Capitalismo e riforme
Le ricette di Prodi e Tremonti
Ieri alla Camera dei Deputati, il professor Prodi ha
dichiarato che il capitalismo andrebbe riformato. Senza però spiegare come.
Inoltre, ha fatto anche notare, ma tra le righe, che le Authorities sarebbero
in balìa dei monopoli. A suo parere i cosiddetti “controllori” concedono troppo
spazio ai poteri forti .. .
Per contro un altro professore, Tremonti, duro critico di Prodi, nel libro Rischi Fatali (Mondadori) sostiene l’esatto contrario: troppe autorità di controllo e “troppe regole”. Per giunta Europa e Italia, manovrerebbero “male” i propri poteri di controllo. Dal momento che “è suicida” proibire ogni “incentivo pubblico alle concentrazioni, mirato ad aiutare l’industria europea ad assumere una dimensione maggiore, necessaria per competere su scala globale” (p. 24).
Chi ha ragione? Nessuno dei due.
Dal momento che al consumatore, di cui entrambi si dichiarano difensori, vanno sempre le briciole e per giunta a caro prezzo. Certo, tutti hanno telefonino, automobile, energia elettrica a iosa, intrattenimenti televisivi a volontà, ma in realtà tutto questo “splendore” privato viene pagato in termini di “squallore” pubblico, per riprendere la terminologia di Galbraith. Detto brutalmente: si possono anche possedere dieci telefonini, ma se ti ammali o se hai figli che vanno a scuola, sono guai, visto che scuole ed ospedali non funzionano… E spieghiamo subito perché.
Se i grandi monopoli, fagocitano tutti gli investimenti, destinandoli ai consumi privati, per i consumi pubblici resta ben poco. Soprattutto se lo Stato si gira, guarda dall’altra parte, e lascia fare. Perciò il problema non è se potenziare o meno i controlli formali, in una situazione già compromessa, dove i grandi monopoli si sono spartiti da un pezzola Torta-Paese , grazie
alle finte privatizzazioni anni Novanta. Ma di puntare sul recupero delle
funzioni di indirizzo politico e programmazione dell’economia da parte dello
Stato.
So benissimo che un’ affermazione del genere, in tempi dove solo “privato è bello”, può suonare blasfema. Quasi come negare davanti al Papa il dogma dell’Immacolata Concezione. Oggi comandano i liberisti, e guai a mettere in dubbio il Sacro Dogma della Libera Concorrenza. Al massimo è consentito proporre qualche piccola modifica: che so, cambiare un aggettivo o introdurre qualche punto e virgola nei regolamenti dell’Antitrust, come propose a suo tempo Prodi, già professore di Economia Industriale. Roba da ridere.
Certo, è anche vero, come afferma Tremonti, che le imprese più sono grosse, più sono competitive sul piano mondiale. Ma allora, a maggior ragione, sarebbero necessari controlli non formali o di tipo giuridico-economico (su tariffe e posizioni predominanti) ma controlli sostanziali di tipo politico-economico sulle strategie di impresa e sulla provenienza e destinazione delle risorse aziendali. Verifiche che andrebbero fatte da organismi pubblici e non parapubblici o ibridi come le Autorità di Controllo, sempre pronte a chiudere un occhio sugli amici degli amici politici.
E già questo, professor Prodi, sarebbe un buon modo di “riformare” (almeno in parte) il capitalismo.
Va tuttavia ammesso che la cosiddetta economia mista non sempre ha dato buona prova di sé. Tutti ricordano casi di ruberie, sprechi e corruzione. Perciò anche l’intervento pubblico non va giudicato come un rimedio miracoloso. Soprattutto se gli appetiti partitocratici crescono a dismisura e se la formazione dei dirigenti pubblici e privati rimane la stessa per interessi, studi e formazione, ambienti di provenienza, famiglie politiche e frequentazioni.
Resta però il fatto che la scelta non può essere tra maggiori o minori controlli formali, ma tra un governo politico dell’economia, capace di introdurre controlli sostanziali o una finta concorrenza che di fatto premia i consumi privati a danno di quelli pubblici. Insomma, non fra Prodi o Tremonti, ma fra telefonini ultramoderni o sanità e scuole funzionanti.
Per contro un altro professore, Tremonti, duro critico di Prodi, nel libro Rischi Fatali (Mondadori) sostiene l’esatto contrario: troppe autorità di controllo e “troppe regole”. Per giunta Europa e Italia, manovrerebbero “male” i propri poteri di controllo. Dal momento che “è suicida” proibire ogni “incentivo pubblico alle concentrazioni, mirato ad aiutare l’industria europea ad assumere una dimensione maggiore, necessaria per competere su scala globale” (p. 24).
Chi ha ragione? Nessuno dei due.
Dal momento che al consumatore, di cui entrambi si dichiarano difensori, vanno sempre le briciole e per giunta a caro prezzo. Certo, tutti hanno telefonino, automobile, energia elettrica a iosa, intrattenimenti televisivi a volontà, ma in realtà tutto questo “splendore” privato viene pagato in termini di “squallore” pubblico, per riprendere la terminologia di Galbraith. Detto brutalmente: si possono anche possedere dieci telefonini, ma se ti ammali o se hai figli che vanno a scuola, sono guai, visto che scuole ed ospedali non funzionano… E spieghiamo subito perché.
Se i grandi monopoli, fagocitano tutti gli investimenti, destinandoli ai consumi privati, per i consumi pubblici resta ben poco. Soprattutto se lo Stato si gira, guarda dall’altra parte, e lascia fare. Perciò il problema non è se potenziare o meno i controlli formali, in una situazione già compromessa, dove i grandi monopoli si sono spartiti da un pezzo
So benissimo che un’ affermazione del genere, in tempi dove solo “privato è bello”, può suonare blasfema. Quasi come negare davanti al Papa il dogma dell’Immacolata Concezione. Oggi comandano i liberisti, e guai a mettere in dubbio il Sacro Dogma della Libera Concorrenza. Al massimo è consentito proporre qualche piccola modifica: che so, cambiare un aggettivo o introdurre qualche punto e virgola nei regolamenti dell’Antitrust, come propose a suo tempo Prodi, già professore di Economia Industriale. Roba da ridere.
Certo, è anche vero, come afferma Tremonti, che le imprese più sono grosse, più sono competitive sul piano mondiale. Ma allora, a maggior ragione, sarebbero necessari controlli non formali o di tipo giuridico-economico (su tariffe e posizioni predominanti) ma controlli sostanziali di tipo politico-economico sulle strategie di impresa e sulla provenienza e destinazione delle risorse aziendali. Verifiche che andrebbero fatte da organismi pubblici e non parapubblici o ibridi come le Autorità di Controllo, sempre pronte a chiudere un occhio sugli amici degli amici politici.
E già questo, professor Prodi, sarebbe un buon modo di “riformare” (almeno in parte) il capitalismo.
Va tuttavia ammesso che la cosiddetta economia mista non sempre ha dato buona prova di sé. Tutti ricordano casi di ruberie, sprechi e corruzione. Perciò anche l’intervento pubblico non va giudicato come un rimedio miracoloso. Soprattutto se gli appetiti partitocratici crescono a dismisura e se la formazione dei dirigenti pubblici e privati rimane la stessa per interessi, studi e formazione, ambienti di provenienza, famiglie politiche e frequentazioni.
Resta però il fatto che la scelta non può essere tra maggiori o minori controlli formali, ma tra un governo politico dell’economia, capace di introdurre controlli sostanziali o una finta concorrenza che di fatto premia i consumi privati a danno di quelli pubblici. Insomma, non fra Prodi o Tremonti, ma fra telefonini ultramoderni o sanità e scuole funzionanti.
Carlo Gambescia