
Oggi invece gli Stati Uniti,  al di là delle difficoltà oggettive insite nella lotta al terrorismo (per la sua diffusività) e della mediocrità degli uomini al comando (a partire da Obama), sembrano non  capire la  necessità dei  tempi lunghi e quindi di politiche di largo respiro sotto il profilo militare.  Politiche,  da non confondere, con il bellicismo usa e getta dei due  Bush  e di Clinton.
Perciò si può sostenere che il “problema Isis”, contrariamente a quanto di solito si osserva, discende da un interventismo americano a termine, ideologicamente slegato, militarmente contraddittorio, punteggiato di frasi a effetto e, ripetiamo,  privo di vero  respiro imperiale.
Un impero, se tale, non minaccia,  invia subito le sue legioni. E le tiene sul campo fino alla vittoria totale, costi quel costi.  Ma gli Stati Uniti sono un impero?

Carlo Gambescia               



mercoledì 10 settembre 2014

A pensar male...
Renzi e Nietzsche




Ieri mentre leggevamo un noioso articolo su Nietzsche,  ci siamo chiesti cosa penserebbe di Matteo Renzi  il filosofo che sognava il Superuomo.  Di sicuro,  male.  Dal momento che non è un mistero la condanna nieztschiana  di liberalismo e socialismo: ideologie “ridicole e ottimiste”, in particolare quest’ultimo,  negatore del sale superomistico della vita,  la diseguaglianza tra gli uomini.
Insomma,  Renzi da buon liberalsocialista  non avrebbe scampo con un  fustigatore del riformismo, che, tristemente, come ricorda  Anacleto Verrecchia,  una volta caduto vittima della follia (altro che leggende!),  finì per  nutrirsi dei propri escrementi.
Torniamo a Renzi.  Per quale motivo abbiamo scomodato Nietzsche?  Perché, piaccia o meno,  alle sue fonti, per alcuni molto inquinate,  hanno attinto  e attingono   fascisti, nazisti e anticapitalisti di varia osservanza. Insomma, i nemici giurati del liberalismo e del socialismo democratico.  Naturalmente, una cosa è studiare il filosofo Nietzsche, un’altra distillarne sapientemente il veleno antidemocratico. Quindi distinzioni vanno fatte. Però, basta farsi un giretto, anche su Fb,  per capire subito  come il disprezzo verso Renzi  si nutra di  grappe, più o meno forti,   in stile “tentazione fascista” (Kunnas)…
Il che non  implica, da parte nostra, alcuna difesa delle politiche dell’ex sindaco fiorentino:  Renzi è un  diabolico tassatore, come del resto gli italiani stanno scoprendo…   Però, un conto è criticare la politica economica di un Presidente del Consiglio, un altro  liquidarlo come servo di un sistema, addirittura già condannato dalla storia. Rispolverando, magari  anche inconsapevolmente,  il concetto  nietzschiano di  décadence…  Dopo di che, come escludere che il passo successivo non possa essere quello di tirare fuori l’artiglieria pesante della volontà di potenza  politicamente armata?  
Abbiamo esagerato?  Forse. Tuttavia, a pensar male…


Carlo Gambescia    

martedì 9 settembre 2014

Destra e dintorni
Putiniani (e non) d’Italia



E così, nella destra in rotta,  mancava soltanto “il Giornale” ultraputiniano. Povero Montanelli, lui che dei russi (comunisti o meno) diffidava, dichiarandosi incapace di scrutare nell’ anima slava…  Di qui, le tante e  febbrili  discussioni con Bettiza, Barbieri (Frane), Revel.
Come si spiega  questa  svolta? Che poi non è  del tutto  tale,  perché  da tempo il  foglio milanese accarezza Putin  & Co.  Eurasisti  annidati in redazione?  Improvvisa passione per una geopolitica spostata ad Est?   No, più probabilmente buoni affari  (fatti e da fare) tra il Cavaliere, Putin e il variegato e assetato  mondo che li circonda.  Di qui, la posizione supina del  quotidiano  di famiglia.
Inutile scandalizzarsi, i  giornali si fanno con i soldi. E perciò - come per altri editori  (e direttori)  - la  mano che nutre non può essere presa a morsi…
A dire il vero, sul conflitto russo-ucraino,  la destra è divisa.   A partire da nipotini del Duce, sospesi tra Oriente e Occidente,  fino a quei liberali sospettosi  che hanno letto   la  Democrazia in America di  Tocqueville,  pensatore che  preconizzava un grande futuro per la Russia, ma anche per gli Stati Uniti…   Solo i postdemocristiani,  centristi per tradizione,  preferiscono non esporsi più di tanto, forse  in attesa di schierarsi con il vincitore.
Quel che però infastidisce più di ogni altra cosa  è l’eurasismo isterico di coloro che, per una serie di ragioni (anticapitalismo e antiamericanismo in primis),  ritengono che  un'alleanza con la Russia  sia la soluzione di tutti i problemi italiani ed europei.   Va da sé   che  lo stesso  giudizio   può   valere per certo  occidentalismo altrettanto isterico e servile.  Insomma,  non basta cambiare padrone di casa. E poi c'è padrone e padrone...  L’anima americana, tutto sommato,  è  trasparente, forse troppo,  mentre quella russa è enigmatica, indecifrabile. Fantasie  letterarie? Probabilmente. Però Montanelli, da buon viaggiatore, laico conoscitore di uomini  e appassionato lettore di romanzi russi, ne era più che certo. E  di lui ci fidiamo.   


Carlo Gambescia  

lunedì 8 settembre 2014

Caro Ferrara,
il tempo delle Crociate 
è finito da un pezzo….




Crociate Ferrara


Ha fatto rumore l’ editoriale di  Giuliano Ferrara, dove con truculenza vociana si invita il pavido Occidente ad usare verso i seguaci dell' Isis reloaded  “una violenza incomparabilmente superiore”: perché, a detta del direttore del “Foglio, sarebbe in corso  una “guerra di religione” (*).
Ora, Ferrara, nonostante cerchi sempre  mostrare il viso dell’arme, soffre, per dirla con Carl Schmitt, di romanticismo politico acuto…  In Italia, ce ne sono altri di casi simili, purtroppo:  Franco Cardini e Massimo Fini ad esempio.  
Cosa vogliamo dire?  Che il romanticismo politico è la peggiore forma di impoliticità, quella dell’armiamoci e partite.  Nessuno nega che sia in corso una “guerra di religione” e che contro il nemico si debba usare  una “violenza incomparabilmente superiore” . Sono banalità neppure superiori… L’errore -  tipico dei romantici -   è quello di  mescolare le due cose insieme:  religione e uso della forza… Semplificando:  si romanza  la guerra (oggi si parlerebbe di narrazioni o contro-narrazioni) cercando di coinvolgere emotivamente gli interlocutori,  e poi si vedrà... (Schmitt, scrive, criticandolo, di "occasionalismo politico").    
Il mix  non funziona, perché, come ha mostrato il Novecento (secolo che ha  subito i terribili  effetti di ricaduta del romanticismo dix-neuvième siècle),  rivela al nemico le  intenzioni che  si hanno e crea un clima  interno di aspettative eroiche,  che  si sgonfia appena il numero dei caduti comincia a crescere. Dopo di che la gestione della guerra - e del dopoguerra -  si trasforma in questione di ordine pubblico.
Perciò,  come  il  buon realismo politico  impone,  la violenza va usata, ma in silenzio  e “laicamente”, senza invocare  bagni di sangue  nell’acquasantiera. Li invoca il nemico?  Ne subirà le conseguenze militari. Tutto qui.  
Certo,  non è sbagliato rilevare,  come sottolinea  Ferrara,  quanto  l’Occidente sia diviso, indifferente e  imbelle.  Il che però indica  a maggior ragione  solo un fatto:  che la guerra, soprattutto quella "al terrorismo",  va gestita chirurgicamente e da pochi e preparati professionisti.  Il tempo delle Crociate è finito da un pezzo.

Carlo Gambescia 

venerdì 5 settembre 2014

Secondo l’Oms ci si suicida troppo...
Vietato morire





Certe notizie stupiscono. Ma fino a un certo punto. I fatti. Secondo L’Oms nel  mondo  ci si suicida troppo (uno ogni quaranta secondi). Perciò, come si legge,  andrebbero messe in cantiere strategie preventive, ovviamente, pubbliche (*).
Insomma,  non si può  ingrassare, non si può fumare,  non si può bere… E d'ora in poi chiunque  si stuferà di vivere,  dovrà per forza essere  salvato e  recuperato alla “vita”.  
Roba da pazzi.  La proprietà del corpo individuale è un principio fondamentale della società liberale. Insomma, un diritto intoccabile. Deve essere il  singolo, in base alle sue vedute,  a decidere cosa fare della propria vita.  Anche se  può apparire riprovevole dal punto di vista religioso, il suicidio, quando deciso e attuato liberamente - quindi senza intervento di terzi -   è  un diritto di libertà: piaccia o meno, dal  punto di vista della teoria liberale dei diritti si tratta di un fatto consequenziale.   E invece queste società liberali proprio non sono. Perché  non lasciano decidere l'individuo.  Diciamo che nella migliore delle ipotesi sono società liberalsocialiste, perché  vogliono regolamentare tutto e il suo contrario. Ovviamente,  come si dichiara, sempre  per il bene dell’individuo,   in  nome però  di  un  principio  paternalistico. Quale? Semplificando: “Io Stato so quel che è bene per te Cittadino”…  Qualche esempio?  Si pensi da un lato, alla battaglia per il suicidio assistito, magari, come  si auspica,   con  il pagamento di un  piccolo ticket al Servizio Sanitario Nazionale, naturalmente, dopo approvazione delle  commissioni deputate a vagliare le richieste individuali di suicidio. E dall’altro lato, alla preoccupazione dell’OMS per l’alto numero di suicidi, da contrastare puntando - la ricetta welfarista è nota -  su finanziamenti pubblici anche qui a commissioni, dedite però al recupero sociale  degli aspiranti suicidi…   
Insomma, non c'è  più scampo:  tasse e burocrazia su tasse e burocrazia.  Per vivere come per morire l'ultima decisione spetta sempre allo Stato Padre-Padrone.       

Carlo Gambescia              
  


giovedì 4 settembre 2014

L’Islam radicale  e i suoi amici



All’ottima recensione di Alesssandro Litta Modignani (*) dedicata a tre libri che, come egli prova, sembrano ignorare l’oggettiva pericolosità del fondamentalismo islamico,  facciamo seguire una nostra riflessione sui diversi atteggiamenti culturali assunti in Europa e negli  Stati Uniti verso questo fenomeno politico.  Procederemo per categorizzazioni concettuali,  lasciando poi al lettore il compito di riempire le caselle con nomi e cognomi.
In primo luogo,  gli antisemiti, naturali alleati dell’Islam radicale, un universo quest’ultimo dove, a differenza del mondo occidentale duramente segnato dalla Shoah,  non si fanno tante differenze   tra sionismo ed  ebraismo.  E che quindi è sempre pronto ad accogliere gli antisemiti a braccia aperte.
In secondo luogo,  gli anti-occidentalisti ( di regola anticapitalisti e  antiamericani)  che scorgono negli islamisti (per dirla alla francese) i nemici dei propri nemici. Quindi possibili alleati.
In terzo luogo,  i cattolici utopisti che  credono nella possibilità di “convertire” al pacifismo  i falchi dell’una e dell’altra parte.
Le tre categorie indicate attraversano gli schieramenti politici,  veleggiando tra l'estrema destra e l'estrema sinistra, senza trascurare il centro, come dire, pauperista-evangelico.
In quarto e ultimo  luogo,  va  ricordata  certa  intelligenza liberal (non liberale), che, come nel caso dei cattolici utopisti, crede nella  superiore forza maieutica del dialogo. Si tratta di una posizione da "anime comunicatrici"  che discende dalla  retorica della riduzione della politica a puro  e semplice discorso pubblico.
Naturalmente le quattro “categorie”  indicate  nella realtà tendono a mescolarsi, anche se, ad esempio,  l’intelligenza liberal  alla compagnia di  antisemiti e  anti-occidentalisti preferisce  quella dei cattolici utopisti.  Come, per contro, antisemiti, anti-occidentalisti, cattolici utopisti (quando provenienti dalla destra postfascista), dividono alcuni punti in comune, a cominciare dall’ipotesi complottista sui disegni segreti, come si spesso si legge,  del Satana Americano.
Va però  sottolineato  che sul piano concreto si tratta di posizioni che non hanno molto  seguito tra le gente comune. E che i media, errando,  spesso per eccesso di filo-occidentalismo, silenziano o strumentalizzano.
Comunque sia,  in caso di rivolgimenti politici interni, le quattro categorie indicate,  potrebbero rappresentare - prescindendo dalla qualità dei politici e intellettuali che ora le incarnano (non eccelsa a dire il vero) -  l’alveo culturale  di un riorientamento geopolitico della nazioni che fanno parte dell’Occidente.   Svolta ideologica e politica -  ma  questo è un nostro giudizio di valore -  che  non è assolutamente  auspicabile.  

Carlo Gambescia




mercoledì 3 settembre 2014

Europa,  
ritorno della  “Grande Politica”?

    


Ucraina e Medio Oriente: il politico, come la verità, si vendica sempre.   Sembra ritornare  la “Grande Politica”  fatta di confronti militari, conquiste, imperi, regni, repubbliche  e... califfati.  E l’ Europa?  Riuscirà l’Ue, stretta, fra l’ indeciso alleato americano,  l’ "ex partner" russo (primo scivolone della Mogherini) in cerca di rivalse  e l' impetuoso  fronte islamista,   inaugurare una  politica estera degna di questo nome?   Difficile dire.
Andrebbero prima definiti i nostri interessi: da quale parte stare? Dopo di che si dovrebbe puntare sulla supremazia militare, nella  clausewitziana consapevolezza che la guerra  sarà sempre la continuazione della politica con altri mezzi.  Ma prima di tutto,  serve  un forte esecutivo europeo, capace di prendere, in tempi ragionevoli,  decisioni importanti, anche sul piano politico-militare. La Nato è un’alleanza esterna,  sicuramente importante, per alcuni imposta,  che, comunque sia, dovrebbe puntare su un contraltare militare, genuinamente europeo.
Nell’assenza di  queste condizioni, l’Ue continuerà ad andare a rimorchio  dell’oscillante politica Usa e della forza, sempre mutevole, degli eventi.  E a  subire la “grande politica”. Degli altri.

Carlo Gambescia      


lunedì 1 settembre 2014

Gli 80 euro di Renzi
Il cavallo non beve
  


Ormai è assodato,  il bonus fiscale  di  80 euro  voluto da Renzi non ha  prodotto l’auspicata ripartenza  della domanda privata. Peggio,  dopo la  recessione è giunta, per la prima volta dal 1959, la deflazione... I prezzi scendono, perché consumatori impoveriti non  spendono  in attesa che i prezzi calino ulteriormente, innescando così un infernale meccanismo al ribasso che può fare solo male all’economia.
Che fare “quando il cavallo”, anche se portato all’acqua, “non vuole bere", per dirla con Keynes ? La ricetta della sinistra è quella  di puntare sulla domanda pubblica: più investimenti  più tasse.  Il che  spiega l’accento posto da Renzi, in sede europea,  sulla flessibilità di bilancio.  E la destra che fa? C’è una ricetta?  A dire il vero sì. E quale?  Tagliare radicalmente imposte e tasse e non di  giocare con detrazioni e  bonus Irpef.  Tecnicamente, si chiama politica dell’offerta.  
Purtroppo, anche in sede europea, il confronto economico, è totalmente monopolizzato dalla sinistra nelle sue diverse sfumature.  E si  agita  -  vanamente -   intorno a pure questioni di bilancio: quelle di aprire o chiudere i cordoni della borsa statale.  Guai però a  parlare di  tagli alla pressione fiscale…  
E la destra si uniforma.    Ad esempio, nel dibattito innescatosi in questi giorni sulla deflazione, l’idea del collegamento  tra  deflazione e  pressione  fiscale elevata  non è  stata presa  in considerazione.  
Per contro, l’Agenda economica è  fissata da una  sinistra  tuttora legata agli schemi keynesiani della politica della domanda pubblica. Pensavamo che Renzi fosse diverso. E invece no.  Come del resto prova il decreto  “sblocca Italia”: solo  finanziamenti a pioggia…   E che il consumatore si arrangi e soprattutto - si veda il  “Sole24 Ore” di oggi -   si prepari a nuovi balzelli  a valanga. E la destra che fa?  Approva (con Lupi) o tace ( con Berlusconi).  Che malinconia.