mercoledì 30 novembre 2022

La solita legge di bilancio…

 


Un modesto consiglio a chi abbia voglia di immergersi nella lettura della legge di bilancio (*): nulla di nuovo, non c’è spallata.

Non si trova un’idea capace di provare la diversità del governo Meloni, dichiaratamente di destra, rispetto ai precedenti governi, alcuni emergenziali, altri di centrosinistra. Insomma, la solita legge di bilancio.

È bene essere chiari ( tanto, nemico più, nemico meno): il vero problema non è quello di estendere i limiti per l’uso del POS a sessanta euro o a cinquemila euro per l’impiego del contante (art. 69). Oppure di cambiare il nome alla tassa sugli extraprofitti in contributo di solidarietà (art. 28). O ancora di azzerare le pendenze con il fisco sotto i mille euro (tutto il Titolo III, artt. 22-48).

Il vero problema, come abbiamo sempre scritto, è di mentalità: mentalità “statalista”. Il governo Meloni, come i precedenti, anche se “eletto dal popolo” come si proclama ai quattro venti, di libero mercato e di libertà economica proprio non ne vuole sapere. Non è un governo liberale. E spieghiamo perché.

Per la semplice ragione che resta imprigionato all’interno di un logica di scambio sociale di tipo welfarista: un taglio qui, un incremento lì, e così via, secondo la solita logica redistributiva da governo Prodi, come a proposito del taglio del cuneo fiscale: robaccia socialdemocratica. Si può parlare del solito trade off, per usare il liguaggio di coloro che hanno studiato alla London School of Economics. In realtà, un mercato delle vacche sociali, se ci si perdona la caduta di stile, che rinvia all’ operato di un onnivoro stato liberalsocialista o socialdemocratico, intoccabile nel suo impianto, ma saccheggiato di volta in volta da governi di predoni politici di destra e di sinistra a caccia di consensi.

Solo qualche spunto.

Si noti subito l’ occhiuto atteggiamento del governo Meloni verso le criptovalute (artt. 30-36), giudicate, non come una normale forma di investimento, che andrebbe lasciata crescere liberamente, anche con morti e feriti come il primo capitalismo, e non giudicata invece come una specie di cavallo di troia della peggiore speculazione secondo la raffinata visione della scuola socialista e fascista.

Solo per dire un’altra: la legge di bilancio va a colpire perfino i compratori sulle piattaforme digitali (art. 26). Si vuole sapere tutto, anche a costo stroncare una nuova forma di libero mercato.

Si dice che si deve lasciare “governare il governo”. Certo. Ma questa legge di bilancio comprova le peggiori previsioni sulla sua natura statalista. Ripetiamo: identica a quella dei governi precedenti. Per capirsi: novità zero. Poco importa che i predoni siano di destra o di sinistra. Il punto è che non sono liberali.

Un ultimo fondamentale esempio: il lettore non si faccia ingannare dalle chiacchiere, tradotte in articoli di legge, sulla flat tax (art. 13). Siamo davanti a una modestissima rimodulazione fiscale alla luce – si faccia attenzione – del principio di progressività. Principio ormai sancito dalle costituzioni welfariste, inclusa quella italiana all’ art. 53. Che più o meno recita così: ciò che i cittadini sono tenuti a versare deve essere proporzionale all’ aumentare delle loro possibilità economiche, ossia della base imponibile.

Detto altrimenti, il tributo cresce con il crescere del reddito. Principio che andrebbe invece radicalmente soppresso, tornando al principio di proporzionalità, che prevede che il tributo dovuto dal cittadino resti costante e non muti, qualunque sia la base imponibile.

Ecco l’ autentica rivoluzione. Ecco ciò che può provare la natura liberale di un governo.

Il vero veleno del principio di progressività è nel suo agganciamento alla spesa pubblica. Scelta sulla quale, a parte gli ultimi moicani liberali della scienza delle finanze, si preferisce tacere. Insomma, il re è nudo, ma non si deve dire.

Il veleno è nel fatto che più aumenta la spesa pubblica, più la progressività sociale dei tributi si estende.

Qui la vera funzione distruttiva di ogni attività economica della progressività: il dato è psicologico. Più ci impegna nel migliorare le proprie condizioni, più si viene spinti, da un fisco onnivoro, a lavorare meno. Perché impegnarsi se poi si viene derubati dal fisco?

Guai però a denunciare questa situazione. Mai turbare il sonno del contribuente che continua a credere di godere di servizi gratuiti, che invece paga profumatamente. Spesso due volte, pagando il professionista privato, perché i servizi pubblici sono inaffidabili e malfunzionanti.

Invece il ritorno al principio di proporzionalità andrebbe a recidere il cancro spesa pubblica alla radice.

Dal momento che in assenza di entrate crescenti dovute al principio di progressività, i governi “spenderecci”, per dirla con un grande economista liberale dell’Ottocento, ci penserebbero bene a spendere e spandere.

Apriamo un inciso. Sotto questo aspetto, anche le imposte indirette sono da preferire alle dirette. Però a una precisa condizione: non devono anticipare né posticipare la legge della domanda e dell’offerta di beni, ma assecondarla. Insomma, non come avviene per l’ Iva, tributo indiretto e proporzionale per eccellenza, sottoposto invece a frequenti ritocchi, per alcuni terroristici. “Rimodulazioni” che, di fatto, hanno tramutato l’Iva in  tributo di tipo progressivo. Se ci si passa l’espressione: una presa in giro del contribuente. Chiuso inciso.

Già vediamo l’economista e il politico, welfaristi fino alla cima dei capelli a prescindere dal colore politico, scuotere la testa, classificandoci tra i pazzi furiosi: “Come? Il principio di progressività? È un principio di giustizia sociale redistributiva guai a toccarlo! Chi è contro questo principio è dalla parte dei ricchi! ”.

Atteggiamento questo, condiviso dai governi di destra e di sinistra, che spiega perfettamente per quale ragione Giorgia Meloni, in perfetta linea con i precedenti governi, parli impunemente di una legge di bilancio “ in favore dei poveri”.

Carlo Gambescia

(*) Qui: https://www.ansa.it/documents/1669740961467_LEGGE.pdf 

martedì 29 novembre 2022

Nazione, lavoro, corpi intermedi. Il lessico di Giorgia Meloni

 


A  chi non conosca il tipo di cultura economica da cui proviene Giorgia Meloni, perché  legato a una visione spontaneamente statalista (si pensi  a coloro che ignorano dalla nascita l’esistenza di tutto un mondo prima e dopo lo stato), riteniamo sia difficile farsi un giudizio sul personaggio politico e sulle antiquate linee guida economiche del governo.

Certo, bisogna avere pazienza e tempo: leggere, documentarsi, ascoltare e riascoltare interventi e dichiarazioni. Cosa di cui tutti non dispongono. Roba da addetti ai lavori.

Però un piccolo esperimento, per coloro che ci seguono – bastano venti minuti – resta possibile. Si ascolti il discorsetto di Giorgia Meloni all’ Assemblea generale di Confindustria Veneto Est. È di ieri (*).

Discorsetto nel senso di un discorso che vuole essere breve e simpatico. Insomma, rivolto a ingraziarsi l’interlocutore.

Bisogna ascoltarlo tutto, per scoprire – che poi è caratteristica lessicale della retorica economica di Giorgia Meloni – che non vengono pronunciati una sola volta i termini “mercato” e “libero mercato”.

La prima impressione è che Giorgia Meloni eviti di usarli. Insomma, che faccia uno sforzo calcolato. In realtà – e qui veniamo al punto – la cultura di base dell’universo missino e postmissino, quindi meloniamo, detesta il mercato. Si sfoglino le pubblicazioni di quel mondo, anche durante il periodo aennino diciamo finiano. Si scopre subito che il termine preferito in argomento è “liberismo selvaggio”, ripreso pari pari, senza alcun problema dal lessico anticapitalista della sinistra estrema. Un passo indietro: quando sul piano giornalistico si parla di fascio-comunismo, ci si riferisce proprio a questo, al comune rifiuto (delle due estreme) del libero mercato. Il lettore prenda appunto

Ovviamente Giorgia Meloni non poteva “sbracare” e parlare di “rivoluzioni nazionali” e “Terza Via” (né capitalismo, né comunismo) a un gruppo di terragni imprenditori veneti. Di qui però il riemergere, spontaneo, in automatico, come ciambella di salvataggio ideologico (semplificando: se non è zuppa è pan bagnato), di una cultura lavorista e produttivista, di stampo antiliberale, che pone al centro delle attività economiche lo stato come supremo regolatore. Alla quale si accompagna una visione, altrettanto sedimentata,  a dir poco ottocentesca, reazionaria, di estrazione cattolica (roba da Opera dei Congressi), che sa e vuole parlare solo di “corpi intermedi”: espressione, che insieme ad altri due termini, nazione e lavoro, ricorre frequentemente nel lessico meloniano. Come del resto prova il “discorsetto” di ieri, che i lettori, ripetiamo, non dovrebbero perdere.

Per essere più precisi, la retorica della Meloni, cosa che probabilmente ignora perché da sempre abituata a nuotare nelle stessa “acqua”, è quella dell’Istituto di Studi Corporativi, istituzione che, almeno all’inizio, Almirante volle fortemente, per riproporre il corporativismo fascista ma purificato, diciamo fresco di Keynes e pseudo democratizzato, alla luce, di un’idea, in fondo neppure sbagliata, che ieri Giorgia Meloni ha evocato in modo ossessivo: che se non si produce ricchezza non è possibile godere di alcun sistema di welfare.

A metterla così si potrebbe anche essere d’accordo. Però, in realtà, per un fascista o postfascista, al centro dell’agire economico, non c’è il mercato ma lo stato, rivestimento istituzionale della nazione, che vede e provvede. Un concetto che poi viene coniugato, in nome della produttività con quelli di lavoro, nazione e corpi intermedi.

Iconografia ottocentesca, quest’ultima, di stampo cattolico, che rimanda alla retorica dolciastra delle famiglie unite che vanno alla messa domenicale, al paternalismo padronale, alle confraternite, alle associazioni sindacali fin troppo collaborative, ai carabinieri di Pinocchio, eccetera, eccetera.

Il fascismo ereditò questa paccottiglia, anche reinterpretando Mazzini (per la serie il diavolo e l’acquasanta), ma la “corporativizzò” a colpi di manganello, reinventando l’idea dello stato-imprenditore, che in realtà turava solo le falle per conservare il consenso al regime degli industriali, ai quali le provvidenze, ieri come oggi, non sono mai dispiaciute.

Il postfascismo, dal Movimento sociale ad Alleanza nazionale e Fratelli d’Italia, ha conservato la stessa visione lavorista e produttivista, con lo stato che vede e provvede. E con il mercato a dir poco in posizione subordinata.

Più modernamente oggi si parla di regole – la Meloni per prima – ma la sostanza è la stessa. Detto altrimenti, il topos meloniano, del “non intralciare chi produce”, resta come sospeso in aria, a causa delle incapacitanti remore postfasciste verso la cultura di mercato. Siamo dinanzi non al “lasciar far, lasciar passare”, ma al “lasciar fare allo stato”. Ad esempio l’evocazione del piano industriale, non è altro che l’elogio di una gigantesca gabbia di ferro per controllare tutto. Condivisa – qui la nota stonatissima – dal capitalismo assistito italiano che continua a ragionare come l’Associazione Industriali del Mozambico.

Si notino, infine, sempre nel “discorsetto” di ieri, i ripetuti inviti di Giorgia Meloni alle “categorie produttive”: anche questo è un temine sostitutivo, di taglio addirittura mussoliniano, per evitare l’uso di parole maledette o comunque fin troppo liberali come imprese e sindacati.

Inviti, dicevamo, a collaborare, tutti insieme, nell’interesse, ça va sans dire, della Nazione: questo Moloch al quale sacrificare, come tante volte in passato, la vita delle singole persone.

Concludendo, siamo davanti a una cultura economica reazionaria nemica del libero mercato, che, per ora morde il freno, ma che in futuro potrebbe riservare brutte sorprese.

Esageriamo? Sempre nel “discorsetto” Giorgia Meloni non ha mai pronunciato la parola libertà… E non è la prima volta.

Carlo Gambescia

(*) Qui: https://www.ansa.it/sito/notizie/economia/2022/11/28/manovra-chigi-su-tetto-obbligo-pos-interlocuzioni-con-ue_1f9c46a4-c8f2-439d-8c09-20fcbe1e20be.html .

lunedì 28 novembre 2022

Un nemico del popolo

 


Ieri, in privato, un amico, mi ha rimproverato per aver scritto un articolo “impietoso” sulla frana di Ischia (*).

Ovviamente, non l’ho scritto a cuor leggero. E senza alcuna intenzione di offendere i poveri scomparsi e le loro famiglie. Il riferimento al “piagnucolare” non riguardava il più che giusto dolore per la scomparsa di persone care. Come il lettore capirà seguendo il mio ragionamento fino in fondo.

In realtà, come ho cercato di spiegare all’amico, la questione è un’altra e rimanda a due fondamentali domande: a) qual è il ruolo dell’intellettuale (seppure ne esiste uno, di ruolo)?; b) Dolore e pietà fanno parte del bagaglio di uno studioso? Dell’analista che si imponga, come scienza vuole, di esaminare freddamente i fatti per quello che sono e non per quello che dovrebbero essere sotto il profilo morale?

Per rispondere alla prima domanda, diciamo subito che il ruolo dell’intellettuale è quello di individuare (proprio perché lavora con le idee) i migliori strumenti concettuali per studiare i fenomeni. Fermo restando che il concetto è una rappresentazione della realtà conoscibile.Pertanto, i concetti storici e sociologici di lunga, media e breve durata impiegati ieri, non rinviano alla realtà in senso metafisico, morale e religioso, ma a una rappresentazione della realtà conoscibile per capirla e spiegarla meglio. Un fenomeno rappresenta ciò che è conoscibile, ciò che è suscettibile di indagine. Invece un concetto teologico, morale, metafisico rimanda all’inconoscibile. O se si preferisce a qualcosa che è conoscibile ma non con gli strumenti delle scienze sociali. Nel caso dell’articolo di ieri, ripetiamo, i concetti di lunga, media e breve durata.

Quando alla seconda domanda, la consapevolezza di dover usare concetti “rappresentativi” deve essere pura o purificata dalle emozioni, altrimenti i concetti da rappresentativi si trasformano in evocativi: non spiegano evocano. Per capirsi, a Ischia sono morte delle persone: se però si sovrappone o mescola il concetto “metafisico” di persona a quelli storico-sociologici di lunga, media e breve durata, si rischia di confondere il momento della cognizione che risponde alla domanda "perché?", momento rivolto a individuare le cause di un fenomeno storico e sociologico (anche le più lontane) con il momento normativo che invece introduce un "imperativo":  si sosituisce all'interrogazione un'asserzione, come ad esempio “mai più morti per frane”. Asserzione che rinvia, piaccia o meno, a un’idea “metafisica” di perfezione, sovrumana, che non fa i conti con l’imperfezione, idea “fisica”, molto umana, che invece segna, e spesso duramente, la realtà che circonda noi tutti.

Un concetto, quello di imperfezione, che una volta interiorizzato, contribuisce a spiegare laicamente la presenza del male del mondo. Consapevolezza che aiuta a non frignare, a rimboccarsi le maniche, eccetera, eccetera. Il che non significa che non si devono piangere le persone care. Vuol dire solo non trasformare le vittime, e di riflesso noi stessi, in miti incapacitanti.

Max Weber, che a forza di indagare il rapporto tra conoscenza e morale si ammalò di nervi ( dico questo per sottolineare la serietà, se non tragicità della questione conoscitiva), sosteneva che un professore, uno studioso, un intellettuale insomma, è tenuto a spiegare il vincolo di coerenza logica tra idee socialiste e pratica socialista o   tra idee conservatrici e pratica conservatrice. Ma non quello, evocativo, che si muove sul terreno non logico, di come essere socialisti senza essere socialisti o conservatori senza essere conservatori, oppure conservatori e socialisti al tempo stesso. O addirittura di come eliminare a un tempo dalla faccia della terra le idee socialiste e conservatrici.

Per tornare all’articolo di ieri, un intellettuale non può essere al tempo stesso professore e vigile del fuoco, oppure studioso e magistrato, o ancora, per essere più chiari, scienziato nel silenzio del suo studio e politico “acchiappa voti” nelle piazze. In sintesi: non si può studiare freddamente la realtà e atteggiarsi a prefica. O si studia o si piange.

Pertanto, se quel che è accaduto a Ischia deve essere spiegato in termini di lunga, media e breve durata, e non di caccia al capro espiatorio da parte di piazze frignanti ma vendicative, un autentico intellettuale non può esimersi dal farlo.

Anche rendendosi, impopolare, antipatico, addirittura odioso. O per dirla con Ibsen un “nemico del popolo”.

Carlo Gambescia

(*) Qui: https://cargambesciametapolitics.altervista.org/ischia-sociologia-delle-catastrofi/ .

domenica 27 novembre 2022

Ischia, sociologia delle catastrofi

 


Il sociologo non può che scuotere la testa. Ci sono pagine della Naturalis Historia di Plinio il vecchio che andrebbero rilette. L’Italia, notava l’antico dotto , è circondata dal mare e attraversata in senso longitudinale da una catena montuosa che sembra non finire mai.

Di conseguenza, visto che l’acqua scende dall’alto verso il basso, e quando piove troppo, rovinosamente, e visto che il mare, fa del suo, rosicchiando coste, l’Italia già allora era a rischio. Parliamo di duemila anni fa.

Perciò la “catastrofe annunciata” di Ischia, notizia che oggi straripa sulle prime pagine, con conseguente indignata ricerca di colpevoli da additare al popolo (*), risale almeno all’Impero romano. E in particolare alla tendenza storica della popolazione peninsulare, per ragioni che oggi vanno sotto la denominazione di miglioramento della qualità della vita, a spostarsi dall’interno verso l’esterno: dai monti e campagne in direzione della città. Di qui, una natura che inevitabilmente ha fatto il suo corso sui monti poco popolati e sulle coste sovraffollate.

Sintetizzando, dietro un bimillenario fenomeno migratorio, si scorge il mito, più che giustificato, della città. Perché, in assoluto la città ha sempre portato progresso e benessere diffuso.

La controprova, di quanto diciamo, è nello spopolamento cittadino, con diffusione di fame e miseria, e per non pochi secoli, almeno fino alla seconda metà del IX della nostra era. Spopolamento che – ecco il punto storico e sociologico – seguì la dissoluzione e caduta dell’Impero romano, che, economicamente e modernamente parlando, era autarchico all’esterno e liberale all’interno. Diciamo cittadino e commerciante. Almeno fino a quando non arrivò al potere le dinastia militari dei Severi.

Cosa avrebbero dovuto fare i governanti italiani da Augusto a Mario Draghi? Deportare intere popolazioni verso l’interno secondo l’uso asiatico? La storia geologica è quello che è: l’uomo è il luogo in cui vive, ma anche il luogo da cui vuole scappare, con tutte le conseguenze, positive e negative del caso, spesso inavvertite e impreviste. Sembra si chiami libertà.

Un grande storico francese, Fernand Braudel, ha acutamente introdotto il fenomeno storico della lunga durata, rapportandolo alle condizioni geografiche e migratorio-demografiche, condizioni che permangono per millenni, anche come risposta dell’uomo dell’ambiente, nel bene come nel male.

Secondo Braudel, alla lunga durata, dei tempi geologici (ad esempio catene montuose longitudinali e coste) e demografici ( inclusi gli spostamenti di popolazione), si affiancano la media durata dell’ economia ( sistemi chiusi, sistemi con mercato e di mercato) e infine quella breve, se non brevissima, della politica (re, presidenti, battaglie e guerre).

Ora, per tornare, ai fatti di Ischia, si crede, additando i nemici e le pratiche contro il popolo (“abusivi”, “assessori corrotti”, “sanatorie”, eccetera), di poter contrastare la lunga durata dei tempi dell’elefante geologico-migratorio con le punture di zanzara dei tempi brevi della politica. Roba da ridere. Ma anche da piangere per la superficialità del sentire: perché, ripetiamo, alla lunga durata dei tempi geologici e demografici, si suppone di poter rispondere con i regolamenti comunali e i vigili urbani.

In realtà, l’unica misura politica che potrebbe ristabilire l’equilibrio diciamo coste-monti, è quella dello spostamento coattivo delle popolazioni. Diciamo della redistribuzione sul territorio anche delle attività economiche. Insomma, servirebbe un Gengis Khan. Il che però implica – si badi bene – la cancellazione della democrazia liberale, basata sulla libertà di movimento, di concorrenza, opinione, parola, pensiero, eccetera.

A dire il vero, le correnti ecologiste, animate da forti componenti autoritarie, secondi alcuni addirittura totalitarie, non disdegnerebbero di comportarsi come l’imperatore mongolo.

Perciò, in sintesi, la vera posta in gioco è quella del prezzo da pagare per continuare a godere della nostra libertà.

Quindi che fare? Assicurarsi, rimettersi a lavorare e non piagnucolare.

Carlo Gambescia

(*) Qui: https://www.giornalone.it/quotidiani-italiani/ .

sabato 26 novembre 2022

Alessandro Giuli al MAXXI

 


Non sappiamo quanto possano interessare al lettore le storie di destra. Più di un decennio fa scrissi con Nicola Vacca un libro-intervista A destra per caso. Ebbe un buon riscontro editoriale, ma non critico-intellettuale. Per gli amanti dello stile di Tacito: chi doveva leggere lesse, ma tacque.

Questo per dire, che la destra, in particolare la post-missina, non vuole consigli: vittima pagante della sua superficialità culturale si sente superiore, impermeabile a qualsiasi critica, salvo poi commettere errori marchiani, come il buco nella parete della cucina, da “soliti ignoti” della cultura.

L’amico Carlo Pompei, che forse ha dato a destra molto più di chi scrive, e non per “caso”, parla di una specie di danno biologico. Chissà, forse Basaglia, evocato per seduta spiritica potrebbe aiutarci.

E qui veniamo all’argomento dell’articolo di oggi: la nomina di Alessandro Giuli alla guida del MAXXI. Che è una storia di destra ma racchiude pure una questione di metodo, anzi di metodologia delle lottizzazioni. Cioè diamo per scontato lo spoils system (diciamo in nome del classico ammesso e non concesso), come pure l’ obsoleta struttura museale pubblica, che a nostro avviso andrebbe invece privatizzata totalmente, proprio per evitare (pardon) il mercato delle vacche. Ma quest’ultima è un’altra storia.

Dicevamo si lottizza, però perbacco lottizziamo politicamente facendo scelte inoppugnabili.

Ora Alessandro Giuli, designato da quel pozzo di scienza del ministro Sangiuliano, è nomina, per dirla da mestieranti, leggerina. Attenzione, Giuli è persona, oltre il senso latino della maschera, studiosa e capace di applicazione. Lo ricordiamo bene: giovane-vecchio, serissimo, imberbe, nelle gelide stanze della Fondazione Evola, piegato sulle sudate carte del Maestro. Ma anche come forbito interlocutore nelle redazioni di “Officina” e “Linea”. Tra l’altro Giuli, che ha fatto anche radio, ha avuto come maestro di giornalismo, Gianfranco de Turris uomo retto e colto, anzi coltissimo, che non può non aver lasciato il segno.

Pertanto aveva e ha delle potenzialità: qui ricordiamo anche il suo primo e unico romanzoNigredo, che leggemmo in bozze: prova acerba e ambiziosa al tempo stesso. Necessitava di un’ulteriore stesura, anche perché la sua trama fin troppo esoterica e arcaicizzante a un certo punto, se non si era cultori sfegatati del genere, si apriva sul rischio palpebra calante.

Poi Giuli scrisse altre cose, anche sulla destra, alcune interessanti altre meno. Per contro, come ci dicono (dal momento che non seguiamo), le sue potenzialità – tra l’altro non scriveva e scrive neppure male di politica, come aveva ben capito Ferrara che lo ebbe al “Foglio” – sono esplose nell’attività di conduttore e ospite televisivo in conto idee di destra. “Pronubo” – Giuli appassionato cultore di Roma arcaica, apprezzerà il termine – quanto meno per la Rai, Fratelli d’Italia. Che, ora, grazie al pozzo di scienza Sangiuliano, lo ha dirottato al MAXXI.

Invece cosa avrebbe dovuto fare una destra colta e intelligente? Al MAXXI, la storiella della sovranità, anche se ridotta al rango alimentare, non può funzionare. La destra avrebbe spiazzato l’intera sinistra – sempre ammessa e non concessa la lottizzazione – chiamando alla sua direzione un nome internazionale.

Ne facciamo solo uno: Camille Paglia. Chi non ha letto Sexual Personae. Arte e decadenza da Nefertiti a Emily Dickinson, tradotto da Einaudi nel 1990? Probabilmente Sangiuliano, che a dire il vero non ha letto neppure Roberto Michels (ma questa è un’ altra storia…). Parliamo di un successo internazionale, per capirsi, all’altezza, se non in molte parti superiore, a La carne, la morte e il diavolo nella letteratura romantica, del grandissimo Mario Praz, scomparso nel 1982.

Ecco, Paglia, Praz, questa la “caratura”, diciamo così, per il MAXXI. Camille Paglia, classe 1947 (per buttarla sul militaresco che tanto piace alla destra), vive e insegna negli Stati Uniti, ma è lesbica, femminista (seppure molto critica) e tante alte cosette… Anche se, come per Praz, bisogna leggere per scoprire, anzi studiare. La Paglia ha una sensibilità, in senso lato, quindi di grande e solitaria eleganza, di destra. Certo, non postmissina.

Inoltre, se proprio si doveva puntare su un nome di destra, “di area” come si dice negli ambienti della fumosa cucina politica, perché il pozzo di scienza Sangiuliano non ha pensato a Carlo Fabrizio Carli, critico e storico dell’arte di grandissima cultura? E perché no, anche a Giuliano Compagno, sorta di vivente enciclopedia filosofico-estetica per l’uomo del Terzo Millennio. Che a dire il vero proprio di “area” non è “. Infine, solo per ricordarlo, perché mancato l’anno scorso, come non fare il nome di Paolo Isotta, grandissimo musicologo. Quindi i talenti c’erano e ci sono…

Probabilmente, “Pozzo di scienza”, conosce, e forse evita, proprio perché, come recita l’adagio… Ma conosceva anche Giuli, eppure…

Comunque sia, Giuli non si offenda per queste nostre righe. Perché, è vero che abbiamo definito “leggerina” la scelta di “Pozzo di scienza” e probabilmente, in ultima istanza, di quella grandissima ittiologa di fama mondiale che risponde al nome di Giorgia Meloni. Però bisogna, anzi è doveroso, riconoscere che Giuli si applica, studia, è intelligente con tratti di acutezza.

Certo, non sarà facile, per chi sarebbe perfetto o quasi per un Museo dedicato alla storia della regalità romana in età arcaica, occuparsi di arte del XXI secolo.

Però mai dire mai. Auguri Alessandro.

Carlo Gambescia

venerdì 25 novembre 2022

L’ugualitarismo, il nemico principale

 


Qual è il vero nemico della società liberale? L’ugualitarismo ( o egualitarismo). Attenzione non parliamo dell’uguaglianza dinanzi alla legge, quindi dei punti di partenza, la cosiddetta uguaglianza formale, ma dell’uguaglianza dei punti di arrivo, l’uguaglianza sostanziale.

L’ugualitarismo, diciamo nella veste socialista, anzi comunista (da ciascuno secondo le sue capacità a ciascuno secondo i suo bisogni), innerva purtroppo tutto il pensiero politico contemporaneo, perfino quello liberale (tramutatosi in liberalsocialista), come pure le conseguenti pratiche di governo, che affidano allo stato la missione di parificare i punti di arrivo attraverso un legislazione minuziosa e una burocrazia soffocante.

Il che spiega subito due cose.

La prima che parlare di merito (valore liberale per eccellenza), fin dai tempi di Constant e Guizot è praticamente impossibile. Sul punto, per inciso, sarà interessante, scoprire come il governo Meloni, che ha evocato il merito, riuscirà a coniugarlo con i finanziamenti a pioggia e altre provvidenze promesse che con il merito non hanno nulla a che vedere.

La seconda, che la lotta per le risorse, cioè per l’appropriazione delle risorse legislative, è senza quartiere. Appropriazione delle risorse legislative, può apparire il solito parolone. Quindi dobbiamo tradurre.

Ad esempio la lotta per l’estensione delle quote rosa (ma il discorso andrebbe stesso a ogni tipo di quota politica) e per la concertazione a ogni livello stato-imprese-sindacati (che viola la legge della domanda e dell’offerta ) sono esempi tipici di lotta per l’appropriazione di risorse legislative. Lotta che ha la finalità di imporre l’uguaglianza sostanziale: dei punti di arrivo. E quando lo stato si presta a infierire sul merito si trasforma in un nemico della libertà individuale.

Il fenomeno delle quote in particolare ricorda la logica pianificatoria dei regimi socialisti, volta al superamento del tanto disprezzato libero mercato, quando, ad esempio, in Unione Sovietica, da ogni università, annualmente doveva uscire un numero programmato, ideale, di ingegneri, muniti di titolo, quindi a prescindere dalla preparazione reale.

Cosa accadeva? Che pur di fare numero, e di non ostacolare gli obiettivi ambiziosi della pianificazione produttiva, decisa in alto, si conferiva, per evitare ritorsioni e spesso anche il gulag, il titolo accademico anche ai non meritevoli. Il che ha costituito una delle cause del crollo dell’Unione Sovietica.

Purtroppo, l’ Occidente, invece di fare tesoro della disgraziata esperienza comunista, insiste, a ogni livello, in particolare massmediatico (autentico esempio di autodistruzione sociale), sulla necessità e bontà dell’ugualitarismo dei punti di arrivo.

Però, ecco il punto importante, chi ci assicura che i “quotati” di ogni colore, una volta catapultati verso una certa professione, saranno all’altezza del ruolo che si chiede loro, se prima del merito viene il numero?

Il merito, in natura sociale, non si distribuisce secondo il criterio numerico del cinquanta e cinquanta, paracadutato dall’alto, ma secondo criteri qualitativi, aristocratici, frutto di interazioni individuali, quindi dal basso secondo movimenti selettivi spontanei che sfuggono alla logica democratica.

Il che può apparire, ai cuori teneri, ingiusto, dal punto di vista etico. E può anche esserlo per i cuori meno teneri. Tuttavia, si deve essere realisti, sociologicamente realisti, tra l’aristocrazia del merito e la democrazia ugualitaria non c’è ponte, ci si deve rassegnare: non esiste un’aristocrazia democratica, né un merito ugualitario. Tutto ciò che si può fare è stabilire l’uguaglianza davanti alla legge, dei punti di partenza.

Anche perché, cosa fondamentale, la società, come nel caso sovietico, ma anche in quello delle società liberalsocialiste di welfare, alla fine si vendica sempre, come ogni verità, perché, come detto, la società è aristocratica: per “funzionare” bene, ha necessità di persone capaci, quindi meritevoli di stare dove sono. La società, piaccia o meno, quanto più si allontana dal merito, tanto più rischia la paralisi politica, sociale, produttiva. La società, ripetiamo, quanto al funzionamento, è antidemocratica e antiugualitaria.  

Diciamo che, forse esagerando, la società è  liberale, così in modo spontaneo, attraverso milioni di interazioni individuali, perciò proabilmente senza neppure sospettarlo. Di conseguenza,  la selezione dei peggiori, o comunque dei non meritevoli, ne distrugge il tessuto per così dire liberal-aristocratico, dilata i processi sociali, confonde le acque societarie, ritarda le decisioni. Sicché le società si “impallano”, se ci si perdona l’espressione. Finiscono per funzionare come vecchi computer, con programmi non aggiornati, permeabili a ogni tipo di virus.

E come i vecchi computer, prima o poi vengono rottamate.

Carlo Gambescia

giovedì 24 novembre 2022

La libertà di sbagliare

 


Quante volte in questi mesi ci siamo chiesti come si possa essere filorussi. Come si può giustificare l’invasione russa dell’Ucraina? E soprattutto il tentativo in corso di radere al suolo il suo apparato energetico? Costringendo le popolazioni ucraine a vivere al buio al freddo in un clima invernale che non perdona?

“Malvagità mongolica” si sarebbe detto un tempo. Quella del nomade che colpisce senza pietà le popolazioni sedentarie, civili, non tanto per costringerle all’obbedienza, quanto per saccheggiare, distruggere e poi fuggire. E qui si pensi alle tristi condizioni della città ucraine, in macerie, abbandonate dai russi in ritirata.

Pertanto dichiarare lo stato russo terrorista, come nella risoluzione di ieri del Parlamento europeo, è addirittura poco. Si dovrebbe parlare di stato, società o meglio ancora orda, clan, forse tribù, barbara, primitiva: di un mondo arretrato e crudele.

Un aggregato sociale, per così dire, che però – ecco la differenza con la “malvagità mongolica” – viene dopo le rivoluzioni le moderne. Quindi, in qualche modo, siamo davanti a una ferocia consapevole della propria natura barbara dinanzi allo specchio della modernità.

Va però anche detto che esiste una differenza. I khan mongoli, dopo una prima fase distruttiva, volta a creare solo pascoli, capirono invece l’importanza economica dell’agricoltura, ossia di coltivare, anche in senso lato, la civiltà dei paesi conquistati, come del resto già notarono sociologi come Oppenheimer e storici come Grousset. La Russia invece sembra non volersi fermare più.

Il mongolo, per contro, una volta a contatto, con le civiltà islamica e cinese, ne capì la superiorità: di qui i patteggiamenti sociali e politici che in qualche misura, favorirono l’incivilimento e l’ assorbimento dei mongoli.

La Russia invece non sembra capire. E questo accade nell’universo, moderno e civile, delle Carte Onu, dei consessi internazionali, di un mercato mondiale aperto. Non nel Duecento, quando la modernizzazione economica e culturale muoveva in Occidente i suoi primi timidi passi al cospetto delle allora raffinate civiltà islamica e cinese.

Ebbene, a proposito di noi italiani, tralasciando gli astenuti (tra questi la delegazione del Movimento Cinque Stelle…), ieri in quattro hanno votato contro la risoluzione: la sovranista indipendente Francesca Donato e tre rappresentati di Socialismo e Democrazia, Pietro Bartolo, Andrea Cozzolino e Massimiliano Smeriglio. Quattro persone normali, senza baffi spioventi e gambe arcuate da uomo che cavalca nelle steppe. Parliamo di persone dall’ aspetto gradevole, civili, con studi e titoli, tutte impegnate onorevolmente nel sociale. Si pensi al grande lavoro del dottor Bartolo a Lampedusa. Eppure filorussi. Dalla parte dei nuovi barbari che non disdegnano la steppa, magari oggi a bordo di un Suv. Piccola concessione strumentale alla modernità come i missili lanciati su Kiev.

Come si può essere dalla parte dei russi? Difficile dire.

Però, ecco, vorremo che i “magnifici quattro”, se ci si passa l’espressione scherzosa (forse fuori luogo), riflettessero sul fatto che in Russia, a contenuti rovesciati, sarebbero già in carcere.

La grande differenza tra la civiltà liberale e la barbarie russa è nella difesa delle minoranze e nella libera espressione del pensiero. Ovviamente, nessuno è perfetto, il potere, soprattutto pubblico, tende sempre, per forza propria, a ridurre gli spazi di libertà, anche in Europa e nell’intero Occidente.

Però, una cosa è godere degli strumenti istituzionali (parlamenti e mercati) per combattere gli abusi, un’ altra è subire le prepotenze del potere nudo, barbaro e incivile.

Pertanto la nostra libertà, diciamo quella italiana, spesso sottovalutata se non vilipesa, come tutte le cose scontate, ha quattro buoni ragioni: quelle sbagliate di Francesca Donato, Pietro Bartolo, Andrea Cozzolino e Massimiliano Smeriglio.

In sintesi, ciò che ci rendi liberi, rispetto ai barbari russi, è la libertà di sbagliare, sancita perfino per legge. Non è magnifico?

Ecco, in Ucraina è in gioco tutto questo.

Carlo Gambescia

mercoledì 23 novembre 2022

Problemi di metodo. Un articolo di Marco Tarchi

 


Negli anni Sessanta del secolo scorso gli scienziati sociali guardavano con favore al cosiddetto approccio sistemico allo studio della politica. Semplificando, si scorgeva nel sistema politico un insieme coerente e strutturato, valutandone funzionamento e resa politica dal punto di vista della capacità di resistenza e adattamento alle trasformazioni.

Un approccio, che in qualche misura, può essere definito conservatore, perché individua un punto di stabilità dal quale ogni regime politico, a prescindere dalla sua natura democratica o meno, può allontanarsi solo a suo rischio e pericolo.

Resta però il fatto che l’approccio sistemico consente di valutare un sistema politico dall’alto. Cioè dal punto di vista dell’ osservatore esterno che ne valuta la coerenza interna. E non da quello degli attori, anche istituzionali, che interagiscono senza mai alzare lo sguardo verso l’alto.

Perciò, a proposito dei partiti, nei sistemi liberal-democratici (o di democrazia consolidata come in Occidente), il punto di vista sistemico impone che la destra faccia la destra, la sinistra la sinistra, tenendo però sempre in conto due componenti sistemiche fondamentali: economiche (la struttura capitalistica); politico-culturali e istituzionali (valori liberali e strutture rappresentative). Insomma, per parafrasare Weber, si può essere conservatori oppure progressisti, ma non conservatori e progressisti al tempo stesso.

A questo pensavamo leggendo l’editoriale di Marco Tarchi sul “Domani”, quotidiano di sinistra e fortemente contrario al governo Meloni (*).

Tarchi, professore ordinario di scienze politiche e tuttora animatore di quella che un tempo sui giornali si chiamava Nuova Destra, afferma due cose: 1) che il vero nemico interno dell’attuale governo è “la destra liberal-liberista”, antisociale (semplifichiamo), rappresentata da Zaia, incapace però di parlare all’elettorato sociale (semplifichiamo) di destra e ovviamente neppure a quello di sinistra in libera uscita; 2) che la sinistra dovrebbe tornare a fare la sinistra, però a mezzo servizio, puntando sui diritti sociali e non su quelli individuali, se non individualistici. Tentando così, finalmente, di strappare alla destra conservatrice, ma “sociale” della Meloni, gli elettori di sinistra approdati a destra e magari pure non pochi elettori “sociali”  di destra.

In pratica, Tarchi sembra apprezzare la capacità della Meloni di sfondare a sinistra dicendo cose di sinistra, o quasi. Sicché invita la sinistra a tornare a dire e fare cose di sinistra, per contendere il terreno guadagnato dalla destra, rinunciando però all’importante pendant dei diritti civili, scelta quindi in sintonia con i gusti dei “conservatori di sinistra” e con l’elettorato “sociale” ma reazionario di destra. Quindi anche la sinistra dovrebbe dire cose di destra. Od omettere cose di sinistra.

Di conseguenza, il governo Meloni potrebbe ritrovarsi sotto attacco su due fronti: quello liberal-liberista e quello della sinistra sociale. Al quale andrebbe ad aggiungersi, un terzo fronte, quello della sinistra ultrapopulista del movimento pentastellato, cosa, quest’ultima, che però Tarchi non richiama all’attenzione del lettore.

Un passo indietro. Tarchi definisce la destra rappresentata da Zaia, qualunquista, liquidando così qualsiasi potenzialità di tipo liberale, anche sul piano dei diritti civili. Per contro evoca il populismo di sinistra ( ma che cos’è una sinistra che rinuncia ai diritti civili, se non populista?), come antidoto al populismo di destra (altrettanto nemico dei diritti civili). Del resto come può strappare la sinistra voti alla destra, se non mostrandosi più populista? Anche per contrastare la concorrenza, ripetiamo, ultrapopulista del Movimento Cinque stelle?

Insomma, secondo Tarchi, per dirla con Weber, si può essere conservatori e progressisti al tempo stesso. Quindi populisti e, comunque sia, mai liberali. Anzi “liberal-liberisti”.

Ora, ammesso e non concesso che vi sia stato un travaso di voti consistente dalla sinistra alla destra ( cosa che però lo studio dei flussi elettorali non ha dimostrato, o comunque non in maniera così spiccata), dal punto di vista dell’analisi sistemica, l’overdose di populismo che Tarchi indica come una soluzione, implica l’autodistruzione del sistema (semplificando) liberal-democratico italiano. Che, piaccia o meno, ha una sua coerenza sistemica nel quadro delle istituzioni liberali e capitalistiche.

Un affondamento non sgradito a Tarchi, padre nobile, come detto, della Nuova Destra italiana (da sempre antiliberale e anticapitalista). Del resto nessuno è perfetto, a cominciare da chi scrive. Come si fa, per dirla con Weber, a non obbedire al proprio demone?

In sintesi: il nemico sistemico delle democrazie liberali è il populismo, di conseguenza quanto più lo si “normalizza” come fenomeno tanto più si “anormalizza” il funzionamento del sistema. Si pensi solo a una questione come la crisi fiscale dello stato ignorata bellamente dai populisti di destra come di sinistra. Non basta sperare che una volta al governo la medicina del potere moderi gli entusiasmi populisti e inaridisca le fonti della spesa pubblica. Del resto i due governi giallo-verde e giallo-rosso dimostrano l’esatto contrario.Quanto alla ricerca sul campo, di cui Tarchi è benemerito, è ancora presto per tirare le fila del discorso politologico in un senso o nell’altro. La base osservativa  non è ancora sufficientemente ampia, sia sotto il profilo temporale che dei contenuti.

Certo, Tarchi potrebbe rispondere, riallacciandosi a una polemica, nota in dottrina, tra la scuola sistemica e la scuola comportamentista, che i comportamenti politici, quindi i “fatti”  non le regolette sistemiche, indicano che si va verso il superamento delle democrazie liberali. E che l’approccio sistemico, sotto il profilo cognitivo, rischia di giocare il ruolo della guardia bianca.

Giusto. Però, a patto che l’approccio comportamentista, nel quale Tarchi sembra riconoscersi, ammetta di giocare il ruolo della guardia rossa.

Carlo Gambescia

(*) Qui: https://www.editorialedomani.it/idee/commenti/il-vero-anti-meloni-nel-centrodestra-e-luca-zaia-gvti6f9c