mercoledì 31 ottobre 2018

La responsabilità storica  del populismo comunista
Quando Michele Serra era su Marte...




Michele Serra nell’ “Amaca”  di oggi  se la prende  con la “signora fascista”,  in visita a Predappio,  che oltre a girare con una maglietta antisemita  sostiene che dopo Mussolini  per il popolo italiano  non si è  fatto niente… 
Concordiamo, con le critiche  di un  Serra basito:  altro che nulla,   l’Italia  grazie alla democrazia rappresentativa, allo stato di diritto e all’economia di mercato ha goduto di settant’anni di pace, sviluppo e benessere.  Però  il punto è un  altro.  
Che un fascista, che odia la democrazia, il liberalismo e il capitalismo,  sostenga queste cose è comprensibile (non giustificabile, ovviamente),  che invece le sostengano  gli italiani, mai satolli come ora, che però hanno votato Salvini e Di Maio, lo è di  meno.  E ancora di meno  che  un "post-comunista" (ora si chiamano così), come Serra, si dichiari basito,  asserendo di non capire il perché  di questa amnesia politica tutta italiana.  Evidentemente, durante la Prima Repubblica,   anche lui era su Marte, come i grotteschi  fascisti di Corrado Guzzanti.  
Perché - ecco il punto -   i comunisti italiani, la parte politica dalla quale proviene Serra  che quegli ideali ha condiviso (lui, ovviamente, se interpellato risponderà, che era critico, eccetera, eccetera), hanno  fatto del loro  meglio, dopo il 1945,  per presentare la democrazia italiana come nemica del popolo, indicando in ogni riforma una trappola e un passo indietro rispetto al radioso cammino verso la democrazia integrale socialista ovviamente, rappresentata prima dalla Russia stalinista, poi da una misteriosa Terza via italiana, tra lo stalinismo e la socialdemocrazia: idea sopraffina, quest’ultima, coltivata,  praticamente, fino alla fatidica Bolognina occhettiana. 
Dopo di che la sinistra si è divisa, continuando però a fare tifo per i giudici,  ritenuti  gli unici amici del popolo,  contro Berlusconi, of course,  liquidato  come erede di Mussolini. Fino a lanciare, e questi sono gli ultimi sviluppi (diciamo, post-comunisti),  un ponte verso Cinque Stelle ( prima Bersani  poi Zingaretti). I nonni, che di sociologia non sapevano nulla, dicevamo però, a ragione,  Dio li fa, poi li accoppia... 
Quanto può aver pesato questo atteggiamento ideologico  su un’ opinione pubblica di sinistra che tuttora rimpiange  una figura, politicamente arcaica come Enrico Berlinguer?  Che indicava come esempio di modello economico "austero"  il Vietnam riunificato? Tantissimo.
Certo, c'è anche l'altra versione: che Togliatti prima, Berlinguer dopo, avrebbero tenuto a bada gli estremisti. E sia.  Fermo restando però,  che il rapporto dei comunisti  con la democrazia liberale non si discostò mai, come del resto per i missini, da un rispetto puramente strumentale.  Non ci credevano, insomma.  E se ci credevano, credevano fino all'ora X  (per dirla con Guareschi, che qualche danno culturale  a destra, dispiace dirlo,  l'ha pur fatto, ma questa è un'altra storia...). 
Ora,   i frutti di  questo  virtuismo  populista  (in sintesi: "Signora mia è tutto un magna magna, però noi cambieremo tutto"),  sono stati raccolti dai Cinque Stelle, e di rimbalzo  da tutti gli altri partiti, post-Tangentopoli. 
Il mantra della Seconda Repubblica,  era che  la Prima  per l’Italia non aveva  fatto nulla, che il Paese era stato depredato, eccetera, eccetera. La signora con la maglietta nera  che sorride beata,  ironizzando sull’Olocausto e inneggiando al Duce,  non è che il lato destro di una vulgata  populista, condivisa  dal lato sinistro dello schieramento politico. Una "narrazione" che dopo Tangentopoli,  anche per demerito di Berlusconi,  si è trasformata nel leitmotiv  della  politica italiana, portando voti e acqua al mulino di Cinque Stelle e della Lega, come per combinato disposto.  
Inutile perciò piangere sul latte versato della memoria corta italiana, per  prendersela, anche se giusto, con la fascistona di turno. Qui invece sarebbe d’obbligo - finalmente -  il  mea culpa pubblico.  I comunisti italiani hanno tremende  responsabilità storiche. Dal momento che  hanno condiviso la stessa battaglia delegittimante verso la democrazia liberale dei nostalgici del fascismo,  alla quale opponevano,  a differenza  dei fascisti, legati all’età dell’oro mussoliniana,  un  mitologico  futuro socialista.  
E questi sono i risultati.    

                                                                                                       Carlo Gambescia   





martedì 30 ottobre 2018

No Tav, No Tap e via discorrendo…
È tutta colpa del chilometro zero

Basta leggere qualsiasi storia  sociale  del cibo e dell’alimentazione, per capire subito che L’Italia accanto a   una cucina nazionale, ne ha una regionale, se non addirittura provinciale e comunale. In realtà, la progressiva egemonia mondiale della pizza e degli spaghetti,  rinvia, per le origini, alla fine dell’Ottocento: la coppia vincente  pizza-spaghetti  fu la risposta del Sud  all’ Unificazione.  Un grande sforzo di fare gli italiani, riconquistandoli dal basso, dalla cucina.  Insomma, quello che non fecero le armi lo fecero le paste alimentari e ovviamente l’emigrazione, che tra Otto e Novecento  contribuì a diffondere ciò che oggi, più in generale,  si chiama made in Italy. Ma questa è un'altra storia.
Cosa vogliamo dire? Che la retorica del cibo a chilometro zero ha radici profonde nel  localismo , probabilmente innato, degli italiani, che si sposa,  talvolta  bene, talaltra male,  con il nazionalismo della  pizza e spaghetti.   Tutto a posto allora? No. 
Perché questo provincialismo è profondamente antimoderno e spiega, dal punto di vista politico,  il perché  della forza dei movimenti localistici - poi ovviamente sfruttati, per ricaduta politica da forze nazionali -  come i No Tav, i No Tap, eccetera, eccetera.  L’idea (neppure provata, ma il punto non è questo)  che  "il mangiare locale"   sia più sano,  non è che il riflesso di una mentalità provinciale, che al tempo stesso, viene da lontano,  ben prima dei rigurgiti anti-unificazione, quasi una seconda cultura, che però  fa ottimamente da volano al riflesso carnivoro  localistico e  poi nazionale, dunque di fusione autarchica, che anima i vari movimenti anti-tutto.
Quanti programmi televisivi, radiofonici, per non parlare dei social,  bombardano la gente  con  i vantaggi della filiera locale? Tutti.  L'idea, che, come vedremo, non risale alla Mucca Pazza, può sembrare innocua. Ormai, siamo  dinanzi a  un luogo comune  condiviso dal   novanta per cento degli italiani.  In realtà, l'idea del cibo fai da te,   non è innocua. Anzi,  come per le sigarette, si dovrebbe stampigliare sulle confezioni di cibo locale, che, per secoli, secoli e secoli,  l'autarchia alimentare  ha moltiplicato  solo  fame e  miseria.  Detto altrimenti:  perché non scrivere  su un vassoietto  di melanzane proveniente da Maccarese, l'autarchia nuoce gravemente all'alimentazione ?  E dunque alla salute?
Ci spieghiamo meglio. La globalizzazione del cibo e degli alimenti  ha poco più di due secoli  secoli, però rappresenta  la modernità della pancia piena. Una modernità, che in Italia, per varie ragioni storiche,  ha sempre stentato ad attecchire.  Inutile qui ricordare il  cattolicesimo antiliberale,  i fascisti di  Strapaese,  l'autarchia mussoliniana,  e via  via le   bislacche idee di  Pasolini, Berlinguer  fino al "comprate italiano" di  Salvini e Di Maio e alle psico-sceneggiate collettive  No Tav e  No Tap. 
Dietro la Rivoluzione francese, che fu ovviamente il portato di un grande movimento di idee,   si stagliano però - come insegnano gli storici sociali -   crisi agricole a gogò  e un  complicatissimo commercio dei grani,  tipo quello  genialmente deriso da Benigni e Troisi in "Non ci resta che piangere". Perciò - il lettore prenda fiato - rifiutare , anche se inconsapevolmente a causa del martellamento mediatico la globalizzazione dei flussi di beni alimentari,   in nome di pseudo-valori nazionali e locali (con alle spalle secoli di affamate autarchie),  significa schierarsi in modo irriflessivo, favorendone il sostrato ideologico, dalla parte dei movimenti antimoderni, come i No Tav, i No Tap, e così via. 
Le persone comuni questo non lo sanno, non lo capiscono, non lo vogliono comprendere,  e - semplificando -  salivano come il  proverbiale cane pavloviano al suono del campanello  chilometro zero: quel che  è  vicino è buono, quel che è lontano cattivo. Classica antinomia, irriflessiva, ben spiegata, tra l'altro, dall'antropologia delle società arcaiche. Rinviamo ai libri di Eibl-Eibesfeldt.  
Ovviamente, altra cosa è la ricerca gourmet dei prodotti locali, riservata ai raffinati cultori del cibo. Però, probabilmente, anche la continua  esibizione mediatica dei cosiddetti intellettuali del cibo (critici, chef, conduttori e giornalisti)  che magnificano  in tv  il chilometro zero,  favorisce per emulazione, attraverso un processo   trick down ( di "sgocciolamento" socio-culturale dall'alto verso il basso), il consolidamento collettivo di una  mentalità irriflessiva, perniciosa e sostanzialmente antimoderna.
Riassumendo:  il chilometro zero sta ai No Tav, come  i contenuti  antimoderni  stanno ai movimenti antimoderni.  Si dirà, ma allora la cucina fusion, i ristoranti esotici, eccetera, eccetera?  Sempre pieni? A Torino, Roma, Milano, Bari?   Sono tendenze:   non influiscono sullo zoccolo duro  di un fenomeno sociale di longue durèe come quello del localismo alimentare italiano che  si muove tra locale e nazionale e che ha alle spalle secoli e secoli di spocchiosa autarchia alimentare. E di fame.  

Carlo Gambescia       

                                

lunedì 29 ottobre 2018

L’editoriale sul  “Corriere” di oggi
Paolo Mieli e la tentazione fascista



Sappiamo benissimo che ciò che stiamo per scrivere potrebbe essere frainteso, o comunque infastidire,  ma francamente l’editoriale di Paolo Mieli sul “Corriere della Sera” di oggi è scandaloso.  Mieli non è lo sconosciuto redattore di un  foglio provinciale,  ma un prestigioso giornalista e un  affermatissimo  divulgatore storico televisivo.
Cosa sostiene?  Uno, che nella storia dell'Italia repubblicana non c’è mai stato alcun pericolo fascista, oggi come ieri.  Due, che le istituzioni sono sane e non sono mai state lambite da tentazioni autoritarie, se non in modo lieve nel 1964:  il famigerato  rumore di sciabole del generale dei carabinieri De Lorenzo.
Qui non possiamo non  ricordare  una cosa probabilmente non proprio  gradevole, perciò ci scusiamo in anticipo.  Adolf  Eichmann si vantava, durante il processo a Gerusalemme di aver convinto alcune  comunità ebraiche  a collaborare alla deportazione. Diceva la verità?  La questione della presunta passività  degli ebrei verso il nazismo è argomento scabroso.   Qualche ebreo però collaborò.
Ora, che un  prestigioso intellettuale come Mieli, che viene da una famiglia di religione ebraica,  affermi che in Italia  non esiste alcun pericolo fascista  o di derive  autoritarie,  ci riporta  indietro a quella  che potremmo definire  la questione del collaborazionismo.  Ovviamente, a commettere l’errore di non capire, ancora a  guerra iniziata,  le reali intenzioni di Hitler furono, e non pochi, anche  tra i non ebrei.  Però.
Mieli  confonde  le lagne interessate  di certa sinistra antifascista (ma non antitotalitaria) con quel clima da "tentazione fascista", tipico degli anni Venti e Trenta,  che invece  torna a invelenire  il dibattito politico italiano: dall’anticapitalismo all’antiliberalismo, dal nazionalismo  all’antiglobalismo, dal razzismo all'odio verso la Francia, decadente e liberale.  Insomma,  calpestare le carte di Moscovici non è un cosetta, uscita a caso, così tanto per,  ma è  un gesto esemplare  che rinvia all’immaginario del   disprezzo fascista  verso il discorso pubblico liberale.    
Non c’è dubbio  che la teoria del doppio stato, cara alla sinistra complottista,  che ritroviamo persino   in molti libri di storia,  sia una fesseria. Però resta il fatto che Di Maio e Salvini dicono cose di estrema destra, e  - aspetto ancora più pericoloso -   le presentano   come   naturale   prolungamento di un  buonsenso, sano e  diffuso. E  - terza cosa,  altrettanto grave  -   il "popolo"  beve e  applaude. Perché, allora,  accarezzare  i  mediocri protagonisti di un brutto film già visto?  Sminuendo il pericolo,  addirittura,  come si diceva un tempo, dalle colonne del "Corriere della Sera"?   
Probabilmente l’editoriale di Mieli è una risposta a quello di Giannini, di cui abbiamo scritto qualche giorno fa (*),  frutto capzioso, magari, di antipatie politiche e professionali.  Però, certe questioni dovrebbero restare fuori dall’analisi  politica e storica. Cazzo! (pardon),  Mieli, per fama, è una specie di Alberto Angela della divulgazione storica. Ha  enormi responsabilità. 
Ci permettiamo di  suggerire la lettura (o rilettura) de  La tentazione fascista di Tarmo Kunnas, importante studio storico (assai apprezzato da  Renzo  De Felice, maestro di Mieli), dove sono perfettamente  individuati  gli stereotipi ideologici, tornati  a  inquinare il dibattito politico italiano.
Perché commettere lo stesso errore di coloro che facilitarono il lavoro di Eichmann?                               

Carlo Gambescia



domenica 28 ottobre 2018

Raggi uguale Hitler



Non sappiano se i diecimila romani che hanno protestato ieri in Campidoglio contro il peggiore  sindaco degli ultimi venticinque anni,   fossero borghesi in compagnia di  “ signore con borse firmate da mille euro”,   come da  definizione della  "Sindaca" Virgina Raggi (*).  
Sappiamo però che  il solo fatto di marchiarli come  ricchi epuloni  per opporli al  popolo delle periferie, incorrotto e sobrio a priori, indica che il problema principale non è il pur gravissimo degrado di Roma,  ma lo scadimento di una politica che  riduce regolarmente  a pericolosa caricatura di se stesso  qualsiasi avversario. Peggio ancora, lo tramuta in nemico assoluto.
Facciamo un  esempio.  Rileggere oggi  il  Mein Kampf,  fa sorridere, perché gli stereotipi  usati dal Hitler,  a cominciare dall’ebreo sporco  con la bava alla bocca che desidera possedere vereconde donne ariane,  sono  veramente   ridicoli. Eppure, ecco la pericolosità:  tanti tedeschi condivisero quell’ immagine caricaturale. E finì, come tutti sappiamo. 
Ora, usare la  “borsa  firmata  da mille euro”  come argomento politico,  per  non  dire del resto, indica che la logica politica della Raggi e quella di Hitler sono le stesse.   Si veicola un’immagine artatamente falsa dell’avversario,   per degradarlo  a essere sub-umano,   trasformandolo  in nemico del popolo sano, nemico da schiacciare anche fisicamente, all'occasione. E il fatto che nessuno, innanzitutto, ne rida, significa che siamo messi piuttosto male.  Che la gente ritiene vere certe fregnacce (pardon). 
Esageriamo?  Nel dibattito pubblico liberale, esistono dei paletti, frutto di autodisciplina  e regole procedurali,  proprio per evitare  la trasformazione dell’avversario in nemico assoluto, nel senso dell’Ebreo, del Borghese, eccetera, eccetera. Detto altrimenti: per ovviare al pericolo  che uomini e donne in carne ed ossa   siano  tramutati  in  caricature di manichini  lussuriosi  o  con borse  costose.
Purtroppo,  questo pseudo-ragionamento  non appartiene solo alla Raggi ma a tutto il Movimento Cinque Stelle. Ovviamente,  i pentastellati non dispongono, per ora,  di squadre paramilitari. Che invece, all’occorrenza,  potrebbero  rientrare nella  disponibilità  del  principale alleato,  Salvini, leader di un partito esplicitamente razzista.  Che vive di caricature politiche.
Si è quindi   chiaramente fuori dal discorso pubblico liberale.  Inutile insistere sulla gravità di tutto ciò.  Hitler, di sicuro come logica politica,  è vivo e lotta contro di noi…

Carlo Gambescia 

sabato 27 ottobre 2018

Uscita  per  Marsilio “ La repubblica dei vinti”   
Ombre rosse

http://www.marsilioeditori.it/libri/scheda-libro/3172969/la-repubblica-dei-vinti

Ottima  l’idea di raccogliere in volume i testi di un programma radiofonico, se ricordiamo bene in venti puntate,  “Le voci dei vinti”,  del gennaio-febbraio del  1997, che  fece rumore: per la prima volta  nella storia della Repubblica "antifascista" ( forse  con l’eccezione della zavoliana “Nascita di una Dittatura”) si dava voce ai vinti Salò. 
Il programma curato da  Sergio Tau, assistente di Carlo Lizzani, regista di teatro, cinema e televisione, si avvaleva della partecipazione fissa di Giano Accame e Claudio Pavone:  il primo storico, scrittore, giornalista e giovanissimo “repubblichino” per un giorno, il 25 aprile, l’ultimo della Repubblica sociale; il secondo, partigiano e accademico, autore di una notevole storia della guerra civile.  Insomma, due intellettuali di grande cultura ed equilibrio,  che con le loro osservazioni e commenti, sempre vivaci e interessanti, spesso in contrasto, contribuirono a valorizzare il programma.
Va detto subito che  La repubblica dei Vinti. Storie di italiani a Salò (*),  volume curato dallo stesso Tau,  nel passaggio dalla “parola parlata” alla  “parola scritta”  ha mantenuto intatta la sua freschezza.  Diremmo, in particolare,  lo straordinario  stupore e pudore dei “vinti”, quasi  tutti  più o meno ventenni all’epoca dei fatti,  nel  sentirsi finalmente al centro della scena, per raccontare le cose, come le avevano viste “loro”.  Ma c’è un terzo termine che rende bene i contenuti del programma e del  libro:  beata incoscienza,  quella insita, e  da sempre,  nei giovani. E nei riguardi di cosa?  Della vita e della morte. 
Si sa che le guerre civili,  come quelle tra parenti a colpi di carte da bollo, sono le più accanite, perché ci si conosce meglio, sicché l'odio si fa più profondo. Con la differenza che nella guerra civile le scartoffie sono sostituite dalle pallottole. La triste  antropologia di una guerra civile è  tutta qui.
Sotto questo aspetto  il  racconto dei “vinti” ( e delle "vinte", ausiliarie e crocerossine),  è  una specie di  prolungamento  delle  tempeste d'acciaio jüngeriane:  cannonate,  granate che esplodono, teste che scoppiano, arti che volano, marce, attese, ordini secchi, motori che si accendono, autocarri che partono. Ma all'italiana:  disertori che vanno disertori che tornano, osti, spie, puttane, sfollati, giocatori d'azzardo, ostaggi e partigiani, tedeschi scettici, britannici irrispettosi e soldati neri americani che, nonostante il colore della pelle, muoiono come tutti gli altri. E poi una natura ostile, che non perdona:  avara di  prodotti e cibo, ma prodiga di pioggia, neve, freddo, caldo torrido e insetti. Sicché senza la beata incoscienza  della gioventù -  perché statisticamente  fu una specie di crociata dei fanciulli, ma, attenzione,  non solo  in camicia nera -   quei  ragazzi  non sarebbero andati a morire per Mussolini, né per l’onore della patria. Due ragioni, queste ultime, che nonostante tutto  sono ancora,  e giustamente,  indagate dagli storici.  
Ciò spiega perché nelle testimonianze, alcuni di quei giovani  per evocare l’atmosfera   parlano di  una sorta di anarchia da Far West. E comunque sia, di clima acceso e  picaresco.  Ovviamente -  questa è nostra - gli indiani erano i partigiani (o viceversa?).   Insomma,  a prescindere dai  ruoli, l'atmosfera era quella di “Ombre rosse”.  I giovani italiani, dell'una e dell'altra parte "giocavano" a indiani e cowboys. Ma il regista non era John Ford.  Per contro, i proiettili erano veri. E i caduti, dell'una e dell'altra parte, pure.
Pertanto siamo dinanzi a un libro che ha la  sua forza  nel  riuscire a cogliere e rappresentare lo  spirito di avventura  che distingue l’ultimo fascismo  e che in qualche modo lo redime, ovviamente in parte, piccola parte.  Mentre la sua debolezza è proprio nel surplus ideologico: nella razionalizzazione ex post,  che talvolta affiora nelle pagine e che  vede i “vinti”, però dopo Mussolini, quindi a mente fredda, seppellire il genuino  spirito di avventura  sotto le ragioni pseudo-ideologiche, non sempre convincenti,  della "necessaria" giustificazione storica . Detto altrimenti: benché  i ragazzi di allora, da settantenni  giochino  agli ideologi (non tutti, però), per chi sappia  leggere, cogliendo quella genuinità di cui comunque i racconti sono imperlati,  i fatti si spiegano da soli. Ma gli uomini si sa - notava Pareto -  prima agiscono, poi teorizzano.
Ed è questo il limite, molto serio,  della prefazione di Pietrangelo Buttafuoco,  che non parla dei fatti: di quei giovani amanti dell’avventura, che, nonostante tutto, pensavano a vincere più che a convincere, bensì dell’ideologia giustificativa dei “vinti”,  elaborata a tavolino,  dopo, per auto-convincersi della bontà politica della giovanile mattata. E Buttafuoco, tra l'altro nato nel 1963,  la fa sua, fino ad amplificarla,  nello stile postdatato dell'inviato ideologico  di guerra, zeppo di anafore ed epistrofi. Una prefazione, per metterla sul politico,  di stampo almirantiano,  "turgida" e "callida" al tempo stesso,  in realtà nata morta.  Già, nel caso, vent’anni fa,  figurarsi oggi. Con il ridicolo,  sempre in agguato. Forse, Buttafuoco avrebbe dovuto prima rileggere (o leggere?) le asciutte pagine di un inviato di guerra vero, classe 1920,  un altro di quei ragazzi, Ugo Franzolin,  che, ritroviamo,  solitario, a pagina novantanove.
Di ben altro spessore la densa postfazione di Sergio Tau,  dove si colgono con poche e precise citazioni,  le ragioni e le modalità  antropologiche, prima ancora che generazionali e politiche,  di una guerra civile, dove per bocca di uno dei giovani  protagonisti, si legge che  “ stai a parla’ con la  gente, ce parli, ce magni insieme, ce bevi insieme esci fori e te sparano! Noi due abbiamo risposto. E c’è stato uno di loro che è rimasto ferito”. 
Fratelli, per giunta giovanissimi, che non potevano non  infiammarsi subito.  Insomma,   guerra civile, quindi già di per sé, antropologicamente crudele,  ma anche guerra  intra-generazionale,  fra giovani, dunque  guerra di  “materiali”  combustibili. E non è una citazione jüngeriana.  Perché fu un  incendio, spaventoso e ipnotico, come quello di un gigantesco bosco in fiamme. 
Un’ultima cosa.  Forse avrebbe  giovato all’economia del libro  riprodurre anche i vivaci interventi di Accame e Pavone.  E' perciò nostro auspicio  che una  seconda edizione  possa integrarli.  Del resto, a pagare, morire e citare  c'è sempre tempo.  

Carlo Gambescia


(*) Sergio Tau, La repubblica dei vinti, Storie di italiani a Salò,  prefazione di Pietrangelo Buttafuoco,  postfazione di Sergio Tau, Marsilio, 2018,  pp. 351, euro 18,00.                                        

venerdì 26 ottobre 2018

Gli editoriali di Marcello  Veneziani e Massimo Giannini
Libertà dalla paura




1. Veneziani vs Giannini
Ieri mi hanno colpito  due editoriali,  politicamente agli antipodi:  uno di rito neofascista  l’altro di scuola  scalfariana.  Ne sono autori, rispettivamente,  Marcello Veneziani e  Massimo Giannini. Il primo apparso  sul “Tempo”,  il secondo   su “Repubblica”, of course.   
Veneziani e Giannini pongono l’accento su  un  clima psicologico, marchiato dalla paura,  che rischia di  devastare  l’Italia.  Veneziani  ne  attribuisce le cause  all’establishment di sinistra, Giannini a un’estrema destra,  ormai di governo,  rappresentata da Salvini e complici pentastellati. 
Diciamo che Veneziani,  evoca  la tesi del complotto contro il popolo, tenuto a cuccia dai poteri forti con la paura dello spread.  Giannini, invece, agita anch’egli, un  panno rosso, anzi nero, quello del  pericolo fascista,  o comunque di un estremismo  uscito dai tenebrosi  sotterranei della storia.   
In effetti,  si tratta di un  rischio in orbace, o di qualcosa che comunque gli  somiglia molto. In realtà, non c’è nulla di sbagliato nell’asserire, come ben sa la sinistra studiosa formatasi  sui libri di Adorno e compagnia cantante,  che  il fascismo  può recidivarsi, quasi come un male incurabile,  in quel timore-tremore collettivo che agita tante personalità sociali,  orfane e autoritarie.   
Veneziani, evidentemente,  non dimentico di come andò l’altra volta (1945),  si arrampica, come un nanetto deforme, sulle gigantesche spalle del realismo politico:  sicché, prima di fare  ogni altro passo,  raccomanda vivamente  ai suoi  di trovarsi fuori d’Europa alleati solidi: Putin  al posto di Hitler? Forse.  Ovviamente non lo scrive, perché nel suo  animo  Veneziani   è  rimasto un consigliere Rai in quota Berlusconi. Quindi, non si sa mai… 
Probabilmente, nonostante il linguaggio vetero,  ha ragione Giannini. Se si fa la tara all’ antifascismo d’antan (se si vuole di maniera), il suo  resta un argomento sociologicamente forte: quello del rapporto tra paura e stato autoritario, come grande padre benevolo.  Mi spiego subito.

2. Tre formule politiche
Se si parte dal fatto, che la politica è  (anche)  una risposta all’angoscia e alle paure  umane, soprattutto collettive,  si possono individuare, per i tempi moderni,  tre principali formule politiche: quella liberale, che neutralizza la paura, attraverso il consumo, quella socialista e comunista (che non è che una laicizzazione del cristianesimo), che neutralizza la paura attraverso la fede politica, quella fascista (e nazista) che neutralizza la paura attraverso l’uso socialmente diffuso  della forza pura e semplice.
Il consumo è innocuo mentre  la fede, soprattutto se laicizzata, porta alla eliminazione, anche fisica, degli "infedeli". Infine la forza, soprattutto se diffusa  - come metodo -   trasforma gli uomini in schiavi. Solo il consumo, implica un’idea di libertà, per alcuni minore,  però  di  libertà si tratta. 
L’Unione Europea, dal punto di vista  della formula politica,  si può perciò tranquillamente identificare con la difesa dei consumi, dunque dei mercati, della libertà economica e anche del concetto di  spread, che garantisce una buona economia, sana e  aperta.  Una difesa - attenzione -  che rinvia inevitabilmente alla difesa della libertà politica, cioè a  una comune libertà di scelta, anche di consumare ciò che più piace: quindi, dove c’è diritto alla scelta si parla sempre di  libertà maggiore.  Perciò si parte dallo spread e si giunge alla libertà politica e viceversa.  Come si diceva  in una  vecchia canzone di Sergio Endrigo:  "Per fare un albero, ci vuole il legno, per fare il legno, eccetera, eccetera". Tout se tient... 
I nemici dell’Unione Europea, invece, ideologicamente,   rimandano  alle altre due formule politiche. Formule che  neutralizzano la paura ricorrendo, per riassumere, a una specie di mistica della forza.  E infatti, l’estrema destra di governo è, al tempo stesso, protezionista, statalista e moralista. In una parola è  virtuista e  giacobina (non liberale),  perché   ritiene di sapere quale sia il bene per ogni singolo cittadino  e se necessario di imporlo  a mazzate, se ci si passa l'espressione.  Altro che libero consumo. Dunque libera scelta. 

3. Libertà dalla paura
Inoltre,  l’appello di Veneziani   a trovarsi  alleati forti,  ha un preciso fondamento ideologico di tipo fascista: di una  mistica della forza applicata al nemico assoluto. Come del resto i costanti appelli all’uso della forza  di  Salvini,  uso che  implica una neutralizzazione violenta della paura. Anch’esso tipicamente fascista.  Veneziani, Salvini e accoliti sono totalmente fuori dal discorso pubblico liberale.
Perciò, bene fa  Giannini a segnalare il grave pericolo di una mobilitazione psicologica permanente, la stessa del Ventennio. E che sfociò in una terribile guerra mondiale: una specie di violentissimo  terremoto. Violenza su violenza.  Paura su paura.  E una delle libertà fondamentali dell’uomo, scaturita come riflessione,  durante e dopo quel bestiale conflitto,  è proprio la libertà dalla paura.  Che si può,  se non vincere, quanto meno sublimare economicamente con la libertà, anche, di consumare ciò che si desideri.   
A questo punto, dovrebbe essere chiara la differenza  tra gli   appelli dell’UE e dei politici moderati e riformisti ( a dire il vero, pochi in Italia), in difesa, sintetizzando,   della  libertà di consumo,    e le evocazioni belluine di una destra, che non fa più alcun mistero del suo estremismo.
Ieri un lettore, Daniele Baron,  mi (e si) chiedeva  come, in questo grave  frangente,  rendere appetibile (semplifico)  un’ idea di  Europa  forse troppo ripiegata sull’economia, e dunque sulla libertà di consumo.   Purtroppo, l’economia di mercato e il consumo  sono  come l’aria, o se si preferisce, come la salute: solo  quando manca -   quindi  dopo -   ci si accorge che qualcosa  non  va, perché  non si respira bene,  si cammina a fatica, eccetera, eccetera.
La libertà economica e di consumo, non  si difende,  si vive. 

Carlo Gambescia                   
        


giovedì 25 ottobre 2018

      Italia, un  caso da manuale
Chi ascolta più i professori?



 1. Mano invisibile e mano visibile
Il caso italiano è  da manuale. Manuale di che cosa? Del rapporto tra politica ed economia. O meglio  della relazione, spesso molto contrastata  tra mano visibile e invisibile, tra decisioni politiche  e decisioni economiche.
Un passo indietro.
Il rapporto standard, all’interno di una economica di mercato,  tra politica ed economia è quello di secondamento della seconda da parte della prima. Piaccia o meno,  ma l’economia aperta funziona così. Il politico crea le condizioni, dunque un sistema di regole condivise, perché poi il mercato possa funzionare da solo. Ogni successivo intervento del politico  causa invece  il  progressivo  distacco dall’economia di mercato. Semplificando,  si va dal grado 1, dell’economia di mercato (solo mercato), al grado 2 dell’economia mista (stato e mercato), al grado 3 dell’economia statalizzata (solo stato).
L’Inghilterra dell’Ottocento, fu una grande economia di mercato, l’ Italia  del Secondo dopoguerra , in particolare,  un’economia mista, l’Unione Sovietica un’economia statalizzata. La Cina di oggi, invece va verso l’economia mista. Non altrettanto, si può dire degli Stati Uniti (almeno fino a Trump) e della Germania: gli Usa sono un’economia di mercato, mentre la Germania  un’economia mista (attenzione, però,  sempre meno mista di quella italiana: qui le accomuniamo per ragioni di semplificazione discorsiva).

 2. Il popolo e i professori
Il test principale per verificare la natura di un sistema economico è quello dell’apertura verso il mercato esterno, dal momento che le economie statalizzate sono economie chiuse, autarchiche, che guardano con sfiducia al commercio estero,  di regola  rigidamente controllato. Sotto questo aspetto, si può dire che il modello britannico del mercato libero, proprio per la sua natura  pacifica (in senso relativo) e per l’alta produttività (in senso assoluto),  ha riscosso un enorme successo in tutto il mondo, fino a raggiungere dal punto di vista emulativo  addirittura la Cina.  
E l’Italia?  Che dire?   Non si è mai discostata dall’economia mista fin dai suoi esordi unitari, pur con accentuazioni diverse e con serie punte di statalismo.  Pertanto il processo di unificazione economica  e europea ha rappresentato un grande momento di apertura,  benché frenato dalla politica.   Per quale ragione  questo freno?  Perché  ogni processo di  apertura implica delle controindicazioni interne di tipo sociale:  aprirsi al libero scambio  rimette in discussione l’equilibrio sociale. Semplificando: gli effetti del libero scambio sono positivi, ma non in tempi brevi, come provano i successi dell’economia di mercato, che hanno avuto necessità di almeno un paio di secoli per lambire  il resto dell'umanità. Sono cose, per dirla in modo molto semplice,  che ben sanno i professori,  non i popoli, che invece guardano agli effetti immediati. E quanto più la politica si discosta  dai professori, per inseguire il popolo, tanto più un’economia da  libera rischia di  diventare semilibera, e infine schiavistica.  Con conseguenze devastanti per l'intera società.

 3. Il caso italiano
L’economia mista italiana, sintetizzando,  era, storicamente parlando,  un’economia semilibera che ha ricevuto un colpo decisivo dall’unificazione economica  europea  e da quel fenomeno chiamato globalizzazione, che non è altro che il passaggio, sul piano mondiale,  da un’economia schiavistica e semilibera a  un’economa  libera.
Dicevamo all’inizio che  l’Italia è un caso da manuale. Per quale ragione?  Perché la classe politica, quella che dovrebbe assecondare la mano invisibile, come consigliano i professori, diventati per questa ragione subito impopolari,  si è lanciata alla rincorsa  del popolo, che, con la sua vista corta, guarda al presente, e teme ogni  apertura.  Il popolo  non  guarda al futuro,  proprio mentre  rischia  di scivolare verso un bruttissimo  passato. Vive schiacciato sul presente.  Invece, chi sa  -  il professore - compara  passato presente e prova a individuare le linee future:  chiunque abbia  seri studi alle spalle, piaccia o meno,  possiede  una vista lunga almeno due volte di più  (passato e futuro) del popolo.       
Di qui, per tornare  al popolo,  una battaglia politica  di bassissimo profilo, non solo in favore dell’economia mista,  ma - santa ignoranza -  per  la progressiva statalizzazione dell’economia italiana. I protagonisti di questa politica oggi si chiamano populisti, ieri fascisti, l’altro ieri  socialisti e comunisti. Si dirà, ma allora la democrazia?  Come ogni forma  di  regime  è guidata da pochi.  Però  bisogna far credere ai molti che siano loro a governare, senza però abusare del proprio potere.  Di qui l'importanza dello stato liberale di diritto.  Invece, la cosa peggiore che si possa fare  è  lasciare che siano i molti a guidare i pochi.   

4. La tesi  Bannon
Siamo d’accordo con Steve Bannon.  Giusto, in  Italia è in corso "un esperimento",  però - attenzione - di ritorno al passato:   diciamo alla prima metà del Novecento. Verso forme di economia autarchica  e di  grave limitazione della libertà economica da parte dello stato. Il sogno, neppure  nascosto di Bannon.  Per noi invece si tratta di   un vero incubo.  Dal  momento che nell'immaginario nazional-statalista  le restrizioni  sono presentate e  giustificate  come misure necessarie per difendersi dal nemico esterno e interno: ovviamente, inventato di sana pianta.  Inutile fare esempi.
C’è in ogni nazionalismo    -  oggi lo si chiama  sovranismo -  un lato oscuro e delirante,  che il popolo, a differenza dei professori,  non scorge subito.  Ma  chi ascolta più  i professori, quando la parola stessa viene usata come  insulto?   

Carlo Gambescia          

                                               

mercoledì 24 ottobre 2018

Dopo la bocciatura  UE  che accadrà ?
Good Morning,  Manciukuò




"La Manovra del Popolo non si tocca".   Conte,  che da Mosca rilascia dichiarazioni ufficiali,  non è da meno  di un  Salvini che  lancia proclami dalla Romania.  Strano che Di Maio sia rimasto a casa. Anche se, ultimamente,  i cinesi gli hanno reso grandi onori.   
Romania,  Russia, Cina, modelli, soprattutto gli ultimi due,  di autentica liberal-democrazia.   Questo, forse,  il nostro futuro destino politico. Corsi e ricorsi?  La Repubblica Sociale Italiana  venne riconosciuta dalle potenze dell’Asse e dal Manciukuò, stato fantoccio creato dal Giappone (nella foto *). Perciò, mai dire mai,  anche la  Repubblica di Crimea  potrebbe essere nel nostro futuro. 
Battute a parte. E fino a un certo punto, dal momento che ieri un deputato europeo leghista, in purissimo  stile squadrista, alla fine della conferenza stampa della Commissione UE,   si  è avvicinato a Moscovici, si è  tolto la scarpa,  e  imbrattato  le carte del Commissario agli Affari Economici,  reo, a suo avviso,  di aver raccontato sulla manovra  "una montagna di bugie". 
Insomma, se  l'Italia  continua su questa strada , al di là delle ripercussioni economiche, pur gravissime, rischia l’isolamento o le cattive compagnie, due fatti che possono portare solo all’incanaglimento morale  e all'abbrutimento politico. Da qualche parte abbiamo letto, che se Salvini non avesse sfondato con la politica  sarebbe diventato il nuovo capo della banda del Brenta. Come dire? Non è assolutamente vero, però la cosa è ben trovata.  E Di Maio? Forse,  l'omino che ritira le puntate delle lotterie clandestine e porta la spesa, alle famiglie di Secondigliano,  una specie micro-reddito di cittadinanza. Ovviamente,  entrambi difesi dall'avvocato e professore Giovanni Conte. Quello, dei tre, che "ha studiato".          
Il lettore ride? E' riso amaro.  Purtroppo, non è facile spiegare alla gente comune,  che ha dimenticato il senso profondo,  anti-guerra civile, dell’Unione Europea, quanto certi proclami  giallo-verdi (“tireremo dritto”, il popolo è con noi”, “non fermeranno il popolo”, “gli faremo vedere”), rimandino al linguaggio  pernicioso e bellicista del  nazional-fascismo e siano contrari allo spirito del 1945 e di tutti i trattati europei, che - attenzione -   si fondano sul principio dello stato di diritto.  Che  non è parola astratta, dal momento che  implica  una precisa consapevolezza. Quale ?  Del fatto "che tutte le azioni intraprese dall'Unione Europea si basano su trattati approvati liberamente  e democraticamente da tutti gli stati membri" (**).  Insomma, nella  UE  non ci sono gauleiter,   né  governatori, né protettori.    
Molti italiani invece  credono di assistere a una  partita di calcio della nazionale e si sentono pronti a fare tifo e divertirsi. Quasi un gioco.  Non è così. Se al linguaggio bellicoso corrisponderanno, come per ora sembra, i fatti, l’Italia corre il rischio dell’isolamento. Anche perché, altro aspetto tipico del nazionalismo,  è quello di  sostituire al contratto la spada: allo stato di diritto la forza e se occorre la violenza.  Sicché, colpo di spada dopo colpo di spada, la strada si fa sempre più stretta e inevitabilmente il più forte, dopo aver spinto giù dalla torre tutti gli altri, taglia il traguardo.  La logica è quella del "bullet" e non del "ballot".  Del cazzotto, non del ragionamento.  E se, come nel caso dell'Italia,   non si ha la forza, allora,  alla stessa  stregua del coraggio di Don Abbondio, “uno non se la può dare”.   Quindi, il rischio è quello di  ritrovarsi,  come Mussolini -  in un clima spettrale ma impettito - pietosamente costretto a  ricevere le credenziali dell’ambasciatore del Manciukuò.  
Per ora siamo alle parole (d'ordine),  che come detto risuonano  vecchie e false.  Salvini, Di Maio e Conte gonfiano il petto e  gli italiani applaudono, così almeno dicono i sondaggi. Le premesse per un disastro, purtroppo,  ci sono tutte. 
Che dire?  Good Morning,  Manciukuò.  Pardon, Repubblica di Crimea.

Carlo Gambescia


(**) Fonte della citazione:   https://europa.eu/european-union/law/treaties_it


martedì 23 ottobre 2018

 Dopo il voto in Trentino-Alto Adige
Il paradosso del  sovranismo populista





Sono ricchi lassù.   A Trento e Bolzano si vive bene, girano i soldi,  i servizi  funzionano, gli immigrati non sono un problema, eppure  il voto ha premiato un partito-antipartiti come la Lega e girato le spalle  a chi ha governato bene.  Si vuole cambiare. Ma per andare dove?
A questa domanda,  che rinvia a un fenomeno non ancora ben decifrato dagli studiosi, quello del sovranismo populista,  è difficilissimo rispondere. Il Sud,  si dice,  vuole più assistenza sociale, e vota Cinque Stelle,  Ma il Nord, che è ricco, cosa vuole?   Crediamo che la principale caratteristica, del voto a Nord, come al Sud, sia l’egoismo sociale.  Diciamo allora che al  Nord vince   la paura di perdere quel che si ha. 
Bella scoperta... In fondo, non  si tratta di  un fatto tipico di tutti gli esseri umani?  Niente di nuovo, insomma.  Certo. Però, porsi come principale finalità quella di conservare al propria ricchezza (Nord) e  ricevere il massimo della protezione sociale (Sud)  indica una specie di sineddoche politica (la parte per il tutto), rivolta a privilegiare  il riflesso carnivoro,  il lato peggiore  della natura umana, uno dei lati però.
Si vogliono ricchezza e protezione, non in quanto mezzi per progredire,  accettando  i rischi di una  normale società di mercato,  ma come fini per vivere un'esistenza stazionaria, comoda e protetta dal rischio stesso. L'egoismo rifiuta il rischio, come del resto la responsabilità della scelta individuale. Il famoso  "uomo economico"   calcola i rischi, non li rifiuta per principio.             
Semplificando, diciamo che Lega e Movimento Cinque Stelle  sono movimenti egoistici che,  al momento,  riflettono  un proficua divisione dei compiti politici, alla Lega l’egoismo dei ricchi (il Nord), al Movimento Cinque stelle l’egoismo dei poveri (il Sud).   
In realtà, quando si parla del populismo si dovrebbe riflettere  sulla sua natura antisociale. Il populista, parla di popolo,  ma il popolo è sempre il suo, non quello degli altri.  Si tratta della stessa tragedia politica dei nazionalismi, che oggi si chiamano sovranismi: il nazionalismo, proprio perché tale,  privilegia, sempre e comunque,  i propri cittadini rispetto agli altri.  Se esiste una società mondiale che comunica attraverso i canali economici del rischio calcolato sulla base di un sistema dei  prezzi, allora il sovranismo  ne rappresenta la decomposizione,  insita  nel  fragile fondamento  del rifiuto  del rischio e del sistema dei prezzi. Quindi il sovranismo populista  non solo è  antisociale ma è anche "antieconomico".
E non siamo neppure  davanti a una sintesi politica perfetta.   Perché il Nord, nel suo egoismo, non vuole redistribuire, il Sud, altrettanto egoista,  invece punta alla redistribuzione, e all’appropriazione  di larga parte delle risorse del Nord. Il che implica il conflitto. 
Al momento il nemico è l’Europa, ma una  volta che l’Italia sarà uscita dall'UE (o comunque che la avrà  resa "inoffensiva"),  i due populismi difficilmente potranno continuare a governare insieme. Perché i nodi (divisivi) verranno al pettine. E in una situazione economica precaria, all'insegna della classica lotta per una coperta troppo stretta.  
Pertanto il voto di domenica è un voto dalla vista corta, anzi cortissima. Che prepara future, e gravissime,  fratture politiche tra  Nord e Sud, e interne alle due stesse realtà geopolitiche, perché  i bolzanini, non amano i bellunesi, e  i bellunesi i vicentini,  e così via.   Come al Sud, i napoletani, non amano gli irpini , questi  ultimi i casertani, e via discorrendo. 
Insomma,  siamo davanti al rischio del futuro spezzettamento dell’Italia. E alla ennesima riprova dell’eterogenesi dei fini sociali e politici.  La vittoria dei sovranismo populista rischia  di dare il colpo di grazia proprio ciò che dichiara di difendere: la sovranità italiana.

Carlo Gambescia

       

lunedì 22 ottobre 2018

 Belpietro ha ragione:  non ci resta che sperare nello spread
Discorsi ai sordi


Oggi sulla  “Verità”, giornaletto di estrema destra, diretto  da un post-liberale fascistizzato, pardon populistizzato, Maurizio Belpietro  ( che però  la  mitica  seconda ondata  potrebbe togliere di mezzo, come nel 1925-1926),  si legge  che  al povero  Renzi,  non  resta  che  tifare per lo spread.  Così nell'editoriale del fascio-direttore.
Indirettamente, si consiglia   di fare la stessa cosa,  liquidandoli però come anti-italiani (in perfetto stile fascista), ai moderati residuali: quei liberali e riformisti,  che non condividono il governo giallo-verde, sponsorizzato dall'Antemarcia  Belpietro. 
Il senso dell’invito a farsi da parte, che non è del tutto infondato dal punto di vista di chi veda la partita in tribuna d'onore,  suggerisce però un'altra domanda: perché coloro, quei pochi in curva,  che  non tifano  per l’ estremismo pentaleghista   sono costretti ad augurarsi che il governo cada a colpi di spread ?   La risposta è  semplice, politicamente semplice.   Perché gli spazi di  opposizione politica, a cominciare dal Parlamento, si vanno  drasticamente riducendo.
La riprova? Con una maggioranza claudicante, il governo giallo-verde  non avrebbe mai partorito una mostruosa legge finanziaria con la miccia anti-europea accesa. Si comporta così,  perché  sa  di non poter essere contrastato in Parlamento e si prepara ad andare avanti come un cingolato.  Le chiacchiere sulle divisioni interne,  eccetera, eccetera,   sono puro folclore di quel  serraglio   del giornalismo politico italiano che non ha ancora compreso  che la differenza fra questo governo   e tutti  i governi precedenti e di specie non di grado.  Cosa che invece Belpietro ha capito benissimo, altrimenti non prenderebbe  a calci Renzi e gli italiani che la pensano diversamente da Salvini e Di Maio:  italiani, che, evidentemente,  al momento contano, politicamente  poco o punto.

I tempi purtroppo sono cambiati. Ecco il brutale senso dell’editoriale di Belpietro.  Solo   “Repubblica” e  “Stampa” non lo hanno ancora capito.  Oggi schierano  le truppe cammellate del costituzionalismo dei rettori,  per criticate la sciagurata  uscita di Grillo sui poteri del Presidente della Repubblica.  Ingenui. Non c’è bisogno di cambiare i poteri del Presidente della Repubblica, come ha chiesto ieri, davanti ai suoi adoranti seguaci, Beppe Grillo,   ma più semplicemente,  al prossimo giro elettorale, con i voti a disposizione, che non saranno pochi,basterà mettere un'altra controfigura come Conte al Quirinale. Et voilà.
Altro esempio. Ieri sera, seguendo  Fazio,  abbiamo provato una grande pena per il sindaco di Riace. Sicuramente una brava persona, come lo erano Allende,  Blum,  Dubček, Kerenskij,  ma destinato come ogni socialista umanitario,  ad essere schiacciato dalle famigerate forze della reazione, rosse o nere che siano,  si chiamino Pinochet,  Pétain, Bil'ak, Lenin.
Ieri sera, dagli schermi della prima rete,  si affacciava una specie di piccolo panda, dagli occhi sbaciucchioni, destinato però al   triste  ruolo del  profeta disarmato, in un’Italia dove la maggioranza del "popolo" crede ormai  di poter vivere in modo autarchico. E senza  lavorare o lavorando poco. Come sembrano provare  anche i risultati delle elezioni nel già operoso trentino.

Non  è quella del sindaco  sbaciucchione la strada maestra.  Nobilissima per carità, come ogni socialismo umanitario,  ma invisa agli italiani, che sembrano mostrare la stessa passività giocosa del 1938. Già  con una piede nella fossa bellica, si cantava:  "Oggi è una magnifica giornata"... Gli italiani, aspiravano, come oggi,    "a vivere", perché "la vita è bella", eccetera, eccetera.  Sappiamo tutti, come finì...   
Come non è quella  - di strada -   del  giocare  al populismo al cubo,  con chi  -  anche secondo Steve Bannon, che se ne intende -  lo ha reinventato,  il populismo,  trasformando l’Italia -  è sempre Bannon a sproloquiare -   in un “laboratorio politico”. Che tristezza.  Per la seconda  volta, in due secoli,   si parla di esperimento politico italiano.  Il  primo rinvia al fascismo.  Non dimentichiamo che Hitler considerò fino agli ultimi giorni, rinchiuso nel  bunker, Mussolini come suo maestro.
Cari lettori, il clima è questo. Fazio e Lucano parlano ai sordi. Renzi e Berlusconi, sperano di farsi capire usando il linguaggio dei segni. E Belpietro, con il biglietto vincente della lotteria democratica in tasca,   li sberleffa.   Allora che fare?  E’ vero:  non ci resta che sperare nello spread.  E nell'UE.   Orgogliosamente però. Su la testa!
E dopo?  Se il governo dovesse cadere?  Una pena al giorno, please.

Carlo Gambescia                  

     

sabato 20 ottobre 2018

Moody’s  declassa l’ Italia
Dal Fronte Popolare al Fronte Gialloverde



Inevitabile. Moody’s ha declassato l’Italia. In qualche misura,  si tratta di un  avvertimento che dovremmo tenere in grande considerazione.   
Un passo indietro.  Quando nel 1936  in Francia vinse il Fronte Popolare,  un’economia già claudicante a causa degli effetti delle crisi mondiale, aggravati dai protezionismo,   ricevette il colpo di grazia, capitali in fuga e  borsa a picco. A causa, ovviamente di una serie di provvedimenti demagogici. L’economia francese,  morì,  vittima di una tremenda ventata di protezionismo e inflazionismo.  Si sarebbe ripresa dal colpo  solo negli anni Sessanta. 
All’epoca  l’Europa era divisa,  non esistevano istituzioni economiche internazionali realmente condivise,  né il ruolo delle agenzie di rating  era giustamente decisivo come oggi: nessuno  avvertiva per tempo gli stati, che la demagogia implica costi politici altissimi.  Insomma,  si procedeva in ordine sparso. E con il coltello fra i denti (se ci si passa l'espressione).  
Eppure l’autarchia, non salvò la Francia. La Germania nazista ne fece un solo boccone la spezzò in due, geopoliticamente, puntando  come ogni nazionalismo a sfruttare fino in fondo cosa restava delle risorse francesi. E Mussolini, subito ne approfittò, vigliaccamente.  
Che c’entra tutto questo  con la situazione italiana di oggi?  C’entra,  c'entra,  perché il nazionalismo demagogico del governo giallo-verde, anzi del Fronte Popolare Gialloverde, ricorda nei toni e nei contenuti quello del Fronte Popolare francese,  che portò alla disfatta totale e al completo disfacimento di un’economia,  un tempo brillante.
Pertanto,  inutile meravigliarsi della reazione negativa dei mercati e, innanzitutto, delle istituzioni economiche internazionali,  dunque, di Moody’s.  Le agenzie di rating  sembrano invece essere le uniche entità capaci di ragionare. O se si preferisce di avvisare per tempo, prima che sia troppo tardi. Detto in soldoni: sono avvertimenti a fin di bene.    
Negli anni Trenta, il mondo occidentale  era diviso, fratture che avrebbero portato a una tremenda guerra mondiale. Oggi -  almeno fino all’arrivo Trump -  il libero commercio unisce addirittura Oriente e Occidente. Perché rifiutarsi di   capire che ogni passo contrario all’unificazione economica mondiale, rischia di riportarci agli anni Trenta del Novecento? Verso rovinose guerre  economiche e politiche...   
Il ruolo della  agenzie come Moody’s,  al di là delle questioni strettamente tecniche,  è quello di ricordare ai popoli  - ripetiamo,  per tempo -   come  regole comuni capaci di garantire bilanci in ordine,  favoriscano,  non solo buoni fondamentali economici, ma l’unione dei popoli, persino morale,  attraverso il libero scambio, veicolo di pace e benessere.
Semplificando:  Moody’s, declassandoci,  ci dice che siamo sulla strada sbagliata: che ogni Euro sottratto  al libero scambio è  un Euro in  meno di libertà.  E gli anni Trenta sono lì a ricordarlo.

Carlo Gambescia

                                

venerdì 19 ottobre 2018

La lettera di Bruxelles
Solo un Dio (dei mercati) ci potrà salvare



 Bruxelles ci ha scritto. A Napoli direbbero “statte accuorte”. E invece in Italia  si gioca a guardie ladri con quella che è la libertà più antica: rifiutarsi di pagare le tasse. Per inciso, “se passa” il Reddito di Cittadinanza, chi scrive, si rifiuterà di finanziarlo.        
Insomma, qui  serve una scossa dei mercati. Forte, e speriamo che arrivi presto. Mercurio salvaci tu,  altrimenti non se ne esce.  
Il punto non è lo zero virgola qualcosa in più o in meno, ma un finanziaria (per usare terminologie antiche)   per  due terzi  senza coperture, se non quelle virtuali dei “fondamentali sani”: si parla di una cifra che va oltre i 20 miliardi,  in un’Italia con 2300 miliardi di debito pubblico, per un terzo in mano a investitori stranieri, e per il rimanente nelle mani della Bce e delle Banche italiane. "Fondamentali sani", capito? E poi dice che uno si butta con Bruxelles.  
E attenzione, altra chicca:  gli italiani, i cocchi di mamma e papà del Reddito di Cittadinanza, i titoli del  debito pubblico, come riferiscono i sondaggi, non li vogliono comprare. Tradotto: quando tocchi loro il portafoglio, se ne fregano della retorica sovranista… Piace, sì, ma a costo zero. Che facce toste. 
E non finisce qui:  a un sondaggio di Eurobarometro -  altro  tratto tipico della micro-paraculaggine (pardon) peninsulare (della macro, parleremo a breve)  - gli italiani hanno risposto (quasi due terzi) che  l’Euro piace, l’UE no. Capito? Per la serie botte piena, eccetera, eccetera. Altro che sovranisti… Oppure, sì, ma con i soldi degli altri…  
Qualcuno dovrebbe spiegare alle italiche genti che, senza i bilanci in ordine, l’Euro rischia di fare la fine della vecchia Lira. Frutto di accordi, altra cosettina da ricordare,   che abbiamo liberamente sottoscritto: perché, nell'Italia stanca del  "ce l'hai una sigaretta", dei mini-assegni in sostituzione delle monetine  e del baratto perfino tra colleghi d'ufficio, per non parlare dei grandi accattoni ed elemosinieri di stato,  la moneta forte piaceva.  E piace. Però, ripetiamo,  a costo zero.
Quanto alla macro-paraculaggine (pardon), seminascosta dietro toni  da "solennità domenicale" (Gobetti),  quei toni  che piacciono tanto (prima)  agli italiani,  quanto il  non mettersi (poi) le mani in tasca,   basta leggere le dichiarazioni  di Salvini, Di Maio,  Conte, che fanno finta di non capire. Si chiama anche dialogo tra sordi. Altro che gli auspici di un Mattarella, che sembra sempre più la copia benedicente di Giovanni Leone (speriamo di sbagliarci).
Onnipotente  Dio dei Mercati, Mercurio, salva l’Italia. 

Carlo Gambescia       


    

giovedì 18 ottobre 2018

   Il  complottismo  entra  ufficialmente  a Palazzo Chigi
Bye Bye discorso pubblico liberale…


Oggi sui giornali, per non parlare dei Social, si discute "della manina" di Di Maio, se ne ride, si ricercano i precedenti,  si dileggia la presunta impreparazione dei Ministri a Cinque Stelle, oppure si crede  nel complotto e ci si divide in tifoserie.
Nessuno che abbia capito la gravità dello  strappo del Vice Presidente del Consiglio pentastellato. Non verso l’alleato leghista, altrettanto populista e complottista, bensì uno strappo, e  definitivo,  verso il discorso pubblico liberale.
Mai  nella storia della Repubblica  si era verificato che una altissima carica politica, in televisione, addirittura in una trasmissione molto seguita  come  “Porta a Porta”,  gridasse al complotto in questi termini,  cioè indicasse un Nemico nell’Ombra pronto a colpire un Governo del Popolo. 
Lo strappo con il discorso pubblico liberale è nell’ufficializzazione del complottismo come  strumento politico e componente essenziale di un dibattito pubblico che a questo punto rischia  di tramutarsi da liberale  in  totalitario.  "Babbiamo",  direbbe  Montalbano?  No. Perché dietro le parole di Luigi Di Maio si possono scorgere tutti i  possibili e  perversi sviluppi del discorso pubblico complottista, che  chiama a raccolta il popolo, non contro un semplice avversario politico, ma contro il Nemico Pubblico: coloro che sono “servi dei mafiosi e dei corrotti”. La schiuma della schiuma, pidocchi da schiacciare.
Il pericolo totalitario  è nel fatto che con lo stesso meccanismo retorico,  che rinvia di volta in volta al complotto, si possono introdurre misure  restrittive, sempre più dure contro i Nemici del Popolo.  Se si vuole siamo dinanzi al passaggio, ufficiale da una retorica della transigenza a una retorica dell’intransigenza.  Per semplificare:   Bye bye discorso pubblico  liberale.
Si ride, del fatto che Di Maio, minacci una denuncia, “contro la manina” al Tribunale ordinario. Invece, non c’è proprio nulla da ridere, perché la logica è quella del chiedere la prigione per il nemico politico. Richiesta che, oggi, rimanda  ai giudici , domani, potrebbe rinviare ai tribunali speciali, dopodomani ai tribunali segreti.  E infine direttamente al colpo di pistola alla nuca, come in Buio a mezzogiorno di Arthur  Koestler.
L’ accettazione  del  fatto  - e ieri sera Vespa ne ha dato tristemente prova  -  che  un Presidente del Consiglio  vada in tv a teorizzare ufficialmente  complotti occulti non solo ( o non tanto)  contro di sé e il suo governo, ma contro "il po-po-lo",   indica  che  la libertà è veramente in pericolo.  Perché  - attenzione -  le persone comuni, lo spettatore  medio, questa mattina discutono dell’esistenza o meno del complotto contro il popolo , non del vulnus al discorso  pubblico liberale. La "geeente" neppure sa  cosa sia.  Sono le élite che invece dovrebbero sapere dove fermarsi, come impone per l'appunto il discorso pubblico liberale.
Quindi, per così dire, "il popolo"  dorme tranquillo,  nella sua  semplicità (per non usare termini sgradevoli),  più che certo,  che un bonario padre, anzi  nel caso un “bravissimo ragazzo”,  Luigi Di Maio,  lo  stia  difendendo dal male. Si dirà,  okay, okay,  però  come la mettiamo  con i complotti giudiziari, evocati in passato  da Berlusconi?
Ecco complotti giudiziari, non dei "Savi di Davos"... Certo,  anche il Cavaliere ha le sue responsabilità,  ma era un imprenditore, un uomo d’affari, curava i propri interessi e se la  prendeva, non con un nemico occulto,  ma con i "magistrati di sinistra":   tutto sommato,  un politico fin troppo con i piedi per  terra.  Berlusconi  non rappresentava la punta dell' iceberg di un universo di lunatici politici che scorge  complotti ovunque  e che su queste terreno  crede di sapere  ciò che sia bene  per ogni italiano, da qui   all’anno Tremila.
Tra il Cavaliere e gente come Grillo, Casaleggio, Di Maio, Di Battista, eccetera, c’è differenza di specie non di grado.  E probabilmente molti italiani non  hanno  ancora capito.  E chissà se capiranno. 

Carlo Gambescia