venerdì 30 settembre 2011


Nuovo “Autunno Caldo” in arrivo?
Fisica dei “tagli” e dell’ obbedienza


.
L’autunno, tanto per cambiare, si preannuncia caldo. Sono infatti previste alcune grandi manifestazioni di protesta contro la politica economica del Governo, da tenersi a Roma. Cominceranno, sabato 1 ottobre, i militanti di Sel, seguiranno a un’incollatura, il 15 ottobre, gli Indignados italiani. Saranno cortei in stile greco e spagnolo? Chissà…
Sarebbe però sbagliato liquidare la protesta come segno di irresponsabilità politica. Resta infatti una questione fondo: è possibile conciliare un’austera politica di bilancio con la conservazione del welfare state? Se si comprimono, a causa dei tagli, i diritti sociali dei cittadini, su quali basi verrà “(ri)fondato” il consenso? Su un lavoro a rischio? Ma perché un cittadino privo di diritti sociali dovrebbe obbedire?
A queste domande, semplificando, la destra liberista risponde, celebrando il mercato, lo sviluppo e puntando sulla certezza di poter comunque controllare la protesta sociale (la “piazza”). Per contro, la sinistra, pur rivendicando il valore dei diritti sociali (in particolare l’ala radicale), sembra puntare anch’essa sul mercato, quale unico motore della crescita.
Due posizioni veramente deludenti. Ma sono anche pericolose sul piano delle possibili ricadute politiche e sociali? Possono provocare, per reazione, disordini incontrollabili? Difficile dire. Di sicuro, vanno escluse accelerazioni di tipo rivoluzionario. E per una semplice ragione: mancano i rivoluzionari di professione e una potenza “straniera” capace di incarnare, sorreggere e praticare un programma rivoluzionario. Ogni riferimento all’ex Unione Sovietica non è puramente casuale…
Restano allora due possibilità.
La prima, legata a una progressione del mercatismo. Pensiamo alla transizione, abbastanza rapida, verso una società di mercato allo stato puro, come auspicano i liberisti duri e puri.
La seconda possibilità, invece, è più in sintonia con le tradizioni italiane. Parliamo di un “barcamenarsi” (Bce e Fmi permettendo), tra welfare e mercato.
Per contro va escluso, almeno per ora, un ritorno alla società basata, per cosi dire, sul “grosso grasso” welfare. Il che però non è molto incoraggiante per il futuro della pace sociale,
Tuttavia, nell’immediato, molto probabilmente, non assisteremo a cambiamenti epocali. L’Occidente, Italia inclusa, nei prossimi due o tre anni (perché tali sembrano essere i tempi “immediati” della crisi), continuerà a oscillare tra welfare e mercato, seguendo le diverse tradizioni continentali e nazionali. Senza perciò minare - o almeno non del tutto - le basi morali dell’obbedienza sociale.
Perciò il vero problema resta quello di “non tirare troppo la corda”. Perché? Presto detto. La caratteristica fondamentale del sistema capitalistico è l’elasticità. Detto altrimenti: la sua grande capacità, storicamente dimostrata, di affrontare e superare le crisi economiche. Sulla quale però sarebbe meglio non confidare troppo. Ci spieghiamo subito.
Mentre in fisica, secondo la legge di Hooke, l’elasticità dei corpi consiste nel riprendere, una volta cessata l’azione della “forza deformante”, le dimensioni primitive, in sociologia resta difficile stabilire con precisione quando abbiano fine gli effetti di tali “forze” sul "corpo sociale", come nel caso delle forze, per giunta collettive, scatenate, per effetto di ricaduta, da una crisi economica. Non esiste un "dinamometro" sociologico, capace di misurare esattamente il grado di intensità delle “forze in campo”. Ora, come abbiamo accennato, gli economisti prevedono almeno altri tre anni di bassi livelli di sviluppo (Pil, eccetera). Inoltre, c’è molta incertezza sulla natura stessa della “forza deformante”, ossia sulle cause e modalità della crisi. Cui si aggiunge, come dicevamo, la difficoltà di stabilire, anche soltanto in teoria, il punto limite di resistenza, per ricaduta, di un “corpo sociale”, dove il “fattore obbedienza” ha basi morali, psicologiche, storiche e culturali... E non fisiche o matematiche… Pertanto, per il momento, la politica continuerà a barcamenarsi, mentre i cittadini, pur manifestando, continueranno ad obbedire. Ma fino a quando?

Carlo Gambescia

giovedì 29 settembre 2011

Il libro della settimana: Joseph Schumpeter, Passato e futuro delle scienze sociali, Liberilibri, pp. XXX-130, Euro 16,00. 


http://www.liberilibri.it/joseph-a.-schumpeter/175-passato-e-futuro-delle-scienze-sociali.html


Probabilmente l’aforisma più impietoso sugli economisti è di Joseph Schumpeter : « Prendete un pappagallo, insegnategli a dire “offerta e domanda” e avrete un’economista ». Per inciso, non si capisce perché nessuno finora abbia raccolto in volume i suoi aforismi, conservati nei diari e in leggendarie striscioline di carta. Per una scelta (?) si veda in appendice alla ghiotta biografia di Richard Swedberg.
Qui però desideriamo parlare non dei “pizzini” di Schumpeter ma di lui prima persona, e in particolare di un suo lavoro uscito nel 1915, finalmente disponibile in versione italiana: Passato e futuro delle scienze sociali (Liberilibri, pp. XXX-130, euro 16,00), ottimamente curato e tradotto da Adelino Zanini, già autore, come si dice in gergo accademico, di alcune pregevoli monografie sull’autore di Capitalism, Socialism and Democracy, solo per citare l’ opera forse più popolare dell’economista austriaco.
Perché, nonostante il poco invitante titolo accademico (Passato e futuro, eccetera) il volume merita di essere letto? Alcune ragioni scientifiche sono brillantemente messe in luce da Zanini nell’Introduzione, come a proposito degli elementi di continuità-discontinuità tra il saggio e le ricerche precedenti e successive. Ma c’è ne un’altra, decisiva. Quale? Il «liberalismo metodologico» di Schumpeter, per riprendere un espressione di Alessandro Roncaglia. Un taglio analitico, già percepibile in questo studio. Si tratta di una scelta di fondo che fa dell’economista austriaco, capace muoversi su piani diversi (storia, economia, letteratura, scienza), un anticipatore di molti dibattiti contemporanei sulle contaminazioni tra i saperi. Ma, su questo punto, lasciamo la parola a Schumpeter: «Se la scienza sociale fosse un tutto organico, le cui singole parti si inserissero in un unico piano, allora il nostro compito sarebbe più agevole di quanto esso non sia, il compito di mostrare cioè come l’operare odierno delle scienze sociali stia in relazione con quello di ieri e dove, nel prossimo futuro, possa probabilmente condurre il sentiero. Ma la scienza sociale è così poco una “architettura” del tutto, così come poco lo è la scienza nel suo insieme. È piuttosto un conglomerato di singoli elementi, che spesso si adattano molto poco gli uni agli altri, messi insieme da individui con differente talento e diverse intenzioni, che difficilmente si comprendono reciprocamente e mai interagiscono in modo pianificato». Ciò significa che « una disciplina si sviluppa, qui, sulla base di un’esigenza pratica, là poggiando sull’intuizione di uno spirito guida; in un caso, il metodo era o divenne così difficile che a coloro che volevano farlo proprio non rimase alcuna forza residua, nell’altro si sviluppò una disciplina a partire dalle prosaiche necessità dell’insegnamento. Il risultato è una bella confusione di forme spesso peculiari, in cui tutto scorre e si intreccia, in cui lo stesso problema è spesso l’oggetto di diverse discipline, che procedono da diversi punti di vista, per i quali sono vere cose diverse, e che si confrontano quasi solamente per combattersi».
Un contrasto così esplicito, da rappresentare il sale stesso della ricerca scientifica. Ne consegue una metodologia liberale, capace appunto di rinunciare a regole e divisioni rigide: «Perciò - prosegue Schumpeter - il tentativo di stabilire una regola e un ordine in questo caos falliscono; essi, di volta in volta, sono intrapresi sul versante filosofico e, principalmente per questo, il più delle volte, le linee di distinzione tra scienze sono atte a soddisfare le singole discipline - una qualificazione a doppio taglio! E quindi, in linea di principio, non c’è una scienza sociale, ma solamente le scienze sociali, i cui confini si intrecciano in modo molteplice» .
Tuttavia, il «liberalismo metodologico», in realtà anche per Schumpeter (implicazione sfuggita a Roncaglia), del tutto libero non è. Infatti, l’economista austriaco per giustificare il suo disordine-ordinato, invoca l’intervento, malgrado la denomini « logica delle cose», di una mano invisibile che regolerebbe il divenire delle scienze sociali, e più in generale l’agire umano: esiste, infatti, rileva Schumpeter, «una forza ineluttabile, che costringe i ricercatori nei loro ranghi e crea una linea di sviluppo come fenomeno reale , di certo non retta, ma alla fine comunque uniforme »: una « logica delle cose» che pare essere indipendente dal volere individuale e di gruppo (…). Di qui il paradosso (…) quanto meno conseguente appare un programma unitario di lavoro, tanto più conseguente si presenterà lo sviluppo che raffigura il panorama retrospettivo di lungo periodo (…) . Alla fine, ognuno, dopo che si sono esaurite le esagerazioni (…) si inserisce ad un certo punto nell’esistente».
Insomma, come giustamente nota anche Zanini, libertà sì, ma con giudizio, Per farla breve, secondo Schumpeter, al massimo della libertà, una volta in cima, si sostituisce il massimo del conformismo, e così via, a cicli alterni, lungo una sorta di accidentata orografia politica e sociologica. Come pare imporre la logica o mano invisibile delle cose umane. Ma per andare dove? Il pessimismo di Schumpeter è noto. Per lui la mano invisibile non sempre tende al bene. Mentre per gli economisti-pappagalli, vale tuttora il contrario.
Certo, anche nell’economista austriaco sempre di mano invisibile si parla. Ma senza happy end . Il che di questi tempi non è poco. Perciò, bentornato professor Schumpeter! Finalmente, fra tanti pappagalli, una vera aquila.

Carlo Gambescia

mercoledì 28 settembre 2011

Casini
Un "moderato perbene"…
.



Maliziosamente, si potrebbe sostenere che ognuno ha i nemici che si merita. Napoleone, ebbe William Pitt il giovane, Berlusconi, Pier Ferdinando Casini. Diciamo, nemico interno o quasi. Perché Pierferdy dichiara a ogni piè sospinto di rappresentare i "moderati perbene", mentre il Cavaliere quelli "permale"…
Ora, Berlusconi, avrà pure i suoi problemi giudiziari e le relative carenze di vitamina S (Senso dello Stato), ma pure Casini non scherza. Soprattutto quando apre bocca rischia sempre di farsi del male da solo. Il fatto poi che la stampa di centrosinistra, nonostante le stupidaggini, continui a vezzeggiarlo, come è accaduto con Fini, può essere spiegato facilmente: le coccole mediatiche dipendono dal trend, per ora in rialzo, delle trame parlamentari per far cadere il Governo.
Dicevamo che Casini si fa del male da solo. Ecco quel che ha dichiarato al “Messaggero”, (http://www.pierferdinandocasini.it/2011/09/07/siamo-sullorlo-del-baratro-serve-uno-sforzo-nazionale/ ), tra l’altro giornale di famiglia, Pierferdy è il genero dell’editore: « Sono convinto che bisogna parlare chiaro per dire che, in una fase drammatica del mondo, il Paese continua a vivere al di sopra delle proprie possibilità. È per questo che oggi tutti dobbiamo fare sacrifici. Quando si dicono queste cose, la reazione di solito è: ma i sacrifici li devono fare i ricchi, li deve fare la politica, noi non ce la facciamo ad arrivare a fine mese. La risposta è: purtroppo tutti, al loro livello e proporzionalmente, vivono al di sopra delle possibilità del nostro Paese».
Capito? Uno che guadagna mille euro al mese (grosso modo, 20 milioni di italiani) vivrebbe al di sopra delle possibilità? Ma Casini, lui, dove vive? E soprattutto come vive? Conosce il prezzo di un chilo di carne o di pane? Oggi anche un litro di latte costa caro. “Proporzionalmente” caro - e qui è giusto dirlo - rispetto ai mille euro di stipendio o pensione.
Altra perla: «Un bambino che nasce oggi ha fortunatamente una aspettativa di vita di 90 anni: bene, non è possibile che per 40 lavori e per gli altri 50 lo mantenga lo Stato». Morale: Pierferdy auspica che gli italiani lavorino almeno per 70 anni.
A parte che, attualmente, la durata media della vita degli italiani è intorno agli 80 anni, qui è il principio che non convince: allora se l’aspettativa di vita fosse di 180 anni, si dovrebbe lavorare per 140. Meglio morire da piccoli…
Abbiamo ricordato solo due perle di un’intervista in puro stile scudocrociato, magari di terza fila, dove viene contrabbandato come esempio di moderazione quel campionario di luoghi comuni, a partire dalle liberalizzazioni, che tanto piace alla gente che piace (tradotto: l’Italia che comanda l’economia). Certo, il leader dell’Udc, di suo, aggiunge una leccatina a giovani, donne e famiglie. Ovviamente, senza alcuna precisazione su dove prendere i soldi per gli investimenti sociali… Tanto che importa… Casini è un "moderato perbene"…

Carlo Gambescia

martedì 27 settembre 2011


Il ritorno di Ferdinand Tönnies


.
A chi consigliare la lettura di Comunità e società di Ferdinand Tönnies (1855-1936), tornato finalmente in libreria per i tipi di Laterza? Forse a una destra, come quella italiana, soprattutto se di estrazione neofascista, che pur dichiarandosi da sempre comunitaria, all’atto pratico continua a dividersi su tutto, come prova, da ultima, la parabola del solipsismo finiano.
Cerchiamo però di essere seri. Uno studio può essere definito classico quando la qualità dei problemi che ne hanno animato il compimento supera quella delle soluzioni abbozzate. Ora, sotto questo aspetto Comunità e società, pubblicato nella Germania di Bismarck, anno di grazia 1887, va considerato un classico. E non solo della sociologia. Esageriamo? No.
Tönnies non si limita a individuare due fondamentali categorie concettuali, quelle di Comunità (Gemeinschaft) e Società (Gesellschaft). Ma le concepisce quale esito di una insopprimibile dialettica sociale tra bisogno di appartenenza e volontà acquisitiva. Se si vuole: tra identità e società di mercato. O detto altrimenti: tra affettuosa solidarietà e brusco comprare in contanti. Quindi ragiona da sociologo e filosofo sociale insieme. Tönnies, perciò, va oltre la sociologia.
A suo avviso, tutte le formazioni sociali sono opera della volontà umana, e perciò suscettibili di modifiche e miglioramenti: la volizione umana, insomma, implica sempre l’azione. Tuttavia, pur ponendo la volontà alla base dell’agire, Tönnies la divide in volontà essenziale (Wesenwille) e volontà arbitraria (Kürwille). Ovviamente, chiediamo scusa al lettore per i paroloni in lingua tedesca…
In realtà, le due forme di volontà, benché entrambe dettate da desideri e aspirazioni, hanno origini e ruoli differenti. La volontà essenziale anima la vita comunitaria, mentre la volontà arbitraria il vendere e il comprare. Ciò significa, come osserva Tönnies, che le due volontà divergono nello stesso modo in cui « i sistemi di organi e gli organi singoli di un corpo animale » differiscono da un « utensile artificiale o una macchina costruita con determinata scopi» ( Ferdinand Tönnies Comunità e società, Edizioni di Comunità 1963, p. 167).
Di riflesso, la libertà che deriva dalla volontà essenziale è una libertà organica e funzionale alle affinità di parentela, luogo e spirito, affinità che regolano dall’interno la vita di un gruppo umano. Per contro, la libertà che discende dalla volontà arbitraria è artificiale, esterna e finalizzata alla soluzione di calcolati rapporti societari e di mercato. Ciò però non implica, come rileva Tönnies, che «nella vita sociale e storica dell’umanità , la volontà essenziale e la volontà arbitraria non possano essere in parte profondamente connesse, ed in parte affiancate e opposte». Infatti, nonostante «tutta la cultura» rischi sempre di trasformarsi «in civiltà sociale e statale (…) i germi sparsi [della cultura comunitaria, ndr] possono rimanere vitali, [cosicché, ndr] l’essenza e le idee della comunità possono di nuovo ricevere alimento e sviluppare una nuova cultura nell’ambito di quella che si estingue» (Ibidem, p. 295).
Tönnies ci insegna tre cose.
In primo luogo, l’analisi della vita sociale non può essere condotta in modo unilaterale, come invece oggi sostengono (e fanno) mercatisti e decrescisti: i primi, puntando sull’uomo economico, tutto mercato, calcoli e profitti; i secondi, deificando uomo ecologico, tutto comunità, bontà e natura. Due errori clamorosi.
In secondo luogo, alle interpretazione conflittuali ( comunità contro società di mercato e viceversa), evolutive ( dalla comunità alla società di mercato) o bucoliche (dalla società di mercato alla comunità), ne va affiancata, se non privilegiata, una di tipo, per così dire, solidale (comunità e società di mercato). Un approccio, quest’ultimo, che permetterebbe di capire adeguatamente quei comportamenti collettivi, frutto di impegno morale e sociale, che permeano la vita economica. Si pensi solo, per venire ai nostri giorni, al “capitalismo sociale di mercato”, al “terzo settore” e al complesso fenomeno del “volontariato sociale”.
In terzo luogo, vanno sempre respinte le mitizzazioni organiciste. Dal momento che fu proprio Tönnies , dopo l’ascesa al potere del nazismo, a mettere in guardia i lettori « nei confronti di interpretazioni equivoche e di applicazioni [ dei suoi concetti, ndr] che si credono intelligenti» (pref. all'ottava edizione, 1935, ed. it. cit., p. 41). Del resto, anche due pensatori poco teneri verso l’ organicismo politico e sociale, come Horkheimer e Adorno, nelle celebri Lezioni di sociologia, ammisero la distanza dei concetti tönniesiani di comunità e società da ciò che nel Terzo Reich ritorna come «contrapposizione propagandistica di “comunità di stirpe ariano-germanica” e “società giudeo-occidentale” » (Istituto per la Ricerca Sociale di Francoforte, Lezioni di sociologia, Einaudi 1979, p. 48, nota 24).
Resta però un punto debole nell’opera di Tönnies. E probabilmente perché il pensatore tedesco era un filosofo sociale piuttosto che della politica. A cosa ci riferiamo? In Comunità e società il “politico”, come decisione e contrasto amico-nemico, è praticamente ignorato. Infatti, nella comunità, proprio perché tale, ogni decisione al suo interno non può implicare alcuna divisione politica, mentre nella società la decisione viene demandata al mercato e il nemico trasformato in concorrente economico.
Che dire? Nessuno è perfetto, Tönnies compreso.

Carlo Gambescia

lunedì 26 settembre 2011

 Il Papa al Bundestag
Giustizia o Protezione? 


.
Da secoli i pensatori della politica, da Platone in poi, si accapigliano sul ruolo dell’uomo politico. E poi arriva, se ci si perdona la caduta di stile, tomo tomo chiatto chiatto, Papa Benedetto XVI… Che nel suo discorso al Bundestag ha ricordato che «servire il diritto e combattere il dominio dell’ingiustizia è e rimane il compito fondamentale del politico».
Molto nobile. Tuttavia, Pareto, che a dire il vero non frequentava le sacrestie, se tornasse tra noi risponderebbe così: «Certo, ma quale giustizia? Visto che ogni partito, di regola, difende la “sua” idea di giustizia?» Per fare un esempio storico eclatante: anche Lenin & Company volevano perseguire la più alta giustizia sociale. Per poi finire come tutti sappiamo…
Si dirà, quella di Benedetto XVI, è un’ idea regolativa: un principio, molto alto, cui ogni politico deve tendere, altrimenti - e citiamo dal Papa, a sua volta debitore di Agostino - se «togli il diritto, allora che cosa distingue lo Stato da una grossa banda di briganti?» Però, anche qui, Pareto non sarebbe d’accordo. Perché, come ci ha insegnato, anche i criminali non possono non seguire alcune «regole di giustizia» nella spartizione del bottino, pena la dissoluzione immediata della banda.
Sociologicamente parlando, la giustizia, comunque declinata, è nel gruppo sociale un fattore di coesione culturale. Ma non è il solo, dal momento che l'esistenza materiale di ogni gruppo è determinata da quattro fattori: militare, economico, demografico, geografico. Fattori che, ovviamente, interagiscono con la cultura. Ma in assenza dei quali, resta veramente difficile prevedere, o solo scorgere, qualsiasi prospettiva di sviluppo culturale all'interno di un gruppo sociale. Diciamo allora, e con il massimo rispetto verso il Papa, che l’uomo politico deve avere un solo scopo: quello di proteggere, materialmente, la comunità che rappresenta, nel senso di difendere in primis la vita di coloro che la compongono. Di riflesso, la protezione non può non fare a pugni con la giustizia, soprattutto con quella esterna: tra comunità differenti. Ad esempio, per alcuni, cattolici-progressisti in testa, è giusto accogliere gli stranieri. Il che è nobile, e per certi aspetti condivisibile. Ma fino a quale “soglia”? Ecco il punto. Si pensi al microcosmo Lampedusa e ai gravi incidenti di questi giorni. La decisione di procedere al rapido rimpatrio degli immigrati clandestini in sovrannumero poteva essere differita ulteriormente? No. Si è trattato, insomma, di un provvedimento protettivo, per quanto in ritardo, nei riguardi degli isolani.
Ovviamente, una comunità, dove al suo interno regni l’ingiustizia sociale, va protetta da coloro che eventualmente ne abusino. Ad esempio, la lotta all’evasione fiscale è un ottimo esempio di come proteggere la comunità che paga le tasse da coloro che invece le evadono. E di fare al tempo stesso giustizia.


Concludendo, controllare i flussi migratori e far pagare le tasse a tutti sono due esempi dei compiti protettivi che ogni politico è chiamato ad assolvere. Inoltre, il fatto che protezione e giustizia talvolta possano combaciare va considerato un valore aggiunto. Certo, importante. Però, prima di tutto, e con buona pace di Sua Santità, viene la protezione della comunità.

Carlo Gambescia

venerdì 23 settembre 2011

Oggi pubblichiamo, e ne siamo onorati, il post dell’amico Romano Vulpitta. Cosa aggiungere? Beh, che il “pentimento” dell’Omero pontino, cui accenna dispiaciuto Vulpitta, era prevedibile. Purtroppo, per dirla con Hippolyte Taine, “niente è più pericoloso d’un grande pensiero in un piccolo cervello”.

Buona lettura. (C.G.)

.

Da Canale Mussolini a Viale Togliatti?

di Romano Vulpitta




.

Sono stato sempre un ammiratore di Pennacchi, sin dal primo libro che ho letto, Palude. Lo considero un po’ il Céline italiano. A differenza di quelli che, con risultati poco convincenti, scimmiottano il grande scrittore francese, Pennacchi non lo imita, ma è céliniano nel modo di essere e di scrivere, con quel tono colloquiale, come se stesse a fare un racconto in osteria, e con quello stile iroso. In più ha quell’umorismo freddo che è tutto italiano. A quello che ci racconta, è nato in una società in cui tutti erano più o meno “fasci” e nella prima gioventù sarebbe stato missino. A sentir lui questa era la vita a Latina, o meglio Littoria come lui continua a chiamarla. Da bambini tutti in Chiesa, da ragazzi nelle sezioni del MSI. Dopo i venti anni, poi, si operavano le scelte politiche. E lui ha fatto la sua scelta. Non c’è da rimproverarlo. Ma, anche per l’ambiente in cui è stato formato, se con la testa ha fatto le sue scelte, con il cuore è rimasto “fascio”. Non è difficile capirlo leggendo le sue opere. E se non fosse così, perché mai avrebbe scritto sulle città di Mussolini e non quelle, per esempio, di Stalin?
Sono perciò rimasto sorpreso – oggi sembra che si dica basito, parola che non conosco perché non c’è nel mio vocabolario – quando ho scoperto che, in un’intervista rilasciata recentemente a “la Repubblica” il Pennacchi deplora che quelli di Forza Nuova vanno a fare “i presenti” al cippo eretto in memoria di Aldo Bormida perché avrebbero letto in un suo libro che è stato il primo caduto della Repubblica Sociale sul fronte di Nettuno. La cosa non piace al Pennacchi perché a suo avviso quello di Bormida è uno spirito che cerca la pace. Se lo dice lui sarà così, ma per quanto ne so io, chi andava in Repubblica non lo faceva certo per cercare la pace. E poi, a giudicare dai sopravvissuti, i “presenti” (in effetti si dovrebbe scrivere “i Presente!”) che Pennacchi depreca, dovrebbero risultare graditi a quegli spiriti. Comunque passi. Quello che mi ha dato fastidio è stata la conclusione del nostro: “Certe cose non avrei dovuto scriverle”. Questa non me la aspettavo proprio. Tu quoque Pennacchi!.. Anche tu ti sei pentito? Va bene che il premio Strega val bene un repubblichino, ma il pentimento ahimé, è un piano inclinato Non andrà a finire che per farsi perdonare Canale Mussolini, Pennacchi scriverà Viale Togliatti?
Nota grammaticale. Ho scritto “Tu quoque Pennacchi” perché ho tradotto maccheronicamnete in latino Pennacchius il nome dello scrittore ed i nomi in –ius fanno –i al vocativo.
Nota filosofica. Non ho contestato l’affermazione di Pennacchi sulle preferenze dello spirito di Aldo Bormida, perché mi sono ricordato di un apologo Zen che tradotto in termini moderni diventa così:
Gran Maestro Pennacchi: "Aldo Bormida è uno spirito che cerca la pace."
Discepolo: "Tu non sei lo spirito di Aldo Bormida. Come fai a sapere che cerca la pace?"
Gran Maestro: "Tu non sei me. Come fai a sapere che non so quello che cerca Aldo Bormida?”
Naturalmente questo funziona finché i discepoli sono rispettosi. Quando invece si fanno furbi, l’apologo continua così:
Discepolo maleducato: "Maestro, questa volta l’hai sparata grossa."
Gran Maestro Pennacchi: "Tu non sei me, come fai a sapere che l’ho sparata grossa?"
Discepolo maleducato: "Tu non sei me. Come fai a sapere che non so che l’hai sparata grossa?"
Questa è una delle ragioni per cui lo Zen non ha attecchito in Italia: i maestri avrebbero avuto una vita troppo difficile.
Nota letteraria. Come molti, mi chiedevo cosa avrebbe fatto Pennacchi dopo aver scritto Canale Mussolini, che, essendo una ricicciatura delle sue opere precedenti, ha esaurito tutto quello che aveva da dire. La risposta viene dall’intervista di cui sopra. Adesso riscrive le sue opere, cominciando da Palude.

.

Romano Vulpitta
.


Romano Vulpitta è  nato a Roma nel 1939; dopo un periodo di servizio nella carriera diplomatica, ha insegnato per oltre trent'anni cultura comparata e altro all'Universita Sangyo di Kyoto. Adesso, da pensionato, vagabondeggia tra Italia e Giappone. Probabilmente, è l’unico studioso italiano ad aver scritto in giapponese una biografia di Mussolini.

.

giovedì 22 settembre 2011

Il libro della settimana: Gian Franco Lami (a cura di), Lo stato degli studi voegeliniani. A cinquant’anni dalla pubblicazione di Ordine e storia, Franco Angeli 2011, pp. 278, Euro 27,00 .


http://www.francoangeli.it/



Sfogliamo le pagine di questo volume con una certa emozione… Intanto, il suo titolo, molto accademico, Lo stato degli studi voegeliniani. A cinquant’anni dalla pubblicazione di Ordine e storia (Franco Angeli 2011, pp. 278, euro 27,00), non deve ingannare. Perché il pensiero di Eric Voegelin rispecchia una ricerca capace di andare oltre gli schemi imposti dal conformismo culturale universitario. Parliamo di una grigia cortina in finto velluto, tuttora caratterizzata da quel divieto di fare domande scomode a un potere intellettuale di derivazione positivista e marxista, a suo tempo rilevato e criticato da Voegelin.
Probabilmente, siamo davanti al filosofo politico più intrigante del XX secolo. Voegelin nasce a Colonia (1901), studia Legge e Scienze Politiche a Vienna, dove inizia la sua attività di docente. Esule dal 1938 negli Stati Uniti, per sfuggire alle persecuzioni nazionalsocialiste. Vi torna nel 1958, per insegnare a Monaco e rifondarvi la Facoltà di Scienze Politiche. Muore negli Stati Uniti nel 1985, dove era ritornato a risiedere dal 1969. I suoi Collected Works, constano di ben trentaquattro volumi ( Louisiana State University Press). E spaziano dalla filosofia della storia alla filosofia politica. Gregor Sebba, studioso che lo conobbe a fondo, lo ricorda così nei suoi anni viennesi: « Voegelin aveva fama per la diabolica erudizione e per la capacità di decollare in verticale su qualunque argomento e sparire in pochi minuti in una ionosfera teoretica, lasciandosi dietro solo una scia di vaghe tracce: un giovane magro, occhi acuti, dietro gli occhiali capelli biondi e un naso alla Pascal dalla curva metafisica».
Dicevamo all’inizio, emozione. Infatti, il volume è curato da Gian Franco Lami, prematuramente scomparso nel gennaio di quest’anno. Docente universitario, fondatore e animatore della Scuola Romana di Filosofia Politica, Lami ha dedicato a Voegelin un’importante monografia, uscita nel 1993 (Introduzione a Eric Voegelin, Giuffrè Editore), impegnandosi, tra l’altro, anche a diffonderne il pensiero, con scritti e traduzioni, negli ambienti culturali e scientifici italiani.
Lo stato degli studi voegeliniani, raccoglie gli atti di un convegno organizzato nell’ottobre 2007, tra Roma e Alatri, dalla Facoltà di Scienze Politiche della Sapienza: un consesso fortemente voluto da Lami e da lui curato fin nei minimi dettagli. Perciò il volume che abbiamo tra le mani rappresenta il prezioso ed estremo lascito di un eccellente studioso e organizzatore di grandi eventi scientifici. Ma anche di un amico… Il che spiega la nostra emozione nello sfogliarne le pagine.
Il testo raccoglie, oltre a un notevole saggio di Lami, i contributi di studiosi voegeliniani, come dire, sparsi per il mondo. Solo per fare qualche nome: Paul Caringella, Clemens Kauffmann, Jürgen Gebhardt, Andrei Marga, nonché, tra gli altri, i nostri Giuliana Parotto, Francesco Saverio Festa, Franco Eugeni e Marco Santarelli
Scrive Lami nella “Premessa”: « Vorrei concludere. Additando a vanto delle Istituzioni coinvolte, e dei Partecipanti di aver contribuito a un evento rilevante, non solo per il pensiero filosofico italiano. La testimonianza recata a questo congresso da tanti e autorevoli esperti di Voegelin, della sua filosofia della storia, della sua filosofia dello spirito e della coscienza “aperta” è la miglior prova della valide sollecitazioni che l’autore di Order and History riesce ancora a fornire (…). La sua curiosità intellettuale e la serietà delle sue analisi indicano un sentiero di ricerca ancora non esaurito, che si fa esemplare, non solo per chi simpatizza con le tematiche di un’antropologia filosofica del tipo “classico”, ma per chiunque ami confrontarsi con le ragioni del nostro essere nel Mondo. Bisogna riconoscere a Eric Voegelin la capacità di aver colto con grande efficacia alcuni dei tanti nodi, che collegano la nostra medesima generazione ai significati portanti dell’esistenza umana. E talune delle domande, lanciate dalle sponde dei suoi lavori ai suoi molteplici interlocutori, aspettano ancora una risposta ». Difficile dire meglio.
Il pensiero filosofico di Voegelin è animato dalla ricerca della sintonia, tra un ordine interno all’uomo, spirituale, e un ordine esterno, istituzionale. Si tratta di un nesso, spesso sottile, che si concreta nei vari sistemi storici. I quali, però, in ultima istanza, non rinviano mai alle istituzioni reali (o comunque non solo), ma a una “fame” di trascendenza metastorica, che spinge l’uomo ad alzare gli occhi verso il Cielo.
Il che però non sempre accade. Infatti, secondo Voegelin, il principale limite dei moderni resta quello di tenere gli occhi costantemente rivolti verso il basso, nella speranza di costruire il Paradiso sulla Terra… Di qui, però, guerre, rivoluzioni, deificazione dei capi politici. Ma anche, come avviene oggi, la celebrazione, oltre ogni misura, di istituzioni economiche come il mercato. Nei cui misteriosi editti molti scorgono speranzosi la salvezza terrena… Poveri illusi.
Come uscirne però? Voegelin ritiene che solo dallo studio dell’ordine nella storia possa emergere una metastoria dell’ordine, come susseguirsi delle diverse strutturazioni storiche e sociali di un equilibrio, non sempre perfetto, tra mondo interiore, esteriore e delle idee eterne.
Conoscenza come virtù? Certo. Ma anche, se non soprattutto, come profonda volontà interiore, perché il filosofo deve trasformasi in attore storico. Ovviamente, non nel senso marxiano-positivista del cambiare il mondo direttamente, ma in quello di un intenso lavorío su stessi. Per poi puntare, discretamente, sulla forza della propria esemplarità spirituale.
Insomma, una bella lezione, ma anche una sfida ideale ed esistenziale. Chi saprà raccoglierla?

Carlo Gambescia

mercoledì 21 settembre 2011


Ricordo di Walter Maturi   
Storico di un Risorgimento vero, 
non immaginario



Finora, dal punto di vista editoriale, le celebrazioni per i 150 anni dell’Unità d’Italia hanno prodotto una massa magmatica di pubblicazioni. Si è parlato del Risorgimento, condendolo in tutte le salse: reazionarie, progressiste, unitarie, antiunitarie, eccetera…
Peccato - veramente peccato - che invece nessuno abbia pensato (Einaudi per primo) di ripubblicare quel gioiello storiografico delle Interpretazioni del Risorgimento. Lezioni di storia della storiografia, uscito per la prima volta nel 1962 nell' importantissima Biblioteca di cultura storica. Un grande libro (anche in senso letterale, 800 pagine…) in cui vennero raccolte, a cura di Ernesto Sestan, Rosario Romeo e altri allievi, le lezioni universitarie (1945-1960), tenute da Walter Maturi, scomparso nel 1961 non ancora sessantenne (*).

Parliamo di un eccellente storico liberale, attento però al politico e alle dure repliche della storia (sue molte voci del famoso Dizionario di Politica a cura del Pnf). Tuttavia, per semplificare, si tratta di una figura più vicina alla lezione di Croce che a quella Mussolini… Uno storico comunque aperto alle influenze più varie: da Gentile (con il quale conseguì una seconda laurea in filosofia) a Schipa, Volpe e Salvemini. Per una sintesi della sua opera rinviamo al bel ritratto di Giuseppe Galasso (Storici italiani del Novecento, il Mulino 2008, pp. 135-189).

Il libro di Maturi spazia da Le Rivoluzioni d’Italia (1769-1770) di Carlo Denina, dove si preconizza la prossima rinascita politica, alla Storia d’Italia dal 1861 al 1958 di Denis Mack Smith: storico britannico, come è noto, assai critico verso l’ Italia post-Risorgimentale. Che da Maturi viene però argutamente punito, come qui: « Una carica a fondo il Mack Smith fa contro le imprese coloniali dell’Italia. Fatto il bilancio storico di tali imprese, possiamo dire che all’Africa abbiamo dato più che preso. Sarebbe stato meglio che i denari spesi in Africa fossero stati spesi per le zone arretrate del nostro paese (Basilicata, Calabria, Sardegna, ecc.). Tuttavia le prediche all’astinenza coloniale fatte da un inglese, sia pure retrospettivamente, hanno la stessa efficacia che le prediche all’astinenza dai cibi e dai vini prelibati fatte da quei frati belli e grassi, col naso rosso, di cui narravano le gesta piacevolmente i nostri novellieri del Trecento e del Cinquecento» (p. 691).

Non male, soprattutto se si pensa alla malevola scomunica - Maturi era però già scomparso da un pezzo - abbattutasi sulle spalle di Renzo De Felice, proprio ad opera di Denis Mack Smith. Il quale accusò De Felice, subito seguito a ruota dalla storiografia di sinistra, di avere riabilitato la buonanima del Cavalier Benito Mussolini.

Perciò un volume come Interpretazioni del Risorgimento andrebbe ristampato e riletto, soltanto per l’aria di libertà e indipendenza storiografica che vi si respira. La stessa che si può ritrovare nell’ opera storica del grande Renzo De Felice.

E qui va fatta un’osservazione più generale. Esistono, da sempre, due modi di fare storiografia: o ricostruire le cose come sono andate o processare gli eventi in chiave ideologica.
Purtroppo, dalla seconda impostazione, di regola, nasce la retorica della rivoluzione tradita. Che, attenzione, non parte mai dall’analisi delle condizioni di fatto, ma da quella delle (presunte) condizioni ideali. Ad esempio, secondo le famose tesi di Gramsci sul Risorgimento italiano, a suo tempo “smontate” da Rosario Romeo, e prima ancora da Walter Maturi, l’Italia (rivoluzione mancata) avrebbe dovuto fare come la Francia (rivoluzione riuscita) del 1793 (il ’93 giacobino non l’89 monarchico-costituzionale…). Salvo poi però incappare in qualche Napoleone italico: conseguenza, su cui Gramsci aveva amabilmente glissato. Del resto, da buon comunista gli piacevano le maniere forti di Lenin…
E qui cade l’asino, perché in Italia i seguaci dell’idea del Risorgimento tradito (sorvolando sulle loro buone o cattive intenzioni) sono sempre stati o fascisti o comunisti, con il piccolo complemento storico di quei confusionari dei liberalsocialisti, a partire da Gobetti, un liberale rosso acceso quasi sconfinante nella falce e martello, cui si deve il copyright dell’unificazione italiana senza eroi.
In realtà, il vero punto dell’intera questione è che fascisti, comunisti e perfino liberalsocialisti (si pensi alla pesante pedagogia politica giacobino-azionista ) con la scusa della retorica della rivoluzione tradita del Diciannovesimo secolo, hanno puntato nel Ventesimo sull’autoritarismo politico, anzi, totalitarismo nel “caso comunista”. Perché gli italiani, come allora si riteneva, avevano bisogno, per trasformarsi in uomini nuovi, di un pesante busto di gesso politico.
Il buon Augusto Del Noce - e prima di lui Noventa - asserì, più di quarant’anni fa, che per tornare a respirare politicamente ci si doveva liberare della mentalità fascista e antifascista. Dal momento che, a suo avviso, l’aspetto più pericoloso della mentalità antista (anti-questo, anti-quello…) era di criticare il Risorgimento-di-fatto in nome di un Risorgimento-ideologico (o inventato). Insomma, di criticare il fatto ( le cose come erano andate...) in base alla norma ideale (come invece dovevano andare...). Per poter così forgiare, come accennato, il famigerato “Italiano Nuovo”. Altra ragione, perciò, per rileggere Walter Maturi: storico di un Risorgimento vero,  non immaginario.


Carlo Gambescia

martedì 20 settembre 2011


Gli scontri  di mercoledì a Montecitorio
Conflitti sociali, istruzioni per l’uso


.
Gli scontri di mercoledì scorso davanti a Montecitorio, al di là della rilevanza politica o meno del gruppetto di facinorosi aderenti ai Cobas, impongono una riflessione sull’idea stessa di conflitto sociale. Può esistere un’economia capitalistica libera dai conflitti sociali? No. La società capitalistica è per eccellenza conflittuale. Anzi, si può dire che il conflitto, come fattore di mobilità, di crescita economica e di redistribuzione, sia la sua vera forza. Ovviamente, se contenuto entro limiti fisiologici.
Sotto questo profilo va notato, che rispetto all’inizio del Novecento, i conflitti sul lavoro nel mondo di “antica” industrializzazione (soprattutto in Europa Occidentale) si sono ridotti di molto, senza per questo scomparire.
Ad esempio, il decennio 1968-1978, oggi liquidato dai mercatisti come cattivo esempio di “sindacalizzazione”, registrò un numero di conflitti (scioperi, occupazioni, serrate) decisamente inferiore rispetto al primo quindicennio del XX Secolo. Per non parlare, con riferimento all’Italia, del cosiddetto “Biennio Rosso” (1919-1920), davanti al quale il Sessantotto “operaio” rischia di apparire una passeggera e lieve increspatura sociale.
Da questo punto di vista, sia detto per inciso, anche gli scontri di Montecitorio, cui accennavamo, sono veramente poca cosa. Tuttavia, come vedremo, non vanno sottovalutati.
Ora, ci sarà pure una ragione capace di spiegare perché la conflittualità si sia così ridotta rispetto all’inizio del Novecento?
Certamente. E, per dirla in sociologhese, si chiama istituzionalizzazione del conflitto sociale. In che modo la si è attuata? Creando un sistema di contrattazione collettiva e di sicurezza sociale. Un formula costosa ma necessaria. E non tanto per eliminare il conflitto quanto per “addomesticarlo” e renderlo produttivo sotto il profilo sociale e di riflesso economico.
In questo senso, il welfare state ha rappresentato e rappresenta il punto di arrivo del processo di istituzionalizzazione. Perché ha assunto il valore di una conquista fondamentale non solo per il lavoratori, ma per il bene stesso del capitalismo.
Di conseguenza, pensare di poter eliminare la conflittualità sociale per sempre, piegando i sindacati, come pontificano i neo-liberisti, o umiliando le rappresentanze dei datori di lavoro, come predica certo sindacalismo irresponsabile, significa una sola cosa: ignorare la storia del capitalismo. E in particolare del capitalismo novecentesco, soprattutto quello europeo, più sociale. Il cui merito - ripetiamo - resta di aver accettato il sindacato come interlocutore e fattore di crescita sociale.
Pertanto, qualsiasi tentativo di “tornare indietro”, in un senso o nell’altro, rischia soltanto di far ritornare la conflittualità sociale a livelli ottocenteschi. Facendo così il gioco di coloro che a destra e sinistra puntano sul tanto peggio tanto meglio.
E qui va di nuovo ricordato che la politica, come decisione pubblica, ha giocato nel Novecento un ruolo fondamentale: quello di favorire la contrattazione collettiva e l’inserimento del lavoratore nel tessuto societario, attraverso l’introduzione di un esteso sistema di diritti politici, economici e sociali.
Ciò significa che senza un potere politico “terzo” ( però, non nel senso del “guardiano notturno” smithiano), capace di garantire la triplice cittadinanza (politica, economica e sociale), temperando le esigenze dei lavoratori e delle imprese, si rischia il conflitto sociale generalizzato. Dalle cui ceneri, come insegna la storia, potrebbero materializzarsi i paurosi fantasmi dell’ “autoritarismo” e del “rivoluzionarismo”.
Perché in politica una sola cosa è certa: il vuoto non esiste. Quando le élite politiche fanno un passo indietro il potere rischia sempre di essere afferrato da altre élite: imprenditoriali, sindacali, militari, rivoluzionarie, controrivoluzionarie, democratiche, antidemocratiche, e così via.
Pertanto gli incidenti di Montecitorio, come altri scontri di piazza avvenuti negli ultimi tempi nel resto d’Europa, pur se di intensità ridotta rispetto al trend novecentesco dei conflitti sociali, possono costituire il classico campanello di allarme. Il primo passo, magari piccolo, verso una nuova fase di gravi rivolgimenti sociali.
La storia, come è noto, non si ferma mai. Si può però provare a plasmarla, influendo, almeno per un certo tempo, sul suo cammino. Naturalmente, il capitalismo, anche quello sociale di mercato, come tutte le opere umane non è eterno. Il che, tuttavia, non offre alcuna risposta a una questione fondamentale, antica come il mondo: che garanzie abbiamo sulla bontà del “sistema” che verrà dopo il capitalismo? Nessuna.
Perciò, e pensiamo in particolare ai privatizzatori ad oltranza, oggi così numerosi a destra e sinistra, perché farsi del male da soli, dando fuoco alla miccia?

Carlo Gambescia

lunedì 19 settembre 2011

Autoriforma dei partiti 
Mito o realtà?





Le proposte di ammucchiate o tecno-ammucchiate di questi giorni fanno sorgere molti dubbi sulla capacità dei partiti italiani di autoriformarsi o comunque di intercettare i bisogni della società. E in particolare, pensiamo al Centrosinistra disposto a tutto, anche ad affossare un embrione di bipartitismo, pur di far cadere Berlusconi.
Tuttavia, per capire come stanno realmente le cose, serve un po’ di teoria. È perciò giunto il momento, come il lettore ben sa, di allacciarsi le cinture.
.
Fazioni, parti, partiti…
Chi dice partito, dice parte. Infatti, dal punto di vista sociologico, i partiti, come espressione di una fazione politica e strumento a difesa di particolari individui, ceti o classi sociali, sono sempre esistiti. Basta scorrere qualsiasi manuale di storia antica e medievale.
Negli ultimi due secoli però, i partiti moderni, le cui origini istituzionali risalgono allo sviluppo della monarchia costituzionale inglese e alle grandi assemblee rivoluzionarie francesi, si sono trasformati in strumenti rivolti alla rappresentazione legale e funzionale di ideologie e interessi, nonché in istituzioni preposte alla selezione del personale politico. Il che ha rappresentato un oggettivo passo in avanti, rispetto alle antiche e sanguinose lotte tra fazioni avverse. Tuttavia, il Novecento ha visto nascere non solo il partito democratico di massa ( si pensi ai grandi partiti socialisti), ma anche la partitocrazia (come nell’ Italia della Prima Repubblica), nonché il partito unico ( fascista, nazionalsocialista, comunista sovietico). Perché?
.
Il partito come gruppo sociale
Non bisogna mai dimenticare che il partito moderno è un gruppo sociale prima che politico, e come ogni gruppo sociale, riflette due “tendenze” sociologiche fondamentali: in primo luogo, “tende” a svilupparsi a danno di altri gruppi sociali ; in secondo luogo, “tende” a costituirsi, al suo interno, secondo criteri gerarchici, perché laddove c’è organizzazione c’è “gerarchizzazione”. Entro certi limiti funzionali, sia lo sviluppo a danni di altri, sia la tendenza oligarchica sono fenomeni fisiologici, socialmente accettabili. Il che però non significa che ogni sistema sociale non abbia un suo punto limite, o di non ritorno. In Russia, il partito comunista, rimasto al potere per più di settant’anni è imploso, dopo aver raggiunto i limiti sociali di tollerabilità e funzionalità. I partiti fascisti e nazionalsocialisti, sconfitti sul campo, attraverso una guerra, hanno trovato proprio nella guerra il proprio punto limite. In Italia, la Democrazia Cristiana si è dissolta in seguito a intollerabili (e disfunzionali) scandali politici.
.
Partiti e "regolarità” sociologiche"
Pertanto, si deve tenere conto della natura sociale dei partiti. Di qui - scusandoci in anticipo per il tono professorale - una regolarità o costante sociologica: Una società sarà tanto meno vincolata ai partiti quanto più sarà pluralista e ricca di gruppi sociali alternativi, o comunque in grado di contenere l’eccessivo sviluppo esterno dei partiti. Quanto alla tendenze oligarchiche (altra regolarità sociologica), si tratta di fenomeni interni a ogni gruppo sociale, che non possono essere eliminati, ma soltanto mitigati attraverso una veloce rotazione delle élite al comando. Rotazione che può essere facilitata dal grado di apertura di un partito al resto della società. E in particolare dalla sua natura dottrinaria: dal momento che quanto più un partito è ideologico tanto più resta chiuso agli apporti esterni.
Ovviamente, esiste anche il rischio contrario: che partiti fondati solo sugli interessi, possano essere colonizzati, a loro volta, da altri gruppi sociali, ad esempio di formazione economica o tecnica. Insomma, è sempre un problema di equilibrio storico e sociale.
.
L’Italia Repubblicana
In Italia, per ragioni storiche e culturali legate al tardivo sviluppo politico ed economico, che qui non possiamo approfondire, i partiti non potevano non trasformarsi in forze, spesso, colonizzatrici di una società priva di un vero tessuto civile “nazionale”. Di qui, soprattutto nell’Italia Repubblicana, il succedersi di ondate “movimentiste” di segno oppositivo. Semplificando al massimo, possiamo distinguerne quattro: 1) il movimento comunista nell’immediato dopoguerra; 2) i movimenti sociali, anche sindacali, legati alla contestazione sessantottina; 3) Mani pulite (1992-1994); 4) i movimenti antipolitici, sviluppatisi nell’ultimo decennio, a partire dal cosiddetto grillismo.
Qual è vero il punto della questione? Che non vanno assolutamente demonizzati i movimenti sociali. E in un senso preciso: reprimere non basta. Al movimento devono però sostituirsi, per gradi, le istituzioni. Detto altrimenti: le classi dirigenti, se non vogliono essere spazzate via, e talvolta in maniera violenta, devono favorire l’edificazione di società più solidali e pluraliste, certo seguendo i “parametri” imposti dal tempo e dalle risorse economiche. Non esistono, infatti, società giuste e solidali “in assoluto”, ma solo “in senso relativo”, ossia in base ai bisogni, come dire, legati al momento storico.
.
Conclusioni ( o quasi)
Il problema, ripetiamo, prima che politologico è sociologico. La dura protesta dei movimenti sociali verso la democrazia rappresentativa, incarnata dai partiti, di regola, segnala il raggiungimento del punto limite di tollerabilità e funzionalità sociali. Al comunismo che criticava la legittimità dei partiti post-resistenziali (senza il Pci, insomma), si rispose con la “ricostruzione” sociale ed economica degasperiana; al Sessantotto, con un mix di riforme sociali ed economiche, a partire dallo Statuto dei Lavoratori; a Mani Pulite, con le riforme politiche, come l’introduzione del bipartitismo.
Ora, concludendo la lunga galoppata “teorica”, il Centrosinistra vuole seppellire proprio il bipartitismo. Ma le ammucchiate pure e semplici, o le tecno-ammucchiate composte di soli tecnici ed esperti, lontanissimi per mentalità e formazione dalla gente comune, possono favorire il pluralismo e la solidarietà sociali?
Carlo Gambescia

venerdì 16 settembre 2011

Nuovi lussi...
Il diritto alla pensione secondo il professor Ferrera



«I diritti sono una cosa seria, ma proprio per questo bisogna riconoscere che non sono tutti uguali. Alcuni (quelli civili e politici) tutelano libertà e facoltà dei cittadini e sulla loro certezza non si può transigere. I diritti sociali sono diversi: conferiscono spettanze, ossia titoli a partecipare alla spartizione del bilancio pubblico, che a sua volta dipende dal gettito fiscale e dal funzionamento dell'economia. Dato che al mondo non esistono pasti gratis, i diritti sociali non possono essere considerati come delle garanzie immodificabili nel tempo. Il loro contenuto deve essere programmaticamente commisurato alle dimensioni della torta di cui si dispone e all'andamento dell'economia e della demografia» (*). Così Maurizio Ferrera, professore di Politiche sociali e del lavoro presso l’Università di Milano, nonché editorialista di punta del “Corriere della Sera”, giornalone favorevole, e da anni, a privatizzare anche l’Arma dei Carabinieri…
Due osservazioni.
In primo luogo, un diritto o è tale o non è. Il riconoscimento di un diritto da parte dell’ordinamento o c’è o non c’è. Non può andare e venire secondo necessità politiche. Non è come una squadra di calcio, magari di provincia, che tutti gli anni rischia di retrocedere in serie B. È vero che il diritto ( e dunque i diritti…), sociologicamente, è una forma organizzativa che riflette scelte di tipo politico, scelte redistributive che possono mutare nel tempo. Tuttavia, quando, come nel caso del professor Ferrera, si decide, “prima”, di condividere la moderna e neo-illuministica cultura delle Carte dei diritti (come si evince dai suoi primi lavori su welfare e pensioni di cittadinanza) (**), dopo”, non si possono stilare classifiche calcistiche... O la coerenza argomentativa è un optional? E poi classifiche, ad uso e consumo di chi? Confindustria? Fmi? Bce? Moody’s Corporation?
In secondo luogo, la cultura mercatista alla Ferrera, scherza con il fuoco. Perché se è vero che in Italia con le pensioni d’invalidità si è costruito il consenso, rimane altrettanto vero che con le pensioni tout court si è garantita la continuità di un potere d’acquisto, che ha favorito due beni pubblici per eccellenza: sviluppo e pace sociale. Certo, esistono vincoli di bilancio, il settore va razionalizzato, l’età gradualmente elevata, il diritto-principio però non va toccato, pena la sempre possibile delegittimazione del sistema politico, sociale ed economico. Perciò Ferrera rischia l' autogol quando, storcendo il naso, critica il fatto che oggi « l’aver lavorato per 35 o 40 anni, indipendentemente dalla congruità dei contributi versati, è diventato il presupposto fondativo dell’accesso alla pensione». Cerchiamo di essere seri. Quale poteva e può essere «il presupposto fondativo»? I soli contributi versati, come sostiene l’editorialista del Corrierone? O, più giustamente, come proclamano le Carte dei diritti, il valore, incalcolabile, del diritto a vivere un'esistenza dignitosa, proprio dopo aver lavorato 35 o 40 anni ? E poi, per dirla tutta, il diritto da vecchi a una vita degna dell’altrui rispetto e libera dalla paura di finire sotto i ponti, può essere collegato, in assoluto, a una busta paga?

Carlo Gambescia
..

(**) Come summa delle Carte precedenti, si veda la Dichiarazione Onu del 1948, all' articolo 25 .



giovedì 15 settembre 2011

Oggi proponiamo la recensione dell’amico Teodoro Klitsche de la Grange . Un bel testo in cui si mette a fuoco, partendo dal libro di Preterossi, la relazione tra politico, antipolitico e ciclo politico, con particolare riferimento alle vicende della Prima e Seconda Repubblica.
Buona lettura. (C.G.)

Il libro della settimana: Geminello Preterossi, La politica negata, Editori Laterza 2011, pp. 115,  Euro  16,00 

http://www.laterza.it/
.


L’antipolitica avanza. Come scrive l’autore “Il tratto più caratteristico del dibattito pubblico dell’ultimo trentennio è stata la tendenza a una progressiva spoliticizzazione. Un processo che ha investito tanto il piano delle teorie e delle narrazioni, quanto quello dei fatti, delle strutture sociali e istituzionali. Cause e sintomi non mancano: la progressiva demolizione di tutto ciò che è pubblico; lo sdoganamento del qualunquismo più becero; l’inaridimento delle radici della vita democratica, delle sue precondizioni, che ha trasformato la sfera pubblica in fiction, il popolo in ‘pubblico’; l’esaltazione a prescindere della cosiddetta ‘società civile’ ”. Cui hanno contribuito non solo personaggi politici o i media ma anche “la teoria politica e giuridica contemporanea”; in particolare “quelle interpretazioni che, per quanto di matrice disciplinare e culturale diversa, hanno offerto a lungo e in modo convergente una narrazione incondizionatamente ottimistica, quasi ingenua del mondo globale e delle sue intrinseche capacità auto-regolative, contribuendo ad alimentare una sorta di conformismo acritico... Ma oggi la ‘visione’ complessiva che quelle teorie esprimono appare sempre più dimezzata e impotente nella lettura delle contraddizioni del mondo contemporaneo, essendosi separata dalla parte spuria – cioè realistica e simbolica – della politica”.
D’altra parte certe teorie non riescono a dar conto del fatto che il politico, negato (o “risolto”) nella teoria si ripresenti nella politica, magari sotto la “forma” di una clamoroso attentato terroristico: “Il ‘politico’ come sfida dell’immediatezza – violenza, inimicizia, pretese di dominio, prevaricazione, asservimento (anche volontario) – non è affatto tramontato. Né può svanire l’esigenza vitale di rispondere efficacemente a questa sfida”.
Il libro pertanto si articola in “quattro movimenti, scanditi da altrettante questioni sgradevoli, che mettono in discussione le nostre certezze e non si lasciano esorcizzare facilmente: sicurezza, identità, ostilità, populismo”, in cui Preterossi, richiamandosi al pensiero dei classici (Hobbes, Hegel, Schmitt, Gramsci), sottopone a serrata critica alcuni idola del pensiero politico e giuridico contemporaneo. A proposito del quale, tra le molte mende che gli si possono muovere, una la sopravanza tutte: di omettere completamente – o quasi – il confronto con la realtà.
Di guisa che appare come la classica coperta corta, che se copre i piedi scopre la schiena e viceversa. A furia di credere di aver risolto l’enigma del politico, si riesce (nei libri) solo ad eliminare dal proprio orizzonte la realtà dei fatti. Divenendo così dottrina inutile (o poco utile), se non dannosa, come scriveva Machiavelli nel noto passo del Principe “colui che lascia ciò che si fa per quello che si dovrebbe fare, impara piuttosto la ruina che la preservazione sua”.
Molto si potrebbe dire di questo lavoro di Preterossi e delle analisi che fa di quelle quattro “questioni fondamentali”; ma proprio perché fondamentali (e “vaste”) rinviamo al libro, non potendo essere analizzate in una recensione, limitandoci ad una considerazione conclusiva (e generale).
L’autore ascrive quanto critica ad una deriva – meglio decadenza – del pensiero giuridico e politico contemporaneo, Che è a sua volta il riflesso della decadenza dell’occidente e/o dell’Europa. Ma, relativamente all’Italia c’è un’altra componente fondamentale: il declino delle élites andate al governo (e al potere) dopo la seconda guerra mondiale, rimaste, almeno, al potere anche dopo che l’ordine di Yalta, a seguito del crollo del comunismo è venuto meno. Per cui l’ “antipolitico” non è solo ascrivibile al rifiuto della politica (in generale) ma delle élites, generato dalla decadenza – senescenza di queste dal dopoguerra ad oggi. Che sono quelle le cui “derivazioni” (o parte delle stesse) sono oggetto delle puntuali critiche di Preterossi. Anche all’inizio del ciclo politico che volge al termine, l’ “antipolitico” prese forma nella penna e nell’azione di Guglielmo Giannini, quale critico radicale dei miti e delle idee della classe politica che prendeva il potere. Sarebbe interessante vedere quanto di quella antipolitica vi sia nell’attuale, e le conseguenze che il tutto comporta, soprattutto in termini di delegittimazione della classe dirigente.
.


Teodoro Klitsche de la Grange



Teodoro Klitsche de la Grange, avvocato, giurista, direttore del trimestrale di cultura politica "Behemoth"  (http://www.behemoth.it/ ). Tra i suoi libri: Lo specchio infranto (1998), Il salto di Rodi (1999), Il Doppio Stato (2001), L'apologia della cattiveria (2003), L'inferno dell'intellettuale (2007), Dove va lo Stato? (2009).

mercoledì 14 settembre 2011

Divagazioni  su Truffaut...
I bambini di oggi riusciranno 
mai a scoprire il mare?


.
In uno dei film più belli sulla prima adolescenza, I 400 colpi di François Truffaut, si rivendica il diritto all’errore dei piccoli trascurati dai genitori. Infatti, nel film, un piccolo furto per una serie di vicende, anche gustose da seguire, diventa la strada maestra che conduce il giovanissimo protagonista a scoprire il mare: grande metafora della libertà umana. Un mare, ovviamente, mai visto prima a causa dell’egoismo dei genitori… Due borghesi piccoli piccoli.
Ecco ciò che pensavano leggendo della nuova possibilità di controllare i nostri bambini attraverso un apposito telefonino, magari da regalare per un compleanno. Basterà che il piccolo, ignaro delle adulte furbizie, se lo infili in tasca, et voilà, les jeux sont faits… ( visto che abbiamo citato Truffaut, un po’ di francese non guasta…). Ma diamo spazio alla notizia:

.
«Come ‘vera novità’ viene segnalata la modalità ‘ascolto ambientale’ grazie alla quale è possibile inviare un semplice sms ed essere richiamati automaticamente dopo pochi secondi per ascoltare suoni, voci e parole dette nell’ambiente dove il BabyPhone si trova. La chiamata generata dal Babyguard sarà silenziosa, non verrà mostrata sul display del cellulare quindi si può ascoltare ogni volta che si vuole senza che nessuno se ne accorga. Con la funzione ‘tracciamento della posizione’ sempre grazie a un sms si può ricevere un messaggio che informa se il vostro bambino entra o esce da un´area definita dal genitore con la scuola, ad esempio. Oltre a ciò, questo cellulare possiede il controllo a distanza attraverso il quale è possibile pilotare quasi tutte le funzioni come impostare un orario di accensione e di spegnimento oppure bloccare o spegnere il cellulare a distanza e molto altro. In caso di pericolo il bambino può inviare con un tasto rapido, una telefonata di emergenza a un numero preimpostato».

.

Tra l'altro, il BabyPhone costa pure "poco": il prezzo oscilla tra i 90 e i 120 euro... Che dire? Peggio del Gatto e della Volpe quando conducono Pinocchio al Campo dei Miracoli. Magari, miracoli telefonici, questa volta… E con i genitori, al posto dei due furbi vagabondi di Collodi, esperti in raggiri e inganni.
In fondo, per buttarla sul sociologhese, tra l’egoismo dei genitori del piccolo Antoine Doinel de I 400 colpi e quello dei padri e delle madri di oggi, febbrilmente attaccati al BabyPhone, non c’è alcuna differenza. Pensano tutti a se stessi… I primi, perché intenti a divertirsi, inseguendo i piccoli piaceri della vita; i secondi, perché desiderosi, grazie alla moderna tecnologia, di tenere tutto sotto controllo, pur di dormire tranquilli, da bravi borghesi piccoli piccoli… Che malinconia.
Ma i bambini di oggi riusciranno mai a scoprire il mare?

Carlo Gambescia

martedì 13 settembre 2011


Shibari
Il sesso nell’epoca della sua riproducibilità tecnica


.
Partenza stratosferica. Walter Benjamin, un irregolare del pensiero novecentesco, ne L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica, scrisse che grazie al cinema, alla macchina fotografica, al disco, « la cattedrale» avrebbe abbandonato « la sua ubicazione per essere accolta nello studio di un amatore d’arte». Insomma, l’arte, grazie alla tecnica, si sarebbe fatta meno elitaria e più collettiva, al prezzo però di dipendere interamente dal mercato. E così è stato. Di qui, tuttavia, due fenomeni: da un lato la trasformazione dell’arte in intrattenimento di massa, dall’altro, la possibilità per il fruitore, magari scattando fotografie, di sentirsi, senza esserlo realmente, un artista.
Dove vogliamo andare a parare? Presto detto: riflettere su quel che è successo a Roma, dove in uno squallido non luogo postmoderno, un garage, si è consumata, come dire, la tragedia - e non sarà l’ultima - della riproducibilità tecnica, ma a sfondo sessuale.
Gli elementi c’erano tutti: l’opera d’arte, rappresentata da un’antica tradizione di legatura giapponese, finalizzata nel caso a una pratica sessuale (lo shibari); il kit di massa del bondage post-moderno, ritrovato nel bagagliaio dell’auto del presunto Maestro, un cassaintegrato; le due piccole Justine, studentesse, sospese tra studio e lavoretti…
Che cosa è successo? Che un conto è scattare male una foto, un altro, riprodurre una tecnica, come quella shibari, che richiede una manualità fuori dal comune, frutto di una sapienza antica ed elitaria.
Purtroppo, “artisti” non ci si improvvisa… Walter Benjamin, a proposito dell’arte di massa, scriveva di «ricezione nella distrazione».
Ecco, il punto è che lo shibari, non consentiva e non consente alcuna distrazione.

Carlo Gambescia

domenica 11 settembre 2011

Ideologie dell’ 11 Settembre
.



Ora che sembra passata la gigantesca onda emotiva delle celebrazioni, desideriamo dire qualcosa anche noi sull’ 11 Settembre. Non tanto però sui fatti in sé, quanto sulle interpretazioni, o se si preferisce sulle ideologie in argomento.
Due le principali variabili. La prima, è quella dell’attacco all’Occidente da parte dei fondamentalisti islamici, sposata dagli occidentalisti, di qua e di là dell’oceano, e rivendicata, quanto meno nei fatti e negli effetti, dai movimenti islamici antioccidentali.
La seconda, è quella del grande inganno ad opera di statunitensi, britannici, israeliani (presi singolarmente o tutti insieme), che per ragioni geopolitiche avrebbero causato e "montato" l’attentato, attraverso un’operazione di intelligence; tesi difesa dagli antioccidentalisti delle due sponde.

Pertanto, sul tragico evento è fiorita, e fiorisce, una letteratura propagandistica, rivolta a difendere l’una o l’altra tesi. In realtà, e al di là delle "apologie" pro o contro, le cose stanno diversamente: semplificando gli schieramenti, dall'11 Settembre 2001, di fatto, Occidente e Oriente sono in guerra. Un conflitto di tipo nuovo per l'Occidente, asimmetrico, dal momento che affronta un nemico invisibile: il terrorismo. E tuttora in corso, di cui ancora non si scorge la fine.

Perciò l’11 Settembre lo ha cambiato, eccome, il mondo. Tutto il resto, invece, è ideologia, o se si preferisce, nella migliore delle ipotesi, terreno (o teatro...) per nobili celebrazioni. Parliamo di eventi che appagano o fomentano le differenti emotività collettive (dipende dal punto di vista), ma che non influiscono minimamente sul problema dei problemi: come potrà l'Occidente vincere una guerra asimmetrica?

Carlo Gambescia

venerdì 9 settembre 2011

Follie
Magri per legge?



In Gran Bretagna si è aperta la caccia all’obeso? Pare proprio di sì. Dal momento che nella brumosa Scozia quattro bambini tra gli undici e i cinque anni sono stati tolti alla famiglia per questioni di "peso forma". Prima però la notizia:
.

« La coppia, che ha in tutto sette figli e vive a Dundee, aveva già ricevuto un ultimatum dai servizi sociali nel 2008. Allora i bambini erano sei: il dodicenne pesava cento chili mentre sua sorella, 11 anni, raggiungeva i 76 e la piccolina di tre anni i 25. Ai genitori era stato ordinato di mandare i figli a lezione di calcio e danza e di provvedere a un’alimentazione sana senza cibo spazzatura. Passano tre mesi e il piano non funziona; i minori vengono dati in affidamento una prima volta. La coppia, che non è accusata di alcun abuso, protesta disperatamente e allora il Comune decide di varare un insolito programma di monitoraggio: per due anni la famiglia viene alloggiata in una casa stile Grande Fratello, sorvegliata a vista durante i pasti da un assistente sociale che prende nota delle cose che non vanno. Le regole sono rigide: per tutti vige un coprifuoco alle 11 di sera (…) Martedì scorso gli assistenti sociali hanno deciso che l’esperimento era fallito e che i quattro bambini più piccoli, tre femmine e un maschio, sarebbero stati dati di nuovo in affidamento. Questa volta in via definitiva».


.

Che dire? Siamo davanti a uno scenario che fa veramente paura. Ricorda 1984 di George Orwell… Tuttavia non va dimenticato che a fondamento della caccia politica all’obeso c’è la tesi che la “ciccia in più” rischia sempre di ricadere sulle spalle di tutti i contribuenti, anche quelli magri… Dal momento che ogni “ciccione”, dopo essersi rovinato la salute con gli snack, necessiterà di cure, finendo, inevitabilmente, per pesare sul bilancio sanitario pubblico. In realtà però, le cose sono più complesse.
In primo luogo, il ricorso a criteri utilitaristici ( i risparmi di spesa), è pericoloso. Soprattutto se il salutismo di Stato viene collegato a fattori di tipo eugenetico, come appunto l’ individuazione delle “ottimali” condizioni di riproduzione della specie umana. Dal momento che, in linea di principio, ogni scelta eugenetica (a partire dall’ “abbasso i ciccioni”) implica non tanto una pura indicazione di Vita Buona ( “ Io Stato ti consiglio di non fumare e mangiare troppo, altrimenti ti puoi ammalare e morire”), bensì un vero e proprio ordine di condurre una Vita Buona : “ Non devi mangiare troppo e fumare, altrimenti io Stato ti condanno a morte, privandoti delle cure mediche”.
Il che, in secondo luogo, risulta in contrasto con il diritto all’assistenza medica e in più in generale con quello alla salute, celebrati nelle più diverse Carte dei Diritti e Costituzioni: nel senso che tutti vanno curati a prescindere dalle proprietà possedute, dal colore della pelle, dalla quantità di ciccia… In definitiva, se un diritto sociale viene condizionato che diritto è? Inoltre, sostenere che lo si limita, per consentire ai cittadini “buoni” (secondo i dettami governativi) di fruirne, è ripugnante sotto l’aspetto morale e della libertà individuale. Nonché illegittimo sotto quello dei diritti di cittadinanza sociale.
In terzo luogo, come accennavamo, si tratta di una scelta che apre a prospettive di tipo totalitario, come quella del dover essere magri per legge. E poi diciamola tutta: il passo da 1984 a Fahrenheit 451 è veramente molto breve… Ci spieghiamo meglio: una volta ammesso il principio che il potere politico può decidere a piacimento ciò che sia o meno Vita Buona, tutto diventa possibile: oggi si mette in discussione il “ciccione”, domani il “lettore di libri”, perché troppo sedentario, e quindi a “rischio-ciccia”. Magari, fino al punto di dichiarare fuori legge la lettura, perché nociva alla salute…

Carlo Gambescia