venerdì 30 gennaio 2009

Il libro della settimana: Giuseppe Galasso, Storici italiani del Novecento, il Mulino, Bologna 2008, pp. 432, euro 30,00. 


https://www.mulino.it/isbn/9788815125644

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Quale cammino ha seguito la storiografia italiana nel Novecento? A questa non facile domanda risponde Giuseppe Galasso in Storici Italiani del Novecento (il Mulino, Bologna 2008 pp. 432, euro 30,00). Usando l’olimpica pacatezza di chi si è formato alla scuola di Benedetto Croce.
Se ci si perdona la battuta, Galasso, notissimo storico, oggi professore emerito dell’Università di Napoli “Federico Secondo”, è l’ultimo dei Moicani della storiografia etico-politica di impianto laico e liberale. E il suo volume è interessante proprio perché sprizza una corroborante fiducia (non fede), tutta crociana, nella storia della storiografia come storia della libertà: come conquista faticosa del libero arbitrio storiografico, attraverso un ferreo Novecento, contro ogni egemonia politica e culturale.
Infatti, non ce ne uno tra i dodici storici brillantemente “sezionati”, che secondo Galasso, non abbia in qualche modo contribuito al progresso della storiografia italiana. Certo, seguendo le proprie inclinazioni, ma con serietà e metodo: Volpe col suo gusto per i plastici contrasti storici di fondo: Salvatorelli per gli inquieti modernismi religiosi e politici; Chabod per le forze profonde della politica estera; Maturi per i perdenti del Risorgimento; Cantimori per la più sulfurea teologia politica; Sestan per la genealogia delle istituzioni politiche moderne; Garin e Venturi per una severa ragione storica, poco incline alle fatue gallerie di illuminati eroi del pensiero; Romeo e De Felice per la biografia “totale” come compiuto ( o quasi) ritratto di un’epoca; Cozzi e De Rosa per una storia etico-politica, attenta alla vita sociale e religiosa, ma senza volgari schematismi ideologici.
Pertanto Galasso traccia il ritratto condivisibile - per dirla con Gioacchino Volpe - di una storiografia il cammino. Certo, con le sue luci e ombre, spesso legate a una esterofilia tipicamente italiana. Si pensi solo alla moda storiografica della École des Annales, da noi imperversante negli anni Sessanta-Settanta… Dove allo storico si sostituiva il sociologo. Ma attenzione: il sociologo d’antan. Nel senso che certi modelli sociologici utilizzati dalla storiografia francese, e poi trasmigrati nell’ italiana, erano gli stessi - seppure risciacquati nelle non sempre limpide acque strutturaliste - della tradizione positivista di fine Ottocento. Dove la storia politica veniva “risucchiata” all’interno di un mondo sociale e materiale, non modificabile dalle decisioni umane e sottoposto a leggi evolutive e “strutturali”, presuntivamente considerate, come al di là del bene e del male.
Che poi oggi manchino alla storiografia italiane le traduzioni e i giusti riconoscimenti soprattutto nell’universo anglofono, crediamo sia, purtroppo, una questione di marginalità della nostra lingua. Vittima di un opprimente processo di emarginazione che ha riguardato anche la lingua tedesca e francese, come del resto nota lo stesso Galasso. Si tratta di un fenomeno legato alla crescente egemonia politica statunitense post-1945. Che non poteva non manifestarsi, sul piano internazionale, anche nell’ambito della vita scientifica e dell’editoria storiografica. Ma questa è un’altra storia. Politica, appunto.
Tuttavia crediamo che il professor Galasso, dall’alto del suo storicismo, consideri anche il “neo-impero” americano, uno dei tanti della storia. E sicuramente non l’ultimo.
Una ragione in più per leggere Storici italiani del Novecento

Carlo Gambescia

giovedì 29 gennaio 2009

Attenzione al veltruscondipietrismo




Ieri durante la manifestazione dell'Italia dei Valori Antonio Di Pietro, la cui vena demagogica è veramente preoccupante, ha insultato il Presidente della Repubblica, dandogli di fatto del mafioso. Subito, come per riflesso carnivoro, il PdL e il Pd, con pari furore demagogico, si sono autonominati difensori d'ufficio di Napolitano. E così è iniziata una nuova sceneggiata. Ci spieghiamo meglio.
Va ricordato che PdL, Pd e IdV, apparentemente acerrimi nemici, sono invece totalmente d’accordo sull’introduzione alle elezioni europee del quorum liberticida del quattro per cento. Come mostra l’accordo - guarda caso sempre di ieri – raggiunto alla Camera (http://www.repubblica.it/2009/01/sezioni/politica/legge-elettorale/voto-aula/voto-aula.html ) .
Pertanto per un verso, a seconda della convenienza politica, PdL, Pd e IdV difendono o attaccano le istituzioni (dalla magistratura alla presidenza della repubblica) insultandosi vicendevolmente, mentre di fatto condividono la ratio di un provvedimento liberticida come quello che vuole limitare, dopo le politiche anche alle europee, il sacrosanto diritto di scelta (partitica) dell’elettore italiano.
Il che sarebbe tragico dal punto di vista della democrazia e della libertà, se non si scivolasse nella farsa ogni volta che Berlusconi, Veltroni e Di Pietro, prendendo per il naso gli italiani, asseriscono gonfiando la scatola toracica che l’ "introduzione del quorum è per il bene della democrazia".
Certo, portando alle estreme conseguenze il ragionamento della banda dei tre - che ricorda tanto quella dei famigerati ladri di Pisa, che di giorno litigavano e di notte andavano a rubare insieme - si potrebbe anche aggiungere che se per caso si pervenisse al partito unico nazionale PdL-Pd-IdV, l' Italia di colpo diverrebbe il paese più democratico al mondo. Complimenti.
Inoltre, quel che più ci è dispiaciuto è stato assistere sul palco dominato da Di Pietro alla sfilata, come semplici comparse di una sceneggiata populista funzionale al veltrusconismo (ma a questo punto si può anche parlare di veltruscondipietrismo), di figure che ritenevamo fino a ieri estranee alla demagogia dipietrista. Che tristezza.
Invitiamo i lettori a riflettere (e vigilare) sul pericolo della crescente egemonia di un blocco populista e autoritario (da Berlusconi a Di Pietro, passando per Veltroni). Una specie di partito unico capace di strumentalizzare, come sta avvenendo, il ruolo della magistratura e delle altre istituzioni a seconda delle convenienze, per eliminare ogni autentica opposizione democratica.


Per farla breve: attenzione al veltruscondipietrismo.
Carlo Gambescia

mercoledì 28 gennaio 2009

La Fiat e la crisi
Come prima più di prima…




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Non è sicuramente sfuggita ai nostri lettori la continuità destra-sinistra della politica governativa nei riguardi della Fiat e del settore automobilistico italiano ( da anni dépendance degli eredi Agnelli... ).

Infatti, come per i governi precedenti, anche quello attuale parla solo di rottamazioni e sostegno alla domanda di autovetture. Anche i sindacati sembrano muoversi sulla stessa lunghezza d’onda. Mentre in realtà, come riconoscono gli storici dell’economia, a partire persino da un moderato come Castronovo, la Fiat e il comparto automobilistico hanno condizionato pesantemente, soprattutto nel secondo dopoguerra, lo sviluppo economico italiano.

E qui si pensi solo alla costruzione di autostrade, bretelle, “sottobretelle” e ai conseguenti processi di urbanizzazione selvaggia delle grandi periferie. Per non parlare del grave deficit ambientale e socioculturale provocato dell’inquinamento e dalla diffusione di un aggressivo modello di vita consumistico, legato al ridicolo status symbol delle quattro automobili per famiglia.
Molti invece sostengono, a cominciare dal sindacato, che si è trattato del giusto prezzo da pagare alla modernità e al progresso. Dal momento che il grande sviluppo del settore automobilistico avrebbe favorito l’occupazione e la conseguente sindacalizzazione dell’operaio italiano, finalmente divenuto consapevole dei suoi diritti, grazie alla catena di montaggio Fiat. Amen.
E così, oggi, invece di investire nella produzione di nuove forme di energia pulita e di trasporto collettivo ed ecologicamente “dolce”, si discute seriosamente del necessario sostegno alla domanda di automobili inquinanti... Che vergogna.
In questo senso Berlusconi e Prodi pari sono. Ma anche gli stessi italiani potrebbero, anzi dovrebbero farsi sentire. O no?
Carlo Gambescia 

martedì 27 gennaio 2009

Riflessioni sul Giorno della Memoria




Dal punto di vista delle relazioni fra i popoli è più importante dimenticare o ricordare le sopraffazioni subite collettivamente in passato, anche le più feroci ?
Per rispondere a questa domanda si deve dare prima riposta a una questione fondamentale: qual è la differenza tra memoria individuale e memoria collettiva?
Sul piano individuale si può dimenticare o ricordare, diciamo così, una cattiva azione ricevuta attivando le proprie facoltà cognitive individuali e riducendo l’ emotività al minimo.
Ma sul piano collettivo? Tutto resta più difficile, dal momento che le azioni del dimenticare e ricordare presuppongono un sistema di valori e simboli collettivi che vanno a costituire la memoria collettiva. Che, a sua volta, non è mai la somma delle memorie individuali, ma un inglobante che preesiste e orienta per istituzioni l’individuo. E al quale il singolo attinge più in termini emotivi che cognitivi. Pertanto, mentre la memoria individuale è una corda sempre tesa tra ragione e sentimento, la memoria collettiva resta ancorata alla riva delle emozioni.
Di qui, dal momento che le emozioni, come insegna la psicologia, seguono un andamento ciclico, la necessità di un apparato simbolico, per trasformarle in realtà o sentimenti istituzionali stabili (o quasi). Di regola, infatti, si parla di spirito, senso e sentimento delle istituzioni.
Il Giorno della Memoria che oggi si celebra parla il linguaggio sentimentale delle istituzioni, puntando sulla costruzione simbolica del ricordo del male (effettivo) ricevuto dal popolo ebraico ( http://www.corriere.it/cronache/09_gennaio_26/giorno_memoria_f2c838b0-eba4-11dd-92cf-00144f02aabc.shtml ). Purtroppo il linguaggio delle emozioni è discontinuo. E per consolidarsi richiede un crescente sostegno istituzionale e simbolico. E nello spazio di tempo (difficilmente quantificabile) che intercorre tra stato nascente e istituzionalizzazione, l'attività di consolidamento provoca forti reazioni di segno contrario, dal momento che la società, come insegna la sociologia, non è costitutivamente una tabula rasa. Innescando così un meccanismo conflittuale, spesso al rialzo, tra istituzioni rivolte alla costruzione della “nuova memoria” e istituzioni dirette alla conservazione, della “memoria preesistente”. Un conflitto la cui intensità cresce o diminuisce in relazione alla profondità, in termini temporali e valoriali, del contenzioso tra gli attori sociali in conflitto.

Inoltre, piaccia o meno, ma in un mondo sociale dominato da emozioni e simboli, gli appelli, anche se moralmente giustitificati, alla ragione collettiva e al pacifico confronto pluralistico, di regola, rischiano di restare inascoltati: quel che può valere per il singolo, come si diceva all’inizio, non vale, purtroppo, per il gruppo sociale, e soprattutto per istituzioni e valori simbolici collettivi, stratificatisi nei secoli e depositarie di pre-giudizi opposti.
Il che non significa che la spirale dei contrasti non possa entro un certo numero di secoli stabilizzarsi e la società recepire istituzionalmente, spesso per puro istinto di conservazione, i nuovi valori. Resta però difficile dire con esattezza quando. E a che prezzo.
Forse, sul piano collettivo, sarebbe preferibile dimenticare.

Carlo Gambescia 

lunedì 26 gennaio 2009

L’umanitarismo e i suoi amici



Prima la definizione.
Secondo il Gabrielli (vocabolario) è “umanitario colui che tende al miglioramento materiale e morale della condizione umana, agendo secondo i valori della solidarietà, della generosità, dell’amore per il prossimo”. E di conseguenza l’umanitarismo è “il complesso dei concetti, dei sentimenti di chi o di ciò che è umanitario”.
Pareto, che invece era un sociologo, riteneva che l’umanitarismo fosse frutto di debolezza. Ma di una furba debolezza rivolta a ingannare l’avversario, per cooptarlo con il sorriso sulle labbra, e così restare al potere. Magari per sempre.
Sulla scia di Machiavelli, Pareto divideva i politici in volpi e leoni. E le volpi, a suo avviso, fingevano sempre di essere umanitarie. Oggi diremmo “buoniste”. Inoltre, sempre secondo l’autore del Trattato di sociologia generale , l’umanitarismo caratterizzava i regimi politici giunti alla fine del ciclo vitale. Dove alla forza, aggredita dai mali della vecchiaia politica, si cercava di sostituire astutamente, una falsa bontà d’animo.
E secondo Pareto le mosche cocchiere dell’umanitarismo erano gli intellettuali “illuminati”. Quelli che civettavano con la rivoluzione e giustificano la violenza degli avversari, definendoli vittime della società.. Come nei ricchi salotti pre-1789 e pre-1917.
Oggi invece frequentano quello televisivo di Fazio...
Insomma l’umanitarismo dilaga. E non parliamo di quello mostrato dalla Chiesa Cattolica e da altri fedi. Perché si tratta di “umanitarismo” istituzionale e dunque accettabile. Su questo punto non siamo d'accordo con Nietzsche.
Invece ci riferiamo a quello politico. Che di solito viene astutamente usato solo nei riguardi dei recuperabili, o presunti tali, mentre agli irrecuperabili, e ai loro figli, non si perdona nulla. Si pensi solo all'impietoso trattamento mediatico usato nei riguardi dei poveri bambini palestinesi, solo perché morti sotto le democratiche bombe al fosforo israeliane.
Ma oggi l’umanitarismo dilaga, anche nelle questioni (si fa per dire) minime. E questo è il fatto più grave, perché indica che il “buonismo” ha ormai permeato di sé il sentire comune: non è pertanto solo un segno di astuta rilassatezza politica, ma indice di una più generale degenerescenza morale e collettiva nei riguardi dei valori del bene e del male.
Un pluriassassino come Battisti, con sentenza passata in giudicato, cerca di sottrarsi alla giustizia. Ebbene c’è subito chi lo difende e imbroglia le acque… Uno stupratore, come quello della povera ragazza romana violentata nella notte di Capodanno, si dichiara "reo confesso", ebbene viene premiato con i domiciliari…
C’è dunque qualcosa che non va in noi tutti. Siamo piccoli uomini e donne che credono nel pettegolezzo morale perché ormai incapaci di discernere il bene dal male: perché bene e male non esistono. Così ci ripetono, fra le righe, tutti i giorni personaggi alla Fabio Fazio, "umanitaristi" per meriti televisivi.
Pareto parlerebbe di decadenza. Difficile però dire quando alla decadenza seguirà la caduta. E al crollo dell' "antico regime" un nuovo ciclo ricostruttivo.
Per ora ci troviamo tutti nella situazione, ben colta, dai celebri versi di Verlaine:
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Je suis l’Empire à la fin de la décadence,
Qui regarde passer les grands Barbares blancs
En composant des acrostiches indolents
D’un style d’or où la langueur du soleil danse (…).
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Con una differenza rispetto ai Romani. Che “les grands Barbares blancs” ora sono dentro di noi. Difficile liberarsene. Anche un nuovo Sant'Agostino potrebbe non bastare. 

venerdì 23 gennaio 2009

Alessandro Portelli, Obama 
e la logica delle istituzioni americane



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Quali sono i rapporti tra immaginario e politico? A questa relazione pensavamo ieri leggendo l’interessante articolo di Alessandro Portelli dedicato all’America di Obama, apparso sul Manifesto (http://alessandroportelli.blogspot.com/2009/01/obama-e-la-ri-fondazione-dellamerica.html ), nonché sul suo blog ( http://alessandroportelli.blogspot.com/2009/01/obama-e-la-ri-fondazione-dellamerica.html ) .
Diciamo subito che Portelli nel suo editoriale si muove da osservatore partecipante (nulla di male, per carità…), proprio all’interno di quella dicotomia, tutta americana, individuata molti anni fa, nella scia dei lavori di Lasch sulla sinistra Usa (vecchia e nuova), da Piero Bairati (Gli orfani della ragione. Illuminismo e nuova sinistra in America, Sansoni 1975), uno storico prematuramente scomparso negli anni Novanta. Un bel libro, ancora utile.
Portelli, infatti, sembra accettare come dato di fatto sociologico e storico la natura illuministica della politica statunitense. Dicotomia che consente tuttora agli attori della politica americana di dividersi, partendo dall’accettazione dei valori nati dalla Rivoluzione Americana (diritto alla vita, eguaglianza, ricerca della felicità), sulla volontà o meno delle istituzioni di realizzarli storicamente. Per farla breve: la logica politica americana sarebbe la logica stessa della modernità, basata sul contrasto tra la ragione come valore e la ragione come strumento. Ovviamente non siamo noi i primi dirlo...
Ora, una parte dello schieramento politico democratico, che per comodità definiamo vecchio-nuovo liberal, composto di timidi riformisti (e qui si pensi ai clintoniani, "sessantottini" pentiti o compiuti, dipende dai punti di vista...), ritiene che le istituzioni politiche americane, siano già aderenti, di per se stesse, ai valori rivoluzionari. E che abbiamo bisogno solo di qualche piccolissimo ritocco. Mentre un’altra parte, composta di nuovi liberal, fermi al messaggio libertario degli anni Sessanta (sempre più rari) ma anche di radical vecchi e nuovi, (ancora più rari, perché fuoriescono per certo "tasso di socialismo" nelle "vene", dallo stereotipo "diritti civili" pilotati dall'alto dei nuovi liberal), reputa le istituzioni politiche esistenti come negatrici dei valori rivoluzionari.
Si tratta di una dialettica interna alla sinistra, ma che nel riferimento al valori di fondo, scaturiti la Rivoluzione Americana, finisce per estendersi (e qui andiamo oltre Bairati) anche alla destra: ai repubblicani costituzionali e democratici (non estremisti e razzisti). I quali tuttavia interpretano tali valori in chiave più nazionalista che universalista. Ma questa è un’altra storia. Qui basti un accenno.
Riassumendo, diciamo che la lotta politica americana si divide in due filoni, quello illuministico-positivo (destra e sinistra moderata) e illuministico-negativo (nuova sinistra liberal e radical, correnti, a grandi linee, cui si sente vicino il Portelli, osservatore partecipante). Per i primi, pur con sfumature diverse gli Stati Uniti di oggi sono il migliore dei mondi possibili, per i secondi non lo sono affatto. Per i primi gli Stati Uniti (la promessa ideale racchiusa nella "Costituzione") e America (le "Istituzioni Reali") coincidono, per i secondi no.
Ora Portelli per un verso sviluppa le sue critiche agli Stati Uniti (non America) di Bush e anche di Clinton, sulla base della contraddizione (individuata dalla scuola illuministico-negativa) tra istituzioni e valori. Per l’altro però non riesce a ricondurre in modo convincente - o almeno così pare a noi - Obama all’interno della scuola illuministico-negativa. Se non puntando sull’importanza dello "spostamento" di immaginario politico, provocato dalla vittoria di Obama. Dando così per scontato che Obama rappresenti l’America (e non solo gli Stati Uniti). Ma quale America? Quella di certo immaginario "critico" americano … Si vedano gli accenni di Portelli a Woody Guthrie e Bruce Springsteen come ideali bardi dell’America di Obama: un' America che si dà idealmente la mano e che attraversa il Novecento per giungere, chiudendo il cerchio rivoluzionario della "promessa", fino a Lincoln e addirittura Washington... Ma anche l'appropriato riferimento di Portelli a Invisible Man di Ralph Eleison, un bel romanzo del 1952, dove però affiorava tutto il disperato disgusto di un giovane nero americano verso l’America delle istituzioni (gli Stati Uniti), capace solo di negare i valori (promessi). Oggi finalmente vendicato - così interpretiamo il pensiero di Portelli - dall’elezione del primo nero americano alla presidenza degli Stati Uniti. Il che è vero, ma solo in termini di immaginario politico.

Ora, considerato il carattere moderato del discorso obamiano di insediamento (del resto onestamente rilevato anche da Portelli), può bastare un cambiamento simbolico intravisto da alcuni intellettuali, magari presenti alla cerimonia, oppure i colti richiami letterari, per attribuire a Obama una forza rivoluzionaria, capace di vivificare le istituzioni secondo il "vero" spirito dei Padri Fondatori?
Crediamo di no . Il che dovrebbe far riflettere certa sinistra, così colta da sfiorare l'impoliticità, sul pericolo di attribuire un ruolo eccessivo all’immaginario nell’analisi della politica. O meglio del politico, per dirla con Carl Schmitt e Julien Freund. Ferma restando l’utilità di categorie storiche e concettuali come quelle individuate da Bairati. E non solo per studiare la realtà americana, ma per capire come tuttora la si continua a studiare.
Perché, in conclusione, crediamo Obama appartenga al filone illuministico-positivo. E che perciò, soprattutto per ragioni sistemiche, e dunque realistiche ( si veda qui:
http://carlogambesciametapolitics.blogspot.com/2009/01/linsediamento-alla-casa-bianca-di.html ), sia tendenzialmente portato a privilegiare la logica delle istituzioni rispetto a quella dei valori.

Proprio come un Bill Clinton qualunque.
Carlo Gambescia 

giovedì 22 gennaio 2009

Il libro della settimana: Giovanni Agostini: Sociologia a Trento. 1961-1967: una “scienza nuova” per modernizzare l’arretratezza italiana, il Mulino 2008, pp. 224, euro 19,00.

https://www.mulino.it/isbn/9788815125576

La sociologia italiana, pur con alti e bassi, viene da lontano e vanta padri nobili come Toniolo, Pareto, Michels, e Mosca. Ma passa anche per Trento. Dove tra il 1961 e il 1967 vide la luce, grazie all’opera di Bruno Kessler, montanaro, democristiano di sinistra e capace amministratore locale, la prima Facoltà di Sociologia italiana. Dopo di che venne il Sessantotto, l’immaginazione andò potere, anche se per poco, e per qualche anno la sociologia da modernizzatrice, come la auspicava Kessler, si fece rivoluzionaria. Proprio Trento fu teatro di occupazioni e proteste violente.
Si ferma invece al 1967 l’interessante volume di Giovanni Agostini (Sociologia a Trento. 1961-1967: una “scienza nuova” per modernizzare l’arretratezza italiana, il Mulino, Bologna 2008, pp. 224, euro 19,00 ), laureato in Relazioni internazionali e autore di programmi storici televisivi.
In questo senso si tratta del libro di uno storico piuttosto che di un sociologo. Dove però è magnificamente ricostruita, grazie a uno stile di ricerca e scrittura già maturo, la dinamica politica trentina e nazionale che condusse alla nascita nel 1967 della Facoltà di Sociologia. Agostini osserva tutta vicenda con l’occhio ecumenico del cattolico post-conciliare, aperto al mondo moderno. Per alcuni, come Del Noce, anche troppo. Ma questa è un’altra storia.
Pagina dopo pagina si dipana l’ avvincente ricostruzione della marcia di Kessler per modernizzare, nel seguente ordine, attraverso la Facoltà di sociologia: il Trentino, i cattolici locali, ma anche la società italiana, la Democrazia cristiana, nonché civilizzare le forze politiche di sinistra.
E qui va sottolineato che la nascita della Facoltà di Sociologia di Trento è un autentico esercizio di sapienza ma anche di organizzazione politica (per alcuni “potenza”) della Democrazia Cristiana. Che riesce, in sede parlamentare a far passare il progetto Trento “sulla testa” della riforma universitaria e del riordinamento delle facoltà di scienze politiche. Due leggi che resteranno al palo, mentre il moroteo Bruno Kessler, porterà a casa il risultato, grazie anche all’ appoggio romano del doroteo e conterraneo Flaminio Piccoli. E all’inaspettato, ma interessato sostegno dei socialisti, legato a sotterranee dinamiche accademiche, e soprattutto al ritorno di patriottismo trentino dei comunisti locali.
Un mini-compromesso storico ante litteram. Forse. Ma in fondo a fin di bene, perché l’Italia in via di modernizzazione, aveva effettivamente bisogno della sociologia, per governare la transizione alla società moderna senza perdere di vista i valori tradizionali importanti (all’epoca uno spinoso dilemma per molti cattolici di sinistra…). Inoltre Trento per la sua importante posizione geografica, storica e culturale meritava un compromesso. E da Trento, per gradi, la sociologia “conquistò” anche altre università.
Il Sessantotto invece rimetterà in discussione la stessa modernizzazione capitalistica. Ma anche questa è un’altra storia. E poi sociologia oblige, meglio lasciare da parte le polemiche. Anzi desideriamo qui ricordare, citando dal libro, una colorita espressione da montanaro che aveva lottato con la fame di Bruno Kessler. Il quale in piena contestazione sessantottina, ad amici che gli chiedevano se “si fosse mai pentito di aver creato la Facoltà di Sociologia (…) rispose: ‘ Sociologia è una patata che scotta, però ho in mano una patata’ “ .
E noi, pur non essendo montanari, lo ringraziamo di quella patata.
Carlo Gambescia

mercoledì 21 gennaio 2009

Riflessioni
Franco Carlini, la Rete e la conoscenza come dono


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Sul Manifesto di ieri è apparso un interessante scritto inedito di Franco Carlini, scomparso improvvisamente due anni fa. Sempre ieri si è ricordata la sua figura in un convegno genovese ( http://mir.it/servizi/ilmanifesto/cultura/?p=140 ) . Per quale ragione ne parliamo? Perché Carlini da colto e appassionato studioso dei nuovi media, e in particolare di Internet, fu tra i primi in Italia a intuire le potenzialità della Rete. Nella quale scorgeva il potente moltiplicatore di una crescente fame di socialità da soddisfare attravero il dono di una conoscenza sovvertitrice da trasmettere gratuitamente all'altro, digitando informazioni (sovversive) sui nostri personal computer.
Ma lasciamo a lui la parola:
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Dieci tesi sull'economia della conoscenza
1. Nel 21esimo secolo sembra infine realizzarsi la società dell'informazione, anzi della conoscenza, più volte annunciata fin dagli anni '60. Ciò avviene per effetto congiunto della commoditization dei beni materiali, della globalizzazione e delle tecnologie digitali sviluppatesi negli ultimi 30 anni. La conoscenza, da semplice strumento del potere e dell'economia (al servizio dell'innovazione), diventa merce essa stessa.
2. La proprietà intellettuale è termine relativamente recente che vuole trasformare in diritto universale ed eterno, persino naturale, alcune forme storiche di protezione e incentivazione della creatività come copyright, brevetti, marchi. Lo scopo è di creare una scarsità artificiale dove, per la natura stessa della conoscenza, c'è invece abbondanza. Questa strategia di corto respiro viene tentata dalle multinazionali dei saperi, ma rischia di frenare l'innovazione tecnica e sociale. In ogni caso sta generando sane controtendenze e conflitti.
3. Questo spostamento del valore verso i beni immateriali è sia favorito che contrastato dalla rivoluzione Internet. Essa è figlia di tecnologie e regole «aperte» e ha prodotto, senza che alcuno potesse prevederlo, una non market networked economy (un'economia non di mercato interconnessa) con prassi e culture diverse rispetto sia all'economia di mercato che a quella di stato. L'elemento caratterizzante è la cooperazione fin dal momento della produzione di conoscenza.
4. Per molti la cooperazione è un mistero, persino un errore dal punto di vista dell'utilitarismo e delle versioni volgari del darwinismo. Invece non c'è nulla di misterioso perché essa è il fondamento di ogni sistema complesso. Diversi modelli sono stati proposti per spiegare l'insorgere e il perpetuarsi della cooperazione nelle società umane.
5. L'utilitarismo per almeno due secoli è apparso come la spiegazione dei comportamenti individuali e insieme come un manifesto programmatico per la società e per l'economia, trovando supporto anche nel darwinismo. Esso presenta sia aspetti descrittivi (del comportamento individuale) che filosofici (sulla natura dell'uomo) che anche prescrittivi-programmatici. Nel tentativo di mantenergli uno status culturalmente egemone, si è tentato senza molto successo, di ricomprendere in esso anche la cooperazione e l'altruismo.
6. A supporto dell'utilitarismo ha giocato anche la teoria dell'homo oeconomicus, ovvero del decisore razionale, un modello di cui da tempo sono evidenti i limiti. Per salvarlo si è avanzata l'ipotesi della razionalità limitata, trattando le deviazioni dal modello come eccezioni che tuttavia non lo mettono in discussione. L'economia sperimentale conferma che non si tratta di errori. Le scienze del cervello indicano che i circuiti del pensiero logico e delle emozioni sono strettamente associati. La dicotomia tra i due aspetti è ormai insostenibile e andrebbe definitivamente abbandonata.
7. Ancor più inspiegabili risultano all'individualismo utilitarista i comportamenti di altruismo estremo e le pratiche del dono. Lungi dall'essere residui del passato o confinati nell'ambito familiare, delineano un'economia (se così la si vuole chiamare) i cui output sono beni relazionali . L'altruismo della specie umana è davvero, come appare dalla letteratura recente un mistero che deve essere spiegato, un'eccezione rispetto alla natura umana (e delle società umane) che sarebbero intrinsecamente egoiste e utilitariste? In questa visione l'altruismo appare come un rimedio volontaristico, a correzione del male intrinseco, un valore sovrapposto alla natura egoista, al peccato originario. Oppure una correzione ai fallimenti del mercato.
8. Il dono è sfacciato. Il dono è dissipazione. Il dono è sovversivo. Il dono dimostra che l'uomo possiede delle facoltà superiori alla razionalità. Perché, come sosteneva Blaise Pascal, il cuore ha le sue ragioni che la ragione non conosce. E proprio come ogni trasgressione, il dono è affascinante perché crea turbamento, provoca è rottura, alimenta contestazione.
9. A loro volta i beni relazionali stanno alla base delle teorie della felicità. Campo di ricerca relativamente recente, prende le mosse da un altro paradosso che tale non è: la ricchezza è in una certa misura disaccoppiata dalla felicità, sia a scala individuale che collettiva.
10. Qui il cerchio si chiude. Le relazioni, il dialogo, le conversazioni, persino il pettegolezzo, sono il fluido che anima la rete internet. Sovente vengono prodotte peer to peer, condivise con estranei, e generano conoscenza globale la quale, per esistere e crescere, deve muoversi in circolo, in rete, come e più delle conchiglie delle Trobriand. La conoscenza come dono, non divino ma dell'umanità a se stessa. Alcuni fatti e tendenze permettono di crederlo.
(
http://www.ilmanifesto.it/il-manifesto/in-edicola/numero/20090120/pagina/14/pezzo/239961)
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Si tratta di un’esposizione eccellente. Che tuttavia, pur auspicando "sani conflitti", non scioglie il nodo tra dono e politico. E purtroppo si tratta di una questione non affrontata anche in un libro pubblicato di recente da Feltrinelli (Luca De Biase, Economia della felicità. Dalla Blogosfera al valore del dono e oltre ). Sul quale però torneremo in seguito, magari con una recensione.
Qual è il punto? Che Carlini dà per scontato che la società sia solo cooperazione spontanea. E che si riproduca per forza propria dall’interno, senza alcuna necessità di organizzazione politica imposta dall’esterno (come sistema di coercizione, o cooperazione artificiale, diretta e indiretta a prescindere dalla forma di governo) Resa invece necessaria da quella che i filosofi sociali chiamano la naturale socievolezza insocievole dell’uomo. E aggiungiamo purtroppo...
E’ vero che esiste una zona grigia dove organizzazione sociale e politica si confondono in modo sovversivo. Qui Carlini ha ragione. Ma si tratta anche della dimensione sociale del "non detto". Si pensi ad esempio al ruolo molto ambiguo che svolge l’amicizia, bene relazionale per eccellenza, ma di natura irrazionale perché basata su valori (instabili) come ad esempio la simpatia e la riconoscenza, all’interno di strutture (stabili) sociali e politiche, animate in linea di principio dalla razionalità strumentale (un ufficio, un partito, un'impresa, un gruppo di pressione, se non addirittura criminale).
Fermo restando il fatto che di regola la cooperazione sociale è sempre “contro” qualche cosa e/o qualcuno (una causa, un gruppo, un individuo). Perciò ritenere che l’altruismo basti da solo a “cambiare” le cose, anche se molto nobile, è piuttosto ingenuo. Perché la benevolenza non basta, se è il nemico a considerarti tale. Il male, purtroppo, è una realtà sociale. Con la quale dobbiamo fare i conti.
Di conseguenza la Rete, pur valorizzando un immaginario e un linguaggio più liberi ( e qui si dovrebbe attentamente distinguere tra sovversione immaginaria e reale...) , non potrà non riprodurre gli stessi schemi comportamentali fondati su valori instabili e strutture stabili. E dunque sulla necessità di una organizzazione politica fondata sullo schema amico-nemico e sulla decisione politica, imperativa e dirimente, spesso in modo socialmente doloroso. Finendo così per "risucchiare" anche la volontà di democrazia "partecipativa" all'interno di un più "naturale" allineamento per gruppi contrapposti.
Il che non significa, come sostiene il bravissimo Carlini, che il dono della propria conoscenza non sia importante. E che non si debba criticare l’utilitarismo imperante. Ma solo che non bisogna farsi troppe illusioni sulle potenzialità nascoste nella pura circolarità della "conchiglie delle Trobriand" di malinowskiana memoria.
Tutto qui.

Carlo Gambescia

martedì 20 gennaio 2009

L’insediamento alla Casa Bianca di Barack Obama. Un’analisi non celebrativa della democrazia Usa

L'ultimo imperatore




Oggi è il giorno di Barack Obama? Come uomo, può darsi. Ma è anche il giorno della democrazia Usa? No.
Spieghiamo le ragioni del nostro dissenso proponendo ai elettori un’analisi spettrale della democrazia americana. E sicuramente non celebrativa.

Una disamina particolarmente importante, qui in Italia, sorta di lontana provincia del neo-Impero statunitense… Dove si subito è attribuito un ruolo salvifico al nuovo presidente americano Barack Obama. Inchinandosi a quella teologia democratica di marca Usa, così cara alla stragrande maggioranza dei mass media mondiali. Di qui la necessità di fare il punto su una democrazia come quella americana, che invece nella sostanza lascia molto a desiderare.
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Un democrazia minoritaria
Durante le primarie e le presidenziali del 2008, culiminate con la vittoria di Barack Obama, sulla quale torneremo in sede di conclusioni, per i mass media sembra siano esistiti solo Barack Obama, John McCain, Joseph Biden e Sara Palin. Si è discusso di programmi e prospettive, soprattutto in politica estera. Si sono confrontati i meriti dei due candidati, le “capacità umane”, il colore della pelle, scendendo nei più minuti particolari delle vite private. Ma quasi mai si è sottolineato un fatto fondamentale: che i presidenti spesso sono votati da meno del 50 % degli aventi diritto. Di più: chi vince di solito deve accontentarsi di meno della metà dei voti espressi. Pertanto il presidente degli Stati Uniti finisce per rappresentare a mala pena un 25 % di quel 50 % che vota: grosso modo 50 milioni di elettori sui circa 100 che si recano a votare. Il nuovo presidente, perciò considerando l’area del non voto (almeno altri 100 milioni), è espressione di una minoranza: un quarto dei cittadini.
Qualche dato non guasta.
Innanzitutto va ribadito che storicamente la partecipazione elettorale degli americani è sempre stata molto bassa (intorno al 50 %). E di riflesso sono state altrettanto basse le percentuali di voto che hanno permesso l’elezione di alcuni presidenti. Ad esempio Lincoln fu eletto nel 1860 col 39,8%, Woodrow Wilson nel 1912 col 41%, Clinton nel 1992 con 43%. Inoltre, benché negli ultimi quindici anni gli indici di partecipazione abbiano raggiunto livelli stabilmente bassi con una graduale ripresa in occasione delle elezioni presidenziali del 2004-2008 (1988: 50,11%; 1992: 55,09; 1996: 49,08; 2000: 51,31; 2004: 55,69; 2008: 61,6 stimato ), va ricordato che già nel 1924 i votanti scesero al 49%. Non migliore è la situazione nelle elezioni congressuali e di midterm (di metà mandato presidenziale) che “attirano” di media meno del 40% degli elettori. Nel 1998, in piena bufera Clinton-Lewinski votò il 36 %, la percentuale più bassa dal 1942. (In argomento si veda l’onesta esposizione storica di B. Cartosio, Gli Stati Uniti contemporanei 1865-2002, Giunti 2002, con ricca bibliografia; nonché per i dati statistici qui riportati: http://en.wikipedia.org/wiki/United_States_presidential_election ; con ampia e buona sitografia).
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La forza del dollaro
All’inizio degli anni Novanta E. J. Dionne in Why Americans Hate Politics (Simon and Schuster, New York 1991) ricondusse l’assenteismo elettorale all’incapacità dei politici di capire i veri problemi della gente. Secondo Dionne, progressisti e conservatori invece di proporre politiche concrete preferiscono lanciarsi in fumosi dibattiti ideologici: i primi difendono il dio-individuo, i secondi il dio-mercato, trascurando entrambi l’uomo (americano) così com’è.
In realtà questa è solo una parte della storia. Dionne ignora la struttura fortemente oligarchica del potere in America: dai partiti alle grandi imprese. Che non incoraggia il voto (a cominciare dalle procedure di registrazione dell’elettore…), ma favorisce la disuguaglianza sociale, educativa e il quietismo: se sei in fondo alla scala, evidentemente lo meriti, così ammonisce l’ideologia americana. E stando alle statistiche, chi non vota appartiene proprio alle fasce più povere: quelle dei perdenti, di coloro che non hanno fatto strada nella vita, soprattutto perché privi di titoli di studio.
Del resto la distribuzione sociale della partecipazione elettorale americana riflette la scala dei redditi, e in particolare l’istruzione: più si è in alto, perché istruiti, più si va a votare. Il 92% per cento di coloro che hanno un’istruzione universitaria vota. Mentre non vota il 90 % di coloro che hanno appena un’istruzione elementare. Secondo alcune statistiche, gli alti livelli di analfabetismo e la scarsa capacità di comprendere comunicazioni scritte (problemi che riguardano quasi la metà della popolazione adulta) impedirebbe addirittura a molti cittadini di registrarsi e votare ( si veda Cartosio, op. cit., pp. 173-179 ).
Si tratta di un meccanismo infernale: più aumentano povertà e deprivazione intellettuale, meno la gente va a votare (perché non capisce, perché l’istruzione costa, perché è rassegnata, perché è abituata a ubbidire), e più cresce il potere, privo di mandato democratico, già nelle mani, per naturale inerzia sociale, delle ricche classi dominanti e, per osmosi, del complesso militare-industriale. Un settore che include anche l’ industria delle comunicazioni, quella petrolifera ed elettronica.
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L'Eldorado liberista
Ma entriamo nel merito della “questione sociale americana”. E’ di moda in Europa e in Italia celebrare il modello sociale Usa. Che, si dice, sia dalla parte dei meritevoli. Vediamo allora come funziona.
Chi incensa il modello americano dovrebbe riflettere su due fatti. Il primo, è che negli Stati Uniti la mobilità geografica è due volte maggiore di quella europea. Il secondo, è che il tasso americano di concentrazione dei redditi è molto più alto del nostro, che non è sicuramente basso): negli Usa, in media, il 20 % più ricco della popolazione assorbe il 60 % del reddito nazionale, mentre in Europa si è intorno al 35-40 % ( si veda per ulteriori approfondimenti www.census.gov/hhes/www/poverty.html - http://www.europa.eu.int/comm/eurostat - www.worldbank.org/data/ ) .
Il che significa che nell’Eldorado liberista si perde lavoro molto spesso e, di conseguenza, si perde o si cambia anche l’abitazione... Perché per trovarne un altro, molti sono costretti a trasferirsi da un lato all’altro degli States: la mobilità territoriale del lavoratore è dunque elevatissima. Ma l’essere disposti a spostarsi non basta. Per quale motivo? Perché, dal momento che la ricchezza è molto concentrata, le possibilità di ascesa sociale ai piani più elevati, nonostante la grande mobilità geo-economica del lavoratore, sono piuttosto ridotte. Altro che meritocrazia… E tutto ciò genera sradicamento, insicurezza e povertà. Certo, la retorica ufficiale celebra l’individuo e le sue opportunità d successo. Un traguardo che in termini di grandi numeri (come alla lotteria), è possibile ma poco probabile, soprattutto per coloro che non hanno mezzi, relazioni o doti eccezionali.
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Dove i poveri non hanno scampo
Gli Stati Uniti sono un ottimo esempio di come funzioni, in assenza di controlli sociali, l’anima darwinista del capitalismo. In primis la selezione finisce per premiare i più forti e non i migliori: vince chi è più dotato di risorse familiari, relazionali, istruzione e spietatezza negli affari; doti (in particolare le prime tre) che appartengono a chi è già in alto nella scala sociale. Di qui lo sviluppo di un nucleo ridotto di attori sociali (i grandi oligopoli), di un lavoro poco sindacalizzato e molto flessibile, e di una politica completamente sottomessa ai gruppi di pressione economici.
Per farla breve, la selezione-razionalizzazione capitalistica americana implica alti profitti, bassi salari e assenza di mediazioni pubbliche. Quindi nessuna forma di assistenza sociale e pensionistica, obbligatoria e pubblica: chi cade (e spesso si tratta di individui già in basso nella scala), difficilmente riesce a rialzarsi, mentre chi è già in alto procede nella sua corsa, come se nulla fosse. Esistono forme di assistenza caritativa dovute soprattutto alle Chiese e alla buona volontà dei singoli stati, ma chi vi aderisce viene subito inquadrato (e a vita) nella categoria dei falliti sociali. In buona sostanza chiunque sia povero e malato non ha scampo.
Insomma, si tratta di un modello sociale per ricchi, o al massimo per coloro, che hanno doti per diventarlo: il sistema ignora sistematicamente le diseguali condizioni di partenza degli individui, finendo così per privilegiare chi è già ricco. Il quale, di conseguenza, lo diviene sempre di più. Se nel 1979 il 5 % della famiglie americane più ricche guadagnava 10 volte di più del 20 % di quelle più povere, oggi la proporzione è salita a 25 a 1. Il titolare di una corporation nel 1980 guadagnava (mediamente) 42 volte il salario di un suo operaio, oggi guadagna mille volte in più... Bill Gates e soci Microsoft (il volto “umano” e moderno del capitalismo Usa) hanno un reddito pari al Pil del Pakistan: la famiglia Walton (Wal-Mart), pari a quello dell’Egitto e così via… ( si veda per approfondire http://www.ilo.org/ e www.forbes.com/people ).
Il sistema americano produce diseguaglianza a velocità esponenziale. E la sua crescita economica, tuttora magnificata in Europa, è dovuta per verso a un ingiusto modello sociale, e per l'altro alla posizione egemonica degli Usa nella politica mondiale, in particolare dopo il 1989-1991. Un'egemonia che alimenta il complesso militare-industriale. E che, a sua volta, ne è alimentata...
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La vittoria di Obama come vittoria della "pubblipolitica"
Per chi si accontenta della forma (un nero alla Casa Bianca) e di alcune vaghe promesse ( come quella di alzare le tasse sui ceti abbienti) la vittoria di Barack Obama è una svolta. Ma si tratta di una vera svolta? Come abbiamo visto, dal punto di vista elettorale, pur avendo ancora dati stimati sull’affluenza, sembra abbia votato il 60 per cento degli aventi diritto. Di conseguenza Obama resta il presidente di poco più di una minoranza di elettori ( ovviamente le stesse considerazione sarebbero valse anche se avesse vinto McCain).
Ecco - come del resto abbiamo già notato - il vero problema della “democrazia americana”, è quello di come dare voce legittima a quei due quarti, grosso modo, di cittadini che non votano né per i democratici né per i repubblicani. E potrà riuscirvi un presidente che ha raccolto il favore elettorale della solita minoranza "civilizzata" di votanti? E che pur essendo nero non proviene socialmente dal "popolo nero"? Dal momento che Barack Obama, per mentalità e curriculum, è un raffinato prodotto di quella borghesia di colore, che passa per Harvard, Columbia (come il neopresidente) e altre prestigiose università. Una borghesiafieri di avercela fatta, per alcuni sprezzante, ma da sempre dominata dall' ansia di prestazione nei riguardi dei bianchi. E che è malvisti - proprio per la sudditanza ai valori wasp (white, anglo-saxon protestant) - dai neri poveri, che sono più della metà di tutti i poveri negli Stati Uniti, e con altrettanto sospetto dagli altri gruppi etnici, al di là di un labile consenso elettorale frutto di astute manovre mediatiche.
Parliamo, insomma, di un presidente sostanzialmente privo di qualsiasi reale legittimità elettorale e sociale. Un discorso, ripetiamo, che in caso di vittoria sarebbe valso anche per McCain. Dal momento che entrambi i candidati “pescavano” - cinque per cento in più o in meno - nella stessa ristretta pozzanghera elettorale.
Il problema della democrazia americana è strutturale e riguarda l'assenza di una qualsiasi forma di legittimazione popolare. Il governo concerne un ristrettissimo gruppo di potere economico e militare (si pensi, a suo tempo, alla scelta pro-Obama del generale Powell, ritiratosi ma sempre potente), che di volta in volta coopta i prescelti su basi fiduciarie. E questa volta è stato il turno di Obama. Poi "venduto" elettoralmente dai superpagati maghi della pubblipolitica a una minoranza di votanti (per alcuni gonzi), cronicamente "affamati" di telenovelas elettorali, come l' eroe senza macchia e senza paura. Chi si contenta gode. Perciò non crediamo in alcuna svolta. Anche perché proprio l’enorme quantità di finanziamenti elettorali di cui ha goduto Barack Obama - che sembra non abbia eguali - non depone a favore di una presidenza al di sopra delle parti.
O se si preferisce di un "Government of the People, by the People, for the People".

Gli Usa e la lezione di Roma antica
Perciò quando si parla di esportare in Europa e in Italia il modello sociale Usa, va subito chiarito che si tratta di una società fortemente gerarchizzata, con circa 50 milioni di poveri e poche decine di migliaia di ricchissimi che tengono in pugno l’economia, non solo americana. E dove insicurezza e sradicamento producono criminalità divorzi, patologie mentali, con tassi doppi rispetto a quelli europei: un americano su due assume regolarmente psicofarmaci, e uno su tre ha avuto problemi di alcolismo ( per un quadro generale di veda http://www.who.int/ ). Il vero problema non è come imitare gli Usa, ma come tenersi alla larga da un sistema segnato più che da errori, da orrori sociali.
Altra questione fondamentale: fin quando l’America dei ricchi terrà sotto tutela quella dei non rappresentati? E’ difficile rispondere. Le oligarchie si dissolvono per consunzione morale. Barbari e proletariato interno, per dirla con Toynbee, di solito si limitano a infliggere il colpo di grazia. Finora i gruppi economici e sociali che contano si sono mostrati favorevoli al mantenimento del ruolo di predominio planetario dell’America. E il nuovo presidente Barack Obama si guarderà bene dallo scontentarli. In che modo? Puntando, come i suoi predecessori, sullo sviluppo economico e sulla sicurezza interna ed esterna; una vera manna per il complesso militare-industriale. E in tal senso è abbastanza significativa la nomina alla Segreteria di Stato di Hillary Clinton, nota, come del resto il marito Bill, per l’ interventismo militar-democratico… E la cooptazione nel quadri del governo di numerosi clintoniani, noti per il moderatismo.
Pertanto, per avanzare qualche timida previsione, i “barbari” dell’Islam fondamentalista continueranno a essere duramente contrastati. Mentre i “proletari” interni persisteranno nel rifiuto dell’arma del voto ma anche della rivolta…

Come concludere allora? Alcuni storici ritengono che l’impegno neo-imperiale possa acuire la già seria crisi economica Usa. Altri invece continuano a immaginare l’America come una nuova Roma capace di consolidarsi all’interno grazie alle conquiste esterne. Tutto è possibile. Anche perché se gli Stati Uniti ricordano Roma nell’età delle guerre puniche, i suoi nemici, russi compresi, per ora mostrano di non avere la stessa levatura militare dei Cartaginesi. Ma questa è un'altra storia.

Carlo Gambescia

lunedì 19 gennaio 2009

Dario Di Vico vs Bauman 
Poesia sociologica o prosa economica?



Dario Di Vico su Style (gennaio-febbraio 2009), muove a Bauman un’interessante critica, partendo dal suo ultimo libro pubblicato da Laterza (Consumo, dunque sono). Ma prima lasciamo la parola al vice direttore del Corriere della Sera. La citazione è lunga ma necessaria:
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“Insomma senza Bauman avremmo saputo molto di meno della società in cui viviamo. Eppure stavolta chi ha letto il suo ultimo libro (uscito in edizione originale nel 2007 per la Polity Press di Cambridge con il titolo Consuming Life) si è trovato spiazzato. La sua polemica feroce contro il consumismo (‘che assume quel ruolo cardine che nella società dei produttori era svolto dal lavoro ma ci lascia vittime di una frustrazione irrisolvibile’) è apparsa irrimediabilmente sfocata rispetto a una fase della vita economica dei Paesi industrializzati in cui la salvaguardia dell’occupazione e del lavoro è affidata, almeno a breve termine, proprio sul rilancio della domanda. O se preferite dello shopping. Ora è vero che la riflessione del sociologo anglo-polacco è di più lungo respiro, si dirige contro ‘la società dello scarto e del rifiuto’ descritta come esito obbligato del consumare a ogni costo, ma è anche vero che le implicazioni economiche di un discorso sui consumi non possono essere sottovalutate quando la recessione la fa da padrona e i posti di lavoro saltano. Altrimenti la sociologia diventa poesia”.
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In effetti la martellante opera del Bauman “liquido”, a occhio e croce una dozzina di volumi che ripetono ossessivamente lo stesso tema in crescendo come Bolero di Ravel, non risponde a una questione fondamentale: che fare se il consumismo divide gli uomini in consumatori accaniti e in scarti e/o rifiuti?
Nei suoi libri di propositivo, a parte i generosi appelli a una nuova etica dei consumi e del lavoro, non c’è nulla ( si veda: http://carlogambesciametapolitics.blogspot.com/2006/12/il-libro-della-settimana-zygmunt.html
): Bauman decostruisce ma non costruisce. Magari in elegante stile post-moderno, ma riproponendo alla stregua di Dolce & Gabbana un dorato vintage sociologico, dove però ritornano fra le righe le critiche mosse al capitalismo già un secolo fa da Durkheim, Tönnies, Max Weber, Sombart.

Ma oggi chi legge i classici della sociologia? Nessuno, Di Vico incluso. E così Bauman viene scambiato per un novello Cristoforo Colombo. E la famiglia Laterza ringrazia.
Certo, non si può non manifestare stupore per l’improvvisa conversione di Dario Di Vico: sostenitore fino a ieri dell’economia dell’offerta, ora diventato paladino dell’economia della domanda. Un mistero che potrebbe essere sciolto solo con l’aiuto della psicanalisi.
Ma al tempo stesso non si può non sottolineare la concretezza del problema posto dal vice direttore del Corriere della Sera: quello del necessario collegamento tra ripresa dei consumi e ripresa economica. Ovviamente, sempre che si voglia restare all’interno di un’economia capitalistica, come appunto sembra auspicare Bauman.
Tuttavia Di Vico, a sua volta, non distingue tra consumi privati e pubblici… E infatti finisce per collegare meccanicamente la ripresa economica agli effetti di ricaduta del solo shopping: in pratica dei consumi privati.
Si dirà, per quanto di alto livello, è solo un giornalista… Tuttavia anche nel “professor” Bauman, a differenza di Galbraith tanto per fare il nome di un classico in materia di consumi pubblici, non c’è alcuna teoria organica sul ruolo dei consumi di beni collettivi e dello stato in economia. C’è solo una critica al consumo esasperato di beni privati: dove Di Vico vede il bene, Bauman scorge il male. Ma si ferma sull’orlo del crepaccio, gira su se stesso e torna indietro, probabilmente, per andare a scrivere un altro libro sulla società liquida...
Di più: sia in Bauman che in Galbraith non è trattato il problema della decrescita. In Galbraith, come è noto, per sviluppismo organico di origini rooseveltiane. Mentre in Bauman, benché talvolta sfiori il problema, manca “l’ affondo” decrescista per ragioni, crediamo, morali e politiche: legate al timore, da esule politico, di ripetere le lontane esperienze totalitarie della Polonia comunista, ma in nome, questa volta, di valori “decrescisti”, imposti da qualche nuovo Grande Fratello.
Cosa che gli fa onore. Ma lascia aperto il problema posto da Dario Di Vico: come conciliare critica sociologica della società dei consumi (privati) e ripresa economica all’interno della società attuale? O se si preferisce: la poesia sociologica con la prosa economica del capitalismo?

Carlo Gambescia 

venerdì 16 gennaio 2009

Ringraziamenti e segnalazione


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Ringrazio gli amici del blog collegato al sito di Movimento Zero, coordinato da Alessio Mannino, per aver ripreso il mio post su Gaza e Drieu la Rochelle http://www.movimentozero.org/mz/index.php?option=com_content&task=view&id=515&Itemid=10 .
Tra "autentici" diversi ci si capisce subito.
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Tra l'altro colgo l'occasione per ricordare agli amici lettori, che su gentile invito, collaboro regolarmente e fin dall'inizio, alla Voce del Ribelle. Non amo fare pubblicità a me stesso né agli altri, ma la nuova rivista di Massimo Fini merita grande attenzione. Perciò vi invito a leggermi anche su questa notevole pubblicazione.
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Riporto in home page, tra virgolette, questo commento (il diciassettesimo al post di ieri) perché particolarmente significativo di quella pericolosa deriva antista da me segnalata. Aggiungo che in prima battuta è apparso sul blog del sito collegato a Movimento Zero sopra citato. Dove, come è giusto che sia, i commenti sono liberi.
Grazie a tutti i lettori dell'attenzione, direi affettuosa.
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Carlo Gambescia 

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"Questo è il commento apparso su MOVIMENTO ZERO.
La vita e l'opera di Drieu la Rochelle vengono presi a pretesto per scrivere un articolo banale. Tutti sono a favore di qualcosa e di conseguenza ed almeno in parte, "anti" qualcos'altro. Non so se Gambescia abbia letto "L'uomo a cavallo" di la Rochelle. Forse non lo ha capito. Ma è troppo semplicistico ridurre le sue scelte esistenziali ad una ispirazione dell'"antismo", questo orribile neologismo che si cerca di accreditare quale sintesi di pensiero, e che invece è un insieme di ragionamenti scontati ed in alcuni tratti incomprensibili.Dulcis in fundo la solita citazione delle bandiere di Israele bruciate e delle scritte contro gli ebrei sui muri. Orrore. Questi crimini contro gli oggetti, quelli contro l'umanità li commette l'esercito israeliano, sarebbero figli dell'odio puro (non dell'indignazione), frutto della grande e feroce bestia antisemita. Neanche una lacrimuccia, come disse il grande architetto Melandri, nè una citazione, per i poveri palestinesi. Loro non sono vittime di un anti. L'anti semitismo è l'unico anti che abbia dignità in questo articolo inutile. Io capisco (cioè rilevo) che ci sia tanta gente che scrive cazzate come questo Gambescia, in questo periodo con particolare attenzione al massacro dei palestinesi, che Gambescia mischia confusamente con la vita di Drieu. Devo dire che, con un certo garbo, Gambescia le cazzate le distribuisce equamente: un pò in ogni articolo. Vi ricordo un altro capolavoro che parlava della povera Federal Reserv:"Perciò la sfida attuale è tra il potere economico degli speculatori e quello delle Banche centrali (e dunque della politica, che di fatto continua a governarle)". Complimenti per la competenza specifica.Ognuno ha il diritto di scrivere quello che vuole. Quello che non capisco è semplice: perchè continuiamo a pubblicarle sul nostro blog, le sue cazzate?
11:53 PM
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giovedì 15 gennaio 2009

Delusioni (ancora sulla censura...)
Stanchezza



Sulla questione della censura mi aspettavo il sostegno pubblico degli "amici" di ContrAgorà . Che invece, tranne uno ( Guido), è mancato. E che doveva esserci perché il problema da me posto - un problema di libertà - riguardava, riguarda e riguarderà tutti noi blogger. E, ovviamente, non posso non prenderne atto. A partire da oggi.
Ho una certa esperienza di lavoro nella carta stampata. Bene, sapete quanti altri "amici" mi hanno sussurrato, con fare circospetto, "Sai Carlo, hai ragione, ma non posso espormi. Resto dentro il giornale solo perché ho famiglia, altrimenti sbatterei la porta..." ? Un numero imprecisato.
Che devo pensare? Qui in Rete, dove non ci sono famiglie da mantenere, perché non ci sono editori che pagano e nutrono, probabilmente non ci si schiera perché si teme, battendosi per difendere una questione di principio, di non venir più linkati e perdere così quel miserabile frammento di "popolarità", tanto faticosamente guadagnato. Che vergogna. E che delusione per me...


Un'ultima considerazione. In quattro anni di "onorato servizio" non ho mai considerato questo blog uno strumento di furba autopromozione (mi dicevo la Rete è democratica e dunque siamo tutti sullo stesso piano). Non ho perciò mai pubblicizzato un mio libro, un mio articolo giornalistico, la mia rete di conoscenze e amicizie, magari rispondendo al commentatore di turno, tutto contento per aver "sparato" un nome importante, con un presuntuoso "Ma lei caro signore mi parla di persone che conosco, frequento, che mi sono amiche eccetera". Né sono mai salito, con fare altrettanto presuntuoso, in cattedra, affermando "Ma caro signore, parlo di cose che conosco, io ho scritto libri in argomento, eccetera". Anche qui prendo atto che non è servito a nulla. Soprattutto per stabilire un rapporto sincero con le persone. Altra delusione.
Sul proseguire o meno l'attività di blogger, considerati anche i miei numerosi impegni esterni alla Rete, sto riflettendo seriamente.

Carlo Gambescia

mercoledì 14 gennaio 2009

Ancora su Gaza e Drieu la Rochelle
Piccoli censori crescono



Il post di ieri su Gaza e Drieu la Rochelle non è stato ripreso, come invece accade sempre, da
Arianna. Anche ComeDonChisciotte da qualche tempo latita… Mentre quelli di Canisciolti sono spariti da un pezzo. E ne cito solo tre, fra i siti notevoli, che di solito riprendono, o meglio riprendevano, i miei post.
Personalmente, a causa della mia indipendenza di giudizio, ne ho viste e subite talmente tante nella vita, al punto da non farci più caso. Ma allora vi chiederete perché enfatizzare un’ esperienza in fondo per te non nuova ?
Purtroppo, come dicevano i nonni, la lingua batte dove il dente duole. Ingenuamente e nonostante qualche lettura di sociologia, speravo di trovare nella Rete un mondo diverso, più libero, segnato dalla logica del dono culturale e della libera discussione critica.
E invece no. Anche qui ci si deve mettere l’elmetto e intrupparsi. La riflessione critica non è gradita. E chiunque la eserciti, e sul serio, viene subito retrocesso - certo in nome di libere e insindacabili scelte editoriali bla bla bla... - a collaboratore non gradito. E ti pareva: anche i piccoli censori della Rete crescono…
E così, a parte un gruppo di affezionati e indipendenti lettori, sono caduto in disgrazia. Anche in Rete. Per liberal, liberali e i neoliberisti sono un leninista e/o criptofascista visionario; per i fascisti, un comunista; per i comunisti, un fascista; per i complottisti di vario colore, sono un cacadubbi; per gli estremisti antiamericani, antisionisti e peggio, un moderato, se non un servo del Capitalismo a Stelle (di David) e Strisce; per i cattolici, se di sinistra: sono un delnociano integralista; se di destra: un catto-comunista. Insomma, nulla di nuovo sotto il sole della mia vita.
E non mi si venga a dire che in questo momento si deve essere tutti uniti perché a Gaza sta succedendo quel che sta succedendo. Perché il primo compito di un intellettuale è quello di mantenere i nervi saldi e di far ragionare le persone, ravvisando conseguenze e pericoli delle loro decisioni politiche. Anche, anzi soprattutto, se di lungo periodo.


Il vecchio Max Weber riteneva, e a ragione, che il lavoro intellettuale impone l’obbligo di indicare a chi deve decidere le ipotetiche conseguenze storiche e sociali di ogni scelta politica: se si sceglie la via A, allora potrebbe succedere questo, se si sceglie la via B, allora quest’altro, e così via.
Certo, si può anche optare per l’impegno politico. Che però non può essere solo intellettuale-politico: nel senso di starsene comodi in redazione a impaginare la rassegna stampa del giorno con la schiumetta alla bocca dell’antista. Ci si mette l’elmetto sul serio e si va a combattere per davvero. Costi quel che costi. Insultare il nemico dall’alto del proprio sito o blog, e dunque a distanza di sicurezza, è troppo comodo. Se uno vuole fare l’intellettuale-armato deve assumersi tutti i rischi.
Un’ultima considerazione: ma questa gente della Rete che, fedele a una terribile logica di fazione, censura - non trovo altro termine - chi provi appena a ragionare; che ciancia di rivoluzioni sociali ed economiche; che pontifica quotidianamente sui media cattivi che censurano le voci discordanti, se dovesse andare al potere come si comporterebbe ?

Carlo Gambescia 

martedì 13 gennaio 2009

Gaza e la sindrome di Drieu la Rochelle




Con l’ antismo non si scherza: essere radicalmente anticomunisti, antifascisti, anticapitalisti, antisemiti, anti-islamici eccetera, essere, insomma, contro un certo fenomeno sociale, rifiutando di ragionare solo per guardare in faccia il nemico, sfidandolo, è molto pericoloso.
Sull’antismo ci siamo già soffermati qui: http://carlogambesciametapolitics.blogspot.com/2007/02/la-cultura-ideologia-dell-antismo.html .
Si noti, ad esempio, quel che sta avvenendo in Palestina. Secondo gli antipalestinesi tutti gli abitanti di Gaza sarebbero terroristi islamici, mentre secondo gli antisionisti tutti gli israeliani sarebbero criminali di guerra… In queste condizioni giungere a una pace, anche temporanea, è praticamente impossibile. E vista la sproporzione delle forze in campo, i palestinesi, tutti (Hamas incluso), sono destinati a soccombere. Purtroppo.
Si dirà che queste sono chiacchiere da intellettuali e che la politica è segnata dai rapporti di forza, alla cui sfida, anche solo per strappare all'avversario qualche ora di vita in più, è necessario rispondere, costi quel che costi. Verissimo, ma si deve mettere in conto che se si sceglie la sola strada della forza - dell’antismo - si dovrà sperare che i vinti poi dimentichino. E di solito perché si perda memoria dei torti subiti non bastano secoli (per alcuni popoli millenni).
L’antismo, e in particolare un antisionismo che rischia di confondersi con l'antisemitismo , rinvia a quella che chiamiamo la sindrome di Pierre Drieu la Rochelle. Un grandissimo scrittore francese, vero mago della parola attivo tra le due guerre, coltissimo e sensibile lettore e rilettore del Vedanta e della Bhagavadgita. Che però scelse il fascismo e il nazionalsocialismo in odio a ebrei e borghesi: per lui penoso simbolo di una Europa decadente e indecorosamente attaccata al denaro. E infine s’invaghì del comunismo, anche se dall’alto dei suoi cieli di scrittore.
Pierre Drieu la Rochelle si suicidò nel 1945 all’età di cinquantadue anni, per non finire nelle mani dei gollisti.
Ma seguiamo il suo ragionamento, per noi sociologicamente “esemplare”:
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“ 1943, 5 Marzo.
(...) Come può credere nel fascismo nel quali io non credo più? Il fascismo è troppo poco socialista. E’ un semplice risveglio dell’eroismo borghese che non ha il coraggio di uscire dai suoi schemi e finisce con l’esserne soffocato. Nell’estremo pericolo Hitler non ha un grido che venga dal cuore, non un’impennata dell’immaginazione. E’ pietrificato nel limite delle sue forze. Il comunismo, se non altro, sarà il perfetto e definitivo degrado di questa civiltà. La macchina ha il diritto di essere coronata sovrana.
A meno che il genio dei russi sotto sotto non sia meno inaridito del nostro e non si affranchi dalle costrizioni all’interno delle quali è fortificato!”.

(Pierre Drieu la Rochelle, Diario 1939-1945, il Mulino, Bologna 1995, p. 340)
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Ecco dietro l’antismo c’è un gigantesco e incorruttibile senso della fine. Che, come si evince dal Diario di Drieu, si unisce a un fortissimo languore verso se stessi e il mondo che potrebbe venire "dopo", nel quale noi però non ci saremo... Un languore che spinge però ad abbracciare qualsiasi causa, purché anti. E fino in fondo.
Si tratta di una disperazione dietro la quale si cela il contrasto tra il vivissimo desiderio di fare "cose grandi" e la pervasiva e vincente mediocrità del tempo "ultimo" in cui si è costretti a vivere. Una condizione penosa, umanamente comprensibile ma politicamente pericolosa. Perché la logica - se di logica si può parlare - di chiunque creda di non aver più nulla da perdere (il senso della fine prossima), pur aspirando al "dopo", si trasforma in strumento di lotta. E in che modo? Scegliendo, magari chiamando il causa il destino, di accompagnarsi ad alleati e ideologemi di ogni tipo ( i nemici dei miei nemici, eccetera) e facendo dell'odio puro il minimo comune denominatore della politica. E del tanto peggio tanto meglio un' idea-forza che può implodere collettivamente.
Proprio quel che sta accadendo in questi giorni. Dove da parti opposte, ma congiunte negli atti (dalle bandiere bruciate alle scritte su muri e negozi) , si tenta di rianimare la grande e feroce bestia antisemita. Attraverso una consapevolezza (l'odio diffuso) inconsapevole (perché molti non si rendono individualmente conto delle gravi conseguenze collettive di certi gesti odiosi)...
Di sicuro è una politica della disperazione che conduce al sucidio. Come mostra in modo emblematico la triste sorte di Drieu la Rochelle.

Carlo Gambescia