giovedì 31 ottobre 2013


Le riviste della settimana: “éléments”, n. 148/2013; "Krisis" (Sciences?), n. 39/2013 -  www.revue-elements.com  ; “Antarès”, nn. 3/2012 (Tolkien), 4/2012 (L’altra faccia della moneta), 5/2013 (Modernità occulta) –  www.antaresrivista.it ;  “Storia Verità”  n. 11/2013 -  http://www.storiaverita.org/






Ecco un'  “infornata”, bella calda,   di   riviste culturali  politicamente scorrette.   Tutte di prim'ordine e perciò indispensabili  per scoprire e apprezzare  il pensiero di una  destra (guai però a definirla tale…), forbita, curiosa  e  aperta al  dubbio intellettuale: una destra  in grado di  praticare  la difficile,  talvolta pericolosa, ma sempre nobile  arte del dilemma. O detto altrimenti:  di interrogarsi su  questioni che potrebbero rivelarsi insolubili.    
Nell’ultimo  fascicolo di   “éléments” (n. 148, Juillet-Septembre 2013, euro 5,50)  sono affrontati  numerosi argomenti  ad alto tasso di  problematicità: il  concetto di “ medicalizzazione”   delle masse (dossier); l’Europa, tra declino e impero; il pensiero  critico, ma ricco di contrasti di Cornelius Castoradis;  il sindacalismo rivoluzionario  (dunque ossimorico) di Edouard Berth. Molto suggestive le pagine dedicate a Dominique Venner (scritti di François Bousquet, Michel d’Urance, Alain  de Benoist).
Da biblioteca, come del resto i fascicoli precedenti,  l’ultimo numero di “Krisis” (n. 39, Septembre 2013, euro 24,00), consacrato alle “Sciences?".   Ma  sempre in chiave problematica, come illustra il rituale punto interrogativo. L’approccio  rinvia  filosoficamente - come dire -  al  possibilismo scettico. Scelta metodologica  che tuttavia   non può non supporre  un preventivo  atto di volontà.  Quale?  Impedire, per parafrasare (in parte) un detto famoso, che  la scienza, in effetti,  cosa politicamente troppo complicata per lo scienziato,  possa però  finire  tra  gli  artigli  di  politici  privi di qualsiasi preparazione scientifica.  Di qui il dilemma al quale  non può sottrarsi neppure  il "possibilista scettico":   forza della Ragione o ragione della Forza? 
Ghiotti, anche gli ultimi tre fascicoli di “Antarès” (scaricabili gratuitamente qui:  http://www.antaresrivista.it/download_b.html   ): si va dal  ritratto approfondito e molto sfaccettato di Tolkien,  che ci porta ben oltre gli stereotipi da convention  liturgica (n. 3/2012),  a un' ampia rilettura in chiave eterodossa della crisi economica  (n. 4/2012),  per finire con l’affascinante  spedizione nelle insidiose terre della “modernità occulta” (n.5/2013),  un' autentica  galoppata tra miti moderni e antimoderni  in cerca di un'ossimorica  modernità capace di declinare e veicolare  il messaggio della tradizione. Anche qui, altro bel  dilemma…

“Storia Verità”, rivista di studi storici  che fin dal sottotitolo si definisce “politicamente scorretta",  offre nel suo ultimo fascicolo (n. 11, Settembre-Dicembre  2013, euro 7,00) una serie di  contributi  interessanti: si va dall' irrefrenabile e pericolosa  passione tedesca per il  cupio dissolvi (come si preannuncia fin dalla copertina) ai misteriosi  sentieri interrotti dell’ eresia catara. Ma ci si occupa anche di cinema, fumetti, economia, erotismo: una ricetta giusta  che sembra  riflettere l’intelligente versatilità  del direttore responsabile, Alberto Rosselli. E quel gusto di  inerpicarsi  lungo gli impervi camminamenti del dilemma, meglio se storico. Il che  ci  fa ipotizzare , soprattutto come auspicio,   un "problemismo"  rinnovato,  dove   le domande  possano finalmente contare  più delle risposte,  capace  di  valorizzare  la fisionomia  di una (pardon) destra  con  ali di aquila.  

Carlo Gambescia

mercoledì 30 ottobre 2013


Una  fiction su Olivetti da dimenticare







Per dirla fuori dai denti: una porcheria.  Parlare  male della fiction dedicata a Olivetti  sarebbe fin troppo facile, quasi  come sparare sulla Croce Rossa…   Tuttavia  non possiamo farne a meno, e per due ragioni.  
In primo luogo,  il lavoro  diretto da Michele Soavi, pur nei limiti  di un' opera televisiva (come si dice) da prima serata,  neppure  si pone  il problema di ricostruire  la  figura, certamente complessa, di un imprenditore  talentuoso,  ma   tormentato e  ben poco solare, rispetto alla  caricatura  buonista, malamente delineata dagli sceneggiatori e "montalbaneggiata" da uno Zingaretti spaesato, per dirla con i critici.                 
In secondo luogo, quel che più  infastidisce è  un  taglio ideologico  che oscura  le  zone d’ombra,  poco amate a sinistra e dintorni. Ne enumeriamo solo alcune:  i rapporti,  sebbene discontinui, con Bottai; l'intelligente reinvenzione del fordismo,  frutto di  ammirazione per la cultura industriale americana  delle "human relations"; le critiche antiriformiste dei sindacati;  il gelo di socialisti e comunisti  verso un imprenditore culturalmente indocile;  le  riserve cattoliche e vaticane  nei riguardi  di ogni sincretismo spiritualista.
Emblematica, l’assenza di qualsiasi accenno al  federalismo olivettiano (forse, per non favorire revanchismi leghisti…). Ridicola infine la pista americana… Adriano Olivetti morì di trombosi, dopo aver vissuto, soprattutto intellettualmente,  alla velocità di mille all’ora.  E fu,  se ricordiamo bene,  il primo imprenditore italiano a fondare un partito.  Altro evento scabroso per la sinistra,  su cui  la fiction, ovviamente, non indugia.   

Insomma, ripetiamo,  una vera porcheria. E per giunta a spese degli abbonati. 

Carlo Gambescia

martedì 29 ottobre 2013


L'insiemistica sociopatica ai giorni nostri
Facebook, tutto e il contrario di tutto 
di Carlo Pompei




Avevamo già sfiorato  l’ argomento  Facebook (
http://carlogambesciametapolitics.blogspot.it/2011/12/alcuni-giorni-fa-una-diciassettenne-e.html ), ma riteniamolo  utile approfondirlo. Da dove (ri-)partire?  Diciamo subito che i post pubblicati  sul social network più diffuso al mondo,  sono come gli oroscopi: ognuno ci vede quello che gli/le pare. 
Capita che le stesse persone siano d'accordo contemporaneamente con il pensiero  filantropico di Gandhi e con quello misantropico di Bukowski. Il primo dice un "ama tutti" estroflesso, il secondo dice "odio tutti" introflesso: due modi  esagerati di  leggere la realtà, sui quali  ci si misura a seconda del come ci si sveglia o procede  il   lavoro quotidiano...
"Sì, è proprio vero!" E giù mi piace e condividi.  Oppure: "No, non è vero!" E giù commenti al vetriolo e fulmicotone.Commenti tanto velenosi ed esplosivi (la base solforica è la stessa) che dopo un paio di battibecchi ci si dimentica da dove si è partiti e perché si sta litigando, ma si mettono a nudo le proprie convinzioni recondite e, indirettamente, le proprie debolezze. Vere e proprie truppe virtuali sul campo del nulla pronte a rompere le righe (e altro) per rischierarsi con i propri avversari precedenti, se i motivi del contendere vengono variati da abili manovratori.
Capita che alleate sul femminicidio si scoprano moglie ed amante del medesimo uomo, tifosi della medesima squadra siano divisi su cani e gatti, colleghi di lavoro affiatati non concordino sulla genuinitá di una ricetta della Clerici, e così via. Insomma, psicologi online potrebbero fare la propria fortuna senza incontrare fisicamente il cliente e probabilmente qualcuno sta già scrivendo un "best seller" alla Fabio Volo, Moccia, Muccino, Caffé e cappuccino. La formula è quella universale che gioca sulla commiserazione, sull'invidia, sulla frustrazione, sulla prepotenza, sul fanatismo, sul protagonismo. Insomma, sulla miseria umana di vittime e carnefici autocategorizzatisi a rotazione. 
Non è raro vedere un susseguirsi di post nettamente in contrasto tra loro: commenti esagerati di casalinghe disperate tipo "tragedia! Mi si è rotta un'unghia" inframmezzati a video di sgozzamenti di bambini in zone di "guerra santa".
Picchi pseudocomunicativi a parte, alla fine, nonostante i buoni propositi e i BUONGIORNO A TUTTI! (scritti in maiuscolo e corredati da foto di tazzina di caffè fumante) si finisce per mandarsi reciprocamente a quel paese, palesemente o meno, cioè scollegandosi. La sensazione di forza che dà il potersi scollegare, però, viene vanificata quando lo fa qualcun altro che volevamo tenere attaccato ad un filo invisibile. 
La comunicazione remota sembra semplice, invece è molto complessa, necessita di faccine a corredo che esprimano il nostro stato d'animo: sentimenti come gioia, ironia, sarcasmo, rabbia, tristezza, soddisfazione, non traspaiono e gli equivoci sono ricorrenti.
La presenza di provocatori, complottisti, debunker, troll, finti profili, spie, completa il quadro di uno zoo antropologico interessante, ma anche ingannevole, a tratti divertente, spesso paranoico e paradossalmente, ma non troppo, popolato da sociopatici veri o presunti. Ad un certo punto, infatti, se ancora ragioni, ti accorgi di non sopportare più nulla, di essere stato messo su una giostra che non ti diverte più, ma ti distrae e ti fa perdere tempo.
Diversamente, la dipendenza che questa giostra genera in molte persone, probabilmente già sole, provoca ulteriore scollamento dalla realtà. Saltano gli ultimi rapporti interpersonali reali e ci si isola socialmente, anche se si pensa di essere circondati da amici e conoscenti.  Emblematica in questo senso è la trasformazione dei convogli ferroviari, prima suddivisi in compartimenti da sei posti ove la socializzazione di pensieri, biscotti e caramelle era quasi obbligata. Oggi sono totalmente aperti con singola alimentazione elettrica e connessione wifi per non farci scambiare neanche una parola con il vicino e far sentire inadeguato chi non si allinea a questa follia iniziata con l'utilizzo del telefono cellulare ovunque.
Non va infine dimenticato qualcosa di nuovo, ma negativo, che sembra  segnare  l'avvicendarsi generazionale: un bambino di 5 anni può essere più esperto di suo nonno. Sembra una gran cosa, ma non lo è: la pseudopreparazione tattile (digitale) del bambino non ha nulla di utile sul piano pratico, serve soltanto ad illuderlo (lui e i suoi genitori) che sia già pronto per affrontare qualsiasi problematica. In realtà è vulnerabile contro qualsiasi cosa reale che non possa essere copiata, incollata, annullata, resettata, etc. Un improvviso blackout elettrico informatico prolungato, inoltre, farebbe riversare in strada zombies con una propria fotografia in mano che si chiedono vicendevolmente "ti piace?". Da questo virus si salverebbero soltanto i nonni dal sorriso triste.
La domanda è: cui prodest
In attesa di avere elementi e prove per svelarvi l'arcano, ma sperando di avervi fornito almeno una chiave di lettura, ricordiamo che cosa diceva Ernesto Calindri in una vecchia pubblicità di 40 anni fa: "Fermate il mondo, voglio scendere".  Il finale recitava: "Contro il logorio della vita moderna".  Oggi,  aggiungeremmo, "virtuale".

Carlo Pompei


Carlo Pompei, classe 1966, “Romano de Roma”. Appena nato, non sapendo ancora né leggere, né scrivere, cominciò improvvisamente a disegnare. Oggi, si divide tra grafica, impaginazione, scrittura, illustrazione, informatica, insegnamento ed… ebanisteria “entry level”.

lunedì 28 ottobre 2013





Gentile  Vice, 
Potrebbe consigliarmi quale tipo di partito indossare per la primavera-estate  del 2014?   
Cordiali saluti,
Piereginardo  Inciucini

Gentile Piereginardo,
Ma che domande… Lei sa benissimo che lo  scudo crociato non passa mai di moda.
Cordiali  saluti,
Vice
***

Caro Vice,
Give me  five!
Vorrei  lanciare una nuova linea di  profumi partitici ? Che essenza  mi consiglia? 
Gatteo  Lenzi

Caro  Gatteo,
Yeaaahhhh!
Essenza di garofano. Per  un po’ funziona.
Comunque,  risentiamoci.
Vice
***

Carissimo Vice,
Arcano e  Quagliavitiello  vogliono  tassare il mio secondo partito… Allora ho deciso di rifondarne un altro  e intestarlo a mia figlia Zarina.  Così mi risulta come primo partito, e per giunta in comodato d’uso a un  membro della mia bellissima  famiglia…    Lei che ne pensa?
Ossequi,
Cavalier  Silvio Bernasconi

Carissimo Cavaliere,
E cosa devo pensare?  Che rischia un’altra condanna per evasione fiscale…    
Ricambio gli ossequi,
Vice
***
Egregio  Vice,
Oggi  è il novantunesimo anniversario della  Marcia su Roma.
Basta con questi politici di merda!
Camerateschi saluti,
Italo Tafazzi

Egregio Signor Tafazzi,
Giro la Sua lettera a  Beppe Grillo. Che sicuramente apprezzerà.
Cordiali saluti,

Vice

sabato 26 ottobre 2013






















Alzare la testa

Nessuno è più al sicuro
nel baratro di una realtà
dove si segue sempre la morale di Pilato
per la banalità di concedersi
la via comoda dell’indifferenza.
La vita è un teatro
con troppi servi di scena
che non cercano affatto la libertà.
Amano recitare il copione di un regista
che li vuole striscianti su un palcoscenico
di comparse e suggeritori.
Per fortuna  esiste anche un pubblico
che non desidera acquistare il biglietto
per assistere a una squallida commedia
che in ogni replica condanna a morte
la dignità degli esseri umani.

Noi preferiamo alzare la testa
perché pensiamo che la partita della salvezza
ce la possiamo giocare
schierando come unica punta
l’idea di rivolta che ci appartiene.

                                              Nicola Vacca



Nicola Vacca è nato a Gioia del Colle e vive a Salerno. È scrittore, opinionista, critico letterario, operatore culturale.  Firma di testate prestigiose, attualmente  collabora  con la Fondazione Alfonso Gatto  e la rivista "Satisfiction". Tra i suoi libri di poesia, ricordiamo, Civiltà delle anime (Book) , Incursioni nell’apparenza ( Manni), Esperienza degli affanniAlmeno un grammo di salvezza (Edizioni Il Foglio), Mattanza dell' incanto ( Marco Saya Edizioni),  Nello stesso posto (Calenda166).

venerdì 25 ottobre 2013


Esiste un diritto alla salute?
Fingere di essere sani







Esiste un diritto alla salute? E cosa significa diritto alla salute? La morte di Raffaele Pennacchio (nella foto),  medico malato di Sla,  può essere occasione per qualche rapida riflessione in argomento. Anzi,  controindicazione.  
Diciamo che la causa di fondo,  per cui il dottor Pennacchio, sfidando una grave  malattia, si è battuto e morto, è più che giusta,  perché riguarda la libera scelta, da parte del paziente, di farsi assistere (o meno) dai familiari  in casa propria.  Quindi si tratta di un diritto di libertà.
Ma, come si osserva, non tutti possono permettersi questo “lusso”. Di qui,  l’intervento  “parificatore”  dello stato in nome del  diritto alla salute.  Il che però - cosa che spesso non si dice - porta automaticamente allo sviluppo di fondi “dedicati”, controlli,  burocrazie, trattative politiche, tagli, aggravi fiscali. Dal momento che ogni diritto,  mai dimenticarlo,  ha  un  prezzo, di regola oneroso,  che ricade sulle spalle di tutti i cittadini.

Naturalmente, come nel caso del diritto alla salute,  più il diritto è astratto, o comunque indefinibile, più l’onerosità  cresce. E per quale ragione?  Perché inevitabilmente  la “platea”  di coloro che desiderano fruirne si amplia  in modo incessante  e con essa la burocrazia preposta alla gestione concreta del diritto in questione.  E più i burocrati si moltiplicano (anche se in elegante  camice bianco) più resta difficile -  per alcuni  impossibile  -  controllarne l’ attività.
In realtà,  che cos’è la salute?   Difficile dire. E poi quale salute?  Psichica o  fisica?  O entrambe?  Mah… Certo, come avviene, possono fissarsi parametri “pubblici”, riconosciuti, che però, proprio perché convenzionali, sono sempre frutto di trattative politiche.  Cosicché, a ogni cambio di governo, il diritto alla salute si allarga e restringe come un elastico.  E  di volta in volta  gli ammalati delle più diverse patologie  si ritengono autorizzati  a scendere in piazza, sulle orme dei sindacalisti, per difendere il "proprio"  diritto alla salute,  guardando  in cagnesco i portatori di altre sindromi  perché  giudicati  meno gravi  o addirittura sani.  In questo modo si finisce per rispettare, in modo consapevole o meno,  il rigido copione di una società, stupidamente conflittuale, dove si lotta tutti contro tutti  nel nome di astratti  diritti  universali  come il diritto   alla salute. E ogni tanto, purtroppo, qualcuno cade sul campo di battaglia,  come il povero dottor Pennacchio.    
Carlo Gambescia

giovedì 24 ottobre 2013

Il libro  della settimana:  Jerónimo Molina, Nada en las manos, Los Papeles del Sitio 2013, pp. 160 . 


Talvolta dispiace  non conoscere nelle sue più ricche sfumature una lingua straniera.  Per ragioni di lavoro si legge di tutto nei più diversi  idiomi  in modo vorace...  Fin quando ci si imbatte  in un libro che  toglie il fiato, da cui   separarsi  è  difficile,  perché si vorrebbe rileggerlo per apprezzarne, sciogliendoli,  anche i più sottili nodi linguistici.     
Ecco la sensazione provata, una volta letto e chiuso,  Nada en las manos  (Los Papeles del Sitio),  di  Jerónimo Molina,  professore di Politica sociale presso l’Università di Murcia in Spagna, già noto agli amici del blog. Parliamo di uno studioso del “realismo politico”,  con una sua precisa fisionomia,  che merita grande attenzione. Ma anche  di un  filone di studi e pensiero, cui di recente, proprio in Italia, è stato  dedicato un convegno( http://www.istitutodipolitica.it/wordpress/wp-content/uploads/2013/06/IL-REALISMO-POLITICO-Perugia-17-18-19-ottobre-2013.pdf   ).
Il piccolo, solo in apparenza, volume di  Molina rientra classicamente nell’ eccellente tradizione del diario, anche epistolare,  di viaggio intellettuale ( con un modernissimo pendant, se non sbagliamo,  di tipo "blogghista"): la stessa antica e  severa tradizione, per intendersi,  di Machiavelli,  Tocqueville,  Pareto,  Schmitt.  Nomi che possono costituire i gradini finali di una scala dorata  verso le vette della scienza politica. Un percorso, come dire, ascensionale e soprattutto "augurale", al quale  Molina, conoscendone l’umiltà,  opporrà il più  disincantato dei suoi sorrisi.
Il titolo  coglie  plasticamente  lo  sforzo  sisifico di uno scienziato politico assolutamente  consapevole di asserire, al contempo, troppo e troppo poco, soprattutto  dinanzi  all’infuocato divenire delle cose umane.  Perché   cosciente,  come si legge,  che la via del realismo politico -  e qui Molina cita il nostro Giuseppe Ferrari -  è  la via del dolore, o se si preferisce la via dell’imperfezione. Detto altrimenti: di una  scienza guardiana dei fatti,  che però si vede costretta a parlare a un mondo imperfetto, composto di esseri che non ascoltano se non quello che ritengono più  opportuno.  Di qui, sotto gli umanissimi colpi del caso e della necessità,  il poco che si fa troppo e il troppo che diviene poco, anche dall'alto di una cattedra immacolata. Ciò spiega perché il realista è poco amato e peggio giudicato. Non potrebbe essere diversamente: la verità dei fatti non è buona pagatrice, almeno nel presente.  Soprattutto  quando si  afferma, con Freund,    che il potere non  è  reazionario né rivoluzionario, ma solo  uguale a se stesso. E che di conseguenza  il rivoluzionario può trasformarsi in conservatore e il conservatore in rivoluzionario… 
Ferrari, Freund, Aron, Maritain, Schmitt, Simmel, Ortega sono solo alcuni fra i tanti pensatori puntualmente evocati da Molina,, inclusi altri, numerosi, acutissimi studiosi spagnoli, si pensi solo a Eugenio D’Ors,  vero maestro della sintassi diaristica. In qualche misura  siamo davanti a una piccola enciclopedia ragionata capace di proiettare benefici fasci di luce sull’aspro cammino del realismo politico: da Kautyla e Tucidide a  Dalmacio Negro e  Günter Maschke.           
Nada en las manos  ruota intorno al  triennio 2011-2103, anni difficili per la Spagna e per il mondo intero.  E vi sono   raccolti, senza mai perdere di vista la realtà,   incontri, spunti interpretativi,  riflessioni,  note di  lettura e traduzione, libri ritrovati, commemorazioni, aforismi e  versi. Come nei suggestivi   giochi  di piazza di un tempo,  il lettore si trova a osservare, e  con partecipazione,  un pensiero in equilibrio   tra i microeventi della vita familiare e i macroeventi della vita sociale. Cade, non cade, cade?  Non cade.  Molina,  da perfetto  equilibrista dello spirito, si tiene in piedi  sulla  fune, posta tra le torri  degli eventi privati e pubblici,  grazie ai  contrappesi che puntellano i punti d’appoggio della sua asta. E così si mette in salvo.  Parliamo, fuor di metafora, delle costanti del politico  (o "metapolitiche”, come ci piace chiamarle): quel che si ripete, con regolarità, nell’universo politico. Ecco  i contrappesi cognitivi della politica, anche la più burrascosa: senza i quali resta difficilissimo abbassarne o alzarne il baricentro.   
Pertanto Molina non passeggia elegantemente tra le rovine come l’ultimo Schmitt,  né si compiace  di osservare le efferatezze della politica come Pareto,  né celebra  troppo gli antichi  per opporli ai moderni come Machiavelli,  né infine certifica, pur di controvoglia, processi storici dotati di forza propria, come Tocqueville.
La sua scienza politica è  scienza dei limiti e dei cicli, a un tempo antica,  moderna, postmoderna.  Per quale ragione?   Perché capace di   metabolizzare, in chiave  atemporale,  l’esperienza politica alla luce del  sic transit gloria mundi di cui sono imbevute le sue costanti.  Anche sul piano personale. E qui il cerchio si chiude.
Parliamo, insomma, di uno  studioso sobrio,  che non scrive (relativamente) molto, ma legge e pensa tantissimo. Cosicché, quando prende la penna in mano,  lascia sempre  il segno.  Grazie anche  alla qualità della scrittura  che  consente a Molina  di  risalire,  in poche dense battute,  dal particolare (magari privato) all’ universale ( sempre politico). E qui, come dicevano all’inizio, il nostro dispiacere di non poter cogliere anche la più piccola sfumatura di uno stile sinuoso che avvolge e accompagna il lettore, indicando sempre  il pro e il contro:  la vitalità della lotta politica  e la caducità dell’esistenza;   la forza del pensiero interpretante e la fragilità degli esseri umani; la bellezza di uno sguardo fermo e disinteressato sul mondo e il senso del tempo che passa e che tutto cancella, inesorabilmente. Eccetto  le costanti  del politico...

Insomma,  un libro prezioso. Da tradurre subito.

Carlo Gambescia   

mercoledì 23 ottobre 2013


Spionaggio NSA
Non solo privacy





C’ è sempre il lato comico, anche nelle questioni più  serie. Un esempio sfolgorante  di comicità involontaria è rappresentato dalla lettera   del Garante della Privacy, Antonello Soro,  al Presidente Letta. Che qui in parte riproduciamo.

«Il problema delle attività di spionaggio della NSA rende indispensabile che il Governo accerti se la raccolta, l'utilizzo e la conservazione di informazioni relative alle comunicazioni telefoniche e telematiche abbia coinvolto anche i cittadini italiani […]. Appare [perciò] quanto mai urgente predisporre efficaci strumenti di protezione dei dati personali e dei sistemi utilizzati per finalità di polizia e giustizia, anche nella consapevolezza dell'obiettivo europeo di rinforzare gli strumenti di cooperazione e scambio di dati ».   

Capito? Il  problema  principale  sarebbe  la   privacy dei cittadini… L' individualismo protettivo  di Soro, come di tanti altri moralisti, è semplicemente  ridicolo.  Perché il punto non è  (o comunque non solo)  la libertà  di telefonare senza essere intercettati,  tra l’altro, già violatissima sul piano interno,  ma quello di chiedersi perché   l’Italia,  rendendo la pariglia agli Stati Uniti, non  ficcasse il naso nelle reti telefoniche più calde di Washington.  E lo stesso discorso può  valere  per gli altri “intercettati” europei e per l’Ue nel suo insieme.
Probabilmente,  ciò è  accaduto  per ragioni tecnologiche. Anzi, "anche" per ragioni tecnologiche. Perché la causa  di fondo va ricercata in altro fattore: la totale assenza  di volontà politica.  

Attenzione:  non stiamo  cadendo nell’antiamericanismo a buon mercato. Come la storia insegna, si può essere alleati e spiati al tempo stesso.  Ogni  stato che si rispetti deve diffidare di tutto e tutti,  senza naturalmente  tirare troppo la corda.  Ad esempio,  durante la “Guerra Fredda”,  perfino  USA e URSS, che pure alleati non erano  si scambiavano  spie catturate e  informazioni utili contro “interlocutori” scomodi o nemici comuni.  Per quale ragione? Perché  erano due  potenze militari, cui la volontà politica non difettava. E per tale ragione, costrette a  trattarsi alla pari.  L’esatto contrario di ciò che oggi sono, rispetto agli Stati Uniti,   Italia, Francia, Unione Europea. Di qui, l'assenza di considerazione, eccetera eccetera...    

Carlo Gambescia

martedì 22 ottobre 2013


Napolitano testimone a Palermo?  
Metapolitica  di un'indagine giudiziaria...





E così il Presidente Napolitano  sarà ascoltato dal tribunale  Palermo.  Tutto bene?  Dipende.
Sulla cosiddetta    “trattativa”  fra Stato e mafia  sono finora  emerse due posizioni:  la massimalista, arcisicura dell'esistenza di un accordo,  che vorrebbe ministri e mafiosi seduti l’uno accanto all’altro  sullo stesso banco degli imputati;   la minimalista,  che, al contrario , minimizza o  nega  la “trattativa”.
I due atteggiamenti condividono un presupposto morale:  che le istituzioni  non devono  trattare con la mafia,  dal momento  che  da una parte si ergerebbe  il luminoso regno della legalità, dall’altra il tenebroso mondo dell’illegalità.  
Si tratta di una visione in bianco e nero che ignora, per restare in metafora, il  grigio: il punto in cui -  come impongono le  “costanti”  metapolitiche -  i confini tra il bianco e nero si confondono. Il che significa che esiste una terza possibilità interpretativa.  Ci spieghiamo meglio.
Se, come tutti gli schieramenti sostengono,  c’è una guerra in corso tra Stato e mafia,  allora, per farla breve, a brigante si deve opporre brigante e mezzo. E per inciso,   la  guerra, come scrisse qualcuno che ne capiva, è la continuazione della politica con altri mezzi. 
Che cosa si fa in  guerra? Prima si attacca, poi ci si ritira in attesa di trovare il punto debole del nemico. Oppure si cerca di dividerlo, blandirlo, anche provando a trattare,  per poi, una volta  ricevuti rinforzi, colpirlo meglio,  magari a tradimento. Insomma, tutto è ammesso perché  lo scopo finale e  vincere la guerra, e poco importa, se per ragioni tattiche, si deve perdere una battaglia.
Si dirà che la classe politica italiana è inadeguata e inaffidabile.  E che il comando delle "operazioni" non può essere conferito  a politici non all’altezza della situazione… Giusto. Tuttavia, come insegna la storia d’Italia, le classi politiche passano mentre  la guerra alla mafia resta.  E i mezzi “bellici”  per combatterla,  anche quelli tattici come la trattativa, rimangono gli stessi, a prescindere dalla qualità o meno dei politici al comando. Perciò, sul dovere di usare ogni  mezzo  "militarmente" utile  per sconfiggere la mafia, si dovrebbe restare uniti. Insomma, mai  presentarsi moralmente divisi,  davanti a un nemico che non attende altro. In questo modo,  si  rischia di  prolungare la guerra e  di   allontanare  la possibilità  stessa di vincerla.

Concludendo,  dal punto di vista metapolitico,  la  deposizione di Napolitano,   per la carica che ricopre e le modalità che l’hanno permessa,  è un grave segno di debolezza, se non addirittura una vittoria della mafia.

Carlo Gambescia

lunedì 21 ottobre 2013





Cara donna Mestizia,
14 euro in più in busta paga!
Conte Nipote

Caro Conte Nipote,
La ringrazio sentitamente, e, vivamente sollecitata da un Comitato di Lettori riconoscenti appositamente costituitosi,  mi permetto di lanciare una proposta. Il 4 novembre prossimo, Festa dell’Unità nazionale e delle Forze Armate, alle ore 20.00 ogni italiano beneficato dal Suo governo si rechi alla pizzeria di fiducia, e investa generosamente i 14 euro in una patriottica pizza margherita tricolore (con la rucola): ma prima di consumarla - alle ore 20.29 esatte - osservi un minuto di silenzio e raccoglimento. Poi, buon appetito! Egli, così, da un canto contribuirà umilmente alla ripresa economica nazionale annunciata dal Suo governo; dall’altro si ricongiungerà idealmente, in mistica unione con la Patria, ai 650.000 caduti italiani nella Grande Guerra. Facoltativo, ma vivamente consigliato, il classico abbinamento pizza-birra, meglio se tedesca: una soluzione che, gastronomicamente ideale, offre l’inestimabile bonus di una simbolica riconciliazione con la Germania, allora nemica, oggi fraterna alleata, protettrice e guida europea. La “Festa dell’Unità nazionale e delle Forze Armate” – un nome, ammettiamolo, ormai superato, di fatto indecifrabile per le giovani generazioni - potrebbe essere contestualmente ribattezzata “Festa della Pizza”, in beneaugurante omaggio a una geniale invenzione, prodotto della ricerca italiana, che da tanti decenni riscuote un successo globale fra i consumatori di tutto il mondo, senza discriminazione di nazionalità, razza, genere, orientamento sessuale, tifo sportivo e religione. Colgo l’occasione per informarLa che a due passi da Palazzo Chigi mio cognato Pino Mazzini, discendente diretto dell’Apostolo e Suo ammiratore, gestisce un’ottima pizzeria-ristorante, la “Giovane Europa” (anche carne e pesce alla griglia, tel. 06. 25.778.666:). Pino Mazzini, con tutto il suo qualificato personale,  si mette volonterosamente a disposizione Sua, del suo governo e del Suo staff. Di nuovo ringraziandoLa per la Sua generosità e la Sua attenzione, Le auguro buon lavoro e La saluto cordialmente.
* * *
Cara Cognata,
Ti ringrazio per la segnalazione, tu sì che sei una parente, no quel disgraziato di Gigi. Va bè, lasciamo perdere. Ti chiedo un suggerimento: e se mandassi al Conte Nipote una copia del nostro menu? Sai quello bello che pare una pergamena antica, con sullo sfondo, scritto tutto antico, il giuramento della “Giovine Italia” di Nonno Pino, e sopra le fotine delle pizze e le spieghe in tre lingue? Che ne dici? Ciao, ti aspetto a cena, non ti fai vedere mai, e che ci vuole? Ti faccio due spaghettini all’astice che ti commuovi. Ciao bella, grazie ancora!
Pino Mazzini

Caro Pino,
ma figurati, quando si può. Senti, però: per il menu, io lascerei perdere. Te l’ho già detto: l’idea è bella, il colpo d’occhio fa la sua figura, poi c’è il prestigio della parentela, la tradizione…però il testo, vedi, il testo è quello che è. Per i clienti normali va benissimo, tanto gli stranieri non ci capiscono niente, gli italiani non leggono, ma il Conte Nipote? Quello è un intellettuale, anche un po’ secchione, un precisino…e se lo legge, il giuramento? Ma ti ricordi come comincia? “Nel nome di Dio e dell'Italia. Nel nome di tutti i martiri della santa causa italiana, caduti sotto i colpi della tirannide, straniera e domestica.” E già lì ti passa l’appetito. E dopo? Dopo, peggio che andar di notte:“…pel rossore ch'io sento in faccia ai cittadini dell'altre nazioni - del non aver nome né diritti di cittadino, né bandiera di nazione, né patria - pel fremito dell'anima mia creata alla libertà, impotente ad esercitarla, creata all'attività nel bene e impotente a farlo nel silenzio e nell’isolamento della servitù… per la memoria dell'antica potenza… per la coscienza della presente abbiezione… per le lagrime delle madri italiane…   pei figli morti sul palco, nelle prigioni, in esilio…  per la miseria dei milioni…” Ti rendi conto? Niente niente il Conte Nipote pensa che alludi, sfrucugli, punzecchi…C’è da mettersi nei guai, Pino mio, pensa piuttosto alla salute. Insomma io il menu non glielo manderei. Invita semmai a pranzo le segretarie, gli uscieri, che a Roma il potere vero ce l’hanno loro,  ancora non lo sai? Grazie mille dell’invito. Allora vengo mercoledì con tre amiche, mi raccomando i dessert! Ciao Pino!


Roberto Buffagni è un autore teatrale. Il suo ultimo lavoro, attualmente in tournée, è Sorelle d’Italia – Avanspettacolo fondamentalista, musiche di Alessandro Nidi, regia di Cristina Pezzoli, con Veronica Pivetti e Isa Danieli. Come si vede 

sabato 19 ottobre 2013

Nel verso giusto
di Nicola vacca


Agli amici poeti

Dovremmo inventare strade giuste
tra le pagine bianche 
prima che la parola definitiva fine
sia la ghigliottina di tutti gli inchiostri.

Dovremmo dedicare il cuore
a imprese impossibili
prima che i gesti
siano prosciugati da questo deserto
in cui tutto sta smettendo di divenire.

Dovremmo, dovremmo,
anzi dobbiamo, se non vogliamo
che la poesia smetta di essere germoglio.
                                        
                                      Nicola Vacca


Nicola Vacca è nato a Gioia del Colle e vive a Salerno. È scrittore, opinionista, critico letterario, operatore culturale.  Firma di testate prestigiose, attualmente  collabora  con la Fondazione Alfonso Gatto  e la rivista "Satisfiction". Tra i suoi libri di poesia, ricordiamo, Civiltà delle anime (Book) , Incursioni nell’apparenza ( Manni), Esperienza degli affanniAlmeno un grammo di salvezza (Edizioni Il Foglio), Mattanza dell' incanto ( Marco Saya Edizioni),  Nello stesso posto (Calenda166).

giovedì 17 ottobre 2013

Il libro della settimana: Pietro Di Muccio de Quattro, Il golpe bianco di Edgardo Sogno,  con una nota dell’editore, Liberilibri 2013, pp. 142, euro 15,00 -   .


Siamo dinanzi a un libro tutto  italiano. Ecco la prima riflessione  sorta, fin troppo spontaneamente,  dopo aver letto l'avvincente pamphlet scritto da  Pietro Di Muccio  ( per ragioni di brevità, scusandoci, "tagliamo" il pur elegante cognome), Il golpe  bianco di Edgardo Sogno  (Liberilibri).  Per quale ragione “tutto”  italiano? Perché certe cose  -  dispiace ammetterlo -  possono accadere solo da noi. E purtroppo continuano a succedere. 
Per dirla fuori dai denti, il clamoroso arresto di Edgardo Sogno, avvenuto  a pochi settimane dalle elezioni politiche del 1976,   e il suo  proscioglimento nel settembre 1978, in piena "unità nazionale",  rappresentano l’archetipo  del  modus operandi,  devastante  anche sotto il profilo mediatico, di certa magistratura italiana.  Non per nulla a mettere in prigione  Sogno,  classe 1915,  antifascista,  partigiano “bianco” e Medaglia d’Oro al Valor Militare, accusandolo di  presunte  trame golpiste ( in concorso con  altre persone, tra le  quali spiccava per fama Randolfo Pacciardi),  fu un  giudice istruttore, Luciano Violante, poi  eletto deputato nelle liste del Pci, anno di grazia 1979.  E destinato a luminosa carriera politica. L’esatto contrario della sfortunata sorte toccata a Sogno: da allora assurto nell’immaginario dei media, non solo di sinistra, al rango di  macchietta “controrivoluzionaria” (nella migliore delle ipotesi),  o di   scherano  della “reazione fascista in agguato” (nella peggiore).
Inoltre,  Violante,  come il Commendatore del “Don Giovanni” mozartiano,  continua ad aleggiare tra le pagine  del pamphlet:  ne è  il “convitato di pietra".   Perché, in partenza, come spiegano editore e  autore, il libro  doveva essere una riedizione del Golpe bianco, scritto da Edgardo Sogno e pubblicato nel 1978  per le  montanelliane ( o giù di lì)  Edizioni dello Scorpione.  Ma,  come scrive mestamente l’editore,  «nel timore che qualche riga d[i quel, ndr] libro potesse essere usata a pretesto  per accampare lesioni da parte delle persone  criticate da Sogno, ed in primis dall’ex giudice istruttore, abbiamo rinunciato al progetto» (p. 9).
Cosa dire?  Intanto,  che nei famigerati  Anni Piombo, un piccolo editore libertario, correva meno rischi di oggi. Non resta che piangere amarissime lacrime sul destino della libertà di stampa in Italia. Che malinconia.
Tra l’altro, Violante all’ invito dell’editore di fornire un contributo non ha  dato risposta, come si confà  -  e sia detto con il massimo rispetto  -   a ogni buona statua parlante, che non può non    esigere  il pentimento del Don Giovanni di turno.  Ma Edgardo Sogno è morto  nel 2000.  E  - azzardiamo -   editore e  autore, per fortuna viventi (e ci auguriamo molto a lungo)  di cosa  dovevano o  devono  pentirsi?   Di pubblicare e scrivere buoni libri?   
Insomma, stringendo,   il volume è un testo sul “ brutto guaio passato” da  Sogno, come si direbbe da Roma in giù. E vi sono  raccolte, nell’ordine:  una tagliente nota editoriale,  l'agguerrita   introduzione del Di Muccio alla mancata riedizione del volume di Sogno,  e (in appendice) due sentenze: quella istruttoria di proscioglimento  (Tribunale di Roma, 1978) e quella  del processo intentato da Sogno nei riguardi di Luciano Violante per falsità ideologica in atto pubblico (Tribunale di Venezia, 1975),  conclusosi con il non luogo a procedere, «perché il fatto non costitui[va] reato». 
Il lettore potrà scoprire da solo la fragilità del teorema di  Violante, il primo di una inquietante serie di castelli in aria: pindariche fortezze bastiani di serie B  che hanno intossicato - e intossicano -  l’attività di una  magistratura NIMBY, rivolta a individuare cospirazioni  sempre nel giardino dell'avversario ideologico di turno e mai nel proprio… Un teorema, come si evince,  edificato sulle  palafitte  di collegamenti politici, mai provati, tra Sogno, antifascista a tutto tondo, e la  destra neofascista.  Una fragilità  che viene messa in luce, e molto bene,  dalle due sentenze. In particolare dalla prima (quella romana). Mentre la seconda (quella veneziana) resta utile per capire - certo,  fra le righe -   in che cosa consistesse, quel che il Tribunale di Venezia, respingendo la tesi della falsità ideologica sostenuta da Sogno,  definì    l’  «eccesso di zelo» del giudice Violante.    
Ripetiamo, al di là della pur eccellente ricostruzione dei fatti,  ciò che al contempo affanna e consola  è l’intuizione di un archetipo sociologico. E di che cosa? Come accennato, del modus operandi di certa magistratura italiana NIMBY.  Ma lasciamo la parola a Pietro Di Muccio: «Qui  troviamo in nuce  tutti i caratteri soggettivi e oggettivi del processo: l’uomo famoso “attenzionato” da un magistrato allora sconosciuto che forma su di lui un fascicolo processuale composto da voci giornalistiche; la Medaglia d’Oro al Valor Militare che conduce una battaglia politica;  la lettera mai ricevuta e mai vista  da Sogno[dove si accennava a  una  nascente e auspicabile coalizione di  tutti in gruppi di estrema destra, incluso Ordine Nuovo, ndr]; la perquisizione domiciliare di Sogno disposta da Violante alla ricerca della fantomatica lettera; il tentativo di addebitare a Sogno, secondo l’asserzione del decreto di perquisizione, l’organizzazione di tutti i gruppi di estrema destra, tra i quali Ordine Nuovo, dopo lo scioglimento di quest’ultimo; il processo di Venezia a carico di  Violante su denuncia di Sogno per falsità ideologica in atto pubblico» (p. 41).
Che dire? Forse  basterebbe cambiare qualche nome per precipitare  subito nella più sconcertante attualità…  
Infine, come si  nota acutamente,  va ricordato che Sogno fu giudicato « penalmente innocente non perché volesse o non volesse  fare un “golpe bianco”, cioè liberale, cioè anticomunista e antifascista, ma perché, nel modo in cui l’aveva predisposto e a livello dei preparativi cui era giunto, il suo divisato “strappo costituzionale” non costituiva  affatto o non costituiva ancora una condotta delittuosa, vale a dire un reato vero e proprio, bensì una lecita, sebbene vigorosa e radicale, attività di opposizione, non cospirazione politica. Niente di eversivo penalmente parlando» (p. 53). In buona sostanza, Sogno lottava alla luce del sole ( scrivendo e organizzando seminari e convegni) per l'istituzione  di una  repubblica presidenziale... Un autentico tabù politico per la Prima, per la Seconda e forse pure per la Terza Repubblica...   
Di qui, il proscioglimento, perché il fatto non sussisteva. Per  citare dalla sentenza del giudice Francesco Amato, «manca […] la prova della congiura; resta per Edgardo Sogno, il dissenso. Ma la Repubblica, che trae la sua invincibile forza dall’esaltazione e dalla pratica dei principi democratici, non criminalizza il dissenso, che anzi è esso stesso un aspetto della legalità costituzionale”. 

Concludendo, negli anni Settanta,  Edgardo Sogno  nonostante tutto  trovò  un  giudice a Berlino.  Oggi lo troverebbe ancora?

Carlo Gambescia