martedì 31 gennaio 2006


La lezione di Pitirim A. Sorokin
Che cos'è l'amore per un laico?




La prima enciclica di Benedetto XVI, "Deus Caritas est" (Dio è amore) ha fatto rumore. Ma non più di tanto. Certo, i media ne hanno riferito e discusso. Ma quel che è emerso, al di là del valore o meno delle tesi del papa (l'amore quale comunione divino-umana di agape ed eros), è certa incapacità del mondo laico di confrontarsi con un tema decisivo come quello dell'essenza dell'amore, e soprattutto di capire il valore dei suoi effetti di ricaduta sul piano sociologico.
Si dia pure per acquisito, come ha osservato Emanuele Severino sul "Corriere della Sera" (26-1-05), che se dio non esiste è inutile discutere di un legame necessario tra amore divino (agapico) e amore umano ("erotico"). Dopo di che si dovrebbe però indicare un percorso antropologico, sociologico, insomma umano, che consenta di spiegare, e possibilmente "incrementare" collettivamente l'amore tra gli uomini in termini positivi, laici e non religiosi. Cosa che invece non è avvenuta. Oggi tra i laici purtroppo prevale il disincanto: né col papa, né con nessun altro... Soprattutto dopo la fine delle grandi utopie collettiviste e totalitarie. Agapiche? Erotiche? E' difficile rispondere.
E' tuttavia interessante accennare alla parabola di Pitirim A. Sorokin, un russo-americano, nemico di ogni forma di totalitarismo, probabilmente il solo grande sociologo del Novecento che abbia dedicato lunghi anni di studio alle origini, forme e "implementazione" dell'amore tra gli uomini, fino al punto di rovinarsi la reputazione accademica. Dal momento che alle sue ricerche, sviluppatesi in particolare negli anni Cinquanta del Novecento, gli altri sociologi americani, replicarono irridendolo, o addirittura considerandolo una specie di sciamano: fu completamento emarginato e ridotto a macchietta. Sorokin invece riteneva coraggiosamente che si potesse, una volta individuate le sue origini fisiologiche, psicologiche, sociologiche, accrescere la "produzione " di amore tra e per gli uomini. Il che, negli anni della caccia alle streghe comuniste, fu giudicato folle, e persino pericoloso. Sorokin fu indagato dalla FBI di Hoover.
E' vero che certe sue pagine, per eccesso di spirito profetico, ricordano quelle di Auguste Comte. Ma, nonostante ciò, meritano ancora oggi di essere lette. Perché Sorokin pur riconoscendo il fondamento "positivo" dell'amore (come eros), comprese, che dietro la sua forza travolgente, c'era e c'è qualcosa di inspiegabile: una energia, che i cattolici riconducono all'agape divina, ma che anche chi non crede, non può comunque non ricondurre a qualcosa di immenso che sovrasta l'uomo. Una "energia misteriosa", come la chiamava Sorokin, che va comunque indagata in termini positivi, e senza remore di alcun genere, ma davanti alla quale non si può non restare, magari solo per un attimo, immobili, in silenzio e ammirazione, come di fronte ai grandi prodigi della natura.
Ecco, nel dibattito italiano sull'enciclica papale, è mancata proprio la capacità laica di meravigliarsi, davanti alla "spettacolarità" dell'uomo che ama l'altro, e l'aiuta fino al punto di sacrificarsi per lui. "Spettacolo" del resto meravigliosamente "rappresentato" ogni giorno, da attori molto speciali: i movimenti del volontariato, attivi in tutto il mondo. Purtroppo quel che manca oggi è la volontà di credere fino in fondo nella forza trasformatrice e creativa dell'amore... Si considera l'altruismo un fenomeno "residuale". Che viene dopo, se "avanza" qualcosa...
E di riflesso è così venuta meno in ambito laico anche la volontà di discutere dell'amore in termini sorokiniani, creativi: come di una forza che, anche a prescindere da ogni intervento o collegamento metafisico o divino, possa comunque, se debitamente studiata e poi "riprodotta", giocare un ruolo nella trasformazione in senso spirituale, ma anche sociologico, delle nostre vite.
Su questo argomento Sorokin scrisse un libro importante: The Ways and Power of Love. Types, Factors, and Techniques of Moral Transformation , Beacon Press, Boston 1954, pp.564 (trad. it. Città Nuova 2005). Chi voglia poi approfondirne più in generale il pensiero non può non leggere P.A. Sorokin, La crisi del nostro tempo, Arianna Editrice, Casalecchio (Bo) 2000 (commerciale@macroedizioni.it) e, chiedendo scusa per l'autocitazione, anche il mio studio, Invito alla lettura di Sorokin, Edizioni Settimo Sigillo, Roma 2002, pp. 160 (ordini@libreriaeuropa.it). 

Carlo Gambescia

lunedì 30 gennaio 2006

Per farla finita con Keynes




E' in corso sul "Manifesto" un dibattito sul programma economico del centrosinistra e in particolare sul ruolo della spesa pubblica e delle politiche di deficit. Quel che stupisce è la perdurante dipendenza teorica da Keynes (anche involontaria, come nel caso dell'intervento di ieri di Giovanni Mazzetti, "Apologia del deficit", p. 9) che finisce per viziare il dibattito e le varie soluzioni proposte.
Sulle quali è inutile perciò soffermarsi. Quel che invece va approfondito, una volta per tutte, è il perché di questa dipendenza da Keynes.
Ora, che Keynes sia il maggiore economista del XX secolo è un dato scontato. E pure che sia stato oggetto di studio, ricerca e formazione per numerosi economisti di sinistra (basti pensare al ruolo svolto in Italia da economisti riformisti come Caffè , ma anche in ambito cattolico da studiosi come Vito e Lombardini). Come del resto è acquisito che le politiche di deficit spending siano alle origini dello straordinario sviluppo economico del secondo dopoguerra.
E questi tre fattori, almeno a grandi linee, dovrebbero essere più che sufficienti, davanti ai disastri economici sovietici e delle pianificazioni burocratiche, per spiegare la "sudditanza"...
Tuttavia, spesso si dimentica che teoria keynesiana, poi confluita in raffinati modelli econometrici e in pratiche di governo liberal-laburiste e cattolico-sociali, in realtà è basata su un' idea di sviluppo economico illimitato, oggi assolutamente improponibile, soprattutto da parte di chi si appresta a governare l'Italia nei prossimi cinque anni. E che, cosa non secondaria, le (tante) critiche a Keynes, come le (poche) approvazioni, provengono da ambienti liberisti e liberali. E più in particolare discendono dalla controversia anni Settanta-Ottanta del Novecento tra monetaristi e non monetaristi sul controllo dei valori e volumi monetari; una polemica tutta interna al conflitto tra liberali-liberisti e liberali-keynesiani . Come dire, una "guerra di famiglia".
Pertanto la sinistra, anche se in modo forbito come Mazzetti (autore tra l'altro di ottimi libri), discutendo Keynes, continua a muoversi nell'ambito di un dibattito, che ha recepito e discute tematiche interne e soprattutto nate "a" e imposte "dalla" destra. E in questo senso fa il gioco, come si diceva una volta, del "sistema". Dal momento che oggi i concetti di sviluppo e moneta vanno radicalmente ripensati all'interno di un progetto politico postcapitalista.
Pertanto dividersi a sinistra, tra chi sostiene le politiche "lacrime e sangue" (antikeynesiane) e chi, come Mazzetti, politiche, pur interessanti, di "redistribuzione generale del lavoro" basate comunque sull'idea di sviluppo economico crescente (non propriamente keynesiane ma neanche anti, e in quest'ultimo senso la dice lunga la compiaciuta citazione di Mazzetti dalle keneysiane "Prospettive economiche per i nostri nipoti"...), non serve assolutamente a nulla.
L'idea di "lavorare meno, lavorare tutti", implica un' idea sviluppo economico crescente e comunque di lungo periodo (e con quali effetti di ricaduta ambientali ed ecologici?), che appunto non sarebbe dispiaciuta a Keynes, perché in linea con la conservazione ( o se si preferisce imbalsamazione, la vecchia idea milliana di stato stazionario) del capitalismo: il migliore dei mondi possibili, secondo Keynes.
Perciò il punto non è quello di lavorare "poco" lavorare tutti, ma mettere in condizione, chi non voglia lavorare (nel senso tradizionale del termine) di dedicarsi ad altre attività creative, e di sua scelta. Questa è la vera liberazione, anche in senso marxiano.

Ma per far questo è necessario fuoriuscire dal capitalismo. E soprattutto, farla finita con Keynes.

                                                                                                                         Carlo Gambescia

domenica 29 gennaio 2006

I "due corpi" di Berlusconi e Draghi




Come pensa Draghi di risolvere i propri conflitti di interesse? Stando a quel che è trapelato, ricorrendo al meccanismo del "blind trust"e alle "astensioni decisionali".
Come Berlusconi durante il Consiglio dei Ministri (così dicono...), anche Draghi, a sua volta, si allontanerà "fisicamente" quando il suo Consiglio riunito, dovrà decidere su questioni che possano far sorgere possibili conflitti di interessi tra l'ex altissimo funzionario di Goldman Sachs e l'attuale Governatore della Banca d'Italia?
Sotto questo aspetto è come se Berlusconi e Draghi avessero "due corpi": un corpo materiale (quello da Homo Oeconomicus: del grande imprenditore e del grande consulente, dediti a conseguire il proprio bene privato, come singoli che rappresentano solo se stessi) e un corpo spirituale (quello da Homo Politicus: del grande uomo di Stato e del Governatore, tesi a difendere il bene pubblico, come uomini pubblici che rappresentano la comunità) .
Si tratta di puro pensiero magico. Una forma di credenza che può essere avvicinata all'antica teoria, ancora viva all'inizio dell'età moderna, dei due "Corpi del Re": quello materiale che muore e si corrompe, e quello spirituale che vive per sempre, rinnovando e accrescendo il potere dei discendenti.
Con una differenza: l'idea dei corpi "privati e pubblici" e del "conflitto di interessi" tra di essi, è un'idea tipicamente liberale e tutta moderna. Dal momento che dà per scontata la divisione della società in una sfera privata e in una sfera pubblica. Un'idea sconosciuta in precedenza, e che si è sviluppata come prolungamento dell'individualismo giuridico ed economico moderni. Per il liberalismo, che ne costituisce la maschera politica, c'è l'uomo privato dedito alla famiglia e al proprio lavoro e c'è l'uomo pubblico rivolto alla politica, e dunque al bene pubblico. E' come se l'uomo avesse due corpi: un corpo privato, materiale, dedito al benessere individuale; un corpo pubblico rivolto al benessere collettivo.
L'errore è sociologico: non esistono due sfere. Come mostra la storia in generale, e quella del capitalismo in particolare: l'uomo vive immerso in un sistema di valori, relazioni e interessi economici e politici. Un vero groviglio di passioni e interessi che condiziona le sue decisioni. Soprattutto in una società "complessa" come l'attuale. Perciò uscire da una sala riunioni, non significa assolutamente non riuscire a influenzare, chi comunque dipende, o ha rapporti di vario genere ( psicologici, professionali, ambientali), con colui che si astiene "fisicamente".
In questo modo il pensiero, oltre che erroneo, si fa addirittura magico, dal momento che si ritiene, che il "corpo pubblico" di Draghi, o di Berlusconi, invece di corrompersi con quello "privato" possa come nel film "Ghost", restare sulla "terra", come fantasma, e proteggere i cittadini. 

Carlo Gambescia

venerdì 27 gennaio 2006


La vittoria di Hamas
Il principio maggioritario




Che cos'è la democrazia? Governo di maggioranze onnipotenti o rispetto di minoranze ridotte, divise e incerte? Il principio maggioritario è una pura formula? Nel senso che chi ha la maggioranza dei voti ha il diritto di governare, anche contro le minoranze? O è anche contenuto? Insomma, chi governa ha l'obbligo di garantire che le minoranze, un giorno, diventate maggioranze, possano a loro volta governare?
La vera democrazia -  qualcuno dice non a torto -   liberale  è entrambe le cose.
Sembra porre un problema di questo tipo la vittoria di Hamas, il movimento integralista palestinese, come è definito dai media. Con 76 seggi su 43, e più del 50% dei voti ha acquisito il diritto di governare. E sull'onda di una larga partecipazione popolare alle elezioni (pare abbia votato il 77% degli aventi diritto). Ora, sorvolando, per un momento, sulle sue crude tesi di "politica estera" (la "distruzione" di Israele), va ammesso che Hamas è una forza politica come del resto Fatah, democraticamente eletta, e che ha le carte in regola (voti, radicamento sociale, quadri, esperienza organizzativa ) per governare fino a prova contraria, democraticamente. E che sicuramente non imprigionerà, o metterà a tacere, i membri dell'opposizione, come già mostrano, le immediate, e molto "occidentali" dimissioni di Abu Ala, attuale premier. Comunque sia, per capire la natura "democratica" o meno di Hamas, è necessario attendere che governi.
Perché il vero punto è proprio questo, la democrazia, resta una pura e semplice formula elettorale maggioritaria, solo se viene disgiunta dal reale esercizio del potere. L'unica sede, dove è possibile verificare la natura democratica (per quel che concerne il rispetto delle minoranze) di una forza politica: il maggioritario da formula si fa contenuto solo attraverso l'attività di governo. La democrazia, insomma, è innanzitutto questione di "pratica politica" interna agli Stati.
La cosa interessante è che al partito Hamas, non si rimprovera la presunta non democraticità nel senso classico (rispetto delle minoranze interne, palestinesi) ma la politica estera (la dichiarazione di puntare alla distruzione di Israele): tesi che col principio maggioritario e il rispetto delle minoranze non ha alcuna relazione
Dal momento che la politica estera, e i rapporti tra stati, non sono regolati dal principio maggioritario (o dal rispetto delle minoranze, altrimenti gli Stati Uniti non avrebbero dovuto attaccare una seconda volta l' Iraq, uno staterello "minore", socialmente e militarmente sfinito, colpevole solo di essere ricco di petrolio), ma purtroppo dai rapporti di forza e dalle alleanze strategiche. In questo senso, contro Hamas, e contro lo stesso sviluppo della democrazia palestinese, viene usato per fini di potenza e strategici, da israeliani, americani e alleati un argomento di politica estera che non ha nulla vedere, con la teoria e la pratica delle democrazia. E che serve solo a rendere più torbide le acque e facilitare, eventuali, soluzioni di forza per il ritorno in Palestina di una "democrazia", allineata a Israele in politica estera, e dunque gradita all'Occidente.

Certo, sarebbe meglio (e anche prudente) che Hamas, togliesse dal suo statuto la frase "incriminata", anche perché alle minacce si finisce sempre per rispondere con altre minacce, e alla forza con altra forza. E la politica dell'occhio per occhio, dente per dente, conduce i popoli, tutti, alla cecità totale. Tuttavia, criticare la vittoria di Hamas, ancora prima che abbia iniziato a governare, significa solo rendere il cammino della democrazia in Medio Oriente e il traguardo di una possibile pace per quei popoli sempre più difficili e lontani. 

Carlo Gambescia

giovedì 26 gennaio 2006


Profili/10
Nicolai Dimitriev Kondratieff



Anche la storia dell'economia ha i suoi "martiri". Il termine può sembrare eccessivo o addirittura retorico, ma Nicolai Dimitriev Kondratieff (1892-1938) appartiene alla non foltissima schiera di economisti non ortodossi che hanno perduto la vita a causa delle proprie idee.
Nasce nella provincia di Kostroma (località a nord di Mosca). Figlio di contadini, militante socialrivoluzionario, intelligentissimo, diviene discepolo del celebre economista M.I. Tugan Baranovski ( studioso al centro di un' importante controversia di fine Ottocento sull'industrializzazione, e sostenitore in polemica coi socialdemocratici, di uno sviluppo graduale dell'economia russa). A 25 anni diventa ministro del governo Kerenskij. Successivamente, viene cooptato dai comunisti, e partecipa alla elaborazione dei primi piani quinquennali. Nel 1924 si reca all'estero (in Germania, Inghilterra, Canada e Stati Uniti), fonda nel 1928 l'istituto moscovita per lo studio della congiuntura economica. Ma di lì poco cade in disgrazia. La sua critica della collettivizzazione delle campagne, e indirettamente dello sviluppo industriale forzato, non piacciono a Stalin che dopo averlo accusato di essere membro di un inesistente "partito contadino", di cui l'economista non poteva non essere l'ideologo. Il "professore dei kulaki", prima viene deportato in Siberia (1930) e poi fucilato nel 1938, all'età di 46 anni.
Kondratieff è importante perché è stato il primo economista a porsi scientificamente, non solo il problema crescita, ma soprattutto della "decadenza economica". La teoria dei cicli che porta il suo nome (e poi ripresa in chiave "sviluppista" da Schumpeter e altri economisti , come Kuznet e Abramovitz) è importante perché introduce un'idea "finita" di capitalismo. Secondo Kondratieff (e ovviamente sulla base dei suoi approfonditi studi statistici) sono individuabili all'interno del capitalismo, studiando il movimento dei prezzi, onde lunghe di durata approssimativa di 50 anni (suddivise internamente in cicli medi, 7-10 anni, cicli brevi, 3-4 anni). Il primo ciclo lungo si svolge dal 1790 al 1850; il secondo dal 1840-50 al 1880-1890; il terzo iniziato nel 1880-1890 era ancora in atto al momento della sua scomparsa. All'interno di ogni "onda lunga" Kondratieff colloca un "punto di inversione, dove il ciclo ascendente lascia il posto a un ciclo discendente. Per il primo periodo il punto di inversione ha luogo attorno al 1810; per il secondo verso 1870.
Secondo Kondratieff, solo ricerche statistiche sempre più accurate, non solo sui prezzi, ma anche su altre variabili, avrebbero potuto dimostrare, la natura finita, o la "finitezza", del capitalismo. Stalin, purtroppo non glielo permise.
Di Kondratieff esiste in lingua italiana un' ottima raccolta dei sui scritti principali (1925-1928): Cicli economici maggiori, a cura di Giorgio Gattei, Cappelli Editore, Bologna 1981 (purtroppo esauritissima). Un altro economista italiano che si è occupato di Kondratieff, o che comunque lo ha utilizzato nelle sue ricerche storiche è Giorgio Ruffolo (in particolare si veda La qualità della vita. Le vie dello sviluppo, Editori Laterza 1990, sopratutto, p. 10). Per ulteriori informazioni bio-bibliografiche, e in particolare sulla fecondità delle intuizioni di Kondratieff, si rinvia a (http://faculty.washington.edu/krumme/207/development/longwaves).

Buona ricerca a tutti. 

Carlo Gambescia

mercoledì 25 gennaio 2006

Il libro della settimana: C.Ocone e N. Urbinati, La libertà e i suoi limiti. Antologia del pensiero liberale, Laterza 2006, pp.271, Euro 18,00 .


http://www.laterza.it/index.php?option=com_laterza&Itemid=99&task=schedalibro&isbn=9788842075172


In tempi in cui tutti si dichiarano liberali è cosa scontata che si pubblichino libri su libri in argomento. E Laterza non poteva non sottrarsi al mainstream. Ecco infatti appena uscita per i suoi tipi un' antologia del pensiero liberale .
Purtroppo, come tutte le antologie, anche la raccolta a cura di Corrado Ocone e Nadia Urbinati, riflette le idiosincrasie degli autori. Infatti già il sottotitolo, "da Filangieri a Bobbio", è tutto un programma: si va da un illuminista a un neoilluminista, escludendo tutti gli autori "liberali", estranei o appena sfiorati dalla marcia trionfale dei "Lumi". Restano perciò fuori dalla raccolta cattolici-liberali come Gioberti, Rosmini, e non sia mai, Del Noce. E lo Sturzo critico degli sprechi dell'economia pubblica. Ma resta fuori anche il versante liberale-hegeliano dei Gentile e degli Omodeo (quest'ultimo antifascista). Per non parlare, come ha notato Carioti sul "Corriere della Sera", della destra liberale (Maranini, Panfilo Gentile, Bruno Leoni, Matteucci), sulla quale il silenzio è totale. A parte Gaetano Mosca...
E' giusto quindi interrogarsi su quale possa essere il senso e il valore scientifico, ma anche informativo, di un'antologia che privilegia oltre agli illuministi italiani, solo autori, certo importanti ma non i soli di parte di liberale , come Cattaneo Gobetti, Salvemini, Carlo Rosselli, Calamandrei, Spinelli e Rossi e ovviamente Bobbio. Su un libro che sostanzialmente è una storia del liberalismo democratico-radicale. O se si preferisce del liberalismo di sinistra.
Il senso dell'operazione culturale è sicuramente ideologico: di ricostruzione di una linea di pensiero liberaldemocratico, finalmente "rispettabile", e fruibile da un sinistra liberal-progressista, o postcomunista, e bisognosa di essere acculturata al nuovo "verbo". Nell'introduzione (attenzione, di un testo pubblicato nella scientificamente prestigiosa "Biblioteca Universale") addirittura si polemizza con Marcello Pera (p. VIII, nota 1), scambiando le Edizioni Laterza per "Diario" di Repubblica.
Certo, le tesi di Pera sono inaccettabili. E inoltre tutti sono liberi ( e dunque anche agli autori) di esprimere le proprie idee sulla storia del liberalismo italiano, ma non rivestendole di scientificità. E qui anche l'editore ha la sua parte di responsabilità.
Di conseguenza l' antologia di Corrado Ocone e Nadia Urbinati non ha alcun valore critico. Né, eventualmente, divulgativo: dal momento che non informa ma deforma.


Carlo Gambescia 

martedì 24 gennaio 2006

Piccoli economisti crescono...





Sul "Corriere Economia"di ieri è apparso a pagina otto un servizio sui "nuovi pivot di Boston". Chi sono? Sono i giovani economisti italiani che studiano al Mit, età media 33 anni. Quelli che un giorno, come titola enfaticamente il "Corriere", "saranno famosi".
La sua lettura è interessante perché spiega, soprattutto "tra le righe", quali sono i criteri di legittimazione accademica, i contenuti degli studi, e infine le aspirazioni dei futuri quadri dirigenti universitari, ma anche bancari, finanziari, politici e imprenditoriali.
In primo luogo, del campione "significativo" offerto al lettori (10 giovani "assistent professor", 7 uomini e 3 donne), solo 1 non ha frequentato la Bocconi. Università privata per eccellenza, nota roccaforte teorica della sintesi neoclassica ( teoria dell'equilibrio economico + frammenti di Keynes, come dire: mercato + lievi e occasionali correttivi, che rendano l'equilibrio di sottoccupazione tollerabile), e dove ancora gli studenti si preparano sul "Manuale" del Samuelson, che ne rappresenta la fondamentale vulgata. Inoltre la formazione bocconiana fa nascere nello studente la consapevolezza di appartenere a una élite, che trova la sua consacrazione (come senso di appartenenza a una classe internazionale e privilegiata di tecnocrati, unici depositari dei segreti dell'economia) proprio nel decisivo periodo di studio al Mit (nella foto), come culmine di un moderno cursus honorum, e punto di partenza per la successiva carriera di "funzionari" del capitale privato.
In secondo luogo, i giovani professori dichiarano di ammirare Franco Modigliani: un keynesiano di destra, premio Nobel, ferreo difensore del capitalismo e ovviamente della sintesi neoclassica, deciso sostenitore delle privatizzazioni e dell'importanza economica di un sistema creditizio completamente privato. Una piccola curiosità per capire il "personaggio" (scomparso nel 2003): nel 2000 Modigliani fu testimonial della campagna pubblicitaria per favorire la vendita degli immobili pubblici italiani, tutta giocata sullo slogan "Un premio per l'economia", accompagnato da foto e firma (R. Ippolito, L'Italia dell'economia. Fatti e protagonisti del 2000 , Editori Laterza 2000, p. 109).
In terzo luogo, come nota (entusiasticamente) l'articolista, i giovani studiosi si occupano solo di "economia micro, neuro-comportamentale, statistico-quantitiva, dei giochi, dei rischi". Insomma, è impossibile trovarne uno che si occupi di economia ecologica, teoria del valore economico, storia dell'economia. Per tutti l'unica realtà da studiare a fondo è quella rappresentata dal mercato, come somma di decisioni individuali, delle quali l'economista deve studiare i meccanismi mentali, i coefficienti di rischio, le serie storiche (ad esempio per quello che riguarda meccanismi e rischi del mercato borsistico). I grandi aggregati, come la spesa pubblica, sono analizzati, ma solo dal punto di vista dei meccanismi monetari e creditizi capaci di favorirne la progressiva riduzione.
Quali conclusioni? I giovani economisti che non studiano in prestigiose università private ( sotto l'occhio attento del capitale privato e dei suoi sacerdoti-docenti), che non condividono la vulgata neoclassica, e soprattutto che non celebrano le privatizzazioni, difficilmente verranno cooptati e faranno carriera.
In questo modo il sistema capitalistico, come del resto ogni altro sistema storico, si autoriproduce sociologicamente, attraverso la formazione di quadri fidati, accuratamente indottrinati, e dunque politicamente "sicuri".
A costo però di ignorare intenzionalmente i grandi problemi ecologici, sociali e politici.

Fino a quando?

Carlo Gambescia 

lunedì 23 gennaio 2006


Sfide e pericoli
Sindacato responsabile?



Il tono di freddezza, o peggio seccato, da parte di politici, media, e in molti casi della stessa gente comune, che ha segnato la vertenza dei metalmeccanici e sta caratterizzando quella dei lavoratori dell'Alitalia merita un'attenta riflessione. Per quale ragione? Perché indica purtroppo che i tempi sono ormai maturi per un decisivo cambiamento, e in peggio, delle normative che regolano relazioni sindacali e contrattuali.
Si tratta di un processo di "revisione" iniziato negli anni Ottanta del Novecento, e portato avanti, per un verso dalle cosiddette rivoluzioni neoliberiste, e per l'altro dalla crescente apertura dei mercati e dalle conseguenti delocalizzazioni economiche e industriali. Questo processo può essere ricondotto nell'alveo di un preciso processo sociologico: quello di una crescente "individualizzazione" del contratto di lavoro, che punta a rendere inutile o vana ogni forma di mediazione e associazionismo sindacale, o se si preferisce di "collettivizzazione" giuridica e istituzionale del lavoro.
E' come se il ciclo capitalistico, dal punto di vista dei rapporti tra capitale e lavoro, stesse di fatto ritornando ai suoi inizi, tra Sette e Ottocento, quando la tutela del lavoratore era praticamente inesistente, o affidata alle (scarse) capacità dei singoli, di "difendersi" da soli. La nascita del sindacalismo, e del diritto contrattuale collettivo del lavoro, ha rappresentato (e rappresenta) una forma di autodifesa sociale dalle pretese aggressive di mercato e capitale. Di conseguenza puntare sull'individualizzazione significa fare un passo indietro.

Sulla grande stampa, anche di centrosinistra, si inizia col criticare il diritto di sciopero, definendo irresponsabile l'opera dei sindacato, e si finisce col giudicarla controproducente, dal momento che, secondo le imprese, punterebbe solo sull'istinto gregario, ed egoistico, dei propri iscritti ( e quello dei "padroni", come si chiamavano una volta, dove è finito?). Insomma, il sindacato buono è il sindacato "responsabile": che dice sempre di sì e non proclama mai sciopero . Di qui il diritto di libertà "dal sindacato", che viene contrabbandato dai media, e non solo di destra, come un'istanza di libertà: il libero diritto di ogni singolo lavoratore ad "autogestirsi". Ma la cosa sospetta, è che sono le stesse organizzazioni dei datori d lavori, attraverso i propri giornali, a parlare in nome dei lavoratori... E in questo senso ci sarebbe un associazionismo buono (quello "padronale") e un associazionismo cattivo (quello sindacale): il vero obiettivo è invece l'eliminazione di ogni forma di contrattazione collettiva e di difesa giuridica del lavoro. O comunque di riproporre uno schema di relazioni lavorative da Prima Rivoluzione Industriale: da un lato lo strapotere dei datori di lavoro e dall'altro l'estrema debolezza dei singoli lavoratori non associati.
Negli ultimi quindici anni, e non solo in Italia, si sono introdotte leggi, che vanno in tale direzione (basti pensare alla normativa sul lavoro flessibile), e proprio in questi giorni, sfruttando le vertenze sindacali in atto si torna chiedere, con tono prepotente, da parte delle associazioni imprenditoriali,un ulteriore passo in avanti verso la privatizzazione dei rapporti di lavoro: contratti locali, aziendali, individuali, previdenza e assistenza personalizzate, premi di produzione ad personam, e (in seguito, di sicuro) divieto di scioperare e di svolgere attività sindacale.
Sarebbe perciò meglio che chi critica gli scioperi, e di riflesso il ruolo del sindacato riflettesse prima sull'intera questione e sui rischi di gettare con l'acqua sporca (certi eccessi sindacali) il bambino (la tutela collettiva dei diritti). O no? 

Carlo Gambescia

giovedì 19 gennaio 2006

Profili/9
Richard Morris Titmuss




Richard Morris Titmuss (1907-1973) è il classico studioso purtroppo noto solo agli "addetti ai lavori", e che invece merita di essere letto da un pubblico più ampio. Inglese, del Bedfordshire, origini modeste, a quindici anni si ritrova capofamiglia, costretto ad abbandonare gli studi. Non conseguirà mai alcun titolo accademico. Negli anni Trenta, tuttavia, i suoi interessi sociali, e la conoscenza da vicino dei fasti e delle miserie dell' economia capitalistica (Titmuss lavorava a quel tempo presso una grande compagnia di gestione di fondi assicurativi privati ), lo spingeranno a studiare, da autodidatta, i grandi problemi sociali. Un libro in particolare, Problems of Social Policy (1950), gli varrà la chiamata alla London School of Economics, fortemente voluta da R.H.Tawney, autore di memorabili studi sulle origini del capitalismo e sulla "società acquisitiva". Titmuss insegnerà alla LSE fino all'anno della sua morte.
Seguiranno libri come Essays on the "Welfare State" (1958), tradotto in italia dalle Edizioni Lavoro con un'ampia introduzione di Massimo Paci (www.edizionilavoro.it), Choice and the Welfare State (1967), Commitment to Welfare State (1968), Income Distribution and Social Change (1970), e l'importantissmo The Gift Relationship from Human Blood to Social Policy (1970, ripubblicato nel 1997 da The New Press <www.thenewpress> a cura di A. Oakley e J. Ashton, con a corredo, saggi che commentano e aggiornano le tesi di Titmuss).
Tuttavia, sarebbe riduttivo definirlo il classico studioso di politiche sociali, "fabiano" e vicino al partito laburista, con forti inclinazioni "stataliste". Titmuss, indubbiamente, non sottovaluta il ruolo dello Stato nelle politiche sociali, ma alla base di queste pone sempre quella solidarietà spontanea che distingue ogni gruppo umano. Se una società teorizza il conflitto e la competizione economica e l'utilitarismo, come valori fondanti, anche il "welfare" non potrà non essere conflittuale, competitivo e utilitaristico. Lo stato deve perciò rispettare le solidarietà naturali (familiari, locali, professionali), e favorirne lo sviluppo come "serbatoio di altruismo e di valori", pur garantendo, soprattutto attraverso lo strumento fiscale-redistributivo e l'onestà e l'impegno dei suoi funzionari, un quadro minimo di eguaglianza sociale e di pari opportunità per tutti. Welfare e solidarietà "dal basso" devono procedere di pari passo. Un equilibrio, certo, non sempre facile da raggiungere.
In The Gift Relationship, con un ricchezza di dati ancora oggi soprendente, Titmuss prova come il sistema delle donazioni di sangue (privatistico e commerciale in America; regolato dallo stato, ma su basi volontaristiche e altruistiche nel Regno Unito) "divida" gli uomini negli Stati Uniti e invece li unisca in Gran Bretagna. Messa così, la tesi può sembrare banale, ma Titmuss, la suffraga ricostruendo nei minimi dettagli sociologici, quella che forse è la forma di dono più autentica: il dono della vita attraverso la trasmissione del sangue (anche in tempi, come questi, in cui infuria l' AIDS; si legga nell'edizione del 1997, il bel saggio in argomento di V. Berridige, pp. 15-40). Un libro insomma, che chiunque studi il fenomeno del dono, deve leggere.

Su Titmuss si veda in particolare, soprattutto per gli aspetti teorici del suo pensiero, il recente volume a cura di P. Alcock, H. Glennerster, A. Oakley, A. Sinfield, Welfare and Wellbeing: Richard Titmuss's Contribution to Social Policy, The Policy Press 2001, pp. 368 (www.policypress.org.uk/).

Carlo Gambescia

mercoledì 18 gennaio 2006


Lo scaffale delle riviste/3




Va subito segnalato "Le Monde diplomatique il manifesto", n. 1, gennaio 2006 (www.ilmanifesto.it): si legga, con l'attenzione che merita, di Martine Bulard, "Progresso e diseguaglianze. La Cina dai due volti" (pp. 10-11); articolo che approfondisce i motivi del fascino esercitato dalla cultura teconogica occidentale sulla dirigenza cinese. Scrive la Bulard "per l'élite del Pcc, in parte formata all'estero (...) il riferimento culturale rimane quello delle università occidentali: di certo non il massimo per quanto riguarda la creatività in campo sociale" (p.11).
Notevole anche il fascicolo appena uscito di "Eléments", n. 119, Hiver 2005-2006 (www.labyrinte.fr), che si distingue in particolare per lungo dossier curato da Alain de Benoist su "Le salut par la décroissance?" (pp. 28-39). Di de Benoist si ricorda il recente volume Comunità e decrescita (www.ariannaeditrice.it), recensito su questo blog.
"Studi Culturali", n.2/2005 (www.studiculturali.it), edita da il Mulino, si segnala invece per un intelligente recupero di un testo di Frantz Fanon, "Tunisi 1959: un esperimento di ospedalizzazione diurna in psichiatria" (pp. 291-311), introdotto da Paolo Francesco Peloso. Un'occasione per ripensare non solo il rapporto tra malattie mentali e istituzioni psichiatriche, ma anche quello tra individuo, costruzione identitaria e società. Notevoli anche le osservazioni di Fanon sul rapporto tra famiglia, malato e ospedalizzazione diurna.
Si veda su "Catholica" , n.90, Hiver 2005-2006 (www.catholica.presse.fr), l'interessante articolo di François Vauthier, "Les révelateurs postmodernes de l'exigence morale. Intéret et limites d'une réintegration de la morale en sociologie" (pp. 97-104). Di rilievo anche il "dossier" su pluralismo e frammentazione sociale (pp. 4-28). Si segnala infine l'avvincente dialogo tra Danilo Castellano e Giuseppe Grasso "De l'Italie catholique à l' italie laique " (pp. 78-87).
Eccellente, come sempre, il nuovo fascicolo di "Trasgressioni", n. 40, gennaio-agosto 2005 (www.diorama.it), con saggi di Alain de Benoist, Alberto Guasco, Claude Karnoouh. In particolare si veda l'originale dossier a cura di Helena Norberg-Hodge, Todd Merrifield, Steven Gorelick, "Il cibo e la politica. Dal locale al globale" (pp. 123-135).
Si segnala infine sull'ultimo fascicolo della "Rassegna italiana di Sociologia", n. 4, 2005 (www.mulino.it) l'interessante focus, che va ben oltre i limiti disciplinari, "Sociologia della religione" (pp. 579-683), con testi di Franco Garelli, Roberto Marchisio, Renzo Guolo (autore di un documentato saggio sul " Campo religioso musulmano in Italia", pp. 631-657) e Stefania Palmisano.

Buona lettura a tutti.

Carlo Gambescia

martedì 17 gennaio 2006

Democrazia e scandali
Politica per tutti?



In alcuni può suscitare stupore, ma alcuni secoli di aspirazioni e pratica democratica moderna hanno appena intaccato il rivestimento del nucleo profondo, sociologico, della politica. Come del resto risulta evidente dal susseguirsi in Italia, ma anche altrove, di scandali politici ed economici.
Ad esempio, le polemiche giornalistiche e politiche di questi giorni, condotte a colpi di "rivelazioni", hanno messo in luce una rete di contatti (fatta di incontri, consultazioni, scambi di favori, connivenze), politicamente trasversale.
Va però premesso che quel che sta avvenendo, e non solo in Italia, non deve assolutamente condurre al rifiuto della democrazia (il qualunquistico "sono tutti uguali"), come idea e pratica: la politica è e deve restare patrimonio di tutti. Ma ciò non deve impedire un'analisi oggettiva della situazione e del problema.
Ora, la principale costante sociologica della politica è quella di scindersi in due livelli: un livello pubblico e un livello privato. Nelle democrazie in particolare il livello pubblico corrisponde a quello dei discorsi, dei dibattiti e delle elezioni, mentre quello privato corrisponde a quello delle decisioni concrete. Dal momento che le società in genere, e quelle complesse in particolare, si compongono di gruppi, la cui coesione è tanto più forte quanto più sono forti i vincoli comuni (interessi, formazione, valori), vincoli, che a loro volta, si rafforzano, e perpetuano, grazie alla frequentazione "ambientale". Sotto questo aspetto la "trasversalità", di interessi, lessico, eccetera, soprattutto all'interno di una élite (o gruppo) dominante, per posizione e potere di escludere e includere, superiore a tutti gli altri gruppi, è pressoché un fatto sociale naturale. Che non deve stupire nessuno.
Certo, in una società democratica, rispetto a una società castale, è sempre possibile favorire il ricambio attraverso le elezioni e una veloce mobilità sociale.
Ma si è sicuri che l'attuale classe dominante, al di là dei grandi discorsi (livello pubblico), sia decisa a favorire sul piano delle decisioni (livello privato) un ricambio, che se fosse troppo veloce, come esige l'idea di democrazia, ne minerebbe il potere ?
Da un lato c'è la costante sociologica dei gruppi, connettivi, comunicanti e dominanti (un fatto), e dall'altro due secoli di teoria e pratica democratica moderna (un'aspirazione che cerca di tradursi in "fatto").
Chi vincerà? Sarebbe bello dire la democrazia. Ma purtroppo, al momento, non è facile rispondere o fare previsioni sicure. 

Carlo Gambescia

lunedì 16 gennaio 2006


La politica della "contemporaneità" e le questioni ecologiche

Indecisi a tutto




Spesso seguendo il dibattito politico, a molti capiterà, come in questi giorni, di provare un senso di estraniamento, di fronte alla superficialità di molte questioni dibattute e alla pochezza dei rimedi proposti. Il problema non è solo italiano, ma riguarda un po' tutti i paesi del "civile" occidente. E concerne l'incapacità delle classi politiche (o comunque di una parte maggioritaria di esse) di "ragionare" in modo politicamente incisivo e soprattutto in termini di "tempi lunghi".
Un grande storico francese, Fernand Braudel, parlava sempre, a proposito dell'analisi storiografica, di tre livelli di "temporalità": esistono i tempi lunghi geologici della geografia storica, o se si preferisce delle grandi realtà socio-ambientali (ad esempio il Mediterraneo); esistono i tempi plurisecolari dei grandi sistemi economici (ad esempio il capitalismo moderno); esistono infine i tempi della politica e delle decisioni immediate, da prendere addirittura giorno per giorno, e dunque di cortissimo respiro temporale (ad esempio le decisioni di un re, di un generale, di un governo democratico, sono sempre prese "sotto pressione", sulla scia di "eventi" politici, o comunque, della "contemporaneità"). La politica di oggi è appunto tutta "ripiegata" sulla contemporaneità politica: scandali, questioni finanziarie del momento, approvazione di leggi finanziarie annuali, battaglie lobbystiche. Sui grandi temi legati ai tempi lunghi (come ad esempio la questione ecologica, riproposta recentemente in Italia dalle lotte antiTav), e ai tempi "medi" dell'economia (come ad esempio il grave problema dell'iperconsumismo e dei suoi negativi effetti di ricaduta psichica, sociale ed economica), nessuno decide: si preferisce rinviare, o come si dice "passare la patate bollente" ai governi successivi.
Ad esempio la questione, posta in questi giorni, per il momento molto cautamente, da alcuni politici di centrodestra come di centrosinistra, sulla possibilità di "ritornare al nucleare", riguarda per le sue conseguenze, nel caso sciagurato che un giorno si possa concretizzare, problemi di lunga e media temporalità: ambientali di lungo periodo (incidenti e inquinamento); economici di medio periodo ( variazione nei costi delle materie prime e ristrutturazioni).
Ora, ammesso e non concesso che si apra un dibattito pubblico sulla questione del nucleare, la nostra classe politica, abituata a occuparsi di "scalate" (finanziarie), è "temporalmente" attrezzata, come mentalità, per affrontare una volta per tutte, un tema così importante che riguarda sicuramente alcune decine di generazioni future?

Carlo Gambescia

venerdì 13 gennaio 2006


Un (quasi) elogio di Marx




Geminello Alvi è probabilmente il solo economista di genio che oggi si abbia in Italia. E lo rimane comunque, pur occupandosi di tante altre cose che con l'economia non hanno nulla a che fare. Sarebbe però bello vederlo all'opera come direttore di un centro di ricerche economiche, o addirittura come ministro dell'economia di un governo, per ora impossibile, capace di conciliare, come lui scrive da anni, cultura ed economia, dono e persona, comunità e politica.
E' nota la idiosincrasia di Alvi per certa sinistra salottiera, scroccona e affarista, come per certa destra che ama nascondersi all'ombra dei potentati economici. E quindi, è anche chiara, la sua volontà di tenersi lontano, e giustamente dalla politica politicante. Tuttavia, almeno fino alla severissima recensione apparsa ieri sul "Corriere della Sera" del libro della Rossanda, meno noto era il motivo del suo rifiuto, "al primo anno di università", delle "battaglie malintese" dell'estrema sinistra: "gli imbrogli delle teorie del valore di Marx".
Ora, ridurre il pensiero di Marx, alla teoria del valore, certo discutibile, e farne poi motivo di un rifiuto politico, che può essere fatto risalire anche ad altre e più personali ragioni (antipatia, realismo, timore delle burocrazie, amore della libertà, eccetera), è sicuramente sbrigativo. Va anche detto che, come affiora in molti dei suoi libri, soprattutto in quelli di economia, Alvi da "adulto" giustifica la sua critica a Marx, sulla base dell'economicismo che ne vizierebbe l'opera.
Cosa indubbiamente vera. Ma, come hanno mostrato in molti, e da ultimo Costanzo Preve e con grande chiarezza, l'economicismo, come lo scientismo e l'evoluzionismo marxiani, sono sedimenti di quella che era la cultura del suo tempo. Se si scava e si va più in profondità, ma si deve leggere "tutto" Marx, e non solo l' "economista", si scopre un altro "pianeta" Marx, più complesso e ricco di intuizioni.
Sotto questo aspetto la teoria del valore-lavoro che Marx, riprende da Ricardo e dai classici inglesi, rinvia sempre a una visione totale della società (non totalitaria), in cui il lavoro non è che una delle attività che possono essere svolte dall'uomo. E' inutile qui ripeterlo, ma per Marx la teoria del valore-lavoro, può essere valida solo all'interno della società capitalistica, che non è che un forma storica, tra le tante possibili: per Marx l'uomo è tante cose insieme... L'ente naturale generico, cui fa riferimento Preve nei suoi libri su Marx.
E in questo senso Marx è un pensatore olista (non nel senso negativo di Popper, che comunque è andato molto vicino a risolvere il "mistero" Marx , ma rivolgendo la scoperta dell'olismo marxiano, in negativo, contro Marx stesso), e come tale va studiato e compreso.
Del resto qual è l'alternativa che la teoria economica liberale, sulla quale lo stesso Alvi è molto critico, offre agli studiosi, e per ricaduta, agli "attivisti politici" di segno opposto? La teoria pura e semplice di un homo oeconomicus, calcolatore o misuratore dei propri bisogni, ripiegato egoisticamente su se stesso. Una posizione teorica che sul piano delle applicazioni pratiche provoca gli stessi disastri, causati in passato dagli ottusi esecutori russi e cinesi, quando tentarono di applicare rigidamente la teoria del valore-lavoro di Marx, sorvolando su tutti gli altri aspetti del suo pensiero.
Il punto è che serve, come Alvi ben sa, una nuova teoria del valore, olistica, che sappia recepire i vari apporti, liberali e marxiani, ma anche di altre scuole, nell'alveo di una visione totale, completa, olistica dell'uomo.

Come quella che ispirò Marx. 

Carlo Gambescia

giovedì 12 gennaio 2006


Profili/8
Kenneth Ewert Boulding





Nella Economics di Paul Samuelson, il manuale universitario di economia più diffuso al mondo, non si fa alcun cenno all'opera di Kenneth E. Boulding (1910-1994). Come non si parla di lui nella maggior parte delle storie del pensiero economico del Novecento. La spiegazione è purtroppo facile: Boulding, probabilmente il primo economista a criticare negli anni Sessanta il concetto di pil, era e resta uno studioso non ortodosso, assai critico verso l'economia neoclassica e soprattutto nei riguardi di un capitalismo produttivista e sviluppista, e così poco rispettoso delle natura e dei più autentici bisogni umani.
Boulding nasce a Liverpool, in Inghilterra, nel 1910, studia a Oxford (1932-34), con Lionel Robbins e Jacob Viner, e poi all'Università di Chicago (1932-1934) con Henry Schultz, uno dei fondatori dell'econometria e Frank Knight(noto all'epoca anche per la sua polemica con la "scuola austriaca"). In America conosce, e gode dell'apprezzamento di Schumpeter. Nonostante un breve periodo di insegnamento, presso l'Università di Edimburgo (1934-1937), trascorre tutta la vita "accademica" negli Stati Uniti, paese di cui diverrà cittadino nel 1948, insegnando prima presso l'università del Michigan (1949-1968) e poi del Colorado (1968-1980).
Quacchero, e dunque pacifista convinto, e perciò spesso accusato di utopismo, lettore acuto e aperto alle contaminazioni filosofiche e disciplinari, Boulding già alla fine degli anni Quaranta manifesterà la sua insoddisfazione verso il concetto di homo oeconomicus in A Recostruction of Economics (1950). La scoperta dell'approccio sistemico di Ludwing Bertanlaffy, studioso col quale entrerà in contatto, lo spingerà a costituire, con pochi altri colleghi, nel 1953, prima la Society for Advancement of General Systems, e poi la International Society for the Systems Sciences. In seguito svilupperà le sue acquisizioni sistemiche in chiave olistico-evolutiva: la terra come sistema chiuso, e con risorse finite, che ha nell'uomo, come essere capace di vivere in pace con se stesso e con gli altri, un enorme potenziale evolutivo. Tutto da scoprire.
Autore prolifico (i soli Collected Papers, constano di sei volumi, 1971-1985), Boulding si è occupato di organizzazione sociale (The Organizational Revolution, 1953), politica economica (Principles of Economic Policy, 1958), teoria dei conflitti (Conflict and Defense, 1962), metodologia (The Impact the Social Sciences, 1966, Economics as a Science , 1970), economia del dono (The Economy of Love and Fear: A Preface to Grants Economics, 1973 e 1981). Vanno infine ricordati due piccoli classici: Ecodynamics ( 1978) e The World as a Total System (1985).Una buona raccolta per farsi un' idea della complessità e ampiezza del suo pensiero è Beyond Economics (1970). In Italia Boulding, se non è completamente sconosciuto, è comunque volutamente ignorato e poco studiato. Di lui si è occupato Giorgio Nebbia, e bene (si veda www.fondazionemicheletti.it Altro Novecento).
Insomma, un economista controcorrente, tutto da scoprire e leggere. 

Carlo Gambescia

mercoledì 11 gennaio 2006

Il libro della settimana: Alain de Benoist, Comunità e decrescita. Critica della ragione mercantile, Arianna Editrice 2006, pp.224, Euro 12,95 .


http://www.ariannaeditrice.it/vetrina.php?id_macroed=691

Va dato atto a Eduardo Zarelli, fondatore dell'Arianna Editrice (www.ariannaeditrice.it), di saper ben scegliere i libri che pubblica. Il suo catalogo, pur non ampio, può vantare tra gli altri, autori come Etzioni, Goldsmith, Sale, Sorokin, Charbonneau, Bonesio e appunto Alain de Benoist.
In particolare, quest'ultimo volume che raccoglie il meglio della più recente produzione teorica debenoistiana, si presenta di grande interesse oltre che di piacevole lettura (grazie anche all'ottimo, come sempre, lavoro dei traduttori).
I temi affrontati dal pensatore francese sono tutti di grande rilievo: la "terza età" del capitalismo; il borghese; la società depressiva"; libertà, eguaglianza, identità; il mito del progresso; ecologia e partecipazione; federalismo. Va però segnalato in particolare un saggio, che senza togliere nulla agli altri, vale l'acquisto dell'intera raccolta (tra l'altro ben prefata dallo stesso Zarelli): quello intitolato "Obiettivo decrescita!". Qui de Benoist, oltre a mostrare come sempre un'ottima conoscenza critica e bibliografica della materia, riesce a focalizzare gli aspetti filosofici e politici della questione.
Per un verso infatti, secondo de Benoist, l'idea di crescita economica permanente, non può non condurre all'autodistruzione del mondo in cui tutti viviamo ; per l'altro verso non si nasconde però due problemi: il primo consiste nella difficoltà intellettuale, se non impossibilità, di far accettare l'idea di decrescita a una cultura politica (a destra e sinistra) restia a criticare, in nome dei sacri valori dell'illuminismo e del progresso infinito, il mito della crescita economica a ogni costo ; il secondo problema consiste nella difficoltà sociologica, se non impossibilità , di mettere in pratica l'idea di decrescita, in una società, che col consenso interessato dei politici, ha trasformato i suoi membri in bambini viziati e annoiati.
De Benoist pone qui un problema fondamentale, prepolitico, evidenziato a suo tempo, da Rousseau: se l'uomo deve essere educato alla libertà. La libertà è qualcosa che si apprende o è innata nell'uomo? E comunque sia c'è la libertà dell'uomo solitario, estraneo all'altro, che vive nella giungla, e la libertà dell' l'uomo, essere sociale e politico, che non può estraniarsi, perché vive in società...
In questo senso: deve l'uomo essere educato alla "decrescita" (se questa appunto è una forma di libertà)? E se sì, da chi? E come?  Rispondere però, come ammette lo stesso de Benoist,  non è facile.  Il quale si limita a  designare  nella democrazia partecipativa e nel federalismo due preziosi strumenti di trasformazione sociale. Dando però così una risposta politica a un problema prepolitico. A meno che, e su questo sarebbe interessante un suo commento, il pensatore francese non consideri la democrazia partecipativa e il federalismo, strumenti "prepolitici": una specie di patrimonio antropologico, che l'uomo può riscoprire, senza necessariamente sottoporsi a un "processo educativo" alle "libertà partecipative e federali", imposto dall'esterno... 

Carlo Gambescia

martedì 10 gennaio 2006

Harry Potter 

e l'ideologia delle libere professioni 



Il successo mondiale della saga di Harry Potter può essere studiato a due livelli.
Il primo livello riguarda l'esame dei meccanismi editoriali e mediatici che hanno trasformato una delle tante storie per ragazzi in una macchina per fare soldi: un processo, come per altri "prodotti" simili, legato al nesso consumistico libro-film-gadget. Niente di nuovo sotto il sole.
Il secondo livello, quello più interessante, riguarda invece il tipo di messaggio che i libri di Harry Potter "inviano" a un pubblico di adolescenti, e di riflesso a genitori e famiglie. Si tratta di "segnali" molto rassicuranti, "law and order". E che non hanno nulla a che spartire con le accuse mosse alla Rowlings di scrivere libri "intrisi di magia".
Dietro l'intera saga, infatti, non c'è come ideologia-guida la celebrazione della magia ma il culto del "professionismo liberale", quello un tempo veicolato dalle storie a fumetti di Walt Disney: dello "studia sodo, preparati, scegli una professione, molto remunerativa, e divieni esercitandola un pilastro di quella stessa comunità, che fornendo gli "strumenti" di studio (scuole e università), ti ha concesso di diventare uno stimato professionista" . Che poi in realtà nelle nostre società la selezione delle élite segua altri percorsi fiduciari e clientelari, e che spesso funzioni al contrario, provocando sfruttamento, nevrosi, fallimenti, rabbia e violenza, poco importa... Il ruolo di una "ideologia-guida" è quello di fornire un modello di comportamento, come dire, a prescindere dalla realtà effettuale.
Harry Potter è un aspirante mago, professione ben remunerata, e che sicuramente, poiché rivolta al bene, gode della stima della comunità. Inoltre la scuola di Hogwarts, è aperta a tutti (anche ai figli dei "babbani", dei "non maghi", ma anche ai figli dei maghi poveri: ecco un esempio di interclassismo che piacerebbe a un Rawls (sinistra liberale). E che non sarebbe sgradito neanche a un Hayek (destra liberale), dal momento che per accedere a Hogwarts si deve dimostrare di poter raggiungere i più alti livelli di eccellenza: Harry Potter e i suoi compagni di corso, sono perciò scelti perché, già possiedono tali qualità, a prescindere dalla "classe sociale" di appartenenza. E nei sette anni di studio, a poco a poco, i "maghetti" oltre a scoprire di possederle, acquisiranno quell'idea di "professionismo", che una volta diventati "maghi" li renderà a un tempo eguali e diversi: eguali all'interno del gruppo sociale dei maghi (pur nel rispetto delle gerarchie interne) ma diversi, perché professionalmente qualificati, rispetto al resto (e alla "media") della società. Ma al servizio di quest'ultima, nei termini, di uno gnosticismo (in senso sociologico però, come elitismo politico-sociale), a fin di bene...
Si tratta, insomma, di un messaggio socialmente conservatore, che non ha nulla di rivoluzionario. Con in più quel "pizzico" di individualismo, anarchicheggiante, che segna certe improvvise decisioni di Harry Potter ( prese sempre a fin di bene), che piacerebbe al versante anarchico-libertario del liberalismo contemporaneo (non tanto a un Nozick, quanto un Walter Block).
Di qui perciò la volontà mediatica, già intrisa ideologicamente di professionismo liberale (senza per questo parlare di complotti), di dare massima diffusione a una "saga" che indica ai dodicenni, coniugando abilmente "evasione" e consenso, come unica strada percorribile, quella che va verso Hogwarts: quella della divisione sociale e liberale del lavoro. E quindi  del  capitalismo come il migliore dei mondi possibili.

Carlo Gambescia

lunedì 9 gennaio 2006

La "diversità" della sinistra 
secondo Eugenio Scalfari



Su "Repubblica" di ieri, Eugenio Scalfari, ha spiegato perché la sinistra è "superiore" o "diversa" dalla destra.
Ora, sul problema specifico delle differenze tra destra-sinistra, sono stati scritti moltissimi volumi, e sarebbe inutile, e presuntuoso affrontare qui l'argomento. Anche perché quel che emerge, "oggettivamente" dalla articolessa di Scalfari, al di là di alcune banalità moralistiche da "salotto televisivo" (su Berlinguer, Craxi, Berlusconi, eccetera), è la sempre più evidente, non diversità, ma identità tra destra e sinistra, in particolare sul piano governativo, e soprattutto su quello della politica economica. Perché?
Se c'è una "diversità", o "superiorità" della sinistra nei riguardi della destra, in particolare quella conservatrice, liberale e liberista, questa è rappresentata dal controllo politico dell'economia. Per tutto il Novecento, ma si potrebbe risalire ideologicamente al socialismo e alla democrazia post-Rivoluzione Francese, la sinistra si è caratterizzata per il tentativo (introduzione del welfare, delle tutele sul lavoro, della programmazione economica, eccetera), di sottrarre, attraverso la "decisione politica", il lavoro e la "domanda" alla mercificazione prodotta da un mercato sempre più aggressivo e dominato da un ristretto numero di imprese. Un tentativo riuscito, come prova il cosiddetto "Glorioso Trentennio" ( grosso modo,1945-1975)
Questa situazione è cambiata negli anni Ottanta del Novecento, con l'arrivo della "rivoluzione neoliberista", che alle politiche imperniate sulla domanda, e quindi sulla tutela del lavoro, ha sostituito politiche basate sull' offerta e sulla difesa dell'impresa.
Il principio, tutto liberista, che da allora si è imposto, è quello che mercato - e dunque l'impresa, il cosiddetto lato dell' offerta- avrebbe la forza di farcela da solo (nel senso di produrre crescita economica e sviluppo sociale), a patto che lo si lasci operare, libero da qualsiasi vincolo sindacale e welfarista.
Ora, Scalfari, nella terza parte del suo lungo editoriale, propone alla sinistra, come segno di "diversità" e "superiorità", rispetto alla destra, quello di mostrare di aver capito i nuovi tempi, scegliendo di occuparsi proprio della "riforma del mercato del lavoro", della "riforma del 'welfare' e, soprattutto la riforma dell'offerta di beni e servizi".
Insomma, di abbandonare ogni progetto di controllo politico dell'economia e di praticare, come fa attualmente la destra conservatrice e liberista, una "politica dell'offerta" attenta solo alle esigenze delle imprese, o al massimo, al rispetto delle famigerate "regole" del gioco (certo, "regole" che la destra spesso elude, ma che in quanto tali, fanno però parte, è bene ricordarlo, di quella che Marx chiamava la "sovrastruttura giuridica"...).
E in questo, consisterebbe, secondo Scalfari, la "diversità" o "superiorità" della sinistra...

Non è necessario aggiungere altro. 

Carlo Gambescia