giovedì 29 novembre 2012

La recensione dell'amico Teodoro Klitsche de la Grange  affronta un tema scottante, per dirla in giornalistese.  Quale? Che  in Italia  lo "Stato di Diritto"  sembra ormai diventato  un oggetto misterioso...     Anzi, si potrebbe  parlare di "Stato Giudiziario".  I giudici  chiudono fabbriche, decidono chi assumere, spiegano la Costituzione al Presidente della Repubblica,  intervengono ai  congressi dei partiti  E se sbagliano, rovinando la vita  di un  comune mortale, non vogliono pagare di tasca propria come  tutti gli altri cittadini.  





Il libro della settimana: Guido Vitiello, Non giudicate, Liberilibri 2012, pp. 104,  Euro 14,00   (recensione a cura di Teodoro Klitsche de la Grange)

Libri sul garantismo e sullo scarso apprezzamento che spesso riscuote nelle aule giudiziarie, ne sono stati scritti tanti (una buona bibliografia la si trova anche in questo volume); quello di Vitiello è particolare perché sostanzialmente consiste in quattro interviste a veterani dello Stato di diritto: Mellini, Marafioti, Carnevale e Di Federico. L’introduzione di Giuliano Ferrara, la premessa di Vitiello e un breve (ma significativo) carteggio tra Mauro Mellini ed Enzo Tortora completano il volume.
Le interviste ai quattro “veterani” sono tutte interessanti, ma la più stimolante è quella a Carnevale; che fa anche della “sociologia della magistratura”: ad esempio quando afferma che i magistrati “Presi singolarmente sono persone perbene, quando invece operano in quanto magistrati la cosa cambia aspetto. Per esempio, la magistratura è restia ad applicare nuovi istituti che abbiano sullo sfondo, come premessa, l’errore di un giudice. Potei constatarlo in almeno due occasioni. La prima, quando entrò in vigore il nuovo Codice di procedura penale che prevedeva la riparazione per ingiusta detenzione. Ebbene, nei primi tempi i giudici si arrampicarono sugli specchi pur di non applicare l’istituto nuovo. E lo stesso fecero con la cosiddetta legge Pinto, introdotta per cercare di frenare i ricorsi alla Corte europea di Strasburgo dei malcapitati che subivano ritardi nell’amministrazione della giustizia”, la quale non è estranea neppure all’intervento di Mellini sull’uso “del verbo smaltire, che designa l’attività del giudice operoso, capace di liberarsi di una gran mole di cause pendenti”: significativamente “«Lo si usa per due casi: per le pratiche e per i rifiuti. Il cittadino va davanti ai giudici per cercare giustizia, e invece viene smaltito, Nel breve periodo in cui sono stato membro laico del Csm, tra il 1993 e il 1994, sentivo sempre lodare la laboriosità dei magistrati, che però era un dato meramente quantitativo, il numero di pratiche per l’appunto ‘smaltite’»”: “smaltimento” favorito da molte leggi dell’ultimo decennio, spesso con peggioramento qualitativo della giustizia.
A leggere questo libro riemerge il dubbio, (per chi scrive è una certezza): che il problema principale della giustizia italiana non sia lo scarso rispetto per le garanzie e i processi-spettacolo, ma la scarsa efficienza (per quella civile forse più della penale) che la rende  -  in larga parte  -  inutile. Ma uno Stato che non riesce a dare giustizia fallisce in un compito essenziale; secondo solo a quello di protezione (politica) delle comunità dai nemici interni ed esterni. Sarebbe il caso di ripensare l’intero impianto dell’ordinamento giudiziario, facendo tesoro non solo di quanto avviene in altri stati contemporanei, ma anche della sapienza giuridica-istituzionale romana.

Teodoro Klitsche de la Grange



Avvocato, giurista, direttore del trimestrale di cultura politica“Behemoth" (http://www.behemoth.it/  ). Tra i suoi libri: Lo specchio infranto (1998), Il salto di Rodi (1999), Il Doppio Stato (2001), L'apologia della cattiveria (2003), L'inferno dell'intellettuale (2007), Dove va lo Stato? (2009).

mercoledì 28 novembre 2012

Sull’Euro se ne dicono di tutti colori. E anche Carlo Pompei vuole dire la sua… E così ci propone una favola, nel senso del  racconto breve che  racchiude un insegnamento morale.  Una favola che i  lettori, se desiderano,   possono raccontare a figli e nipoti. Buona lettura. (C.G.) 

C’era una volta l’Euro-Famiglia...
di Carlo Pompei



C’era una volta papà Cento - capofamiglia Euro (nonno Cinquecento e nonna Duecento erano morti anni prima) - che viaggiava solo-soletto dentro un portafogli sempre più magro.
Un giorno chiese al padrone del portafogli un po’ di compagnia e di ricongiungersi alla propria famiglia: moglie-mamma Cinquanta e i figli Venti, Dieci e Cinque. Ma papà Cento servì per pagare un pieno di benzina. Così mamma Cinquanta fece da resto.
Ben presto ella fece la stessa richiesta, ma venne scambiata con un ticket sanitario e ‘stavolta i figli fecero “il resto”.
Nel frattempo anche Venti era diventata mamma e, oltre ad accudire Dieci e Cinque, pensava a sfamare anche i suoi figli Due e Uno.
Una brutta sera Venti venne scambiata per una pizza Margherita e una birra media alla spina, così Dieci, Cinque, Due e Uno rimasero soli.
Dieci decise di partire per una missione superenalotto, Cinque pagò l’autostrada, Uno offrì un caffè in autogrill e Due finì in un parchimetrorfanotrofio Strisce Blu in centro città…

Carlo Pompei


Carlo Pompei, classe 1966, “Romano de Roma”. Appena nato, non sapendo ancora né leggere, né scrivere, cominciò improvvisamente a disegnare. Oggi, si divide tra grafica, impaginazione, scrittura, illustrazione, informatica, insegnamento ed… ebanisteria “entry level”.

martedì 27 novembre 2012

Bersani, Renzi e Vendola 
Sinistra sì, ma riformista




Giovedì scorso abbiamo recensito l’opera di Roberto  Vivarelli sulle origini del fascismo ( http://carlogambesciametapolitics.blogspot.it/2012/11/il-libro-della-settimana-roberto.html  ). In quel libro, che consigliamo caldamente ai nostri amici lettori, si offre un'eccellente interpretazione del massimalismo  italiano e delle sue enormi responsabilità nell’avvento di Mussolini (ovviamente, vi furono anche altri "colpevoli", tra i liberali ad esempio):   i socialisti, dominati dai massimalisti, nonostante la massiccia rappresentanza parlamentare,  misero nell’angolo i riformisti, spianando la strada alle camicie nere. E come mostra Vivarelli la loro colpa prima che politica fu culturale: quella di aver  venduto alle  masse, a prezzi scontati, l'oppio del rivoluzionarismo (ma su questi aspetti si veda anche la nostra recensione al notevole saggio di Alessandro  Orsini: http://carlogambesciametapolitics.blogspot.it/2012/03/il-libro-della-settimana-alessandro.html ).
Ora, fatte le debite proporzioni storiche,  il  Pd di Bersani post-primarie, si trova  nella stessa situazione.  Crediamo infatti  che  il Partito democratico abbia la  possibilità di vincere  le prossime elezioni, ma non quella di governare. Soprattutto se darà ascolto al radicalismo di sinistra di Nichi Vendola, pronipote (culturalmente parlando) del massimalismo socialista di inizio secolo.
Occorre  un fronte riformista  che  non parli  solo  di tagli e nuove tasse.  Insomma, un Pd  capace di guardare, ma con  immaginazione  italiana,   alla Francia di Hollande e  alla Germania, si spera, socialdemocratica,  post-Merkel.  Pertanto, se  fossimo  al posto di Bersani, da molti  indicato come il futuro premier,  terremmo nel massimo conto l’immaginazione politica di Renzi e la sua grande capacità di attirare nuovi elettori riformisti e moderati, stanchi delle promesse non mantenute dal centrodestra e arcistufi  dei piagnistei statalisti della sinistra radicale.
Il problema, infatti, non è vincere, ma riuscire a governare dopo aver vinto. E come?  Con  tanto impegno, tanta "fantasia" e soprattutto rafforzando i legami con la Francia e la Germania (socialista riformista...).  Altrimenti si consegnerà l’Italia  al professor  Monti o al  ripetente  Grillo. 

Quanto a Berlusconi, ormai alla stregua di Hitler, come commentava  ieri un lettore,  si è rinchiuso nel bunker. E  con un solo problema,   citiamo dalla ironica risposta  di  Roberto Buffagni:   trovare tra le tante, la sua amata Eva Braun. 

Carlo Gambescia

lunedì 26 novembre 2012






Cara donna Mestizia,
dopo lunghissimo e onorato servizio siamo stati brutalmente licenziati dal nostro datore di lavoro, che per tutta risposta alle nostre vibrate proteste ha sfacciatamente diffuso a mezzo stampa la tesi paradossale che non soltanto non abbiamo mai lavorato alle sue dipendenze, ma addirittura non siamo mai esistiti! Recatici in uno studio legale per sondare le possibilità di adire le vie legali, la segretaria ci ha scacciato con offensivi pretesti razzisti (testuale: “Fuori di qui che mi sporcate tutto!”). Ci siamo messi a frugare nei cassonetti per racimolare un po’ di cibo, ma siamo vegetariani, e qui sembra che tutti mangino solo carne e merendine. Ci accorgiamo che tutti ci fissano con un’espressione strana. Al nostro indirizzo i passanti pronunciano a mezza bocca frasi enigmatiche e preoccupanti, quali: “Buono, lo stracotto con la polenta!” oppure “Ammazzalo quante belle bisteccone!” Che fare?
I lavoratori della Cooperativa “Bue & Asinello”

Cari lavoratori della Cooperativa “Bue & Asinello”,
la crisi è un momento difficile, ma è anche una opportunità di rinnovamento sociale e personale. Come dice il nostro Presidente del Consiglio, il posto fisso è noioso! Comunque, visto che ci avviciniamo al Santo Natale e ci sentiamo tutti più buoni, scrivetemi privatamente accludendo dettagliato CV, e vedrò se posso fare qualcosa.

* * *

Cara donna Mestizia,
mi consenta: non ci capisco più un cavolo. Ho fatto tutto quello che mi hanno chiesto, e non è che mi hanno chiesto poco, mi hanno chiesto quasi tutto. Però almeno il quasi me lo devono lasciare! E invece qui mi condannano in tribunale, mi rapiscono il ragioniere, fanno crollare i titoli azionari delle mie imprese, continuano a darmi la colpa di tutto. Questa persecuzione non finisce mai! Cos’altro vogliono da me, quegli squali?! Cosa vuole, l’abbronzato maledetto?! Mi vogliono vedere in mezzo a una strada, a dormire sui cartoni?
Cav. S. Bernasconi

Caro Cav. S. Bernasconi,
mi consenta Lei: cosa sono questi indovinelli? Lei allude a certi “loro” che le hanno “chiesto quasi tutto”, protesta che “almeno il quasi” glielo “devono lasciare” … vaneggia di un “abbronzato maledetto”… come se noi fossimo tenuti a sapere tutto di Lei, di “loro”, de “l’abbronzato” e delle vostre beghe personali. Ma Lei chi diavolo è, chi diavolo si crede di essere? Mario Monti? Napoleone? Visto però che ci avviciniamo al Santo Natale e ci sentiamo tutti più buoni, mi scriva privatamente, e La metterò in contatto con i lavoratori della Cooperativa “Bue & Asinello”. Come si dice? Mal comune, mezzo gaudio.

* * *

Cara donna Mestizia,
una settimana fa, dopo ventitre anni di lavoro come magazziniere presso la Ditta “Triccheballacche & F.lli”, vengo licenziato dal nuovo amministratore delegato dott. Cing Ciang, che motiva il provvedimento con la mia ostinata renitenza ad accettare più di trenta ore straordinarie settimanali, aggiungendo che se io sono  “choosy”, lui con tutti i disoccupati che ci sono ha solo l’imbarazzo della choice. Esco stravolto dall’ex luogo di lavoro, e dopo aver vagato alla cieca per ore rientro a casa. Salgo a piedi (l’ascensore è rotto). Metto la chiave nella serratura, ma non gira. Riprovo. Niente da fare, non gira. Perplesso, suono alla porta. Mi apre mia moglie, mi guarda, e mi fa: “Desidera?” Anche se non ho voglia di scherzare, sorrido e faccio per entrare. Lei mi dà uno spintone e si mette a gridare “Aiuto, aiuto!” Esce il vicino di pianerottolo, una cintura nera di karate, che mi massacra di botte. Giaccio al suolo sanguinante, gemo, sputo due denti. Arrivano i carabinieri. Mi controllano i documenti, mi accusano di tentata effrazione, tentata aggressione, tentato stupro, più altro che non ho capito perché il karateka mi ha rotto un timpano. Mi ammanettano e mi traducono alle carceri circondariali. Vengo rinchiuso in una cella di mt. 4 x 3 già occupata da cinque detenuti. Essi non gradiscono la mia persona e dopo avermi crudelmente malmenato, mi sottopongono a una pratica terribilmente umiliante e dolorosa che, allo scopo di conservare un barlume di salute mentale, preferisco non definire esplicitamente. Dopo alcuni terribili giorni e più terribili notti, finalmente vengo chiamato per il colloquio con il magistrato. Barcollo accanto all’agente di polizia penitenziaria fino alla stanzetta dove il signor giudice m’attende in piedi, guardando dalla finestra. Distrutto come sono, dimentico le buone maniere e mi siedo per primo senza chiedere permesso. Il magistrato si inviperisce e mi apostrofa così: “Ma Lei chi si crede di essere?” Ci ho riflettuto per un po’, e non ho saputo rispondere, né al magistrato né a me stesso. D’ora in avanti, mi avvarrò della facoltà di non rispondere.
Nessuno 2012

Caro Nessuno 2012,
Lei sta vivendo un’emozionante svolta di vita. Pensi quanto darebbe un romanziere per essere al Suo posto! Se cerca compagni d’avventura, mi scriva privatamente e La metterò in contatto con i lavoratori della Coop. “Bue & Asinello” e con il Cav. S. Bernasconi, che come Lei hanno rinunciato alle ossificate abitudini e alle noiose certezze del posto fisso. Le auguro buon Natale.



Roberto Buffagni è un autore teatrale. Il suo ultimo lavoro, attualmente in tournée, è Sorelle d’Italia – Avanspettacolo fondamentalista, musiche di Alessandro Nidi, regia di Cristina Pezzoli, con Veronica Pivetti e Isa Danieli. Come si vede anche dal titolo di questo spettacolo, ha un po’ la fissa del Risorgimento, dell’Italia… insomma, dell’oggettistica vintage...

venerdì 23 novembre 2012

La stupidità dell'antisemitismo

Lo striscione  dei tifosi biancocelesti apparso ieri  allo Stadio Olimpico

Odiare è amare al contrario. O meglio,  l'odio rinvia all'amore e viceversa.  Tuttavia, dal punto di vista collettivo,  amore e odio  necessitano di un bersaglio sociale preciso, che non sempre esiste...  e così  lo si inventa.  Ma  come lo si crea? Sulla base di stereotipi che riflettono, a vari livelli stratificati, la cultura di una determinata società storica. Sotto questo profilo, quanto più una società coltiva la cultura del rispetto dell’altro tanto più si allontana il pericolo dell’ odio assoluto verso qualcuno. Odio che non  è altro che il rovescio dell’amore assoluto verso qualcun altro. 
Ora,  i cori   allo stadio Olimpico e  l' aggressione antisemita  subita in centro città  dai  sostenitori del Tottenham ( http://www.ansa.it/web/notizie/rubriche/cronaca/2012/11/22/Raid-ultras-laziali-pub-Roma-10-inglesi-feriti-_7837241.html ), evidenziano    quanto la cultura del rispetto sia lontana dal rappresentare un patrimonio collettivo acquisito. E, purtroppo, non solo a Roma.
Abbiamo detto che l’odio verso qualcuno è il rovescio dell’amore verso qualcun altro.  Ciò  significa che   nel  caso dei tifosi  “coristi”   gridare "Juden Tottenham, Juden Tottenham" ("Giudei del Tottenham, Giudei del Tottenham")  sottolinea un fatto preciso: che  l’identità ebraica  (insieme a quella socio-politicamente meno importante dell'appartenenza sportiva)  è  considerata un disvalore assoluto. Ma in nome di quale valore?  La Lazio? O, come si legge nello striscione,  un   popolo che vive in condizioni sociali e politiche di gravissimo disagio? 
No, perché  nei  cori il brutale riferimento  al  nefando  “Juden Raus”  ("Fuori i Giudei"),  chiarisce che l’amore assoluto riguarda una specifica tradizione politica tedesca:  la nazionalsocialista (*). Che del rispetto dell’altro fece strame.


"Fuori i  Giudei!".  Propaganda  antisemita mazionalsocialista


Ed è così,  celebrando la causa  nazista  e  insultando un popolo perseguitato da Hitler, che si vuole aiutare la causa palestinese?    Tutto ciò  non  solo è vergognoso,  è stupido.

Carlo Gambescia


(*)  Infatti, in inglese  ebreo si  dice jewish. E con judean  si indica,  sempre nella lingua di Shakespeare.   l'abitante del  Regno  di Giudea... Mentre in tedesco si traduce  jude(n, plurale), nel senso di ebreo, israelita, giudeo. In quest'ultima accezione, anche in relazione al contesto, il termine  può  assumere valore moralmente negativo, come per l'appunto nella propaganda nazista e  neonazista.        



giovedì 22 novembre 2012


Il libro della settimana: Roberto Vivarelli, Storia delle origini del fascismo. Dalla grande guerra alla marcia su Roma , il Mulino, Bologna 2012, 3 volumi, pp. 656, 960, 546, euro 36,00, 38,00, 36,00.  


www.mulino.it


Più di duemila pagine. Probabilmente, prescindendo dalla biografia mussoliniana di Renzo De Felice, non esiste, per ampiezza, altro studio dedicato al fascismo e in particolare alle sue origini. Parliamo della summa di Roberto Vivarelli, Storia delle origini del fascismo. Dalla grande guerra alla marcia su Roma (il Mulino), professore emerito di storia contemporanea alla Normale di Pisa. Tre massicci volumi che potrebbero spaventare, al solo scorgerli sugli scaffali, quel lettore forte (perché ne legge almeno  dodici all’anno…), di cui gioiscono a buon mercato le statistiche ufficiali.
In realtà, si tratta di un’opera scritta con chiarezza di stile e lucidità storiografica non comuni. E che quindi merita veramente di essere letta e approfondita  da tutti, forti e deboli… Anche perché innervata dalla stessa passione civile che anima i libri dei maestri di Vivarelli: Gaetano Salvemini e Federico Chabod. Per dirla tutta, sono doti oggi non sempre presenti nella produzione di molti storici italiani, altrettanto togati e spesso più giovani di Vivarelli, nato nel 1929, e passato attraverso la fornace fascista di Salò, esperienza di cui parla ne La fine di una stagione. Memorie 1943-1945 (Il Mulino).
Di certo, le radici del libro sono nella sua prima, e non facile, esperienza di volontario quattordicenne in camicia nera. Poi storicizzata negli anni Cinquanta alla severa e rigorosa scuola dei suoi importanti maestri. Di lì, la passione per la democrazia, per il liberalismo e soprattutto per la ricerca storica. Un combinato disposto che culmina nella decisione, maturata sempre negli stessi  anni,  di scrivere un’opera sulle origini del fascismo. Un cammino conclusosi nel 2012 con la pubblicazione del terzo e ultimo volume, accompagnata dalla opportuna ristampa ( tra l’altro dalla splendida veste editoriale) dei primi due, usciti rispettivamente  nel 1965 e nel 1990.
Fatte le presentazioni veniamo ai contenuti. Perché vinse il fascismo? A costo di far torto alla ricchezza del libro,  diciamo, sinteticamente,  che secondo Vivarelli il fascismo vinse giocando sulle divisioni politiche degli avversari, sull’ immaturità delle masse (soprattutto contadine), sull'improduttivo massimalismo socialista, nonché, last but not least, sulla fragilità delle istituzioni liberali, mai realmente entrate nel cuore e nella mente degli italiani. Vivarelli evidenzia un deficit post-unitario, per dirla sociologicamente, di nazionalizzazione delle masse, che l’Italia avrebbe poi pagato duramente… E così, la guerra vittoriosa, che secondo le tesi dell’interventismo democratico - condivise da Vivarelli -  avrebbe potuto contribuire con il varo di riforme economiche e politiche alla crescita democratica del paese culminò invece nel suo contrario, il fascismo. Grazie anche all’abilità politica di Mussolini, capace di giocare su più tavoli approfittando delle altrui divisioni e debolezze e presentandosi come difensore dello stato nazionale dalla canea massimalista. 
Sotto questo profilo, Vivarelli riprende e sviluppa la tesi gobettiana del fascismo come «autobiografia della nazione». Di riflesso, l’intera opera costituisce un’ accurata e impietosa radiografia dell’ Italia dopo l’Unità. Pagine molto intense (anche per scrittura) sono quelle dedicate alle origini e alla particolare struttura politica e sociale del massimalismo socialista, inconsapevolmente condiviso, secondo Vivarelli, anche da quei dirigenti che si definivano riformisti. Dal momento che   uomini come Turati, Treves, Modigliani e Matteotti condividevano con i massimalisti alla Serrati, la tesi dell’inevitabile superamento della società liberale, borghese e capitalista. Un atteggiamento ambiguo, che scorgendo nelle riforme un mezzo e non un fine, avrebbe spianato la strada alla vittoria di Mussolini, il quale da socialista (ironia della storia?) aveva più che tubato con l’ala estrema del partito.  Ovviamente, come accennato, Mussolini vinse anche grazie alla complicità e agli  errori  della classe politica liberale: un ceto che,  al di là delle manchevolezze  tattiche  e contingenti, non aveva saputo formare, storicamente, cittadini responsabili. Di qui, il «fallimento del liberalismo» italiano.
Nelle sue conclusioni, Vivarelli, ricordando la tesi  di  Gobetti, riconduce la vittoria del fascismo a una questione di fondo o  di «sostanza», come afferma.  Quale? «La diffusa presenza - scrive - tra gli italiani di un sentimento tanto profondo quanto spesso inconsapevole, che è la paura della libertà. La lezione - prosegue - che lo studio delle origini del fascismo è ancora in grado di darci, come un costante monito, è che le libere istituzioni, anche quando ne assumano le forme, non possono fiorire laddove non sia preliminarmente attuata una rivoluzione liberale, nei suoi aspetti economici ma e soprattutto intellettuali e morali, il che implica la volontà dei cittadini di vivere da persone libere. Sono i caratteri di questa rivoluzione - conclude Vivarelli - che hanno aperto la strada al mondo moderno e che ancora ne condizionano il cammino».
Come  non essere d’accordo? Tuttavia resta una questione molto importante  e fonte di non innocue divisioni in casa liberale. In nome di quale liberalismo fare (o continuare) la rivoluzione? Quello di Gobetti o di Croce? Quello di Salvemini o di Einaudi? Insomma,  per venire ai nostri giorni:   Hayek o  Aron ? Mises o Berlin?

Carlo Gambescia


mercoledì 21 novembre 2012

Un Redditest giacobino?



Probabilmente dietro il cosiddetto Redditest (*)   si nasconde  un’idea giacobina di stato. Si dirà, ma a noi dei giacobini? E no, dire stato giacobino significa dire stato etico:  stato che, come quello incarnato da Robespierre,  pretende di  sapere alla perfezione quale sia il bene per ogni singolo cittadino: cosa deve dire, come deve pregare ( o non pregare), quante tasse deve pagare, e, per l’appunto, cosa deve mangiare, bere, indossare, eccetera… Perché “Io Stato” so quello che "tu cittadino"   puoi permetterti  o meno…
Ora, semplificando al massimo, la spesso tempestosa politica  fiscale dei moderni  può essere ricondotta nell'alveo di  due grandi approcci . Vediamo quali.
Il primo è imperniato sull’idea etica, cui  abbiamo accennato, dello Stato che dichiara di sapere alla perfezione quale sia il bene di ciascun cittadino. Di qui la necessità di tasse crescenti per soddisfare quelli che lo stato ritiene, e di autorità, i bisogni dei singoli. E  di riflesso la criminalizzazione dell’evasore fiscale.  
Il secondo  è fondato sull' idea sociologica, o se si prefersice empirica,  che  nessuno   meglio del singolo conosca  il proprio bene. Di qui, la possibilità di  tasse decrescenti,   grazie alla libertà  di soddisfare  individualmente  (o associando altri privati)  i  propri bisogni.  A differenza dell'altro approccio si tende a  giustificare l' evasore fiscale.
Naturalmente,  tra i due approcci (qui descritti allo stato puro o ideale)  è possibile individuare una  gamma di   soluzioni intermedie.  Di regola,  il punto di equilibrio è sempre  di tipo storico e dipende dalla qualità dei dirigenti, dei cittadini, dal tipo di cultura prevalente, dal sistema economico in essere, eccetera.
Concludendo,   la futura introduzione del Redditest  potrebbe  spostare,  e decisamente, il "pendolo" fiscale  verso un modello di stato giacobino. E non crediamo, come invece alcuni benevolmente ritengono, che sia “solo” uno strumento temporaneo per contrastare l’evasione fiscale... Ma questa è un' altra storia.  
Carlo Gambescia


martedì 20 novembre 2012


Papa Wojtyla senza effetti speciali...


Prima e dopo la cura...



Delle grandi cattedrali medievali quasi mai si conosce o  ricorda il progettista ( o i progettisti). Gli storici parlano di  maestosi  lavori collettivi  animati da   "diffuso senso del sacro". Per contro, della statua di Papa Wojtyla, nella romana  piazza dei Cinquecento,  ieri  "ri-scoperta" nella nuova versione,  si sa tutto, anche troppo ( http://www.ansa.it/web/notizie/photostory/curiosita/2012/11/19/Svelata-nuova-versione-statua-Wojtyla_7819948.html  ) . Qualcuno si fermerà a guardarla restando in mistica contemplazione? O magari  facendosi solo  il  segno della croce ? Può darsi. Ma è il senso del sacro, come patrimonio  collettivo (di tutta la società) che, dall'Umanesimo in poi,  si è rarefatto,   favorendo,  tra le tante conquiste importanti,  anche quella dei diritti (individuali) di autore… Magari giustamente meritati :  si pensi alla genialità di Michelangelo (per non parlare di Leonardo). Però, ecco il punto, piano piano ci si è abituati a  guardare  all’opera in sé,  ammirando la bravura del singolo  autore.  Oppure criticandolo,  come nel caso del Wojtyla della Stazione Termini…Tutto qui.

È un bene? È un male? In realtà il senso collettivo del sacro, dopo essersi impossessato, soprattutto nel Novecento, della politica, si è spostato altrove, ad esempio, negli stadi conquistati dagli effetti speciali e dalle cattedrali di luce che  accompagnano  le partite di calcio e i  concerti di musica rock o pop. Quindi è meno diffuso, o comunque ravvisabile   in eventi circoscritti  ad alcune categorie di persone (tifosi e fans),  che con la religione delle cattedrali, non di luce,  ma medievali,  non hanno nulla a che fare.  E la statua di Papa di Wojtyla? Forse con qualche effetto speciale potrebbe attirare l’attenzione dei passanti… Ma non per molto. L’uomo del Ventunesimo Secolo si stanca presto. 

Carlo Gambescia

lunedì 19 novembre 2012




Esimia donna Mestizia,
Qualche volta dal Ministero della Giustizia, in via Arenula a Roma, noi dipendenti, fumando davanti alla finestra, distrattamente,  facciamo cadere giù  qualche cicca… E che sarà mai per un po’ di  cenere e fumo?
Con osservanza,
Fumogeno 2012

Egregio Fumogeno 2012,
Non si preoccupi. Di solito i passanti, soprattutto se studenti,  usano il casco…
In  fede,
Donna Mestizia

***


Cara donna Mestizia,
Perché non si può attaccare  la  bandiera della pace a una robusta mazza da baseball? Le aste normali, poco resistenti, rischiano sempre di rompersi.
Hasta la victoria siempre,
Volto Coperto 2012

Caro Volto Coperto 2012,
Il problema  però  è  come e  dove si rompono...
Hasta la vista,
Donna Mestizia
***

Gentile  donna Mestizia,
Ho preso la grande decisione di  supportare politicamente Mario  Monti, ma non so che abiti indossare, né quale shampo usare,  né  se continuare a girare in Ferrari.
Con i miei rispetti, 
Luca Italico di  Futuro


Egregio Luca Italico di Futuro,
Nessuna paura,   credo che  il vero problema  non sia  come  supportare Monti ma come sopportarlo per un’altra legislatura.
Cordialità,
Donna Mestizia

***

Gentilissima  donna Mestizia
Due settimane orsono, durante  un funerale,  alcuni bruti  hanno tentato di linciarmi.  Che cosa  non va  in me?
Con i miei ossequi,
Giansalto  Della  Quaglia

Caro Giansalto Della Quaglia,
Ha provato a guardarsi allo specchio?

Donna Mestizia

venerdì 16 novembre 2012

Legge elettorale 
L'Italia sospesa tra Monti e Grillo

  

Non esiste legge elettorale perfetta. Su questo i politologi sono d’accordo. La stabilità politica può essere aiutata ma non assicurata dal sistema elettorale. Certo, alcuni sistemi, come il maggioritario possono promuovere la riduzione del numero dei partiti o, per contro, moltiplicarla come avviene con il proporzionale. Ma, piaccia o meno,  la stabilità politica, nel senso di una fisiologica  alternanza di legislatura tra forze politiche conservatrici e riformiste,  è altra cosa.  E  dipende non dal numero dei partiti  ma dal tasso di liberalismo presente nei diversi attori politici e sociali.
In Italia,  una cultura istituzionale di tipo liberaldemocratico, in evoluzione fino all’avvento del fascismo, non si è mai del tutto ripresa  e consolidata.   Di qui, la presente  difficoltà -  se non  inutilità -   di   "fingersi"  liberali  per ragionare ( o giocare...)  sulle virtù salvifiche di questo o quel sistema elettorale. In realtà,  se ogni legge elettorale continua a essere vista come un randello per colpire l’avversario politico di turno (un mezzo) e non come un fattore per garantire una stabilità accettata  da tutti i partiti (un fine),  sarà molto complicato  uscire dal tunnel politico ed economico in cui l’Italia si è infilata. Dal momento che  quanto più si discute  a vuoto,  cercando di penalizzare (elettoralmente) l’avversario,  tanto più si   allunga la vita,  per fare qualche nome,  del  Governo Monti:  un Esecutivo  privo di  rappresentatività politica.  E parliamo  di un pericoloso  vuoto politico che rischia di    favorire  la crescita  di  confuse  forze antisistemiche, a  cominciare dal  movimento di Grillo.   

Insomma,  siamo   prigionieri di  un circolo vizioso  da cui  gli  schieramenti  conservatori e riformisti, delineatisi negli ultimi venti anni,   non sembrano capaci di uscire.  Ciò significa che l'Italia rischia di restare sospesa, anche dopo le elezioni politiche,  tra l'incudine di  Monti e il martello di Grillo.    

Carlo Gambescia

giovedì 15 novembre 2012

Il libro della settimana: Maurizio Serra, Malaparte. Vite e leggende, Marsilio, Venezia 2012, pp. 587, euro 25,00.


 www.marsilioeditori.it


Premessa.  Qualsiasi  verdetto  (per usare un parolone)   su  Malaparte,   dipende da un  preventivo  giudizio  storico   sul  Secolo Ventesimo.  Che intendiamo dire? Due cose. Innanzitutto, e trascurando le questioni di caffeina storiografica (secolo lungo, breve, ristretto, macchiato, corretto…), che sul Novecento, le tesi da prendere in considerazioni sono al massimo  tre: la prima del declino, la seconda della sfida, la terza della ripresa  post-mattatoi mondiali. A dire vero, ne esiste anche una quarta, più recente, una non-tesi, post-moderna: quella che il Novecento, in senso storico-politico, sarebbe un’invenzione… Anzi, una narrazione, terminologia oggi di moda.
La tesi del declino rinvia a Spengler ( e ai romantici ottocenteschi,  con  o senza pendant biologista); quella della sfida ai “pellegrini politici” abbacinati dalle religioni secolari, prima e dopo la seconda guerra mondiale (con termine ad quem il 1989-91); la terza, al pensiero neo-illuminista, liberale, socialista riformista, anche cristiano, che ha ispirato la grande ricostruzione democratica post-1945. La quarta, infine alla pappa ideologico-culturale post-moderna: un minestrone liofilizzato di narrazioni-un-tanto-chilo-signora-mia.
E qui, seconda cosa, veniamo   al Malaparte. Vite e leggende (Marsilio) di Maurizio Serra, diplomatico, figlio di un finissimo storico, e storiografo, non di corte of course, egli stesso. Parliamo di un libro incoronato in Francia, dove ha vinto due premi più che meritati, perché documentato, ben scritto e di piacevolissima lettura nonostante, come si dice,  la mole.  E che si fa apprezzare perfino per alcune  deliziose note a piè di pagina, solo apparentemente a margine,  dove Serra si toglie dei fastidiosi sassolini dalle eleganti  Crockett & Jones: memorabile, per tutte, la nota 1,  pagina 79, dove si liquida un film da biennio rosso come “Uomini Contro”. E  con una causticità degna dell’eccelso  Morando Morandini.
Ovviamente, Malaparte. Vite e leggende, oltre al massiccio lavoro di archivio, ha dietro di sé, concettualmente, un altro  masterpiece  di Serra: la magnifica trilogia storica sugli intellettuali tra crisi della modernità e sirene del totalitarismo (il Mulino, 1990-1994).
Ma veniamo al punto.  Il Curzio Malaparte di Serra, appartiene  agli intellettuali della sfida.  Ecco come viene effigiato: «Fascistoide, marxistizzante e anarcoide, sempre ribelle, Malaparte lo è lo rimarrà anche per diffidenza verso la democrazia parlamentare». Inoltre, sciabola Serra, «si può leggere una compensazione del fascismo anche nella sua attrazione per l’URSS che ha sbaragliato le armate di Hitler e per la Cina di Mao. Pochi intellettuali della sua epoca hanno predetto con tanta precisione e denunciato con più vigore il declino dell’occidente». In conclusione: «un fascistoide vicino ai rivoluzionari e lontano il quanto più possibile dai conservatori, dai nostalgici, dai reazionari. Siamo dunque nell’orbita del fascismo rosso». O detti altrimenti: un fasciocomunista. Da non confondere o avvicinare al Pennacchi pontino che sta a Malaparte come Brera stava a Gadda.
Su questo zoccolo duro, politico, tout court totalitario (il rifiuto della liberaldemocrazia), che ne distingue la vita (al singolare), si innestano gli innegabili limiti dell’uomo Malaparte, cinico e narciso, autore di giravolte, professionali e amorose ( le vite al plurale), imbarazzanti anche solo a  leggerle:  salti della quaglia sconcertanti, indagati da Serra  nei particolari;  parliamo di micro e macro-eventi (dagli amorazzi al rapporto con Mussolini e potenti vari), che hanno dato la stura alle varie leggende (sempre al plurale), alimentate, con scienza senza coscienza,  dallo stesso Malaparte. Il che non deve però mettere in discussione, - ecco l’altra tesi di Serra che condividiamo - le sue altrettanto innegabili  e rare qualità di scrittore, anzi di intuitivo de-scrittore di ambienti e situazioni come  in  Kaputt e La pelle.
Serra, pur manifestando umana simpatia (quella del nipote tutto a modino  per lo zio scapestrato),  non fa sconti storiografici. Rispetto al Malaparte di Giordano Bruno Guerri, altro notevole lavoro, la biografia di Serra ha però  un respiro maggiore, europeo, e in un senso preciso:   riconduce l’opera di Malaparte nell’alveo di quella cultura della crisi,  già  solidamente studiata nella ricordata trilogia.  Semplificando:  se per Guerri, Malaparte è l’Arcitaliano, per Serra è l’Arcieuropeo, e non solo per l’attenzione mostrata all’estero verso la sua opera, ma perché l’antropologia esistenziale (filosofica, sarebbe parola grossa) di Malaparte, a prescindere dalle sue giravolte umane, si nutre della e nella crisi europea tra le due guerre.  E come tale va studiata e compresa.
Resta da interrogarsi, sull’attualità di Malaparte. Il libro di Serra, che attenzione è una smagliante opera corale dove come in un bel  film di Altman i tanti personaggi parlano ad alta voce, sembra rivalutare le capacità  intuitive del Malaparte giornalista-scrittore, una specie di sciamano dotato di  macchina per scrivere: razza sparita, crediamo, con Montanelli (tra l’altro nemico giurato di Malaparte). Serra ammira - e giustamente - la sua ultravista da scrittore di razza:  una capacità    di «vedere »  nelle pieghe più riposte delle  cose  sulla quale «poggia l’intera opera». Oltre ovviamente alle sue «capacità di lottatore»,  certo spese,  quasi sempre,  in difesa del proprio ego. Oppure  in obliqua,  forse  femminea - Serra indaga il punto sagacemente, lasciando la scelta al lettore -   ammirazione  per  gli uomini  forti del totalitarismo.
Insomma, saper indossare un bel paio di occhiali e scorgere cose che sfuggono agli altri… Ecco il Malaparte letterato di classe A. Il grande scrittore che si è immerso negli abissi della guerra civile europea.   Ma può bastare ?  Dov'è, ripetiamo, l'attualità ideale di Malaparte?   Difficile dire. Facciamo allora un passo indietro. A Serra, dobbiamo un notevole capitolo su Croce ne La ferita della modernità (il Mulino 1992), secondo tomo della sua trilogia, dove, mostrando di apprezzare lo storicismo crociano, scrive: « La libertà per cui Croce ha vissuto-operato, rimane il valore e la grande incognita degli anni in cui viviamo (…). La storia, che permette al valore di libertà di calarsi nelle vicende umane, è oggi di tutte le discipline umanistiche forse la più minacciata dai miti e dai riti di massa Si parla con disinvoltura di una “fine della storia” alla soglie del Duemila, laddove potremmo assistere all’irrompere di una nuova antistoria guidata da antiprofeti. Se la vitalità di una cultura è data dalla somma delle sue differenze, allora la modernità non è finita, ed in qualche misura, una misura che contiene un punta di sfida, non possiamo non dirci crociani».  Giustissimo. 
Ora però, Malaparte, come riconosce anche Serra, oltre a essere idealmente agli antipodi di Croce, non perde mai occasione per manifestare «il suo antistoricismo, il suo scetticismo, il suo rifiuto di credere all’incedere del progresso, il suo disprezzo per le sorti dell’Europa» democratica,  soprattutto prima del 1914 e  dopo il  1945.  Perciò,  ci chiediamo,  chi,  tra i due,  è  più attuale ?  Il fasciocomunista o il liberale? 

Carlo Gambescia

mercoledì 14 novembre 2012

Dissesto idrogeologico?   
Largo ai giovani... 



La questione del dissesto idrogeologico italiano, di cui già  si parlava  nelle cronache medievali, potrebbe finalmente essere l’ occasione giusta per favorire la crescita dell’occupazione e così giovare, in un momento di crisi, all’economia. Come? Perché  non creare un corpo addetto esclusivamente all'infoltimento boschivo? In questo modo, si alleggerirebbe il lavoro della Guardia Forestale, già molto impegnata, e di riflesso quello della Protezione Civile, costretta, stagionalmente, a soccorrere le popolazioni alluvionate. Il Corpo per la Lotta al Dissesto Idrogeologico (CLDI) potrebbe essere finanziato da un’ imposta annua ad hoc:  gli italiani, si sa, amano la natura e sarebbero perciò  disposti a qualsiasi sacrificio. Inoltre, l’introduzione di una nuova tassa sarebbe ben vista da Monti e dalla Merkel. Il CLDI, proprio per onorare quel decentramento politico e amministrativo che funziona così bene in Italia,  potrebbe essere gestito da società miste pubblico-privato, su base regionale o comunale; formula collaudata che, notoriamente,  favorisce l’onestà degli amministratori. Infine i giovani,  così  desiderosi di trovare un posto di lavoro fisso, accorrerebbero in massa.  Ovviamente, per la gioia della Caritas, dei sindacati,  di Napolitano e  di Gianfranco Fini,  potrebbero concorrere all'assunzione, se maggiorenni,  anche i figli degli immigrati (clandestini)  nati in Italia.   Certo, sarebbe lavoro fisico, lavoro duro -  "con la  zappa",  come dicevano i nonni -   ma all’aria aperta e a  contatto con la natura. Del resto, si sa,  i giovani italiani non amano restare ore e ore davanti a  tv e  pc...   Perciò sarebbero ben lieti di vivere nei boschi.

Buona giornata a tutti.

Carlo Gambescia

martedì 13 novembre 2012

Viva le primarie televisive!




Di sicuro, il  confronto fra i candidati alle primarie indette dal Pd, trasmesso ieri su Sky,  è  la migliore risposta al “talebanismo” televisivo di Beppe Grillo e di altri passatisti.  Non tanto per i contenuti (comunque interessanti) del dibattito, quanto per il metodo: la discussione.
Naturalmente, non si può discutere all’infinito, dal momento che la politica implica la decisione. Decisione, i cui contenuti, come impone la   democrazia rappresentativa, possono  essere "ribaltati"  nelle elezioni successive,  precedute, ovviamente,  da nuove discussioni, da cui usciranno,  attraverso il libero convincimento dei singoli,  un  nuovo parlamento e un nuovo  governo.  E tra i canali principali di discussione pubblica  non può non esserci la televisione. Certo, esiste il rischio della  cosiddetta  deriva  pubblipolitica... Ma si tratta di un rischio che va accettato.   Di riflesso, chiunque neghi il valore di questo processo (dalla discussione alla decisione) non è sicuramente dalla parte del libero confronto democratico tra   le diverse  opinioni  di maggioranza come di minoranza.
Perciò ben vengano le primarie di partito televisive,  perché puntando sul confronto pubblico delle idee e dei programmi si rafforza la democrazia. Certo, si fortifica l’idea di una democrazia liberale, rappresentativa, non nazi-organica o sovietico-popolare.  E allora?  Il che  è solo un bene.

Per contro, il problema italiano, ma anche di altre democrazie contemporanee, ha natura istituzionale (nel senso di crescente confusione tra i poteri istituiti). Parliamo dell’indecisionismo cronico, ossia  del  prolungamento, talvolta ad infinitum,  della discussione parlamentare,  anche all’interno del governo:   istituzione  "consacrata"  alla decisione politica.   Ma questa è un’altra storia. 

Carlo Gambescia

lunedì 12 novembre 2012



Liebe donna Mestizia,
perké kvesta insatisfaktione kontro Deutschland in Italienische Volk? Entschuldige, ma voi mi zembrate pikoli bimbi ke no vole fare kompiti und frigna kontro Papa und Mama!
Fine Psicologo Berlinese

Caro Fine Psicologo Berlinese,
per la Corte di Cassazione italiana (sentenza del  2009, numero   8227 ), finché i figli non hanno trovato un lavoro sicuro hanno diritto ad essere mantenuti da Papa und Mama. Anche l'attività da precario non basta per esimere i genitori da tale obbligo.

* * *

Cara donna Mestizia,
nel 1988 ho vinto il Premio Nobel per l’economia. Avevo previsto che queste faccende della globalizzazione e dell’euro sarebbero andate a finire male, molto male. Volentieri avrei messo in guardia i popoli europei, ma nessuno mi invitava più in televisione. Adesso che le mie previsioni si sono realizzate, mi piacerebbe potermi rivolgere a un vasto pubblico e suggerire alcuni rimedi urgenti. Purtroppo c’è un inconveniente: sono morto due anni fa. Come fare?
Maurizio Andavo

Caro Maurizio Andavo,
non si scoraggi per così poco. Come ha potuto constatare di persona, anche i vivi possono avere seri problemi di comunicazione. Perché non appare in sogno a vaste masse popolari? Un po’ antiquato, ma sempre efficace: se poi dà qualche numero del Lotto…

* * *

Cara donna Mestizia,
gli USA sì che sono un paese serio! Il Capo della CIA tradisce la moglie, e zàc! Obama lo licenzia in tronco! Invece da noi…
Vispa Teresa 2012

Cara Vispa Teresa,
per le stesse ragioni, noi italiani abbiamo addirittura licenziato il Presidente del Consiglio. O no?

* * *

Cara donna Mestizia,
non è giusto! Con tutto quello che ho fatto per loro, adesso quei due mi truccano la legge elettorale, così neanche stavolta riuscirò a diventare Presidente del Consiglio!
Eterno Secondo

Caro Eterno Secondo,
capisco la Sua amarezza, ma deve farsene una ragione. Se non vado errata, Suo padre era gestore di una pompa di benzina. Decideva forse il prezzo del carburante? Certo che no, visto che non ne era il proprietario. E chi è il proprietario del governo italiano? Lei? I Suoi parlamentari? Il Suo partito? In generale gli elettori italiani? Non scherziamo. Dunque si contenti che in cambio del Suo lavoro, Le sia concessa una modesta percentuale. Le basterà per mantenere sobriamente la Sua famiglia politica: come un tempo Suo Papà.

* * *

Cara donna Mestizia,
a volte mi sveglio di soprassalto nel cuore della notte e mi chiedo: ma quanto potremo andare avanti così? Gli abbiamo portato via il governo, due terzi di Fiat, mezza Finmeccanica, cinque anni di pensione, facciamo chiudere le imprese, gli mettiamo i figli in mezzo a una strada, con milioni di disoccupati e di precari gli facciamo un sorrisetto e gli diciamo che il posto fisso è noioso, li massacriamo di tasse e le regaliamo alle banche, ci compriamo i jet americani fasulli… L’unica ragione che gli diamo è che senza di noi andrebbe molto peggio…Ma dài…Non è possibile che non se ne accorgano, che non si ribellino, che non ci vengano a cercare a casa con i fucili, i cappi, i forconi, le ghigliottine… ci vorrebbe un miracolo…
Pavor Nocturnus 2012

Caro Pavor Nocturnus 2012,
coraggio! Non siamo nel Paese dello Stellone? Il miracolo, il nuovo miracolo economico italiano si realizzerà, ma che dico? già si sta realizzando…



Roberto Buffagni è un autore teatrale. Il suo ultimo lavoro, attualmente in tournée, è Sorelle d’Italia – Avanspettacolo fondamentalista, musiche di Alessandro Nidi, regia di Cristina Pezzoli, con Veronica Pivetti e Isa Danieli. Come si vede anche dal titolo di questo spettacolo, ha un po’ la fissa del Risorgimento, dell’Italia… insomma, dell’oggettistica vintage...

venerdì 9 novembre 2012

L'Inno di Mameli a scuola
Italiani si nasce o si diventa?



Purtroppo, il problema, dopo un secolo e mezzo, sembra essere sempre lo stesso: italiani si nasce o si diventa? A questo pensavamo leggendo del ddl approvato definitivamente, ieri in Senato, che « promuove l'insegnamento dell'Inno di Mameli a scuola e istituisce la ''Giornata dell'Unita' della Costituzione dell'Inno e della Bandiera'' il 17 marzo» (http://www.ansa.it/web/notizie/rubriche/politica/2012/11/08/Inno-Mameli-ok-Senato-insegnarlo-scuola-legge_7760785.html ).
Se nel 1861 lo si doveva diventare, nel 2012 il problema “educativo” (diventare italiani) non dovrebbe più sussistere. E invece no. Perché siamo ancora all’ Inno di Mameli da studiare a memoria  a scuola...  All' "addestramento", insomma...

Qui non si tratta di manifestare arcitalianità, ma di rilevare malinconicamente   l’assenza di quel minimum funzionale che dovrebbe unire un popolo. Si dirà, le nazioni sono entità  inventate, eccetera, eccetera. Certo, ma noi non parliamo di un  minimum  mitico-culturale ma   funzionale… Detto altrimenti: non  nazionalismo  ma di spirito di  nazionalità.   E  funzionale a che cosa? Al riconoscimento di un fatto preciso: che alcune funzioni politiche, economiche, culturali, non possono essere esercitate altrove perché producono orgoglio politico, prestigio economico, fierezza culturale. Un’ italianità funzionale   che spesso riscopriamo  negli italiani che risiedono all’estero, soprattutto  in Argentina e negli Stati Uniti.. Ci è  infatti capitato,  viaggiando,  che italiani di terza generazione, magari incontrati per caso,  parlassero con orgoglio di Garibaldi, di Meucci, di Leonardo, senza per questo denigrare la patria d'adozione.E  che per giunta  sapessero a memoria l'Inno di Mameli...
Idealizzazioni che "scattano" quando si vive  all'estero?  Forse.  Ma come spiegare l'italianità  "manifesta"  dei  nipoti?  Con la trasmissione intergenerazionale dei valori. Trasmissione che richiede nei singoli  - tutti membri di  una catena ideale, che però può essere spezzata in qualsiasi momento -    volontà  di trasmettere, ricevere,  ritrasmettere, e così via... Parliamo perciò di una libera scelta e  non di italianità ope legis .  Per farla breve: italiani si diventa, ma lo si deve volere, anche perché  lo si "sente".  Pertanto,  in certa misura, si nasce italiani  per appartenenza a una tradizione familiare. In qualche modo, e non è una battuta,  ogni  nazione è una  federazione di famiglie.
Comunque sia,  che tristezza. constatare, ogni volta, che per amare  l’Italia si deve lasciarla…


Carlo Gambescia 

giovedì 8 novembre 2012

Il libro della settimana: Spartaco Pupo, Robert Nisbet e il conservatorismo sociale, Mimesis, Milano 2012, pp. 186, euro 16,00.   

www.mimesisedizioni.it


La lettura dell’ eccellente libro di Spartaco Pupo, docente di Storia delle dottrine politiche all’Università della Calabria, Robert Nisbet e il conservatorismo sociale (Mimesis), ha dissolto, trasformandolo però in certezza, un  nostro antico dubbio sul pensiero di uno dei più interessanti sociologi conservatori americani ( *).  Ma procediamo per gradi. 
In cinque densi capitoli Pupo offre ai lettori un ritratto pressoché completo di Robert Nisbet (1913-1996). Sintetizzando: nel Primo (“Nisbet nella storia del conservatorismo americano”), lo si inquadra tra i conservatori  tradizionalisti nel senso anglo-sassone del termine (Burke e dintorni), ma evidenziando giustamente l' attenzione di Nisbet  verso   le  forme di relazione sociale che innervano e fortificano il conservatorismo:   status, coesione, funzione, norma, rituale, simbolo onore, fedeltà gerarchia ( sono iniezioni di vitamine sociologiche che, per inciso,  rendono il pensiero nisbetiano  più ricco  di  quello di  Russell Kirk e Michael Oakeshott); nel Secondo (“Per un comunitarismo realista”), si illustra, e bene, la sua diffidenza nel riguardi dello stato e  quindi  anche verso certo  pensiero communitarian a sfondo statalista  (Taylor, Etzioni, Walzer, Sandel); nel Terzo (“ Dallo “stato totale” di Rousseau al “pluralismo liberale” di Lamennais”), si tratteggia - procediamo per sciabolate -   la serrata  critica di Nisbet al monismo panpolitico di Hobbes e Rousseau in nome di un pluralismo sociale di stampo liberale; nel Quarto (“Progresso: fine di una metafora”), si assiste alla argomentata demolizione dell’idea di progresso, cui si oppone l’idea di continuità sociale; nel Quinto (“L’essenza sociale del conservatorismo”), si spiega  giustamente come il conservatorismo sia per Nisbet  una specie di via mediana tra individualismo e statalismo. Detto altrimenti:  un riformismo conservatore  capace d recepire creativamente le istanze del socialismo pluralista. E dunque un pensiero in grado di tenersi  ragionevolmente alla larga sia dai libertarians che dai liberals.  Chiuso però alle istanze del politico. Il che non ne fa  un "liberale triste" alla  Raymond Aron. E qui veniamo al dubbio cui accennavamo.
L’accurato libro di Pupo, fin dal titolo,   prova, come sospettavamo,  che il conservatorismo di Nisbet è essenzialmente sociologico.   Perché poggia su una visione pluralista del sociale, dove la tradizione è frutto di  una  reale  socialità autoriproduttiva dei legami tra le persone (in particolare familiari, amicali, professionali e locali). Una socialità che si riproduce plasticamente attraverso la dinamica dei gruppi sociali reali. Di riflesso, per Nisbet, come  in ogni buon pluralista, lo stato,  non è che un gruppo sociale tra gli altri gruppi sociali e tale deve restare.  Il che però implica una  visione patologizzante, del politico  sia nella sua transeunte  incarnazione del moderno  stato prevaricatore,   sia  come momento transtorico della decisione e del conflitto, momento a nostro avviso insopprimibile  e ben  distinto  dalla forma istituzionale.  Secondo Nisbet  nella società  pluralista  e funzionale,  come in un' orchestra, il  vero laissez faire  musicale  non è quello praticato da singoli musicisti, bensì quello  posto in essere dai  vari gruppi strumentali,  capaci di autodirigersi, lungo le linee  relazionali di un armonioso crescendo sociale-musicale. Purtroppo, la sociologia nisbetiana, per restare in metafora,  non  sembra prevedere  direttori d'orchestra né solisti. Detto altrimenti: Nisbet,   da sociologo pluralista-funzionalista  è naturalmente  portato a  sottovalutare   le  costanti del politico. Se si vuole, di Tocqueville (come del resto di Lamennais, ma anche di Durkheim..), Nisbet recepisce l'analisi sociologica non quella politica. Il che, ripetiamo,  fa la differenza con Aron (e anche con altri "liberali tristi", perché  "maliconicamente"  consapevoli delle dure  leggi del politico).  Ed è inutile qui riportare la severa ma  fondata critica schmittiana all’ indecisionismo della scuola pluralista e socialista-liberale. Si tratta di un rilievo che può essere esteso ad altri sociologi statunitensi, pur di grandissimo  valore, come Sorokin e  Parsons.  Del resto nessuno è perfetto. Cosicché Nisbet, studioso comunque originale,  è  in ottima compagnia...  
Insomma,  come dubitavamo,  il realismo nisbetiano è sociologico,  non politico. Si dirà:  bella scoperta! Dal momento che   si tratta di un sociologo di professione... Giusto.   Tuttavia  l'uso del  realismo sociologico è  giustificato ( e persino lodevole) quando uno studioso non  desideri uscire dal seminato della sociologia,  mentre non  è più tale quando si cerchi, come  Nisbet, di edificare una teoria del conservatorismo, con  inevitabili risvolti politici: quando si va a caccia di "elefanti politici" il fioretto sociologico non basta, servono i grandi calibri delle "costanti politiche" o "metapolitiche".
Concludendo,  il libro di  Pupo ha trasformato in certezza  il nostro dubbio.  Probabilmente lo scopo del suo ottimo  lavoro non era esattamente   questo,  ma  di  approfondire e  conferire  il  giusto rilievo all’opera di un sociologo importante, poco conosciuto in Italia.  Quindi lo ringraziamo due volte.

Carlo Gambescia



mercoledì 7 novembre 2012

Obama-re 
o della continuità del potere



E così Obama è stato rieletto... o incoronato...  Comunque sia,  auguri.
Per quale ragione  "incoronato"? Perché   desideriamo porre l’accento su un dato, ormai strutturale,  che ha distinto le presidenze statunitensi negli ultimi trent'anni: quello del doppio mandato. Si pensi a Reagan (2), Clinton (2), Bush figlio (2) e ora Obama (2). Ciò significa una sola cosa: che “anche” la democrazia repubblicana " più grande del mondo", dove si enfatizzano ricambio politico e partecipazione diretta,  ha necessità assoluta di continuità e stabilità  politica. In definitiva,   quattro anni sono pochi. Serve un "re-repubblicano".

Del  resto,  come  è  noto,   il presidente americano,  quanto ai suoi poteri  di "comandante in capo",   è  già  una specie di   monarca  assoluto ( o quasi) in sedicesimo...  Naturalmente,  il terzo mandato consecutivo è vietato da uno specifico emendamento ratificato nel 1951  per evitare altri Franklin Delano  Roosevelt, il temuto (dai repubblicani)  presidente "socialista"  dei quattro mandati, 1933-1945.  Tuttavia, da allora,   sono passati più di sessant'anni, perciò  non è detto che, prima o poi,  la necessità insita  nel  principio di continuità e stabilità del potere, non possa vendicarsi. Parliamo di una  "costante  metapolitica"   che  innerva tutti i regimi politici e le forme  di stato.  Insomma,   il potere  sembra essere   più forte  degli uomini… e delle democrazie repubblicane. 

Carlo Gambescia

martedì 6 novembre 2012

Pino Rauti, scomparso lo scorso 2 novembre,  fu un grande   politico o un  grande  ideologo?  O   le due cose insieme?  O nessuna delle due?  A dirla tutta, e sorvolando sul  fazioso giudizio della cultura politica antifascista (che scorgeva in  lui  un terrorista  tout court),   nell'ambiente missino,   da vivo,  Rauti     non    era  considerato, a parte alcuni giovani turchi,   un  grande  ideologo ma   solo  un giornalista,  più colto della media,  in grado di spiegare Evola al popolo...  E   da  altri, non pochi,   non era   neppure  ritenuto  un  vero politico,   perché troppo dedito, almeno secondo  lo standard  vitalistico del mondo  missino, alle costruzioni intellettuali... Quindi scontentava tutti o quasi...
Insomma,  fu   vera gloria?   Sì,  stando   ai  compiacenti  "coccodrilli"  degli ultimi neofascisti duri e puri come dei  postcamerati berlusconiani ( e chissà  che altro, tra poco...) del "Secolo d'Italia". In realtà, non è facile rispondere.  Ci prova l’amico Carlo Pompei. E con cognizione di causa.  Buona lettura. (C.G.)




Pino Rauti: l’ossessione della sintesi
di Carlo Pompei



La morte santifica tutti. In molti si sono affrettati a rilasciare dichiarazioni stucchevoli sul decesso di Giuseppe Umberto Rauti (detto Pino) che hanno generato perlopiù nausea in chi ha frequentato l'ambiente e le persone che lo hanno "plasmato" in questi ultimi venti anni. Si dice che l'acqua di Fiuggi purifichi e guarisca anche dai "mali assoluti"… Non che Pino Rauti avesse bisogno di subire un processo di canonizzazione, intendiamoci, ma la sua dipartita non dispiace affatto a molti tra quanti affermano pubblicamente il contrario.
Assolto  l'obbligo del doveroso incipit sull'ipocrisia umana, veniamo al punto: fu intellettuale o ideologo? O semplicemente politico? Ci sentiamo di escludere l'ultima figura citata, almeno nell'odierna accezione. Rauti, oltre ad avere un'idea politica, aveva anche un'idea di come fare politica, giusta e sbagliata, se ci si passa la critica. Vediamo perché.
Innanzitutto detestava i "politicanti" in "doppio petto", una tipologia presente anche tra ex militanti dell'ex MSI, poi promossi almeno consiglieri comunali nelle file di Alleanza Nazionale. In secondo luogo ha ottenuto visibilità sui media nazionali soltanto dopo la morte (o quando si parlava di "terrorismo nero").
A differenza del Grillo urlante, però - che diffida gli esponenti del proprio movimento ad apparire in Tv per paura che (ingenui?) possano essere inquinati e travolti da un sistema - Rauti avrebbe desiderato più visibilità, più sèguito, specialmente tra i giovani, ma non era certo il tipo di persona che elemosinava un'intervista. Lui avrebbe voluto che le sue "idee che mossero il mondo" (seppur contaminate dal pensiero evoliano) fossero analizzate - spontaneamente - da più persone, anche di idee opposte, ma non avrebbe mosso un dito per forzare questo meccanismo che doveva essere, ripetiamo, spontaneo. Tanto che alcuni media "diversamente informati" hanno rispolverato la definizione "fascista di sinistra" per questo suo possibilismo teorico, poi spesso smentito nei fatti. Vedremo più avanti che cosa vogliamo intendere.
Al di là delle categorizzazioni, Pino Rauti è sempre stato ossessionato dalla ricerca di sintesi, era un "intellettuale inquieto" infastidito e incuriosito al tempo stesso dalla quotidianità e dalla modernità. Un carattere non facile - risultante da un mix di DNA, cultura, origini geografiche e segno zodiacale (Scorpione, per chi crede nelle stelle) - faceva dell'uomo Rauti un piacevole interlocutore, ma anche un "capo" intransigente e talvolta furibondo. Proviamo a capire, quindi, che cosa volesse trasmettere una personalità così complessa.
La smania della ricerca del leader in se stessi - tormentone della sinistra di oggi - a destra è sempre esistita: ognuno pensa di essere meglio di chi comanda e allora si parte alla ricerca dell'idea vincente: l'ideologo infatti vorrebbe convincere tutti della bontà del proprio pensiero; Rauti, invece, non voleva far cambiare idea a coloro che già ne avevano una, anzi, tendeva ad escluderli, voleva fornire idee a quanti non ne avessero o fossero dubbiosi (e sono ancora molti). Questo suo atteggiamento, però, anziché metterlo in evidenza e a capo di rivoluzionari insoddisfatti e frustrati dal sistema, sovente provocava l'effetto contrario, quasi un'auto-esclusione.
D'altronde con il suo anti-americanismo (per lui, gli USA, erano "I gendarmi del mondo") sembrava un anziano saggio capo indiano a guardia della riserva dei princìpi. L'american style, con gingillo tecnologico, di stampo veltroniano, era agli antipodi del suo modo di pensare e con queste premesse è (purtroppo) difficile fare breccia tra i giovani d'oggi e non soltanto tra  di loro.
Tuttavia era abbastanza nota la sua lungimiranza per gli sviluppi di questioni nazionali ed internazionali: con largo anticipo scriveva di una futura crisi del sistema economico planetario e della sottomissione della politica vera al "turbocapitalismo"; sosteneva l'impossibilità di creare un'Europa solida soltanto con l'adozione di una moneta unica e, cosa più importante, già prevedeva gli squilibri economici che ne sarebbero derivati con i Paesi più forti. A più riprese ripeteva che l'Italia è "Il ventre molle dell'Europa" e il Vecchio Continente è un "nano politico".
Si potrebbe affermare che anche altri sapevano queste cose, ma rimane il fatto che soltanto lui e pochissimi altri - Rutilio Sermonti, ad esempio - ne scrivessero già molti anni addietro, quando internet non aveva ancora raggiunto il livello di sviluppo e diffusione di oggi. Proprio in quei mesi nel  Primo Governo Prodi uscente e nel D'Alema entrante si brindava al neonato Euro, fissato a quota 1936,27 lire. Per la sinistra, il "nano politico", era Silvio Berlusconi.
Poi, sfortunatamente, non seguirono azioni di rilievo, forse per scarsa visibilità, forse per preconcetti sul personaggio più che sulla persona, forse perché un avvicendamento di leggi elettorali sfavorevoli ai movimenti minori non consentì la diffusione e l'eventuale promulgazione (figuriamoci) di un progetto politico che probabilmente avrebbe meritato maggior successo.
La tesi "andare oltre" presupponeva un superamento del sistema dei partiti (ben prima di Tangentopoli o dell'odierna antipolitica) e degli schieramenti destra - sinistra, per lui obsoleti già trenta anni fa: non sarebbe mai potuto scendere a compromessi per l'acquisizione di poltrone, anche se queste servono per imporre, o quantomeno presentare, le proprie idee in Parlamento. Non che non lo sapesse, ma la sua "linea" di pensiero non gli consentiva di accettarlo (fatte salve scelte di campo recenti dettate dall'ennesima sconfitta subita "in casa"). La costituzione di Alleanza Nazionale, cioè l'apertura politica a partiti estranei alle "radici" del Movimento Sociale Italiano, rimase uno dei suoi più grandi crucci, anche se - bisogna ammetterlo - i risultati ottenuti precedentemente come Segretario del MSI furono un insuccesso che diede il pretesto a Fini e ai suoi colonnelli per iniziare il cammino verso Fiuggi (e, paradossalmente, oltre).
Insomma era un "teorico idealista probabilista", ma anche uno spietato "fondamentalista metodologico", stimato probabilmente più dagli avversari politici (di un tempo) che non da chi è stato al suo fianco.
Ora Giuseppe Umberto Rauti ha subito l'ultima beffa: le sue spoglie sono state ospitate in una Camera ardente allestita nella contestata ex sede di AN in via della Scrofa a Roma, anche se i suoi funerali, turbati da veementi proteste contro Gianfranco Fini, si sono tenuti nei pressi di Piazza Venezia vicino a quel balcone che ha influenzato e caratterizzato la sua vita terrena...

Carlo Pompei


Carlo Pompei, classe 1966, “Romano de Roma”. Appena nato, non sapendo ancora né leggere, né scrivere, cominciò improvvisamente a disegnare. Oggi, si divide tra grafica, impaginazione, scrittura, illustrazione, informatica, insegnamento ed… ebanisteria “entry level”.