sabato 31 marzo 2018

Vizi privati, pubbliche virtù
Viva la Prima Repubblica!

di Teodoro Klitsche de la Grange

Otto Dix,  Großstadt (Triptychon), 1928.


C’è un ritornello, spesso ripetuto nella storia dell’Italia contemporanea: “se l’economia langue, la causa ne sarebbe la disonestà dei politici” o, più in generale, dei funzionari pubblici; dall’epoca di Tangentopoli non si sente ripetere altro.
È piacevole pertanto leggere sulla stampa che è stato pubblicato un libro da due autorevoli magistrati, Cantone (dell’Autorità anti-corruzione) e Caringella (del Consiglio di Stato) in cui si sostiene che, nell’Italia contemporanea (cioè della cosiddetta "Seconda Repubblica") “assistiamo a una forma di corruzione certamente diffusa, ma qualitativamente e quantitativamente non paragonabile alle vicende degli anni Novanta”.
Ma viene da pensare: se si condivide il giudizio dei due autori la corruzione (e soprattutto la c.d. “Prima Repubblica”) ne viene rivalutata; e così la tesi di Mandeville (e di tanti altri, tra cui Pareto), che vizi privati divengono virtù pubbliche, confermata.
Perché se è vero, come risulta da tutti gli indicatori economici che il PIL italiano dal ’94 in poi è cresciuto di soli due punti (è il peggior risultato d’Europa) mentre la percentuale del prelievo fiscale sul reddito nazionale (così immobile) è aumentata di diversi punti, non sarà che era meglio la corruptissima prima repubblica che la benintenzionata seconda? Rimandiamo al nostro articolo “Parassitario o predatorio?” comparso qualche tempo fa su “Rivoluzione Liberale” (*)  dati (un po’ più diffusi, delle enormi differenze – in termini di crescita del PIL e di moderazione fiscale tra le due “repubbliche”. La corruzione maggiore dell’una era accompagnata da benefici tangibili e innegabili. La (pretesa) morigeratezza dell’altra da decadenza politica ed economica.
Scriveva Mandeville: “il vizio è tanto necessario in uno stato fiorente quanto la fame è necessaria per obbligarci a mangiare. È impossibile che la virtù da sola renda mai una nazione celebre e gloriosa” (e infatti …).
Anche a non voler seguire (del tutto) la tesi dell’olandese, è sicuro che tra corruzione e benessere non c’è quel rapporto di proporzionalità inversa che spesso è accreditato. Probabilmente non c’è un nesso eziologico (una “regolarità”) almeno in termini      macroeconomici, ma una relazione che più, in taluni casi, contribuisce ad aggravare situazioni di miseria e d’ingiustizia sociale, ma nulla di costante.
Non si vede cioè una “legge bronzea” della corruzione come vorrebbe una opinione forse più esternata che diffusa, dai dati smentita, quanto è accreditata quella, inversa, di Mandeville.
In conclusione: si stava (economicamente) meglio quando si stava (moralmente) peggio aridatece er puzzone prima che ci diano da mangiare prediche al posto della minestra.
Teodoro Klitsche de la Grange


Teodoro Klitsche de la Grange è  avvocato, giurista, direttore del trimestrale di cultura politica “Behemoth" (  http://www.behemoth.it/ ). Tra i suoi libri: Lo specchio infranto (1998), Il salto di Rodi (1999), Il Doppio Stato (2001), L'apologia della cattiveria (2003), L'inferno dell'intellettuale (2007), Dove va lo Stato? (2009),  Funzionarismo (2013).


venerdì 30 marzo 2018

I rimproveri  di un  “amico americano”
Dialogo su Cinque Stelle 
( e sui  massimi sistemi)





Ieri un  amico italiano  che insegna scienze politiche negli Stati Uniti,  ora in Italia per le festività, mi chiedeva ragione, stupito, quasi rimproverandomi,  dell’eccessiva  durezza verso il movimento pentastellato.  Aggiungendo che in America, negli ambienti colti, liberal, pur ritenendolo un movimento populista, non  lo si considera politicamente pericoloso,  a differenza  di  tutto quel che  invece si muove alle spalle  di Trump. 
Qual è stata la mia risposta all’ "amico americano"?
Che negli Stati Uniti la  politica, in particolare il sistema istituzionale, ha radici molto salde. Come provano, ad esempio, gli ostacoli che sta trovando sulla sua strada un leader semi-autocratico come Trump. E  che  quindi ci si  può permettere  il lusso di mandare alla Casa Bianca un personaggio  politico, stupido ma inquietante,  come l’attuale Presidente americano.
In Italia, oltre a non esistere un valido sistema di check and balance (si pensi solo  al ruolo politicamente  debordante della magistratura),  a differenza degli Stati Uniti,  esiste una solida - purtroppo -  tradizione antidemocratica.  L’Italia ha inventato il fascismo,  fenomeno  dalle profonde radici populiste.  Inoltre, le culture cattolica e marxista  hanno sempre profondamente disprezzato le istituzioni e i valori liberal-democratici. Per non parlare dell' economia di mercato...  
Di conseguenza,  un movimento politico,  privo di democrazia interna (teleguidato da un comico e da un web-manager), che  si ritiene depositario, per scienza infusa,  di verità assolute,  a cominciare dal monopolio dell'onestà e del bene nazionale per ogni singolo individuo,  non può non preoccupare chiunque abbia a cuore il destino democratico  del  Paese. 
Al che l' "amico americano"  ha notato  che è buona regola delle democrazie liberali -   “da te difese a spada tratta”, ha ironizzato -   includere i diversi, i politicamente diversi, per metterli alla prova, facendoli governare.  
Una puntualizzazione  -  ho subito sottolineato  -  sicuramente esatta in linea di principio.  Tuttavia, una tesi del genere - ho aggiunto  -  se portata alla estreme conseguenze condurrebbe le liberal-democrazie all’autodistruzione.  Perché i suoi nemici potrebbero approfittare della libertà, messa  generosamente a disposizione di tutti,  per agguantare il potere e smantellare tutto.
Sapete, cosa mi ha risposto l’amico professore ?  Che è un rischio che le liberal-democrazie devono accettare, per un vincolo di coerenza. Altrimenti non sarebbero tali.  Inoltre -   ha aggiunto  - su che basi stabilire ciò che è liberal-democratico da  ciò che non  è?
Devo dire, che mi sono sentito stretto nell’angolo, almeno dal punto di vista della correttezza dell’argomentazione. In effetti,   la prima  parte del  ragionamento fila.  Come del resto, dal punto di vista di una visione pacificata e pragmatica  della politica, dunque liberale,  ha senso l’accettazione del rischio di governo.  Ma se l’avversario non è pacifico né liberale?   Vale la pena accettare il rischio dell’autodistruzione?
Qui   -  punto divisivo sul quale però ci siamo trovati d’accordo  -  la scelta dipende dalle rispettive antropologie politico-morali. Ovviamente, tra noi due, molto differenti, se non addirittura opposte.
L' "amico  americano”  crede fermamente  nella possibilità di insegnare la virtù  e di poterla trasmettere a tutti attraverso la  conoscenza.  Quindi, la sua,  è una vera e propria fede nel nesso identitario virtù-conoscenza.  Di qui, l’accettazione del rischio, come veicolo pragmatico, per giungere alla conoscenza, e dunque alla virtù.  A suo avviso, non esistono uomini buoni o cattivi per definizione, ma uomini perfettibili, grazie all’apprendimento della virtù. Quindi attraverso il dialogo, mai con la forza.  
Io invece, non credo che  la conoscenza sia virtù,  e se lo è, solo  per pochissimi.  E soprattutto non ritengo  si possa trasmettere a esseri sociali, per costituzione,  più disposti al credere (qualunque cosa) che al capire ( e bene, solo alcune cose fondamentali). Di qui, il pericolo di mettersi, anche democraticamente - via elezioni -   nelle mani di un pugno di ignoranti, addirittura così  fieri della propria ignoranza, fino a farne una virtù, quindi capacissimi di distruggere quelle conoscenze, anche politiche, esistenti (e l’esperimento liberal-democratico, per ricaduta cognitiva,  è fra queste).  Pertanto, esistono uomini cattivi,  per definizione,  che rifiutano la conoscenza-virtù. E dunque il dialogo. Dai quali dobbiamo difenderci.  Anche con la forza, se necessaria. 
Dopo di che, con l' "amico americano" consapevoli delle nostre differenze, e comunque coscienti di averle argomentate bene, ci siamo salutati. Con il calore di sempre.
Ma, avviandomi verso casa,  ho pensato:  argomentare bene,  può bastare?        

Carlo Gambescia      
                                                    

mercoledì 28 marzo 2018

L’Italia di Fabrizio Frizzi e l'Italia di Cinque Stelle
Grillo è un uomo cattivo



Prima  che da sociologo, lo dico da quirite:  ieri mattina, a piazza del Popolo, davanti alla Chiesa degli Artisti c’era più gente, molta più gente, del comizio di chiusura di Cinque Stelle, questo marzo.  
Non si è vista invece, per quanto ne sappiamo, Virginia Raggi, così solerte in altre circostanze. C'era però l’Italia di Fabrizio Frizzi, quell’Italia televisiva, maggioritaria, dei quiz, dei concorsi di bellezza, delle “canzonette”,  che si  entusiasmava davanti alle  brillanti imitazioni di Alberto Sordi, che il presentatore, scomparso improvvisamente, ogni tanto proponeva. A grande richiesta, diciamo.  Persino, nell’intercalare, quando scherzava, con i concorrenti dell’ "Eredità". Anche Sordi, ieri sarebbe stato lì. Albertone così amato, dalla stessa Italia che non fa notizia, perché lavora, paga le tasse,  non si lamenta e...  guarda la televisione.  Grave vizio per un'Italia che non ha mai capito l'Italia, se non, come accade oggi, attraverso gli schemi, cospirativi e monomaniacali, di Travaglio e della sua banda di cattivi maestri.
Dicevamo una folla, come riferito dalla stampa,  composta, addolorata,  che piangeva  “uno di famiglia”, “uno di noi”.  Un’Italia portata, quasi  automaticamente,  a  identificarsi  con  un uomo  che, a  detta di tutti,  non amava polemiche, divisioni, fratture, sempre pronto a riconciliarsi con gli altri e con la vita. Qualità che il pubblico, maggioritario, quello delle persone normali (termine in disuso dal 1968) che non insultano, gridano, odiano, aveva perfettamente compreso.  Dalle interviste, passate nei vari notiziari, ci si  ritrova davanti, osservando  modi e abiti,  a borghesi di tutte le età, non solo romani,  affranti, quindi sinceri,  ma come riconciliati con la vita. Come Frizzi.
Finalmente,  una boccata d’aria  fresca. L’Italia dell’amore, o comunque di qualcosa che vi si avvicina.  O dei fessi (davanti alla tv)?  Come sospetterà il solito lettore targato Radio 3, cresciuto e pasciuto  a dosi massicce di  "Fahrenheit"?
Sì, fessi, come i tanti ufficiali di complemento, non volontari della prima ora, ma che si fecero uccidere, spesso eroicamente, per la Patria:  nella Prima come nella Seconda guerra mondiale. Un’Italia a scoppio ritardato.  Che però non delude mai.  Sempre ingannata, ma senza provare nessun rancore. Prima ha creduto  nella DC, poi in Berlusconi, infine, in parte, nel  primo Renzi. Soltanto Frizzi non l'ha mai tradita.  La televisione come effetto,  non causa. Può sembrare una battuta, ma non è così.
Detto questo, invito gli amici lettori a trovare sulla Rete una dichiarazione di Beppe Grillo sulla scomparsa di Frizzi, in fondo un collega, uomo di spettacolo,  come il padre del M5S, un  breve ricordo  “ci stava”. Niente. Non ne troverete.  Fabrizio Frizzi  era politicamente distante anni luce - nonostante le  post-scemenze di Paragone uscite ieri  su “Libero” -  dall’ uomo del vaffa, con la bava a bocca, gli occhi spiritati,  che ha fondato il Partito Nazionale del Risentimento Sociale.   Amore  contro Odio. Nulla di più diverso. 
Certo la politica non è la televisione.  Ha le sue regole, spesso durissime, Machiavelli docet.  Ma predicare l'odio per l'odio è impolitico.  E che cosa sono  Grillo e i suoi accoliti se non  seminatori di odio?  Oggi si chiama antipolitica.    
Grillo è un uomo cattivo e si circonda di persone cattive.  

Carlo Gambescia
         
L’inutile dibattito sui “vitalizi”
Il sesso degli angeli

 


Quanto guadagna un parlamentare italiano?  Più o meno come  un alto dirigente d' azienda.  Siamo intorno ai 180-190 mila euro all’anno, all'incirca  sei volte la fascia medio-bassa dei trentamila euro (come illustra la tabella sotto il titolo).  
Diciamo che, stando ai valori di mercato,  l’Azienda Italia, per così dire la più importante in assoluto, per attirare i più bravi  dovrebbe  addirittura offrire qualcosa di più. Anche  perché, come è noto,  nel mercato privato ad alti stipendi corrispondono, quasi sempre, elevate capacità manageriali. E qui cominciano i problemi.  Perché?  
In ambito politico,  purtroppo non sceglie la mano invisibile del  mercato, ossia la "manona" dei milioni di consumatori,  attenti  a non farsi fregare,   ma, in ultima istanza, quella fin troppo visibile  dell’elettore: qualcosa di completamente diverso. Innanzitutto,  l'elettore  in  genere  non è un’aquila, se ci si passa l'espressione,  e sceglie sulla base di criteri extra-economici, come vedremo. Perciò, quando si grida  al cattivo funzionamento della  meritocrazia, come selezione dei migliori "prodotti" politici,  l’elettore, per primo,  dovrebbe farsi il classico esame di coscienza. Cosa alla quale neppure  pensa, perché per un verso è blandito dalla democrazia stessa, che ne ha bisogno dal punto di vista della legittimazione (di qui la sopravvalutazione retorica,  di cui l'elettore si pavoneggia, auto-convincendosi della sua capacità di scelta in chiave extra-economica, solo se, come si ripete a pappagallo, fosse messo nelle condizioni, eccetera, eccetera); per l’altro invece l’elettore partecipa della mediocrità dell uomo comune,  totalmente immerso nelle faccende quotidiane, spesso imbevuto di superficiale moralismo  o più semplicemente del conformistico spirito del tempo (nel bene come nel male).  Perciò l'analisi - per usare una parola grossa - che precede la decisione   per chi votare, anche nel caso di voto di scambio, è sempre sommaria. Semplificando al massimo,  l'elettore  mette più cura nella scelta di un televisore che in quella di un parlamentare.  Così è, piaccia o meno, per la  stragrande maggioranza dei "consumatori politici". 
Di conseguenza, immaginiamo, quel che può accadere, aggiungendo confusione a confusione  quando, come sta avvenendo in Italia, si aizzi,  un giorno sì l'altro pure,  l’elettore contro i “vitalizi” e i  “privilegi della casta”,  solleticando  l’invidia, mai sopita,  dell’uomo comune.  Che tenderà, come il rancoroso Tersite  omerico,  a fare di tutta l’erba un fascio, confondendo le istituzioni parlamentari con il regime castale indiano.  
Un piccolo inciso, per i cultori della destra antiparlamentare dura e pura. In Italia, l’indennità parlamentare (in senso ampio,  comprensiva di altre voci) venne introdotta da Giolitti nel 1912 (lo Statuto Albertino, aristocraticamente, la vietava): all’epoca  ammontava a circa  lire 6000. Durante  il fascismo,  venne portata a lire 24 mila  (proprio negli anni in cui si cantava “Se potessi avere 1000 lire al mese”), e poi legata, con  la trasformazione della Camera dei Deputati  in Camera dei Fasci e delle Corporazioni, all’appartenenza al Partito Nazionale  Fascista.  Se non si era iscritti non si poteva farne parte, né percepire la cospicua indennità (*). Quando si dice il caso...
Pertanto, per tornare sul  punto,   la  rispondenza tra performance e qualità della retribuzione  è tanto più perfetta quanto più ci si avvicina a un’economia di mercato ( per dirla con Pareto, al massimo dell' utilità per una società, qualcosa di oggettivo, misurabile), quindi  alla possibilità di verificare concretamente profitti, costi e ricavi, ovviamente tenendo sempre presenti  le imperfezioni (scollamenti allocativi e informativi)  legate, ad esempio, alle pratiche oligopolistiche (**).
Nel caso dei parlamentari,  mancando rilievi oggettivi  (il massimo dell' utilità per una società)  ed essendo tutto rimesso, come del resto impone la democrazia,   alle valutazioni soggettive (il massimo dell' utilità  di una società, fattore ideologico, non economico, per scomodare ancora Pareto),  di un elettore, mediocre "consumatore" di "prodotti" politici,  assai distratto,  spesso facile preda del risentimento sociale,  le indennità potranno essere giudicate, di volta in volta,  alte o basse  in base a valori, come ora dovrebbe essere chiaro,  extra-economici, difficilmente quantificabili. Pertanto,  figurarsi: 1) la difficoltà di analizzare il voto in base al metro economico dei costi-ricavi e  2) il pallidissimo valore dei  raffronti internazionali tra differenti indennità parlamentari. 
Insomma,  tutto il dibattito sui  “vitalizi” e “sui privilegi della casta”  è fondato sul nulla .  Si discute, come certi teologi medioevali, intorno al sesso degli angeli. Alzare o abbassare gli "stipendi" dei parlamentari,  stante l’inattendibilità dei criteri di valutazione, ripetiamo, extra-economici e le basse capacità di scelta non economica in ambito politico  dell'elettore,  non serve a niente. Se non - ecco il lato pericoloso -  a surriscaldare il clima politico e favorire ingiustamente  quei  movimenti politici antiparlamentari di destra e sinistra,  che, come prova il caso dei fascismo,  una volta  giunti al potere, si trasformano in casta di nome e di fatto.

Carlo Gambescia


(*) Sul punto, ma anche per quadro accurato della questione, si veda Giuseppe Contini, Indennità parlamentare (II), in AA.VV. Enciclopedia del diritto,  Giuffrè Editore, Milano 1971, vol. XXI,  p. 110. 
(**) Sulla questione della misurabilità alcuni accenni, però non sempre pertinenti, qui:  http://www.lavoce.info/archives/43526/tagli-agli-stipendi-dei-politici-non-e-tutto-oro-quello-che-non-luccica/                                                        

martedì 27 marzo 2018

Il busto di gesso di“Repubblica”
L’Italia dei Sanculotti



L'apertura  di “Repubblica” ( notare pure la foto in evidenza del Cittadino Fico che va alla Camera in autobus)  rappresenta  l’ennesima prova offerta  dalla sinistra azionista, quella con la fissa del fare gli italiani a calci in culo  (semplifichiamo), di professare il  fascismo degli antifascisti.
Per i duri di comprendonio:  “Repubblica”  è favorevole a un governo Lega-M5S, senza Berlusconi, senza Renzi, i due grandi nemici,  non solo del quotidiano fondato da Scalfari, ma di una certa idea dell’Italia, per così dire alla Alberto Sordi (vedendone però solo i difetti). Un' idea  totalmente estranea a quel  giacobinismo della  sinistra azionista -  da Ferruccio Parri (il Presidente del Consiglio che dormiva in brandina) a Gustavo Zagrebelsky (che in brandina, ma in carcere, voleva mettere Berlusconi) -     che  spinse, gli eredi di  Mazzini e Pisacane  nelle braccia della sinistra comunista. da Togliatti a Berlinguer ( si pensi solo alla cosiddetta sinistra indipendente eletta nelle liste del Pci). Per inciso, anche il fascismo amava  il fondatore della Giovane Italia, apprezzandone il populismo.  Mentre gli azionisti rilessero Mazzini  alla luce della critica materialista di Marx ed Engels.   
Nel comunismo,  l’azionismo scorgeva una disciplinata  forza pedagogica di massa per tramutare  gli italiani in cittadini perfetti.  Per restare  nel mondo del cinema: in tanti Nanni Moretti. E se necessario, ripetiamo, a calci in culo. Questa era ed è l’essenza dell’azionismo: un fascismo (i calci in culo) riverniciato di democraticismo giacobino. Ecco, per essere precisi,  l’azionismo è un giacobinismo  di sinistra, il fascismo di destra. Il che spiega  perché si può parlare di fascismo dell’antifascismo.  Il Partito d’azione rivendicava  i propri meriti resistenziali, quindi antifascisti, ma coniugandoli con la stessa durezza totalitaria, quantomeno sui piani  della mentalità e di un' azione di governo fortemente dirigista (per i dotti: tecnicamente,  più vicina all'ala di Giustizia e Libertà che a quella liberal-socialista). Poi, nella seconda metà degli anni Quaranta del secolo scorso,  il partito  si sciolse:  molti confluirono nel mondo  del  giornalismo e della cultura, degli affari, della politica, delle professioni, tenendo però fede all’idea di un’Italia da cambiare a tutti i costi, anche con  bel busto di gesso. Alcuni nomi, tra i più importanti:  Rossi,  Matteoli, La Malfa, Calamandrei.    
Ora,  “Repubblica”, che ne è l’ultima incarnazione giornalistica,  si augura che il M5S, altra potente forza disciplinata,  realizzi il grande sogno azionista.  A tutti i costi, anche governando con un giacobino di destra come Salvini.  Per dirla con una formula, il fascismo  divide ma il giacobinismo unisce...
Ragionando, sempre per analogia  con la Rivoluzione francese,  Berlusconi e Renzi, sono visti come eredi del corrotto  e in fondo moderato  Danton, quindi due politici da eliminare.  E  i giudici ci stanno lavorando. E da un pezzo.  
L'incubo azionista - altro che sogno -  potrebbe essere  alle porte: l’Italia di Robespierre e dei Sanculotti. 

Carlo Gambescia   

       

lunedì 26 marzo 2018

La scomparsa di Frizzi
Ciao Fabrizio




Francesco Alberoni ha dato una bellissima definizione dei protagonisti del mondo dello spettacolo:  “élite senza potere”. 
Attori, cantanti, conduttori, sono famosi, importanti, piacciono a tutti, però  hanno fama ma non potere politico,  perché relegati in un angolino  del  "sottosistema culturale", per seguire  lo schema sistemico di  Parsons.   E se qualcuno di essi riesce ad agguantare un briciolo di potere, rappresenta la classica eccezione che conferma la regola.
Diciamo allora che con la morte di  Fabrizio Frizzi se ne è andato un pezzettino, un bel pezzettino, quello della Tv, del "sottosistema culturale". Qualcuno, ovviamente riderà, pensando che Gambescia riesce a infilare la sociologia ovunque. In realtà, ero un suo ammiratore, mi piaceva come faceva televisione: stile, garbo, rispetto per tutti, colleghi, ospiti, concorrenti. E non solo.  
Qualcuno frettolosamente continua a  paragonarlo  a Corrado. Allo stesso Frizzi la cosa  non dispiaceva. Però,  per usare il metro sociologico, non di Alberoni e Parsons ma del  professor Bellavista riveduto e corretto,  Frizzi, in realtà apparteneva a quella categoria di persone che quando incontrano un vicino per le scale, in prossimità dell’ascensore, salutano per primi, e tengono aperta la porta per farsi elegantemente  precedere.  Corrado no. Altra specie: quella del  salire in fretta, senza salutare nessuno, se non borbottando qualcosa, perché si vuole l’ascensore tutto per sé.
Due persone, prima che conduttori,  profondamente diverse.
Ciao Fabrizio.


Carlo Gambescia

domenica 25 marzo 2018

Dopo l’elezione dei Presidenti delle Camere
La parola ora  torna al Colle, ed è decisiva



Cominciamo con una battuta (fino a un certo punto). Il prossimo libro di Marcello Veneziani sarà una nuova edizione, forse la quarta, la quinta (non sapremmo) dell’evergreen per post-esiliati in patria,  La rivoluzione conservatrice in Italia. Stavolta  però con il M5S al  posto  di Forza Italia. Insomma, da Evola e  Gentile fino a Fico e  Salvini,  passando sul cadavere di Berlusconi. Proprio lo stesso  Cavaliere  che  mise l'intellettuale di Bisceglie dentro il CdA  Rai, cambiandogli  vita e casa (nel senso domiciliare…). 
Venendo alle cose meno tragicomiche, la stampa di destra (centrodestra, ormai è una parola grossa), già guarda con puttanesca (pardon) curiosità  a  un governo Salvini-Di Maio.  Più prudente, ovviamente il “Giornale”,  meno i fascio-grillini  della “Verità” e di  “Libero”. Attendisti, ma con occhio benevolo, “Tempo” e “Quotidiano Nazionale”. A battersi invece sulle barricate europeiste, liberali e moderate, per ora è  rimasto solo “il Foglio”.  Anche  il "Dubbio", piccolo-grande giornale garantista, cerca di fare la sua parte. Coraggiosamente.
La stampa di centrosinistra, o finto indipendente a grande tiratura (“Repubblica”, “Stampa”,“Corriere della Sera)  non vede di cattivo occhio il tandem Salvini-Di Maio,  escluso, ovviamente il livoroso  “ Fatto Quotidiano” (dalla tiratura mediocre però, ma più del "Manifesto", quotidiano per pensionati ed esodati del marxismo-leninismo, che invece non conta più nulla).  E  “ Il Sole 24 Ore” e  “Avvenire”? Da tempo sulla stessa linea socialdemocratica,  sono, anche se non lo ammettono, per Salvini e Di Maio “santi subito”.
Questo ai piani alti. Scendendo più in basso, quasi  4  italiani su 10, guarderebbero  con favore a un governo Lega-M5S.  Gli altri o non sanno (2 su dieci), o puntano (3 su dieci) su un governo di centrodestra  e/o, semplificando,  del presidente (1 su dieci). E i Social confermano.  
Cosa pensare ? Facile. I sondaggi (da ultimo, quello del Corrierone, però quasi di una settimana fa), confermano che   l’opinione pubblica si è spostata, come prevedibile verso i vincitori, Di Maio e Salvini (effetto bandwagon). Probabilmente, i prossimi sondaggi, soprattutto dopo il pienone a Camera e Senato di ieri, saranno ancora più sbilanciati verso la “strana coppia”, che tanto strana non sembra più essere, almeno agli occhi degli italiani.
Restano sempre alcuni però. Renzi ( e i renziani) continueranno la ricreazione? Favorendo, indirettamente,  quella parte del Pd, che sogna di  allearsi con Cinque  Stelle?  Però, attenzione, come alternativa a Salvini  ma senza avere i numeri necessari…  Berlusconi,  continuerà, zitto e buono ( o quasi) a prendere schiaffi da Salvini e Di Maio?  Anche qui però, non ci sono i voti per un ipotetico governo senza la "strana coppia"…  Certo, sarebbe interessante scoprire a chi appartengano i sessanta voti contrari a Fico.  A dire il vero,  resta aperto  il discorso   sui  “responsabili” da strappare - eventualmente -  a Lega  e (chissà)  Cinque Stelle.  Anche  Giorgia Meloni non sembra del tutto  convinta della linea abbracciata da Salvini. Quindi, forse, ecco qui,   un  altro pugno di voti da gettare nella fornace.
Proviamo a fare qualche conto. 
Al Senato si possono enumerare 30-35 voti, i renziani, 56 voti FI, 18 (?) FdI:  109 in tutto. Pochi. Anche a sommare tutti i voti  degli  Altri  (7) e di tutti i Senatori a Vita (6), quota 161 resta un sogno. 
Alla Camera ai 107 voti di FI, si possono sommare grosso modo gli  80 dei  renziani, forse 90, i 32 (?) di  FdI. Anche aggiungendo  60 “traditori” e  gli Altri  (10), quota 316 resta un miraggio.
Come si può  capire è praticamente impossibile varare qualsiasi governo senza  Lega (58 senatori, 121 deputati)   o Cinque Stelle (112 senatori, 227 deputati). Mentre, messi  insieme, Salvini e Di Maio avrebbero i numeri sufficienti.
Riassumendo,  si sta delineando, nei numeri e nella pubblica opinione (alta e bassa per così dire), l’ipotesi non più così remota di un governo Cinque Stelle-Lega.  Questo nuovo orientamento,  non potrà non pesare sulle Consultazioni e sulle decisioni del Colle.
Come però  dicevano i nonni,  tra il dire il fare c’è di mezzo il mare. Pertanto - ecco la controindicazione -  già nelle prossime fasi delle trattative  i due partiti  potrebbero  spaccarsi, se non proprio a metà, perdere almeno quel tanto di  duri e puri, capace di far traballare i numeri. Tutti senatori e deputati  che potrebbero confluire in altre maggioranze, ovviamene abborracciate sia  a destra che a sinistra.
Cosa significa tutto questo? Che Mattarella, prima di decidere in favore di un governo Salvini-Di Maio, non potrà non accertare la solidità della sua maggioranza. E quindi la  fedeltà delle truppe parlamentari. Altre soluzioni dipendono sempre dal Colle. Ma con numeri risicati. Come però  si sa, in politica, due più  due talvolta fa  cinque.
Pertanto il vero punto della questione  è rappresentato da quanto Mattarella  sia  convinto della capacità democratica e di governo della Lega e del M5S messi insieme. Il suo è un ruolo chiave, diremmo determinante.  
Ritiene il Colle che Salvini e Di Maio (ma sarebbe più corretto dire Grillo e soprattutto Casaleggio jr), se ci si passa la battuta, siano in possesso  della patente democratica, liberale ed europea per “guidare” l’Italia?  
Chi scrive, come sanno gli amici lettori, ritiene di no.   Ma non ha alcun potere decisionale. Mattarella invece sì.

Carlo Gambescia     

sabato 24 marzo 2018

 Salvini e Di Maio si baciano, ma
gli Italiani non si vogliono bene   



Esistono  la Francia, la Spagna, la  Germania, la Gran Bretagna dei moderati, ma non  l’Italia.  In Spagna governa il placido liberale Rajoy, in Francia un serio  liberal come  Macron, in Germania una rassicurante  coalizione tra socialdemocratici e democristiani, e non per la prima volta. In  Gran Bretagna, patria della democrazia rappresentativa, Theresa May, del partito conservatore, sta gestendo, come meglio può,  un' uscita a sorpresa dall'Ue. Comuque sia,  in questi paesi-chiave non governano gli estremisti di destra o sinistra. L'elettorato moderato, fortunatamente, sembra, come si dice,   "tenere botta". 
In Italia invece, ci si appresta a regalare, gaiamente,  la Camera dei Deputati a una forza eversiva come il partito delle Cinque Stelle, antidemocratico e anticostituzionale.  Che ha ottenuto oltre il 30 per cento dei voti, con l'aiuto di un partito razzista e di estrema destra come la Lega, al 17-18 per cento. 
Per inciso. Il Presidente della Camera svolge un ruolo delicatissimo riguardo all’organizzazione dei lavori e all’interpretazione del regolamento. Assegnarlo a uno sconosciuto  ajatollah pentastellato ( si fa il nome di Fraccaro)  significa consegnare le chiavi di casa (della Camera)  ai  topi d’appartamento.
E il Senato   -  non ce  ne siamo dimenticati -    probabilmente, dopo quel che è accaduto ieri ( il colpo di mano di Salvini),  potrebbe andare  a un leghista ( o peggio ancora a un cinquestelle o a un compagno di strada...),  votato da una maggioranza Lega-M5S.  Lo stesso potrebbe accadere, come già detto, alla Camera dei Deputati, salvo ripensamenti dell’ultima ora.  E questo potrebbe essere solo l'antipasto, come alcuni paventano.
Del resto, il  "senatore"  Renzi,   mostrando un’incoscienza degna di Salvini, ride e scherza con i suoi dall'alto dello scranno,  mentre l’Italia rischia di andare a fondo. Anche Berlusconi, noto per i repentini cambiamenti di  umore e idee,  potrebbe fare un passo indietro, e accettare la nomina della Bernini. O di un altro ascaro.  Quindi i giochi sui nomi (ma non sulla sostanza del cedimento agli estremismi) non sono ancora fatti. Pura polvere ma di (cinque) stelle. Che il Cavaliere, sembra voler raccogliere  di sotto il tappeto. Tutto  fa brodo, anche un palco di provincia, per il rugoso  chansonnier...
Il lato peggiore della questione - sostanziale -   è rappresentato dalla  cecità della maggioranza ( o quasi) degli italiani -  dai giornali a grande tiratura agli uscieri dei ministeri -  dinanzi al pericolo di  spianare la strada, anche  sul piano governativo,  ai  nipotini dei goebbelsiani  Grillo e Casaleggio jr.  
Questo comportamento -  l'allegra cecità del "massì, proviamo a fare piazza pulita" -   ha radici lontane: da quel mix di tarda statualità, ansia politica e bolsa retorica che ha distinto lo sviluppo politico italiano.  Parliamo dell’estremismo italiano (anche di centro), parolaio ma con pesanti ricadute storiche:  quel credere che possano esistere governi virtuosi inviati dallo spirito santo. Evocati, sempre a parole, da politici, altrettanto estremisti e ciechi, capaci però, così facendo, di gonfiare le aspettative e  diseducare i cittadini alla normale democrazia liberale, certamente imperfetta ma l' punica praticabile. E come?  Magnificando un' utopica democrazia perfetta e screditando  risultati perseguiti.  A prescindere.
La democrazia liberale  consiste in  un sistema di regole condivise, che come in tutte le democrazie rappresentative, deve facilitare  la circolazione delle élite.  Qui da noi, ogni élite, papabile per il governo,  assume un carattere messianico, insomma  è per sempre. Programma minimo, dal post-Risorgimento in poi: fare e rifare l'Italia e gli italiani.  Sicché  elezioni e formazione del governo si trasformano regolarmente in una specie di Armageddon. Che ogni volta  sfocia, semplificando, nel regime di salvezza nazionale.  
Forse semplifichiamo, ma fino a un certo punto. Perché così  fecero  i notabili  dell’Italia liberale, per difendersi da rossi e dai neri, nemici del Risorgimento.  Così i fascisti, per difendersi dagli anti-italiani, nemici delle camicie nere.  Cosi i democristiani per difendersi dai comunisti filosovietici. Così Craxi per difendersi dai catto-comunisti.  Così Berlusconi, per difendersi  dagli antiberlusconiani. Così i Cinque Stelle per salvare - così dicono - l’Italia dai  corrotti.
Talvolta l’autodifesa si è resa necessaria, come nel Post-Risorgimento e agli inizi della Prima Repubblica. Altre volte no,  come nel caso  del fascismo, del craxismo,  del berlusconismo,  e ora del grillismo.    
Quel che è sedimentato, il basso profondo collettivo,  è  l ’animus missionario, dirigista, ortopedico, costruttivista  - la lotta tra puri e impuri, tra virtuosi e no -  che si è impadronito degli italiani: quella  faziosità,  della verità in tasca,  che impedisce di edificare, anche come prassi, istituzioni politiche che favoriscano la normale circolazione delle élite e non  - ogni santa volta - il  governo dei buoni contro i cattivi,  dei virtuosi contro i malvagi, e così via...     
Come per l'appunto avviene nei paesi di tradizione liberale (anche di seconda generazione, come la Germania post-hitleriana), dove la saldezza delle istituzioni conta più della monomania virtuista,  di "purificare"  tutto e tutti,  che invece  rischia di distruggere l’Italia.   Come, ripetiamo,  accade -  beati loro -  in Francia, Spagna, Inghilterra. O quando necessario, nella forma di un governo consociativo, come in Germania, ma tra forze democratiche e costituzionali.  E con il plauso degli elettori  moderati. In Italia, paese non meno culturalmente ed economicamente moderno, invece no. Le guerre o sono stellari o niente. L'ideologia dello scontro frontale continua a fare aggio sulla cultura  liberale della mediazione. Ideologia, attenzione, che tende poi, considerata la fisiologica distanza tra parole e fatti, a tramutarsi in un regime dalla  patologica, perché imprecisata,  durata, come del resto impone ogni logica  salvifica. 
Per contro, nelle democrazie liberali, quel che conta non è la virtù bensì il fatto che i governi non virtuosi possano essere regolarmente mandati a casa dopo cinque anni. Non ci stancheremo mai di ripeterlo.  Servono regole condivise da tutti e non usate come catapulte.  Magari,   davanti  alla   famigerata "gente", aizzata da giornalisti sconsiderati,  che si sganascia e applaude. 
In Italia, invece, per riassumere,  abbiamo avuto, il regime dei notabili liberali, il regime fascista, il regime democristiano, con un pendant consociativo catto-comunista, il regime  craxiano,  il regime berlusconiano. E l’Italia estremista, del punto a capo ma in fondo conformista,  di volta in volta,  è stata liberal-oligarchica, fascista, democristiana e catto-comunista, craxiana,  berlusconiana. E ora sembra toccare al regime dei Cinquestelle.   
E non ci si venga a dire di non preoccuparsi, perché in Italia "tanto, tutto finisce a barzellette".  Stronzate (pardon), perché i tre cambi  di regime che si sono succeduti dal 1861 sono stati a dir poco  traumatici: 1922-1926,  1943-1948. 1992-1994.  Per non parlare della piaga del terrorismo, rosso e nero, della guerriglia urbana, degli scontri di piazza, del banditismo,  in nome talvolta del localismo più sfrenato. E ora, potremmo essere al quarto cambio di regime.
L’Italia, contrariamente a quel che si dice,  non è un paese per persone docili. La moderazione non è di casa. Gli italiani non si vogliono bene.    

Carlo Gambescia  
       

             

venerdì 23 marzo 2018

La sinistra che verrà?
di Teodoro Klitsche de la Grange

Sosteneva Thomas Hobbes (commentando Tacito) che il genio politico di Augusto si arguiva (anche) dall’uso che faceva delle parole, al fine di facilitare – ma anche di occultare e/o alterare il senso – i cambiamenti nell’ordinamento di Roma. Viene in mente perché il sottotitolo del libro è “Le parole chiave per cambiare”. E questa è la finalità del volume La sinistra che verrà (*), che raccoglie i   saggi di 22 autori: aggirare e ricostruire la cultura politica della sinistra attraverso un lessico nuovo per “la sinistra che verrà”. Tentativo, scrive Giulio Marcon nell’introduzione, “più urgente dopo la sconfitta del blocco comunista con il 1989 e della sua alternativa socialdemocratica e riformista, travolta dall’avanzata del modello neoliberista che a partire dagli anni  Ottanta ha colonizzato l’economia, la società, l’ambiente, la cultura”. Si è infatti affermato “il cosiddetto finanzcapitalismo, che potrebbe avere come rappresentante moderno quell’antico mostro mitologico di Gerione di cui Dante disse nell’Inferno: «Ecco la fiera con la coda aguzza/ che passa i monti e rompe i muri e l’armi! / Ecco colei che tutto ‘l mondo appuzza!»…Il capitalismo si è “radicalmente trasformato” e la sua finanziarizzazzione ripropone “un’egemonia (anche culturale), e di nuove gerarchie di potere, ricomponendo identità e processi sociali e spazzando via il «compromesso fordista» del Novecento. Processo che non è stato capito dalla sinistra per cui questa è in crisi dentro e fuori dall’Europa. Infatti “La sinistra cosiddetta «riformista» - socialdemocratica e moderata – è scomparsa in Grecia, ridotta al lumicino in Francia, sconfitta in Spagna e in Germania, in grandissima difficoltà in Italia”. Secondo Marcon la sinistra radicale gode di migliore salute “Da Syriza in Grecia a Podemos in Spagna, dal Labour in Gran Bretagna a Mélenchon in Francia fino al governo di «alternativa di sinistra» in Portogallo”, onde è in grado di prefigurare una società più giusta e più uguale.
Ad avviso del prefatore “Le politiche neoliberiste hanno messo al centro il mercato e il privato; la sinistra deve ricostruire una cultura dei beni comuni e del «pubblico». Il neoliberismo ha rilanciato la centralità dell’impresa e dell’individuo nel suo interesse privato; la sinistra deve rivendicare la centralità della società e della persona nel suo contesto comunitario”. A ciò serve un “lessico nuovo. Perché le parole contano. In questi anni l’ideologia neoliberista ha contaminato non solo percezioni e culture, ma anche le parole e il modo di esprimersi”. E questo “libro a più voci vuole appunto essere un piccolo contributo alla ricostruzione di una cultura politica della sinistra”.
L’altro curatore del volume, Giuliano Battiston scrive nella nota conclusiva che “Le parole sono veicoli del pensiero e strumenti di azione. Non solo descrivono il mondo, ma contribuiscono a trasformarlo”; occorre, sostiene, riflettere sulla crisi “La crisi ha avuto origine nella progressiva evasione dell’economia dal controllo democratico, nelle politiche istituzionali che hanno favorito l’ascesa della finanza predatrice, che ha prodotto disuguaglianza e instabilità (James K. Galbraith), ma segna anche la dissoluzione del capitalismo postbellico, quella particolare formazione sociale che aveva allineato democrazia e capitalismo intorno a un patto sociale che gli conferiva legittimità”. Oggi il “capitale avanza, la democrazia indietreggia”; onde “a uscirne incrinata è la stessa metafora fondante della società occidentali capitalistica: il contratto sociale” con la prevalenza di processi di esclusione sociale su quelli di inclusione. Gli autori di questo libro invitano ad essere consapevoli della trasformazione del capitalismo per cui “Si tratta di abbandonare una fede e una religione – la religione del progresso, la fede nello sviluppo – in favore di un’altra società, una società di abbondanza frugale, che punti al benessere condiviso, alla giustizia per tutti”.
Se il proposito degli autori è condivisibile, perché non si possono applicare schemi otto-novecenteschi in un contesto socio-politico economico dove si presentano obsoleti, è anche vero che il loro armamentario di riferimento tiene spesso ancora conto di parametri e griglie superati.
In particolare il criterio destra/sinistra. Questo è già in se equivoco, perché tende ad accomunare due distinzioni epocali di contrapposizione politica: quella, prevalente nel XIX secolo, dell’opposizione tra borghesia/potere monarchico, e quella del “secolo breve” tra borghesi e proletari. Ritiene Marcon che “Norberto Bobbio in Destra e sinistra individua nell’uguaglianza il concetto (il valore, la politica) su cui si costruisce il discrimine tra destra e sinistra. È a fondamento della nostra Costituzione (articolo 3) e informa ogni proposta e progetto che sia di sinistra”. Ne deriva che sia il discrimine destra/sinistra sia il carattere fondamentale di questo (l’uguaglianza) sono considerati aventi ancora un valore politico fondamentale, determinante la dicotomia amicus/hostis. Solo che non è più così: la distinzione ha perso valore, è in fase di neutralizzazione, anche se alcune esigenze possono trasmigrare in una nuova scriminante amico/nemico (e in molti dei saggi raccolti nel volume, lo si avverte anche implicitamente).
Ad esempio la scriminante del “secolo breve” era fondata sui rapporti di produzione e sulla contrapposizione tra capitalisti ed operai. Ormai, nell’epoca del finanzcapitalismo l’appropriazione della ricchezza prodotta dagli uni e dagli altri è percepita e in gran parte lo è realmente, come effetto dello sfruttamento di élite politiche e burocratiche, di clientele consolidate, della finanza (interna ed) internazionale, e, da ultimo, della concorrenza (di paesi) e manodopera a basso costo. Non è più determinata (fondamentalmente) dal rapporto di produzione, ma dallo sfruttamento fondato su altro. Il nemico è così diventato, anche (forse soprattutto) per larghi strati popolari, il burocrate e il finanziario parassita, il garantito per scelta pubblica (politica), il migrante sfruttato (come concorrente sul mercato del lavoro). Lo stesso criterio dell’eguaglianza individuato da Bobbio (a parte che anche all’epoca, aveva dubbio valore fondamentale), ha carattere relativo, allorquando il criterio discriminante è più conseguenza di un differenziale di potere (politico ed economico).
Il potere globalizzante attenta non tanto all’eguaglianza tra individui e a quella tra comunità umane, ma al carattere d’indipendenza di queste, ossia di non dipendere da decisioni di altre sintesi politiche, ma avere la suità di tomistica memoria (liber est qui sui causa est).
L’invadenza della globalizzazione, il suo limitare la sovranità, e così l’indipendenza delle comunità, è ciò che fa riconoscere il nemico e il campo centrale della nuova scriminante. Alla quale le altre, e i corrispondenti conflitti d’interesse, tendono ad essere subordinati. La decisione fondamentale non è più se stare con i borghesi o i proletari, con i poveri o i ricchi, ma con i propri concittadini o con gli altri.
Teodoro Klitsche de la Grange


(*) Minimum fax, Roma 2018, pp. 258, € 16,00


Teodoro Klitsche de la Grange è  avvocato, giurista, direttore del trimestrale di cultura politica“Behemoth" (http://www.behemoth.it/ ). Tra i suoi libri: Lo specchio infranto (1998), Il salto di Rodi (1999), Il Doppio Stato (2001), L'apologia della cattiveria (2003), L'inferno dell'intellettuale (2007), Dove va lo Stato? (2009),  Funzionarismo (2013).




giovedì 22 marzo 2018

Ma quale Zuckerberg, la sinistra  si guardi il film di Wajda  sull’eccidio di Katyn
Pensare  il  Vero Male



La sinistra ha perso ogni  contatto con la realtà, o meglio con l'esperienza del Vero Male. È come incapace di pensarlo.  Parliamo della sinistra, mondiale ma anche italiana, sempre sull'orlo della  crisi di nervi  a proposito di "politicamente corretto",  “molestie di genere”, “mafie” (occhio al plurale).  E che   ora  è  pronta ad azzannare Zuckerberg,  perché tapino  avrebbe fatto vincere  - ecco il succo del pippone (pardon) mondiale in corso -   quel ciccione  maschilista di  Trump.
Attenzione, quando parliamo di male,  non pensiamo ( comunque non solo) al male cartonato  del catastrofismo,  cavallo di battaglia della sinistra declinista,  quella che in Italia, ad esempio, vota Grillo, dei naufraghi del comunismo,  intercettati (anche)  a destra dai populisti alla Salvini: tutti insieme rigorosamente antiamericani e anticapitalisti.  Gente che adora il piccolo zar  Putin I  e che al  minimo cedimento borsistico celebra  il crollo finale del capitalismo.
Diciamo pure  che la sinistra delle fighette (pardon),  quella che strizza l’occhio ad Asia Argento, proprio perché in tutt'altre faccende affaccendata, finisce per andare a braccetto, volente o nolente, con quella  dei duri e  puri  che condivide il samovar con    Putin e le pietre rotolanti  con i No TAV (o se  si preferisce i  “No TUTTO”). Insomma, sia gli uni che altri  non sanno  più  dove sia di casa il Vero Male…
Eppure per scoprirlo, basterebbe un clic. Sarebbe sufficiente guardare il toccante ma documentatissimo film di Andrzej Wajda  sull’eccidio  nel bosco di Katyn (1),  dove nel 1940  i comunisti sovietici  uccisero con un colpo alla nuca, uno dopo l'altro, più di ventimila ufficiali polacchi. E con il tacito consenso dei  nazisti,  assolutamente al corrente del fatto che la spartizione  della Polonia avrebbe comportato il tentativo, messo in atto regolarmente, di recidere in un solo colpo -  sopprimendo ingegneri, professori, avvocati, medici (tutti arruolati come ufficiali) -  le nervature della classe dirigente polacca. Assolutamente diabolico, altro che delitto di lesa  privacy...
Per inciso, la "nuova" Russia in modalità Putin, si è riconosciuta colpevole, scaricando però la responsabilità, non sull'ideologia marxista-leninista,  ma sui servizi segreti stalinisti... Le betulle di Katyn, a differenza dei cipressi di Gerona,  evocati da Gironella nella suggestiva  trilogia sulla guerra civile spagnola, pur piegandosi al vento,  alla voce di Dio, continuano a mentire. 
Il Vero Male non  è rappresentato dal pippone (aripardon) mondiale sul rapporto tra Cambridge Analytica e Facebook, ma dal  tentativo novecentesco  di distruggere l’esperimento  liberale con le armi e la violenza di massa.  Di cui purtroppo si è persa la memoria.  Mentre da quell'attacco alla nostra libertà si dovrebbe ripartire. Quantomeno per fare confronti e paralleli sulle sliding doors di una disastrosa guerra civile europea.
Invece, il film di Wajda, uscito nel 2007,  passò inosservato in Italia.  Perché ritenuto di cattivo gusto, come tutto ciò che maleodorava e maleodora di "anticomunismo" (2).  E da chi? Dalle due sinistre,  fighetta (aripardon)  e declinista.  Ma anche, per entrare in dettagli politicamente scabrosi,  da una destra  putiniana, allora in versione Berlusconi, grande amico del vecchio agente del KGB, una destra oggi nella mani di Salvini, altro indiscreto  ammiratore di Putin.
Il Vero Male è il totalitarismo ideologico e politico, storicamente rappresentato dal nazionalsocialismo (con il fascismo come ruota di scorta) e dal comunismo in tutte le sue forme, anche sorridenti (all'inizio).   Il Vero Male  è in quella  tentazione totalitaria che rischia sempre di  tradursi nel  colpo di pistola alla nuca.  E non dalla caccia alle "bubbane"  di e su  Zuckerberg. Il che, al massimo,  è problema da Associazione Consumatori...  Altro che pericolo per la democrazia.
E invece? Zuckerberg,  notizia dell’ultima ora,  fa addirittura  mea culpa.  Ecco il frutto avvelenato del  pensiero debole di una  sinistra, condiviso dallo stesso fondatore di Fb:   aver  perso la cognizione del male. E dunque del vero dolore. Quel non saper pensare, collocandolo nella sua sacrosanta prospettiva storica e politica, il  Male Assoluto rappresentato dal  totalitarismo  nazista e comunista.
Il film di Wajda  inizia  con una inquadratura spaesante :  civili polacchi, donne, bambini, anziani, malati,  soldati dalle divise lacere,  tutti  in fuga da e verso nazisti e sovietici.  Folle di profughi, dolenti e  impaurite,  che si incrociano, da Ovest a Est  e viceversa,  senza una meta.  Portando con sé su carri e rare automobili  l’inessenziale, vecchi mobili e altre suppellettili.         
Ecco, probabilmente,   non c’è immagine migliore per raffigurare   una sinistra  allo sbando,  incapace di afferrare dove sia il Vero Male.  Si agita e basta. Non pensa.  Come un Martina, ad esempio, che qualche giorno fa nel corso dell' assemblea PD,   invece di preoccuparsi, dei nuovi dottor Goebbels di Cinque Stelle a un passo dal governo, implorava  l'arresto obbligatorio per coloro che maltrattano le donne. 
Cosa in sé giustissima. Per carità.  Ma con i nemici della libertà alle porte?    
Carlo Gambescia

(2) Sulla strategia del "bon ton"  filocomunista si veda l'eccellente libro di Ernesto Galli della Loggia, Credere Tradire Vivere. Un viaggio negli anni della Repubblica, il Mulino, Bologna 2016, pp. 155-182, in particolare.     

mercoledì 21 marzo 2018

Viva  Mark Zuckerberg!



Maledetto mondo, ingrato. Tempi duri per Mark  Zuckerberg, uno dei più geniali imprenditori,  tra l'altro giovanissimo,  dei nostri tempi.  Un bellissimo esempio di individualismo non protetto, libero e creativo. Ora invece  tutti sembrano condannarlo.  Eppure ha inventato Facebook. Un bene immateriale di cui tutti ormai facciamo uso,  quotidiamente  e liberamente.  Uno strumento  di libertà, veramente prezioso.  
Però, per apprezzarlo,  ci si deve sentire liberi, di dentro,  veramente. Dunque responsabili.  E qui sorgono i  problemi.  Piccola premessa.   
Il nodo fondamentale che la nostra società, ritenuta a torto (come vedremo) individualistica,  non ha mai sciolto,  è quello del collegamento tra libertà e responsabilità. Ci spieghiamo subito.
Modernità, certo,  parola grossa. Tuttavia, al suo interno, l’individuo, gode, storicamente,  di uno statuto filosofico, (Umanesimo e Rinascimento), religioso (Riforma), politico (Rivoluzioni inglese, americana e francese). Detto altrimenti:  una tradizione moderna che attribuisce all'individuo piena e consapevole libertà di decidere. Si chiama, libero arbitrio.  Dunque, ufficialmente, si è dinanzi a un essere  ritenuto perfettamente consapevole delle proprie libere scelte (e conseguenze). 
Per farla breve, altro che fesso... Tutto bene allora? No. Perché, per contro, sul terreno della presuntiva  "deresponsabilizzazione" (come ora vedremo),  quindi del  ritenere  invece l’individuo un po’ fesso e un po’ vittima della società,   si sono mosse,  totalmente  a proprio agio, le  dottrine socialiste, socio-cristiane e totalitariste (comunismo e  nazionalsocialismo con a rimorchio il fascismo). Veri e propri "blocchi ideologici"   ben felici di  scaricare su una  società ritenuta corrotta dal punto di vista di un'idea presuntiva di bene comune,  le colpe aggiuntive di un individuo giudicato a priori pure fesso.
Questa visione di un  individuo, a rischio imbroglio, quindi bisognoso  di tutele,  ha impedito -  il famoso nodo, cui accennavamo..  -  all’individualismo di sviluppare   tutta la sua potenza creativa. Una palla al piede, soprattutto per una società libera. E per statuto filosofico, come dicevamo.Quindi altro che  trionfo dell'individualismo...  
Ora è verissimo che la società  tende sempre  a cristallizzarsi, come  giustamente insegna la sociologia, imponendo le proprie regole, che influiscono sui singoli.  Ma una cosa  è prenderne atto, stare a guardia dei fatti, insomma, un' altra trasformare concettualmente la società in un  "tutto" capace di determinare, regolarmente,  le scelte della "parte", ossia  dell’individuo. Un fessacchiotto,  che, di conseguenza, come ritengono i "deresponsabilizzatori" di cui sopra,   andrebbe  difeso e protetto, da se stesso e dalla società. 
Se le cose stanno così, come commentare  la  vicenda  dei  “dati personali”  “venduti”   da Facebook , non si sa bene ancora a chi, per scopi, come dicono,  politico-elettorali?  
Siamo davanti, soprattutto se guardiamo alle reazioni, a un classico caso di individualismo socialmente protetto,  che  comprova, purtroppo, la schizofrenia di un individualismo, dimezzato,  per così dire  “a mezzo servizio”,  imperfetto. 
Infatti  la stessa pubblica opinione  che  si scaglia contro il "complotto"  ordito contro l’individuo, per un verso  inneggia quotidianamente alla libertà di scelta  e alle responsabilità che ne conseguono per l’individuo. Per l’altro, sembra invece ritenere  lo stesso  individuo,  incapace di scegliere: un fesso che si  fa imbrogliare, quindi anche incapace di votare.  Sicché si  chiede  l’introduzione di controlli e regole, dopo processi,  magari in piazza, dei diabolici colpevoli. In primis,  Zuckerberg,  che invece andrebbe annoverato tra i benefattori dell’umanità. Certo, ci guadagna, ma la sua invenzione ha messo tutti in contatto con tutti. E poi, come osservava Adam Smith, non è dalla benevolenza del macellaio, del birraio o del fornaio che ci aspettiamo il nostro pranzo, ma dalla cura che essi hanno per il proprio  interesse...                             
Insomma,  si reclamano, in modo contraddittorio, libertà e protezione dalla libertà... Evocando controlli  che difendano, ripetiamo, l’individuo da se stesso. E che nella fattispecie lo proteggano da Facebook,  micro-personificazione di una macro-società, quella in cui tutti viviamo,  che ottunderebbe le capacità di scelta, già mediocri,  dell’individuo.  
Ora, se un individuo  è  capace  di iscriversi a Facebook, si suppone, se il termine individualismo ha un senso proprio, che lo stesso sia in  grado di votare secondo il proprio libero arbitrio. E quindi di infischiarsene, per così dire, della pubblicità politica, occulta o meno.  Se invece, si ritiene, come pare,  che l’individuo, sia costitutivamente un fesso, allora non saranno regole e regolette introdotte a tamburo battente, per imbrigliare la società "corrotta",  a impedire che un fesso si comporti da fesso, iscrivendosi a Facebook e votando  per il candidato che gli viene "ordinato" di votare.  
Tertium non datur.   Viva Mark  Zuckerberg!


Carlo Gambescia

martedì 20 marzo 2018

Putin rieletto per la quarta volta
Il verso del pappagallo anticasta




Putin ha vinto, viva Putin...  Oppure,  abbasso Putin?   A dire il vero,  i commenti della stampa italiana e internazionale, anche statunitense  e soprattutto britannica, che pure in questo momento  ne avrebbe di cose da dire, sono all’insegna della  rassegnazione e più in generale dell' avalutatività.  Più o meno quel che è accaduto  per la conferma  a vita ( o quasi)  di   Xi Jinping,  leader di una Cina che apparentemente vuole  fare solo buoni affari con tutti. Eccetto che, forse,  con Taiwan...  Tutto nella "norma", insomma.
Fascino dell’uomo forte al potere?  Realismo politico? Conformismo mediatico su Russia e Cina, in fondo abbastanza stabili,  e  che perciò  non fanno più notizia?   Difficile dire.  Probabilmente un mix delle tre cose.  Che poi si riducono a una sola, e  molto pericolosa,  perché va a innnervare il mainstream populista in Occidente.  Ci spieghiamo subito:  il punto non è   tanto il  fascino dell’uomo forte nel contesto storico russo o cinese (ogni popolo ha la tradizione politica che si merita), quanto l’effetto negativo di ricaduta del modello plebiscitario, incarnato da Putin e Xi,  sulla democrazia liberale,  rappresentativa, procedurale e garantista. 
Più che un ragionamento è un sentimento di invidia sociale latente, assai stupido, da bambini viziati, verso i sistemi politici della  Russia e della Cina,  che più o meno suona così: "Imparate politici occidentali, quei paesi, senza divisione dei poteri,  funzionano lo stesso,  sono rispettati da tutti e non pagano vitalizi".
Più che fascino in sé  per l’uomo forte, si ammirano, neppure tanto di  nascosto,  i metodi, a dir poco sbrigativi, di governo. Sintetizzando, sempre in “populistese”:  niente chiacchiere, niente caste politiche e un grosso randello in mano per i vicini.   Insomma,  la politica del  “Ciak, azione, giù botte!”. E, se qualcuno chiede loro:  "Locke, Montesquieu, Tocqueville?" La risposa è:  " Mai conosciuti, non amiamo leggere, non serve a niente".
Che poi le cose in realtà stiano in modo diverso,  tipo chi tocca i fili di Putin o di Xi muore (per non parlare di "vitalizi" ben più corposi), non importa più di tanto.   Soprattutto   a coloro, non pochi in Occidente, così  sazi di libertà, anzi ubriachi, fino  al punto di non rendersi conto della condizione di privilegio di cui godono.  
Insomma,  il silenzio  dei media si nutre dell’ acquiescenza verso un   diffuso sentimento  anticasta, che a sua volta retroagisce sui media, e così via. Un circolo vizioso. E in Italia purtroppo ne sappiamo qualcosa.  Anche perché,  alcuni partiti addirittura non nascondono  la propria simpatia - attenzione - non solo per Putin ma per il "modello" Putin.  Per non parlare poi del peana del solito filosofo cretino, o meglio del cretino filosofo di turno... 
Ma, allora, ci si chiederà, perché tanto fracasso su Trump? Che si presenta come uomo forte, dalla parte del popolo americano?  Ecco, si "presenta"… Vuole apparire come tale. Ma in realtà  è una caricatura di Putin e Xi.  E i  mass media e la  pubblica opinione,   abilissimi nel fiutare l’odore del sangue,  ovviamente,  giudicandolo una controfigura,  lo  azzannano a morte.
Resta però la questione del populismo, come clima diffuso, opprimente, devastante, il cui rauco verso,  alla stregua  del pappagallo totalitario orwelliano,  risuona nell'aria martellante,  ripetendo a tutti che la democrazia rappresentativa  è uguale al  sistema indiano delle caste; che i parlamenti vanno sostituiti con la democrazia diretta, plebiscitaria; che serve l' uomo forte con tanto di  nodoso bastone per farsi rispettare in Europa e nel mondo. 
Musica vecchia, già sentita.  Eppure...             


Carlo Gambescia                       

lunedì 19 marzo 2018

Essere nella mente di Mattarella...




Come ricorda lo storico cattolico (e democristiano) Gabriele De Rosa nel suo Diario Politico (1), Sergio Mattarella  tentò  fino all’ultimo di evitare che Buttiglione impadronendosi della segreteria politica, spostasse a destra, verso Berlusconi e Fini,  l’equilibrio di ciò che restava della Democrazia Cristiana  nell’ultima versione come neo Partito Popolare.  Dopo di che, come noto, Buttiglione scelse il Cavaliere, Mattarella, Prodi e l’Ulivo.
Si legge altrove, su un sito,  che l'infuocata elezione nel luglio del 1994 di Buttiglione a segretario del Partito Popolare, venne contestata da un gruppetto di popolari, del quale facevamo parte la  Bindi e Mattarella, al grido di  “Fascisti, fascisti, fascisti!” (2).
L’ appartenenza di Mattarella alla  sinistra democristiana,  prima  l'ala  morotea, dopo quella demitiana, lascia poche speranze al  Centrodestra, neppure a guida Salvini, di partire  favorito. La "naturale"  inclinazione a sinistra del Presidente della Repubblica  potrebbe invece favorire l’idea di un Centrosinistra rinnovato dall’apporto dei Cinque Stelle. Del resto, ammesso e non concesso,   che le Camere vengano spartite tra  Lega  e M5S, ciò  non  significa che al momento delle consultazioni, il Colle non possa non influire sulla formazione di un governo di Centrosinistra esteso al partito di Grillo e Casaleggio Jr.   I numeri ci potrebbero essere, o quanto meno trovare tra gli scontenti. 
Tutto lineare? No, perché Mattarella, a quanto si sa, non è neppure convinto della “maturità” democratica dei  Cinque Stelle. Quindi, difficilmente, a prescindere da cosa ne pensino i due  ipotetici "promessi sposi" e (anche) dai numeri che pure ci sono,  potrebbe  nascere un governo  M5S-Lega. 
Resta allora  in campo l’idea  di un Governo del Presidente?  La Costituzione all’articolo 92, comma 2°, lo rende  possibile anche formalmente, come un governo  (politicamente parlando, e auspicando) tra tutte le forze moderate e riformiste, per isolare  le forze estreme ( con una legge elettorale ad hoc) e mettere in sicurezza l'Italia, come ad esempio in Germania dove socialdemocratici e democristiani governano insieme, per non parlare della Francia macroniana.  Però i numeri (considerando una Lega recalcitrante e l'opposizione del M5S) non ci sono, almeno tutti. Quindi i "responsabili"  andrebbero "pescati" in tutti i partiti, addirittura tra gli scontenti del M5S. E qui il ruolo autorevole e la forte determinazione del Colle  potrebbero essere  fattori determinanti. 
Ovviamente, per sapere, quante possibilità abbia una  soluzione del genere si dovrebbe “entrare” nella mente di Mattarella, giurista, già professore e giudice costituzionale, profondo conoscitore della macchina dello stato  e dei rotismi parlamentari,  autore di una legge elettorale che porta il suo nome, sebbene schernita  nel  latino  maccheronico del politologo  Sartori.  Per inciso, non ce ne voglia dall' Aldilà il professore, ma il Mattarellum maggioritario o quasi,  rispetto al Rosatellum fritto misto al proporzionale,  rimane  quasi una vera sciccheria (con esso votammo, nel 1994, nel 1996 e nel 2001).
Pertanto Mattarella sa bene, che andare di nuovo al voto, con questa legge,  significa  solo  rischiare di moltiplicare il bottino elettorale di Lega e Cinque Stelle, forze  politicamente  non  gradite  al Presidente e,  cosa più grave,   amplificare  una specie di   bipolarismo deteriore, malato di populismo.
Quanto peserà la sua  anima di sinistra?  Anche se quel “Fascisti, fascisti, fascisti!",  al quale, come accennato, stando al resoconto di  De Rosa,  ma anche all' indole flemmatica di Mattarella,  egli non partecipò, se non - ma  si può solo  ipotizzare -  nei termini di un silenzio-assenso (3).
Diciamo pure, senza tanti complimenti, che Lega e M5S sono putiniani (inutile qui ricordare le abbondanti citazioni favorevoli, e non solo). Tuttavia,  Putin, tra l’altro riconfermato per la quarta volta,  pur essendo, come pare il beniamino dei russi, non può assolutamente rappresentare un modello politico "potabile"  per le nostre democrazie, agli  antipodi delle tradizioni autocratiche incarnate dal piccolo Zar moscovita.
Pertanto, proprio in nome di quelle tradizioni liberali e democratiche,  incarnate, seppure in misura non sempre coincidente, da Sturzo e De Gasperi, comunque idealmente riunite in  quel “Fascisti, fascisti, fascisti!”,  crediamo  Mattarella non desideri assolutamente consegnare l’Italia ai fascisti del Terzo Millennio:  i putiniani della Lega e di Cinque Stelle (per inciso, la Meloni, che etimologicamente è antemarcia,  personifica invece il ruolo della  pura e semplice ruota di scorta, furbissima però nell'intercettare, di volta in volta, l'area del consenso, seppure di nicchia).  
Tuttavia, abbiamo anche  accennato,  alle simpatie morotee del giovane ( o quasi)  Mattarella.  Il che potrebbe far pensare, che nonostante tutto, il Presidente possa ritenere  utile  "addomesticare" il M5S, per dividerlo e renderlo inoffensivo,  proprio come fece Moro, prima con il PSI  poi con il PCI.
La difficoltà implicita  nel "domesticamento"  può essere condensata in  una domanda: quanto potrebbe costare il  training politico all’Italia?  Dal momento che stiamo  ancora pagando i guasti della morotea strategia  politica  della lumaca?    
Chi avrà la meglio nella mente di Mattarella?  Sturzo e De Gasperi  o Moro? Il problema è tutto qui.

Carlo Gambescia

                                                       
(1) G. De Rosa, La transizione infinita. Diario Politico 1990-1996, Editori Laterza, Roma-Bari 1997, p. 125, ma passim.  De Rosa, a proposito della nomina a segretario di Buttiglione  nel luglio del 1994,  parla del  mandare “ancora una volta in esilio Luigi Sturzo”  (Ibid., p. 124)

(2)   Qui:  http://cinquantamila.corriere.it/storyTellerThread.php?threadId=MATTARELLA+SergioEpisodio, del quale però De Rosa, pur presente, non parla nel suo Diario Politico.

(3)  G. De Rosa, op. cit., p. 123.