Un inciso per cominciare. Il miliardario Jeff Bezos e consorte hanno mostrato, nonostante l’ingente patrimonio, di avere gusti piuttosto ordinari.
Tra questi, quello – a nostro avviso masochistico, e spiegheremo perché – di visitare le città d’arte italiane in piena estate. È vero: si trattava di un viaggio legato al loro matrimonio, quindi inevitabilmente romantico. E quale cornice migliore dell’Italia? Ma è proprio questa “ovvietà” a colpire: il gesto, apparentemente raffinato, rientra in una consuetudine turistica ormai consolidata, quasi banale, che confonde la cultura con la cartolina. E cosa peggiore ignora il termometro.
Perché dicevamo “gusti ordinari”? Per la semplice ragione che c’è qualcosa di piatto e irragionevole – anzi, diciamolo, masochistico – nel costume collettivo (quindi medio) di visitare le città d’arte italiane in piena estate. Firenze a luglio. Roma ad agosto. Venezia sotto il solleone. Una pratica che si potrebbe definire, con un pizzico di cattiveria, una forma di turismo punitivo: ci si sottopone volontariamente alla sofferenza fisica in nome di una specie di dovere culturale.
L’estate – quella vera, da calendario – non è stagione da città. È tempo di ombra, acqua, silenzi. Di riposo, al limite di lettura disimpegnata sotto l’ombrellone, non di file sudate davanti agli Uffizi o di pelle appiccicosa sui sanpietrini dell’Urbe. Eppure, proprio quando il sole picchia più forte, milioni di persone si riversano nei centri storici italiani, animate da un impulso che ha più a che fare con la moda che con l’amore per l’arte.
I dati parlano chiaro. Secondo ISTAT, nel solo luglio 2023 le città d’arte italiane hanno registrato quasi il 30% del totale delle presenze turistiche annuali. A Firenze, il flusso di visitatori ha toccato le 830.000 presenze in agosto, con punte di oltre 35.000 turisti al giorno nel centro storico. Venezia, nello stesso mese, ha superato il milione, mentre Roma ha visto un incremento del +15% rispetto al mese di maggio. Nonostante il caldo torrido (*).
C’è, in questo comportamento collettivo, un aspetto quasi moralistico. Il turista moderno – diciamo pure il borghese piccolo piccolo (forse) semicolto – non può accontentarsi del mare. Deve “arricchire”. La vacanza deve essere “significativa”. E così si finisce per sostituire il vecchio relax con un pellegrinaggio laico tra musei e basiliche, dove l’esperienza estetica è mediata da auricolari, app e sventolii compulsivi di ventagli.
Un tempo, chi poteva permetterselo, evitava le città in estate: le villeggiature erano in collina, in montagna, o al mare. Le città si svuotavano, le saracinesche si abbassavano. La cultura si prendeva anch’essa una pausa.
Oggi, con la diffusione del turismo globale – conquista moderna che ha il merito di far uscire milioni di persone dal proprio guscio nazionale o culturale – si assiste però a un paradosso stagionale: le città più belle vengono fruite nei mesi peggiori. Il problema non è che si viaggi, ma quando e come si sceglie di farlo. La libertà del turista non andrebbe negata, ma accompagnata da un minimo di buon senso “climatico” .
L’arte – diceva giustamente qualcuno – ha bisogno di contemplazione, di silenzio, di attenzione. Ma come si può contemplare Giotto o Caravaggio quando si è in lotta con la disidratazione, il caldo torrido, la ressa internazionale? Come si può riflettere su Raffaello mentre si cercano disperatamente dieci minuti d’ombra tra due gruppi organizzati armati di bastoni da selfie?
Eppure si continua, imperterriti. Anzi, il fenomeno sembra accentuarsi ogni anno. Tour operator, influencer, e la solita retorica dell’“esperienza autentica” alimentano l’illusione che basti camminare in una città d’arte per assorbirne, per osmosi, la bellezza.
Non si vuole qui fare l’elogio dell’ozio marino, né condannare il turismo culturale. Ma bisognerebbe forse riscoprire il concetto di tempo giusto. Ogni stagione ha il suo ritmo. E l’estate, per chi voglia veramente capire un’opera o una città, non è il tempo della corsa affannata da un monumento all’altro. È il tempo del rallentare, del riflettere, magari anche del leggere un saggio in veranda.
Insomma, non è un crimine rimandare Firenze a ottobre. O Venezia a marzo. Il Colosseo è sempre lì. A meno che non si cerchi, più che la bellezza, la foto da postare. In quel caso, anche il miliardario – come abbiamo visto – può cadere nella trappola. E sudare inutilmente.
Carlo Gambescia
(*) Qui: https://www.istat.it/wp-content/uploads/2024/11/Statistica-Today_Turismo-2023_rev.pdf .