lunedì 31 ottobre 2022

“Caro bollette”: attenzione a non rovesciare il mondo

 


Dal punto di vista economico la questione del “caro bollette” per famiglie e imprese non andrebbe assolutamente affrontata. Dal momento che l’inevitabile caduta dei consumi e della produzione determinerà l’abbassamento dei prezzi. Di qui, il riaggiustamento, eccetera, eccetera.

Pertanto l’unica decisione possibile e consigliabile sarebbe quella di lasciare le cose come sono. Aspettare, insomma. Qualsiasi forma di intervento politico rischia di provocare l’ artificiale crescita dei prezzi e l’ ulteriore risalita del tasso di inflazione, senza per questo incidere sulla produzione, se non in chiave nominale come fittizio valore monetario

Quanto più si parla di misure politiche tanto più si rischia di prolungare la durata della crisi energetica. Addirittura tragicomica l’idea di combattere la speculazione che è inafferrabile se non al prezzo di strangolare la libertà di mercato con misure vincolistiche sul controllo dei capitali. Inoltre la limitazione della circolazione dei capitali limita le possibilità stesse di recupero economico, perché, se ci si passa la battuta, si colpiscono gli spiriti animali del mercato, i buoni come i cattivi. E per uscire dalla crisi occorre l’accettazione di tutto il “pacchetto”.

In pratica, puntando sull’assistenzialismo si ottiene l’effetto contrario di ciò che ci si propone. Sostegno ai prezzi e vincoli ai capitali – ripetiamo – possono solo prolungare la crisi. O meglio ingessarla, nei termini di una stag-flazione che può durare anni.

Ovviamente ciò che non è consigliabile sul piano economico, può sembrare che lo sia sotto quello del consenso politico. Spesa pubblica a gogò e anticapitalismo esercitano tuttora un forte richiamo su un elettorato che alla libertà sembra preferire la sicurezza.

Naturalmente si tratta di una finta sicurezza. Perché l’inflazione colpisce comunque il potere d’acquisto del reddito fisso e gonfia come palloncini colorati, prossimi a scoppiare, i profitti, grandi e piccoli che siano, quindi i redditi variabili. Insomma, rischia di andare male per tutti.

L’inflazione si combatte con la deflazione, che però deve essere un effetto di mercato, un portato della legge della domanda e dell’offerta, legato al riaggiustamento spontaneo dei prezzi.

Si dirà che però in questo modo le persone rischiano di soffrire. Nel caso particolare il freddo.

In primo luogo, nelle nostre società i livelli di risparmio sono elevatissimi e diffusi, come le forme di reddito aggiuntivo sia fisso che variabile. Per dirlo alla buona, la maggioranza delle persone può “arrangiarsi bene”. Non si confonda il catastrofismo dei mass media con la buona tenuta dei conti correnti e dei libretti di risparmio.

In secondo luogo, si tratta di decidere, a livello politico e in chiave pregiudiziale (nel senso che tutti i partiti dovrebbe essere d’accordo, dalla destra alla sinistra), se affidarsi alla mano invisibile del mercato, che non e indolore, ma giusta perché impersonale. Soluzione consigliabile.

Oppure se confidare nella mano pubblica, che in realtà pretende sempre di decidere in chiave ideologica cosa è giusto e cosa non lo è. Quindi la mano pubblica è tutto meno che impersonale e giusta. Quindi si tratta di una soluzione sconsigliabile.

Altro punto interessante. In termini quantitativi, come mostrano le statistiche sui redditi nel mondo occidentale (e anche di non pochi paesi non occidentali), il numero di coloro che “ce la fanno” rimanda a un rapporto di quattro a uno rispetto al numero di coloro che “non ce la fanno”.

Aiutare questi ultimi, anche con forme di assistenza pubblica è giusto. Per contro rovesciare il rapporto in favore dei secondi, se per i seguaci di dottrine religiose, comunitarie e socialiste può essere giusto dal punto di vista morale (il “loro”), non lo è dal punto di vista della scienza economica, del funzionamento del mercato. Perché, così facendo, si punta su una specie di mondo rovesciato: chi non è capace di intraprendere dovrebbe insegnare a chi intraprende… Utopia, e pericolosissima per giunta.

Insomma, il moralismo politico mina l’impersonalità della legge della domanda e dell’offerta per sostituirla con la personalità dell’ideologia. Per contro, la legge di mercato è severa ma giusta. Però rischia di non portare voti. Il che significa che ogni forma di democrazia quanto più diviene sociale, o se si preferisce demagogica, tanto più si allontana dalla buona economia. Con gravi conseguenze, nel tempo, per tutti: per coloro che “ce la fanno” e per coloro che “non ce la fanno”.

Carlo Gambescia

domenica 30 ottobre 2022

La terra dei fuochi della “tentazione fascista”

 


Alcuni cari amici di destra – destra intelligente con studi, dottorati, cattedre, periodi di insegnamento all’estero – mi hanno fatto notare che esagero: nessun pericolo fascista. In Italia, al massimo si corre il rischio di cadere nel provincialismo e nel sottogoverno di segno contrario: non più di sinistra ma di destra.

A dire il vero, io non ho mai sostenuto l’ identità politica tra Fratelli d’Italia e il movimento fascista, diciamo storico, capeggiato da Mussolini e dai suoi futuri gerarchi.

Ho invece insistito su un altro aspetto: quella della “tentazione fascista”. Parlo di un clima culturale. Se ci si passa la rozza metafora: si pensi alle esalazioni venefiche e incendiarie di un terreno altamente inquinato da illeciti scarichi tossici.

Un humus culturale contrario ai valori liberali e illuministi della modernità. Che si traduce nell’apprezzamento dell’esperienza del fascismo storico, magari “spezzettato” in tanti “se”. Ad esempio: se Mussolini avesse smobilitato lo squadrismo, se non avesse invaso l’Etiopia, se non si fosse alleato con Hitler, se non avesse promulgato le leggi razziali, e così via.

In realtà in questo modo ci si rifiuta di fare i conti con la squallida realtà , tour court, di un regime che passo dopo passo, partendo da premesse anti-illuministe e antiliberali condusse inevitabilmente l’Italia alla rovina. Una specie di sillogismo degli eventi di cui ogni storico serio non può non prendere atto.

Di qui il pericolo, non tanto del ritorno delle sfilate in camicia in nera ai “Fori imperiali”, insomma del folclore, quanto quello di una cultura di governo nemica della modernità liberale. Il che, sul piano internazionale, visto quel che sta accadendo, potrebbe condurre – ovviamente per gradi – alla fuoriuscita dell’Italia dall’Occidente liberale, con conseguente ritiro dalla Nato e dall’Unione Europea.

Il riferimento alla “tentazione fascista” necessita di un esempio. Si prendano i Cento anni della “Marcia su Roma” (28 ottobre 1922- 28 ottobre 2022), una ricorrenza che ha visto lo scontro, anche a livello mediatico, tra gli opposti e rozzi estremismi dei nostalgici del fascismo e di quelli dell’antifascismo di marca comunista.

Giorgia Meloni, invece di cavarsela, ieri, con una (anticipata?) visita all’Altare della Patria, a dir poco inconsueta per ufficialità, data e motivazione non del tutto esplicitata o chiara, doveva prendere posizione pubblicamente, magari prendendo spunto da due deliranti striscioni, pro e contro, apparsi nella Capitale, per ribadire che la Marcia su Roma, fu il colpo di stato che favorì la nascita della dittatura fascista e di tutto il male che ne venne per l’Italia.

Invece non è successo nulla.

Il punto è che negli ambienti missini e postmissini si è sempre guardato alla Marcia su Roma come a un evento romantico, quasi goliardico, della “rivoluzione” – quella fascista – che avrebbe cambiato il destino dell’Italia: da meschina democrazia liberale a eroica nazione armata e imperiale. Ovviamente, “se” non fosse capitato questo o quello…

La “tentazione fascista”, psicologicamente parlando, è nel gusto per il colpo di mano, per la spallata politica al momento giusto, per l’uso del forza nell’affermare le proprie antiragioni. Detto per inciso, si potrebbe parlare, come già notò Sorel (elogiandola però…), di una pedagogia rivoluzionaria che accomunò Mussolini e Lenin. Il che spiega, per ricaduta ideologica e collettiva l’ inveterato atteggiamento oltranzista e intollerante dei nostalgici del comunismo.

Perciò, per tornare alla “tentazione fascista”, siamo davanti a una vera e propria psicologia romantica della sovversione. Che si nutre, culturalmente parlando, di modelli politici, sociali ed economici antiliberali e anti-illuministi.

Di conseguenza è perfettamente spiegabile ma non giustificabile che Giorgia Meloni, con un retroterra del genere, continui in cuor suo a vedere nella Marcia su Roma un momento eroico. Di qui quel silenzio che rinvia all’ integrazione passiva, obtorto collo, nel sistema politico italiano. Una integrazione insincera per capirsi. Altro che la famigerata destra democratica missina, mai esistita, evocata dalla Meloni.

Si noti infine l’accento della Meloni sulle cose da fare. Insomma la sua impostazione pragmatica, all’immagine del politico pratico che non vuole perdersi in chiacchiere.

In realtà, non è altro che un modo per continuare a non fare i conti con sue radici che affondano nella terra dei fuochi della tentazione fascista.

Carlo Gambescia

sabato 29 ottobre 2022

Giorgia Meloni e Fernando Tambroni

 


L’ esercizio della leadership impone alcune regole, tra le quali c’è quella di licenziare i collaboratori per eccesso di zelo. Mai strafare. Come Talleyrand, consigliava ai suoi collaboratori e sottoposti.

Ora, Palazzo Chigi, attraverso il suo nuovo Segretario generale, nominato dalla Meloni, Carlo Dedoato, ieri con una circolare ha ricordato ai Ministeri che “ l’ appellativo da utilizzare per il Presidente del Consiglio dei Ministri è Signor Presidente del Consiglio, On. Giorgia Meloni”.

Subito, o quasi, la Meloni, che desidera incarnare a tutti i costi l’anima popolare (o plebea?) della destra, ha replicato su Instagram: “Fate pure. Io mi sto occupando di bollette, tasse, lavoro, certezza della pena, manovra di bilancio. Per come la vedo io, potete chiamarmi come credete, anche Giorgia”.

Come dicevamo, l’esercizio della leadership impone delle regole. Se Dedodato ha sbagliato per eccesso di zelo, va rimosso. Per contro, se invece si è attenuto a una prassi comunicativa, diciamo ufficiale, il passo indietro deve farlo Giorgia Meloni.

Quello che invece non si deve fare in ogni caso, soprattutto da parte dei mass media, è di chiosare graziosamente lo stile Meloni in chiave grillina, osannando l’anima popolare (o plebea?) di Giorgia Meloni. Perché così “Giorgia” non imparerà mai a comportarsi da Presidente del Consiglio premunito di senso dello stato. E non da miracolata discendente di Masaniello e di Cola di Rienzo.

Per ora si è trattato, di una questione lessicale. Ma in futuro, magari nel caso di decisioni più importanti, che farà la Meloni? Continuerà a usare quel “ voi ” contro il il palazzo? Opponendo alle istituzioni l’ormai classico “Io sono Giorgia”, l’unica in grado di respirare all’unisono con la “Nazione”?

Si dirà che stiamo cercando il pelo nell’uovo… Che siamo capziosi e prevenuti contro Giorgia Meloni e Fratelli d’Italia… In realtà non possiamo non evidenziare tre questioni importanti.

La prima è che in quel “(Voi), potete, eccetera” c’è tutta la debolezza della leadership di Giorgia Meloni. Che, al di là del piglio bullesco, non si fa rispettare dai suoi collaboratori, nuovi o vecchi. Perciò in futuro potremmo vederle delle belle. Giorgia è insicura e probabilmente pure ansiosa. Il che spiega, per contrasto, i modi squadristici, proprio per coprire l’ insicurezza.

La seconda, è che quel “(Voi) potete, eccetera” indica, purtroppo tutta la tremenda distanza, coltivata, in chiave populista, che separa la destra postfascista, neofascista, fascista (la si chiami come si vuole), dalle istituzioni dello stato e della democrazia rappresentativa. “Voi i nemici, Noi il popolo". Altro che senso dello stato.

La terza è che la retorica delle bollette e del carovita rimanda al peggiore populismo politico, anzi impolitico. In Italia lo inaugurò il governo di Fernando Tambroni: un politico democristiano che tentò di reggersi con i voti missini. Come? Abbassando il prezzo della zucchero e della benzina. Anno di grazia 1960. Cadde e non se ne parlò più. Perciò la Meloni ha cominciato male.

Buona giornata a tutti. Anche a Giorgia Meloni. Perché ne ha bisogno.

Carlo Gambescia

(*) Qui: https://www.ansa.it/sito/notizie/politica/2022/10/28/palazzo-chigi-ai-ministeri-meloni-e-il-signor-presidente.-chiamatemi-pure-giorgia…_2919ccbb-a102-465b-910c-1a4e7823bee9.html .

venerdì 28 ottobre 2022

Putin non farnetica

 


Sarebbe facile rubricare le parole di Putin sull’Occidente che vuole “cancellare la Russia” sotto la voce farneticazioni di un pazzo.

In realtà, Putin è tutt’altro che pazzo. Resta un politico calcolatore, freddo, che pesa ogni parola. Di sicuro non è un trascinatore, carismatico, roso da una passione ideologica sempre pronta a sconfinare nella follia geopolitica.

L’analisi del suo operato politico in Ucraina è molto semplice: Putin ha sbagliato i calcoli, sperava di farne un solo boccone, puntando sulla passività di Stati Uniti, Nato e Unione Europea, giudicati in disarmo morale, e invece le cose si rivelate molto più difficili del previsto. Di qui il suo disappunto e il conseguente rilancio di una guerra ideologica, rivolta a ricompattare la pubblica opinione russa, che anche nelle dittature non può mai essere messa del tutto a tacere. Questo atteggiamento spiega l’apparentemente ossessiva designazione ideologica dell’Occidente come capro espiatorio.

Ovviamente Putin dispone di un arsenale ideologico (il panslavismo) al quale attingere. come pure di potenti strumenti di propaganda e disinformazione per seminare divisioni in campo nemico, come si legge nei manuali ad uso dei servizi segreti e vertici militari. Manualistica che Putin conosce molto bene.

Pertanto in Occidente non si deve assolutamente fare il suo gioco, come ad esempio descriverlo come un pazzo che vuole la guerra atomica. Oppure raffigurare Putin come un uomo politico portato alla disperazione dal “bellicoso” atteggiamento atomico dell’Occidente nei riguardi di una Russia vittima dell’imperialismo euro-americano.

La principale differenza tra la Russia di Putin da una parte, e gli Stati Uniti di Biden e l’Europa di Macron e Scholz dall’altro, è che l’Occidente crede nella forza pacificatrice degli scambi economici, mentre la Russia crede nella forza costrittiva delle armi. Come provano due fatti: per un lato l’estrema ritrosia dell’Occidente euro-americano verso qualsiasi ipotesi di intervento militare diretto in Ucraina; per l’altro la decisione della Russia di aggredire militarmente uno stato sovrano di oltre quaranta milioni di abitanti.

Si dice che un intervento militare diretto della Nato in Ucraina provocherebbe una guerra atomica. Si rifletta su un punto importante: chi ha parlato per primo del pericolo di guerra atomica? Mosca. Che continua a usare l’arma atomica come uno strumento di minaccia verso l’Occidente se, come ripete continuamente, interverrà in armi, direttamente sul campo, in Ucraina.

La Russia, in realtà, teme di perdere una guerra convenzionale con la Nato, con tutte le negative conseguenze del caso per il regime. Guerra, che per il ritroso ( e non scontroso) Occidente, sarebbe circoscritta all’espulsione dai confini ucraini dell’invasore russo. Di qui la minaccia russa – minaccia, si badi – di ricorrere all’uso di armi atomiche per impedire  proprio questo genere  di sconfitta.

Pertanto, come abbiamo scritto più volte, quanto più l’Occidente – in particolare gli Stati Uniti – subirà la strategia russa della minaccia atomica per avere le mani libere sul campo della guerra convenzionale, la guerra in Ucraina si prolungherà, favorendo così il gioco della Russia, di dividere l’Occidente, scompaginare la sua pubblica opinione, trovarvi alleati anche politici. E tutto questo al prezzo di accrescere il rischio di dinamiche a spirale di tipo atomico.

Anche perché, la Russia – per tornare ai calcoli di Putin – sembra essere consapevole di non poter battere l’Ucraina senza provocare una escalation militare da parte della Nato. Alleanza, che, sua volta, non può escludere a priori, soprattutto se gli sviluppi militari verranno lasciati al puro svolgersi casuale ma concatenato degli eventi (Guglielmo Ferrero parlerebbe di “metafisica” degli eventi), l’uso di armi atomiche.

Che fare allora? In primo luogo, non replicare in alcun modo alle dichiarazioni propagandistiche di Mosca rilanciando scioccamente  sull’uso delle armi non convenzionali. In secondo luogo, prepararsi adeguatamente a una guerra convenzionale in Ucraina: la cosa che Putin teme più di ogni altra. In terzo luogo, la preparazione alla guerra non significa iniziare a sparare, ma più semplicemente, serve a far capire che gli scopi della guerra Nato sono circoscritti all’uso di armi convenzionali e alla liberazione dell’Ucraina dall’invasore russo.

Ecco cosa significa, ci riferiamo all’Occidente, puntare su una strategia di più largo respiro. Non il rispondere – semplifichiamo – alla propaganda di Putin con altra propaganda, perché in questo modo ci si abbandona al caso (la metafisica degli eventi) rischiando veramente la guerra atomica.

L’Occidente, proprio perché crede, anche giustamente, nella logica pacificatrice dello scambio economico, non riesce a capire che talvolta, purtroppo, al mercante deve sostituirsi il guerriero. Ovviamente senza esagerare, come abbiamo cercato di spiegare.

Per contro, sperare che la Russia prima o poi si stanchi e faccia marcia indietro, oppure che Putin, che ora viene definito un pazzo, “rinsavisca” e “capisca” la logica della pace, significa veramente rischiare la guerra atomica.

Piaccia o meno, la pace la si deve sempre volere in due. E la Russia è profondamente avversa per cultura e tradizione alla logica pacificatrice dello scambio economico.

Pertanto in questo triste e grave frangente, la scelta si riduce al tipo di guerra che si deve condurre contro la Russia e alla spiacevole considerazione che in questo caso la guerra non convenzionale si può solo evitare con la guerra convenzionale.

Fermo restando che non è neppure detto che Putin, se messo con le spalle al muro, riesca a respingere la tentazione di premere il bottone. Purtroppo il rischio esiste. Di qui il tragico dubbio amletico, perché si tratta di scegliere tra il subire gli eventi e in qualche misura il gioco di Mosca, o l’ agire per tentare di evitare il peggio, pur sapendo che dal punto di vista della guerra atomica  tutto potrebbe essere vano.

Carlo Gambescia

giovedì 27 ottobre 2022

Abolire il tetto al contante? Non sia mai…

 


Perché le cose in Italia vanno male? Presto detto. Perché non si sa dove sia di casa la libertà, a partire da quella economica…

Esageriamo? Si noti come ha impaginato “Il Sole 24 Ore ” la “notizia” che il tetto al contante salirà. Sul fondo. Neppure si vede (*).

La Lega vuole farlo salire a diecimila euro. E anche su questo “Il Sole” minimizza, parla di tremila euro… Pertanto, sono le stesse imprese, di cui quotidiano milanese è l’importante portavoce, che approvano una misura liberticida.

Parola grossa?  Non lo è certamente  in un paese socialista o semisocialista, magari  senza saperlo,  come l’Italia.  Dove – attenzione – sapete come viene giustificata la misura dalla stessa Lega? In questo modo si aiutano i poveri che non hanno carte credito, eccetera, eccetera.

E si noti pure un’altra cosa. Il tetto non viene eliminato. Si allenta solo la briglia, un poco come il modello cinese del capitalismo di stato… Insomma siamo davanti a una specie di dibattito, quello italiano, tra socialisti e semisocialisti. O se si preferisce tra statalisti e semistatalisti. Detto altrimenti: abolire il tetto? Non sia mai.

Ecco il grande paradosso: una misura in linea con i principi del libero scambio (“Lasciar fare, lasciare passare”) e più in generale con i principi di libertà (“Sono io, libero individuo, che decido come pagare: o con carta di credito o in liquidi”), viene presentata come un provvedimento per la lotta la povertà, o comunque in suo aiuto.

Ovviamente, la sinistra, che considera ogni cittadino presuntivamente colpevole di evasione fiscale, è contraria. Ma la cosa è comprensibile, perché la sinistra è illiberale ontologicamente. Prima lo stato poi il cittadino.

Addirittura, come si legge oggi sul “Fatto”,“l’elevazione del tetto” del contante -neppure fosse il Santissimo- non può che aiutare, si dice, la mafia. E con il “prestanome”, magari influente e insospettabile, che muove miliardi sui canali digitali, come la mettiamo?

Riassumiamo: gli imprenditori snobbano la misura, perché puntano al bersaglio grosso del finanziamenti pubblici (si chiama do ut des: lo stato spenni pure il cittadino, purché non cessi di aiutare imprese decotte o quasi); la sinistra blatera  di aiuto alla mafia e all’evasione (si chiama anche “stato di polizia fiscale”); la destra, pur aprendo i cordoni della borsa, resta legata a una mentalità vincolistica (diciamo che è “diversamente” statalista).

In realtà la digitalizzazione dei pagamenti è un grande progresso. Non si può negarlo.

Il problema riguarda invece le sue modalità. Si deve lasciare che la società, composta di liberi individui provveda da sola, quindi liberamente,  a questa trasformazione. Come? Piano piano, permettendo che  le persone si abituino, per libera scelta,  fino al punto di apprezzarne la convenienza. Non si può invece ingessare tutto con provvedimenti dall’alto, statalisti, evocando il bene del popolo, tra l'altro entità fantastica,  perché, come si ripete, solo lo stato sa cosa è bene per il popolo.

Nel primo caso siamo davanti a un approccio liberale, nel secondo a un approccio statalista. Ci vuole tanto capirlo? Eppure…

Purtroppo, questa è l’Italia,  anno di grazia, 2022. Primo dell’ Era Meloni.

Carlo Gambescia

(*) Qui: https://www.giornalone.it/prima-pagina-il-sole-24-ore/ .

mercoledì 26 ottobre 2022

Giorgia Meloni: “Non sono una signora”

 


I discorsi di insediamento di un presidente del consiglio, dovrebbero essere il momento più alto della democrazia liberale. Non libretti dei sogni, in cui si promette il cielo, ma solo indicazioni di pochissimi punti su quali sicuramente si interverrà.

In Italia, con il Centrosinistra negli anni Sessanta si inaugurò la stagione dei voli pindarici. Alla concretezza degli anni Cinquanta, soprattutto della prima legislatura degasperiana, seguì l’assalto alla diligenza della spesa pubblica. Governi che governavano troppo, e che spendevano e spandevano.

Infine, con la cosiddetta Seconda Repubblica, si è rivelata in tutti i neopresidenti del consiglio una vena populista che ha condotto l’Italia lungo le scivolose strade di una impolitica contrapposizione tra il popolo buono e le élite cattive. Nuovo dogma delle piazze televisive. Che tuttora impazza.

Da questo punto di vista il discorso della Meloni si è inserito di diritto in questa mistificatoria e manichea nuova religione politica. Ecco un florilegio (*).

“E se per farlo dovremo scontentare alcuni potentati o fare scelte che potrebbero non essere comprese nell’immediato da alcuni cittadini, non ci tireremo indietro, perché il coraggio di certo non ci difetta”.

“Noi, per intenderci, non concepiamo l’Unione europea come un circolo elitario, con soci di serie A e soci di serie B o, peggio, come una società per azioni e diretta da un consiglio d’amministrazione, con il solo compito di tenere i conti in ordine”.

“Perché il modello degli oligarchi seduti su pozzi di petrolio ad accumulare miliardi senza neanche assicurare investimenti non è un modello di libero mercato degno di una democrazia occidentale”.

“…Anche per ambire a una piena sovranità alimentare non più rinviabile. Che non significa, ovviamente, mettere fuori commercio l’ananas, come qualcuno ha detto, ma più banalmente garantire che non dipenderemo da Nazioni distanti da noi per dare da mangiare ai nostri figli”.

Crediamo possa bastare: complottismo e populismo in quantità industriali. Insomma, una retorica politica che si commenta da sola.

Il che non significa che non si possa registrare addirittura un peggioramento. Se c’è una nota nuova, per così dire, è nel fatto che il feroce antielitismo populista ha trovato la sua eroina: Giorgia Meloni non si sente una signora. Si autoincensa tirando fuori tutto il suo velenoso odio sociale per quel sistema, che la militanza neofascista, tra l’altro rivendicata orgogliosamente, come vedremo più avanti, le ha insegnato a odiare.

“In fondo io sono la prima donna che arriva alla Presidenza del Consiglio, vengo da una storia politica che è stata spesso relegata ai margini della storia repubblicana e non ci arrivo tra le braccia di un contesto familiare favorevole o grazie a amicizie importanti; sono quello che gli inglesi definirebbero un underdog, diciamo così, lo sfavorito, quello che, per riuscire, deve stravolgere tutti i pronostici. È quello che intendo fare ancora, stravolgere i pronostici, con l’aiuto di una valida squadra di Ministri e sottosegretari […]. Perché, alla fine di questa avventura, a me interesserà una cosa sola: sapere che abbiamo fatto tutto quello che potevamo fare per dare agli italiani una Nazione migliore. A volte riusciremo, a volte falliremo, ma state certi che non indietreggeremo, non getteremo la spugna, non tradiremo. “.

C’è poco da aggiungere. Una pennellata di femminismo rosa e quaranta sfumature di nero. Insomma, pura mitologia populista. E fascista. Roba da “Duce degli Umili”: la perdente (underdog), ora però vincente, che assume sulle spalle tutto il peso dei perdenti della Nazione, ovviamente con la maiuscola. Che vendicherà.

Ma c’è un altro aspetto interessante. L’ossessione della Meloni per il tradimento rinvia direttamente a un ambiente politico, quello missino, che scorge reincarnazioni di Badoglio ovunque. Un’ eredità ideologica che la Meloni rivendica orgogliosamente, fornendo una versione della storia repubblicana della destra missina  da manuale del perfetto neofascista. Per inciso si noti il silenzio su Resistenza e Liberazione.

Ma quando mai il Movimento Sociale si è comportato da forza partitica che credeva sinceramente nella democrazia parlamentare... Diciamo che fu costretto dagli eventi, e senza neppure grande convinzione. Se è vero come è vero, che tra la fine degli anni Ottanta e l’inizio dei Novanta, quando la Meloni frequentava la sua sezione, si celebrava, senza provare vergogna, il prossimo venturo “Fascismo del Duemila”.

Gianfranco Fini, che ci credesse o meno, come scrivevamo ieri, tentò vanamente di aprire Alleanza nazionale all’esperienza liberale. Sparito dai radar.

Se proprio di integrazione politica si deve parlare, va ricondotta, come ha scritto lo storico Roberto Chiarini, nell’alveo delle integrazioni di tipo passivo: obtorto collo. Dinamiche in cui l’apparire prevale sull’essere politico. O se si preferisce la menzogna sulla verità.

Con Giorgia Meloni si fa addirittura un passo indietro rispetto ad Alleanza Nazionale: si rivendica l’essere politico del Movimento Sociale. Usando lo stesso linguaggio populista di una destra missina che si è sempre rifiutata di fare i conti con il fascismo. A parole Giorgia Meloni condanna le leggi razziali, ma quando parla di “potentati” e di “oligarchi seduti sui pozzi di petrolio”,  fa capire benissimo ai suoi, e neppure così  in cifrato,  dove voglia andare a parare.

Giorgia Meloni non è una signora. E ieri lo ha cantato squarciagola. Come Loredana Bertè.

Carlo Gambescia

(*) Qui il testo: https://www.governo.it/it/articolo/le-dichiarazioni-programmatiche-del-governo-meloni/20770 .

martedì 25 ottobre 2022

“La difesa degli interessi degli italiani”

 


«[Per Giorgia Meloni] È il momento delle scelte, e a guidarle, rivendicherà, sarà unicamente quella “difesa degli interessi degli italiani” che è stata la cifra della campagna elettorale che l’ha portata a essere la prima donna a capo dell’esecutivo (ANSA)».

Sarebbe bello scrutare l’espressione dei ministri e della stessa Meloni, se, un consulente esterno, un “tecnico” delle scienze sociali, interpellato dal governo, replicasse, messo dinanzi all’idea “della difesa degli interessi degli italiani”, come nell’esposizione che segue.

Quando si chiedeva a Max Weber, quali erano le principali doti di un politico, rispondeva che erano il carattere (ad esempio il non arrendersi mai, il ricominciare sempre da capo) e la coerenza nelle proprie idee (ad esempio, la fedeltà ai principi: non si può essere conservatore e progressista al tempo stesso). Oltre, cosa non secondaria, a una certa dose di diffidenza (mai disprezzo e odio però) verso la democrazia, giudicata come sistema migliore tra i peggiori.

Ecco allora la replica immaginaria di un tecnico delle scienze sociali (una specie di idraulico della politica con laurea e dottorati).

Il principio meloniano della “difesa degli interessi degli italiani” – impone di credere, e con coerenza, nel valore dell’esclusione rispetto a quello dell’inclusione.

Escludere significa dividere, includere unire. Quindi Giorgia Meloni sembra porre la divisione a principio di governo. Ovviamente, il principio di esclusione, implica l’inclusione di tutti gli italiani, nel senso però che anche chi la pensi in maniera  contraria  deve lasciarsi includere in qualche modo, esercitando in proprio il principio di tolleranza, eccetera, eccetera.

Per contro il principio di inclusione favorisce la cooperazione tra inclusi ed esclusi. Quindi unisce. Anche qui però il principio di tolleranza gioca un ruolo importante tra gli esclusi, che a mano a mano che vengono inclusi, devono, a loro volta, esercitare il principio di tolleranza verso i nuovi esclusi, eccetera, eccetera.

Una democrazia liberale è largamente inclusiva, coma prova la storia della modernità. Ovviamente, come tutti i processi storici, si tratta di fenomeni ricchi di contraddizioni e contrasti. Però la storia degli ultimi secoli, a partire dalle grandi scoperte geografiche e scientifiche, si è qualificata, oggettivamente, come un processo di graduale inclusione dei popoli nella cultura della modernità occidentale.

A questo punto, Giorgia Meloni e i suoi ministri comincerebbero a sbadigliare. In realtà, dovrebbero invece manifestare grande interesse, perché predicare il principio di esclusione significa fare alcuni pericolosi passi indietro rispetto al processo di inclusione mondiale che abbiamo ricordato.

Non si dimentichi mai che nazionalismo, l’apice politico di ogni processo esclusivo, non favorisce, per principio i rapporti pacifici tra i popoli: si include, escludendo. Rischiamo perciò di tornare all’Ottocento. Quando però – attenzione – l’idea di nazione e di istituzioni liberali, perciò di esclusione geopolitica (i “risorgimenti”) ma di inclusione giuripolitica (le istituzioni liberali), erano saggiamente coniugate insieme.

Si tratta tuttavia di un equilibrio non facile, sempre precario, come prova la storia del Novecento. Dal momento che il principio esclusivo esercita più fascino di quello inclusivo, soprattutto tra la gente comune facile preda dell’emotività politica. Sicché, ogni volta che è stata messa in discussione la miracolosa sintesi tra idea di nazione e istituzioni liberali si sono prodotte catastrofi politiche.

Pertanto insistere sul principio “della difesa degli interessi degli italiani” può esser pericoloso sotto il profilo dell’interruzione di un secolare processo storico di inclusione, intorno ai valori della modernità occidentale, tra l’altro sempre a rischio e in discussione, come impone la stessa filosofia illuministica della modernità.

Sarebbe perciò il caso di riflettere su una presa di posizione politica dalla conseguenze molto pericolose.

A questo punto, tra gli scongiuri dei ministri, il tecnico delle scienze sociali verrebbe ringraziato e invitato a tornare ai suoi studi.

Certo, si può sostenere che la modernità occidentale non è condivisa da tutti i popoli. E che dietro il processo di inclusione, magnificato, dal nostro tecnico delle scienze sociali, si nasconde l’egemonia geopolitica dell’Occidente.

Però, oltre a fatto che una cosa è privilegiare l’inclusione, quindi la tolleranza, pur tra le contraddizione storiche, eccetera, eccetera, un’altra sposare la causa dell’esclusione che deifica le contraddizioni, che invece nel quadro della modernità occidentale sono puri e semplici incidenti di percorso.

Infine, per tornare a Max Weber, sul piano dei valori, al politico si chiede coerenza. Perciò, per capirsi: non si può essere al tempo stesso pro e contro l’Occidente. Quando Giorgia Meloni, dichiara di voler difendere gli interessi degli italiani, si pone decisamente contro la modernità liberale, che così diventa una opzione tra le altre.

Però, attenzione, se facesse marcia indietro tradirebbe i suoi valori, mostrando di essere incoerente. Come si può capire, i principi in politica contano e spesso assumono forza propria. Quindi chi sceglie la “politica come professione” – per dirla di nuovo con Weber – deve prestare molta attenzione a quel che dice.

Un’ultima notazione. Che altri partiti politici, nella stessa Europa, ragionino come Fratelli d’Italia non significa che si possa mettere ai voti, come una qualsiasi legge, un processo storico che ha avuto proprio nel principio di inclusività dei popoli il suo valore più nobile.

Qual è allora in senso di tutto questo discorso?  Che si rischia di ripetere lo stesso errore catastrofico degli illiberali nazionalismi novecenteschi. Probabilmente non sarà opera immediata di Giorgia Meloni. Però la responsabilità di avere rimesso in circolazione certe idee pericolose è tutta sua.

Carlo Gambescia

lunedì 24 ottobre 2022

A Palazzo Chigi torna il segreto: tra Cesare Borgia e Pulcinella

 


Nel momento in cui stiamo scrivendo non ci risulta che Giorgia Meloni, sempre pronta al tweet, ne abbia dedicato uno al suo incontro con Macron. È in rete un tweet molto generico di Macron (quindi l’incontro non deve essere andato molto bene), ma non della Meloni. In sintesi, Macron ha twittato, la Meloni no.

Il che fa riflettere sul quella che rischia di essere una svolta non solo comunicativa nella politica italiana. Un atteggiamento comunicativo che ha accompagnato, contribuendo alla vittoria, l’ascesa politica di Giorgia Meloni.

Si lascino da parte le polemiche antisinistra. Il botta e riposta per eccitare le piazze televisive e social. In realtà, sulle cose importanti,ad esempio la guerra di aggressione russa in Ucraina, si è scelta un’altra linea comunicativa.

Sul punto specifico si è optato per il silenzio. Attenzione non stiamo pensando alle grandi dichiarazioni di principio ma ai comportamenti conseguenti.

Innanzi tutto va detto che la tecnica del segreto, ammantata dal silenzio sui social, sembra riguardare non solo Giorgia Meloni, ma anche i suoi stretti collaboratori e altri membri del partito, evidente “avvisati”. La scelta di tacere sulla cose da fare rimanda a un atteggiamento comunicativo, che si può scomporre in due momenti: 1) di rassicurazione pubblica sui principi; 2) di sostanziale silenzio su ciò che si farà realmente.

Il che spiazza gli avversari politici, perché non hanno materia sulla quale intervenire. Di qui, anche per forti limitazioni di uomini e idee, una sinistra che annaspa e che alla fin fine, come sulla guerra russa di aggressione all’ Ucraina, cioè su un tema importante, ha tutto da guadagnare dai silenzi di Giorgia Meloni. Sono spazi interstiziali che aiutano il galleggiamento politico e che quindi  fanno comodo a tutti.

Per tornare all’esempio, la sinistra a parole appoggia l’Ucraina, mentre nei fatti si limita alle ridicole sanzioni economiche e alla vendita di armi che, per varie ragioni ( ad esempio obsolescenza e portata), non aiutano certamente Kiev a respingere i russi oltre i confini.

Quindi anche per la sinistra, va benissimo che Giorgia Meloni, per ora, si limiti soltanto a grandi dichiarazioni di principio. Si tratta di un atteggiamento che deriva ideologicamente dal pacifismo della sinistra.

Atteggiamento che però può consentire alla Meloni di andare a rafforzare, se non addirittura di assumere la guida, zitta zitta senza fare alcun rumore mediatico, della corrente politica filorussa. Di qui al rovesciamento delle alleanze de facto, attraverso ipocrite  forme di resistenza passiva, il passo potrebbe essere breve.

Esistono controindicazioni? Certamente. Una sinistra, veramente “atlantista”, come dice di ritenersi, dovrebbe invece non dare respiro a Giorgia Meloni sull’Ucraina. Perché, per ribadire la propria condivisione dei valori atlantici, Giorgia Meloni non si reca subito a Kiev per manifestare, anche simbolicamente, la propria scelta di campo? Questa è la domanda  da porre. E così dovrebbe essere per tutti  i grandi temi, per ora, elusi sul piano delle soluzioni pratiche.  Cosa significa, ad esempio,  che il caro bollette  è un obiettivo primario?  Esistono tanti metodi per affrontarlo. Dall'autarchia al libero mercato. Quali sono le soluzioni concrete scelte dal governo Meloni?  E così via...   

Va anche detto che la tecnica comunicativa di non far  capire all’avversario ciò che si vuole fare veramente, pur rassicurandolo sui principi, può rinviare al Principe di Machiavelli e alla grande scuola dell’inganno politico, che risale all’ Arthasastra di Kautilya, pensatore politico indiano. Oppure può rimandare all’impreparazione politica, nel senso che il silenzio indica che non si hanno le idee chiare, per varie ragioni, su ciò che si deve fare.

Il tempo rivelerà ciò che ha realmente in testa Giorgia Meloni. Premesso che la scelta di fondo resta sempre quella tra Machiavelli e la Commedia dell’arte. Tra Cesare Borgia e Pulcinella.

Comunque sia, nulla di buono per gli italiani. E per i valorosi amici ucraini.

Carlo Gambescia

domenica 23 ottobre 2022

Veneziani, la “cappa” e Giorgia Meloni

 Marcello Veneziani, che ora si è inventato la “cappa”, teme che il peso insopportabile (così li vede) dei diritti civili, finisca per avvolgere opprimere e addirittura modificare geneticamente Giorgia Meloni: tramutarla – non sia mai – in una specie di Fini 2. Il famigerato, Badoglio 2, come da antica retorica neofascista.

Quale fu la colpa di Fini? Di aver tentato, seppure in modo zoppicante, di introdurre alcuni elementi di liberalismo in una destra organicista e reazionaria che non ha mai digerito le moderne libertà individuali. Come prova la morale del regime fascista, all’insegna di un reazionario Dio, Patria e Famiglia. Triade che, quando si dice il caso, caratterizza, e dichiaratamente, Fratelli d’Italia, sul piano dei valori da difendere e rilanciare. Come pure il pensiero di Veneziani. Tema al quale ha addirittura dedicato un libro.

In realtà, tanto più Veneziani e la destra neofascista, culturale o meno, difendono la tesi – semplificando – del badoglismo culturale, quanto più si allontanano da qualsiasi punto di approdo liberale.

Pertanto, il vero miracolo – altra parola non ci sovviene – sarebbe quello di una conversione liberale di Fratelli d’Italia. Non per fare un piacere alla sinistra – per servire il “sistema”, questa la formula preferita – ma per fare un piacere a se stesi e  a quell’Italia che Giorgia Meloni dichiara di non voler dividere in nuovi guelfi e nuovi ghibellini.

Rifiutare il liberalismo, che nei suoi prolungamenti pratici, piaccia o meno, è anche libertà di sposarsi, non sposarsi, divorziare, fare o non fare figli, amare e vivere con chiunque si desideri, eccetera, eccetera, significa rifiutare la lezione del 1945. E per andare ancora più indietro quella delle grandi rivoluzioni liberali dei diritti succedutesi dal diciassettesimo secolo, a cominciare da quelle inglesi. Rivoluzioni gelosamente difese nell’ultima guerra mondiale contro la barbarie organicista del nazifascismo.

Che poi la sinistra abusi e legiferi troppo è un fatto. Ma ciò non deve mai implicare il rifiuto della modernità liberale in nome di un patriarcalismo premoderno come quello racchiuso nei valori di Dio, Patria e Famiglia, soprattutto se coniugati in chiave fascista: come obbligo di mettere al mondo più soldati possibili, pronti a morire in nome di Dio e di quell’ Idea di nazione in armi alla quale la destra neofascista non ha mai rinunciato.

In realtà, la cappa evocata inconsapevolmente da Veneziani è lo statalismo. Purtroppo sposato dalla sinistra e dalla destra. Veneziani, in odio alla sinistra, si rifiuta di guardare nel suo “giardinetto” culturale.

Detto altrimenti: il voler legiferare su tutto, fino a uccidere ogni libertà a colpi di leggi, regolamenti, circolari e divieti. Ovviamente, come ripetono destra e sinistra, lo si fa per il bene dei cittadini, che però così vengono trattati come bambini incapaci di intendere e di volere.

Il liberalismo è l’esatto contrario dello statalismo. Non è una cappa. Se proprio di cappa si deve parlare la si deve ricondurre all’individualismo protetto, di tipo welfarista, condiviso purtroppo dalla destra e dalla sinistra.

Per capirsi, si gioca a monopoli con i valori: la sinistra vuole obbligare le persone ad essere libere. Di qui una legislazione fin nei dettagli della vita personale, che culmina però nel suo contrario: nella tirannia burocratica. La destra, da par suo, vuole imporre valori retrogradi. Di qui una legislazione, che vuole cancellare la legislazione della sinistra. Quindi altrettanto dettagliata. Altra tirannia burocratica.

Perciò se la sinistra commette un errore (statalismo) la destra ne commette due (valori retrogradi + statalismo).In realtà l’autentica “cancel culture” è quella della destra, che vuole cancellare almeno quattro secoli di rivoluzioni liberali.

L’essenza della tentazione fascista, di cui spesso parliamo (*), è nel rifiuto della modernità liberale. Si tratta di umori, idee, atteggiamenti organicisti, che vanno oltre gli aspetti folcloristici del fascismo. Del resto si tratta di un’ impostazione ideologica, come Veneziani sa bene, che rimanda a Julius Evola e ad altri pensatori tradizionalisti minori del Novecento (ma si potrebbe risalire a de Maistre e Bonald, ai critici dell’Illuminismo), che scorgevano nel fascismo soltanto una modesta reincarnazione transeunte, dello spirito di una Grande Tradizione, nemica della modernità liberale.

Veneziani, conosce bene Evola, la Meloni probabilmente, molto meno, forse per nulla, però come dicevamo si tratta di suggestioni che tuttora circolano velenosamente in quell’ambiente.

Pertanto, Giorgia Meloni, dovrebbe fare l’esatto contrario di ciò che consiglia Marcello Veneziani: governare il meno possibile e lasciare che ognuno di noi, ovviamente nel rispetto della libertà altrui, faccia della propria vita ciò che desidera: laisser faire, laisser passer…

Giorgia Meloni ha dichiarato che vuole riformare la Costituzione? Perfetto, allora si cominci dall’articolo 1. Lo si riscriva così: “L’Italia è una Repubblica fondata sulla Libertà”.

Carlo Gambescia

(*) Qui ad esempio: https://cargambesciametapolitics.altervista.org/una-cultura-nemica-della-ragione/ .