giovedì 31 agosto 2006


Il "grande evento musicale" ha sostituito la  presa del Palazzo d' Inverno 
Da Lenin a Ligabue 


Ogni epoca ha avuto i suoi eventi, nel senso attuale del termine: i greci hanno inventato e conosciuto i giochi olimpici, i romani le grandi feste circensi, l’uomo medievale i tornei in occasione di fiere e cerimonie religiose, i moderni le celebrazioni popolari collegate alle consacrazioni di re assoluti e, più in là, le feste rivoluzionarie intorno agli “Alberi della Libertà”.
Secondo gli storici, nella fredda Pietrogrado dell’ottobre 1917, si sparava e si uccideva, ma incredibilmente si ballava, cantava e si faceva l’amore. Si celebrava così la rivoluzione proletaria, come festa, o evento ludico assoluto, in cui vita e morte (quella vera, a ogni angolo infatti si potevano scorgevano i poveri resti dei “controrivoluzionari” giustiziati) si mescolavano misteriosamente.
E oggi? Come è noto si fa festa, ci “si ricarica di energia”, come scrivono i giornali, senza assaltare nessun Palazzo d’Inverno. Né ci si esalta più in nome di valori assoluti, divini o terreni, incarnati da santi, monarchi o Marianne rivoluzionarie. Oggi, gli eventi, ad esempio le grandi manifestazioni musicali, sono programmati economicamente e poi magari inseriti in quel che resta di antiche celebrazioni “locali”. Esistono addirittura corsi di laurea e master in “organizzazione e gestione degli eventi”.
Può apparire curioso ma il grande evento, così come ora lo intendiamo, ha precise radici ideologiche nel Sessantotto: è un portato di quell’idea di rivoluzione dei costumi senza rivoluzione politica violenta, che ha costituito per molti intellettuali d’assalto, poi venuti a più miti consigli, una sorta di porto sicuro. Una normalizzazione dell’impegno politico precedente, appagante anche sotto l’aspetto economico. Ci spieghiamo meglio.
Il Sessantotto, ha rappresentato per le generazione, nate tra gli anni Quaranta e Cinquanta, l’ultimo tentativo di coniugare festa e rivoluzione, sulla scia del “modello” pietrogradese: come è noto, la rivoluzione non è riuscita, ma è restata la festa. Così come sono rimasti i rivoluzionari, privi ovviamente di ogni fede. Perciò i grandi eventi, soprattutto quelli musicali, ma anche di forte impatto mediatico e partecipazione ( si pensi alla moda delle “notti bianche”), sono diventati la ripetizione sublimata, innocua e individualistica, della grande rivoluzione tanto sognata. Con quel pizzico, se uno vuole, di trasgressività che basta: consumo di droghe leggere, alcol e di fugaci rapporti sessuali. Comunque sia, come spesso si legge, si va al concerto, giovani e meno giovani, solo per “scaricare e ricaricare” le “pile” di una vita individuale altrimenti vuota e triste.
Ovviamente, l’ intellettuale postrivoluzionario, ha avuto gioco facile all’interno di una società come quella capitalistica che si fonda e alimenta sulla trasformazione di ogni attività in ricchi profitti. Di qui il gigantismo, tipico di ogni razionalizzazione industriale, la commercializzazione e anche i lauti guadagni per i quadri e i vertici del settore.
La rivoluzione, ma nella sua versione canora e ludica, è perciò divenuta un “evento” programmabile, inoffensivo e perfino incoraggiato dalle stesse autorità politiche, che non si sentono assolutamente minacciate. La lotta di classe ha lasciato il posto al divertimento, ai consumi e, se capita, anche all’ amore universale. Come dire, da Lenin a Ligabue.
Si assiste così alla "marcia" di masse festanti e consumiste, composte anche di giovani, "armati" solo di zainetti e gadget del cantante preferito.
Ciò è un bene, perché la violenza non va mai approvata, ma è anche un male perché il finto ecumenismo "divertentistico" dissolve la politica, che è tragica divisione in amici e nemici, in un abbraccio universale che dura solo il tempo di un concerto musicale. C’è però un’ attenuante, soprattutto per i giovani: non c’è adulto che sappia loro indicare un Palazzo d’Inverno da conquistare.
Ammesso che, da qualche parte, ce ne sia ancora uno.

Carlo Gambescia

mercoledì 30 agosto 2006

Il libro della settimana. Slavoj Zizek, Contro i diritti umani, Il Saggiatore, Milano 2006, Euro 6,00, pp. 78.

http://www.libreriauniversitaria.it/contro-diritti-umani-zizek-slavoj/libro/9788842813415 


I libri di Slavoj Žižek, sociologo e filosofo sloveno, ricordano i film di Emir Kusturica: allegorici e straripanti, densi di richiami ai più differenti registri culturali, eruditi e popolari. Žižek, affabula, mescolando Hitchcock e Marx, Lacan e Wagner, Fritz Lang, Hegel e il cyberspazio. E come i film del regista bosniaco, anche i suoi saggi non ammettono vie di mezzo: o si amano o si odiano…
Attualmente Žižek è sulla cresta dell’onda. Tradotto in tutto il mondo, e in particolare negli Stati Uniti e in Gran Bretagna, dove le università se lo contendono a colpi di dollari. Ma anche in Italia è piuttosto noto. Negli ultimi sette anni sono usciti quattordici suoi libri, tutti pubblicati da editori come Ombre Corte, Manifesto, Meltemi, Feltrinelli, Cortina. E vendono, malgrado i titoli criptici, perché in linea con quell’ esoterismo individualista che anima una certa sinistra postmoderna e decostruttivista, che ha ormai tirato i remi in barca: Il Grande Altro (1999), Il godimento come fattore politico (2001) Il soggetto scabroso (2003), eccetera.
La principale contraddizione di Žižek è pretendere di conciliare un individuo debole con una teoria politica forte: un Io diviso e bisognoso di aiuto, con un’idea di democrazia, così radicale, da sconfinare nel comunismo. Non per niente l’autore che lo ha più influenzato - e attraverso cui Žižek ha filtrato Hegel e Marx - è Jacques Lacan, probabilmente il più criptico interprete di Freud. Una specie di gran sacerdote della psicanalisi francese, che prima ha scomposto la società in individui, e poi, non contento, l’individuo stesso, ponendo le sue molteplici personalità, al centro di una dialettica senza fine del desiderio. Esoterismo psicanalitico allo stato puro.
Ora, sarebbe noioso, ricostruire il rapporto Lacan-Žižek, basti perciò ribadire che l’opera del pensatore sloveno ne condivide i difetti, soprattutto sul piano sociologico. Per Žižek l’ individuo precede la società, che viene così intesa come sommatoria di individui desideranti. Ad esempio, ogni senso del dovere morale viene da lui liquidato come una illecita “fonte di godimento”: una jouissance che allontanerebbe l’individuo dalla pura ricerca del piacere. Dal momento, che secondo Žižek, il “godimento”, che nasce dall’aver compiuto proprio dovere, rinvia a un rigido ruolo sociale o professionale, imposto all’uomo dall’esterno. A dire il vero, Žižek, muove le stesse critiche alla ricerca dei piaceri consumistici: ricerca imposta dai meccanismi (esterni) della società dei consumi. Per lui, insomma, la “liberazione”, coincide, con lo svincolamento da ogni dovere o costrizione esterna: essere liberi significa non dover scegliere mai in base a convenienze sociali. C’è poi nelle sue opere, si veda ad esempio Tredici volte Lenin (Feltrinelli 2003), un costante e nostalgico riferimento alla democrazia radicale, come partecipazione politica di massa, libera da doveri e costrizioni esterne, idea che Žižek, fa risalire a Lenin. Ora, sorvolando sul fatto, che Lenin si guardò bene dal favorirla, resta difficile capire come sia possibile promuovere Lenin, che teorizzò e praticò per tutta la vita i ferrei doveri del rivoluzionario di professione, a seguace di Lacan, il nemico dei doveri politici e sociali… E quel che è più grave, è che certa sinistra (quella che ad esempio disdegna le sulfuree opere di Preve) non si è accorta della contraddizione di Žižek. Anche perché, evidentemente, da un pezzo, non legge più neppure Lenin…
Si prenda ora ad esempio, il suo libro appena uscito, Contro i diritti umani (Il Saggiatore, Milano 2006, pp. 78, euro 6,00). Che in realtà non è poi così “contro”. E spieghiamo perché.
Inizialmente il pensatore sloveno sembra respingere i diritti umani, da lui comunque intesi come diritti di eguaglianza e libertà (égaliberté). Scrive lapidario: “ I diritti umani universali sono in realtà i diritti dei bianchi maschi benestanti, di operare liberi scambi sul mercato, di sfruttare gli operai e le donne e di esercitare il predominio politico” (p. 67). Dopo di che, contraddicendosi, auspica che possano essere “politicizzati”. E fa subito un esempio: quello “dell’edificio ideologico imposto dai colonizzatori [che] improvvisamente viene fatto proprio dai suoi schiavi come mezzo per articolare le loro rivendicazioni ‘autentiche’ ” (p. 72). Perciò la critica žižekiana dei diritti umani non riguarda i diritti umani in quanto tali, ma la loro estensione: se sono rivendicati dall’Occidente sono cattivi, se invece sono fatti propri e reclamati dai popoli non occidentali, allora sono buoni.
In secondo luogo, Žižek non spiega come “universalizzarli”. Infatti è contrario al ruolo sociale delle “organizzazioni rette da autorità non direttamente politiche - l’ esercito, la Chiesa, la scuola”, a suo avviso, “esempi di violenza” (p. 50). Ma, anche qui, compie un passo falso. Perché distingue tra violenza cattiva, quelle delle istituzioni borghesi (le “organizzazioni rette da autorità”) e quella rivoluzionaria, buona. Dal momento che “il nostro compito, scrive, è (…) sviluppare una teoria della violenza storica intesa come qualcosa che non può essere strumentalizzato da nessun agente politico (…); e poi chiederci come trasformare il processo rivoluzionario in un forza civilizzatrice” (pp. 48-49). E così anche per la violenza, come per i diritti umani, Žižek usa il doppio standard.
In terzo luogo, non si capisce, chi possa guidare la “forza civilizzatrice”, visto che non deve essere asservita a nessun “agente politico”. La filosofia di Žižek esclude infatti qualsiasi forma di impegno collettivo da parte dell’individuo, in quanto il senso del dovere, come si è visto, segrega e non libera l’individuo: l’ “(auto)sacrificio alla causa”, scrive, emana sempre “il cattivo odore dell’attrazione per una jouissance letale e oscena” (pp. 33-34).
Il problema è che l’universalizzazione dei diritti umani auspicata da Žižek, imporrebbe un individuo forte, e non il debole soggetto lacaniano, sul quale invece il filosofo sloveno costruisce la sua teoria. Va però sottolineato che dove c’è un’ antropologia forte, come nel mondo islamico, i diritti occidentali di eguaglianza e libertà sono poco condivisi, spesso respinti, e talvolta con le armi.
Perciò Žižek rischia di essere lapidato proprio da chi vuole aiutare… Mentre trova ascolto tra i tutori del pensiero debole. Per qual ragione. Probabilmente perché il suo pensiero è funzionale a una certa sinistra a corto di idee, che ritiene, comunque, di poter abolire la guerra per legge… Una sinistra che non ha mai letto o capito la lezione di Proudhon. E che ha accantonato Sorel, probabilmente invece l’unico pensatore che è stato capace di affrontare, senza tradire Marx, e in maniera sistematica, il rapporto tra violenza, forza e dinamiche del mutamento istituzionale. Peccato... Perché, a differenza del duo Lacan-Žižek, si tratta di due autori molto concreti, che difendono l ’antico e saggio principio del si vis pacem, para bellum e che contrastano qualsiasi astratta forma di égaliberté (al singolare) in nome delle libertà concrete (al plurale): non vogliono la guerra per la guerra, ma neppure la pace per la pace.
E qui bisogna fare attenzione, perché attraverso Žižek, affiora ceto pericoloso e confusionario irrealismo: come trasformare un “processo rivoluzionario [violento] in una forza civilizzatrice [pacificatrice]”? Con quali mezzi? Con quali uomini? Con quali limiti? E non sono problemi secondari, dal momento che influiscono la libertà e la sicurezza di tutti.
Il filosofo sloveno non risponde. E ci si sente a disagio, come vedendo Underground di Kusturica: dove feste nuziali, bagordi, canti, ammazzamenti, promesse di un mondo migliore, si susseguono, come in un vortice. Ma alla fine si esce dal cinema, storditi, più inquieti di prima.
E per nulla intellettualmente appagati.


Carlo Gambescia

martedì 29 agosto 2006

Dibattito su "Repubblica"
Socialismo e pessimismo 


pessimismo e socialismo


E’ in corso su Repubblica un interessante dibattito sul futuro del socialismo in Europa. Nell’ultima settimana si sono succeduti interventi di John Lloyd (22-8), Giuliano Amato (28-8), Giddens (29-8) e altri sicuramente seguiranno.
Il dato comune fin qui emerso è certo “pessimismo antropologico”, che con il socialismo vero e proprio, sia premarxiano che del giovane Marx, ha poco in comune ( e qui si rinvia alle analisi di autori come G.D.H Cole, Karl Polanyi e Costanzo Preve). E la chiave di tale pessimismo incapacitante è in un passo dell’intervento di Giuliano Amato, che qui riportiamo: “La storia non è guidata da regole scientifiche, ma è mossa da azioni e interazioni dall’esito imprevedibile, nessuno può aspettarsi di realizzare un futuro già scritto”.
Ora, si una tratta di una posizione, che Hayek (pensatore liberale e “liberista”, per eccellenza), improvvisamente redivivo, potrebbe serenamente condividere. Perché asserire che le azioni umane sono totalmente imprevedibili significa sostenere la “mano invisibile” di una qualche entità, destinata comunque a ”fare la storia” a spese dell’uomo. Anche se poi (e si tratta di un bisogno tipico dell’uomo) i progressi umani come le sconfitte vengono comunque spiegati e interpretati. E allora, ecco, che il liberista parlerà di mano invisibile del mercato; il cristiano di mano invisibile di Dio; il socialista scientifico di “general intellect” o “cervello sociale”.
E qual è la “mano invisibile” in cui credono i “socialisti” Lloyd, Amato, Giddens? Quella del mercato. Infatti, stando a quel che scrivono, tutte le riforme “socialiste” dipendono dallo sviluppo economico e quest’ultimo dal mercato. E dunque vanno sempre finalizzate alla “ripresa dell’economia”. Ogni misura sociale, insomma deve favorire il mercato: se riparte il mercato, riparte anche il socialismo… Di più, dal momento che l’esito delle azioni umane è imprevedibile viene meno anche la chiave riformista: perché le riforme, il cui esito come le azioni umane è sempre incerto, possono diventare pericolose, come, guarda caso, sosteneva Hayek nemico di ogni “costruttivismo” socialista, riformista come rivoluzionario.
Ora è vero che è molto pericoloso credere nelle leggi storiche (in termini di leggi scientifiche) e nella assoluta razionalità individuale ( si pensi ai guasti provocati nel Novecento dai modernismi totalitari, di varia natura politica). Ma è altrettanto pericoloso ridurre l’uomo a pura e semplice appendice di una mano invisibile. Una concezione che ricorda tanto la credenza nella provvidenza cristiana (che ha un valore squisitamente teologico, e non politico o socio-economico).
La verità è probabilmente nel mezzo. L’uomo, come essere sociale, dispone di schemi di comportamento e di significati, dotati di periodicità, e che dunque è possibile (auto) interpretare, nelle conseguenze sociologiche ( se non proprio storiche), e ragionevolmente prevedere. Non bisogna perciò essere pessimisti (come i socialisti di cui sopra) né ottimisti (come liberisti e comunisti scientifici). Ma realisti: per fare le “riforme socialiste”, o comunque per fare politica in genere, l’uomo deve accettare il pericolo di poter sbagliare. Certo la politica, non è una scienza in senso stretto e soprattutto c’è sempre il rischio di coinvolgere, e dolorosamente altre persone. Ma perché condannare l’uomo all’immobilismo?
Perciò oggi il primo nemico del socialismo è il pessimismo antropologico. Che invece viene difeso proprio da intellettuali che si definiscono socialisti… 

Carlo Gambescia

lunedì 28 agosto 2006


Giuseppe Turani "vecchia volpe" del giornalismo economico  
Come  ti "intorto" il lettore


Il lungo articolo di Giuseppe Turani, pubblicato ieri su Repubblica, a proposito della fusione Intesa-San Paolo, è un ottimo  esempio  di come " intortare"  un lettore spesso digiuno di nozioni tecniche. Turani è una vecchia volpe del giornalismo economico. Da manuale...
Il punto da sottolineare è come il rapporto tra teoria e pratica dell’economia di mercato, in articoli come quelli di Turani, che è uno degli opinionisti economici più noti, venga piegato alle esigenze del momento. Sulle quali però non indagheremo ulteriormente, avendo già dedicato al problema, il “post” di venerdì 25 agosto.
Ora, nel suo pezzo, Turani riassume “in quattro sfide” il banco di prova per il nuovo colosso Intesa-San Paolo.
La prima consiste nel riuscire a mettere insieme le due diverse culture interne alle banche (per semplificare Milano contro Torino). E qui Turani sembra guardare con maggiore complicità alla prima cultura, quella milanese, più americana e meno legata al capitalismo familiare dell’altra, la torinese.
La seconda riguarda le riduzioni del personale (a suo parere già si parla di un esubero di 15.000 dipendenti, su circa centomila…). Per il giornalista di Repubblica la questione andrebbe gestita, “dialogando” con i sindacati, ma senza guardare in faccia a nessuno. Il che significa, se interpretiamo bene il suo pensiero, licenziamenti facili. Anche perché, così fa notare, la concorrenza straniera, potrebbe non perdonare… Auspice, ovviamente, Draghi, apprezzato da Turani.
Le ultime due sfide (la terza e la quarta) sono quelle con i consumatori e le imprese. Per vincerle il “nuovo colosso” dovrebbe, trasformarsi in “gigante buono” e favorire credito e servizi a buon mercato e non stock options (speculative…). E qui cade l’asino… (se ci si passa l’espressione). Ma cerchiamo di capire perché.
Le due prime sfide non riguardano strettamente l’economia di mercato ma le sue precondizioni in termini di sociologia della cultura imprenditoriale e delle relazioni industriali (con i sindacati in particolare, non particolarmente stimati da Turani…). Qui di importanza secondaria ai fini del nostro discorso. Mentre le ultime due riguardano da vicino l’economia e le sue presunte leggi. E così si scopre una contraddizioni fondamentale: Turani, come del resto altri commentatori economici, per un verso “deve celebrare” la libera concorrenza” , e per l’altro “deve far digerire” allo spesso ignaro lettore di Repubblica, un’operazione di tipo oligopolistico, che "profana" le inesorabili leggi dell’economia di mercato. Violazione, che di regola danneggia il consumatore. E dunque per salvare capra e cavoli Turani deve far appello al “gigante buono”: il costituendo gruppo Intesa-San Paolo. Che di “motu proprio” dovrebbe favorire i consumatori, proprio come certi re ottocenteschi, “per volontà di Dio e della Nazione”, che favorivano i “sudditi” concedendo magnanimamente la Costituzione…
Ora, delle due l’una: o l’economia di mercato si fonda sulle leggi della libera concorrenza fra una pluralità di attori, e perciò l’unica politica da seguire è quella di porre tutti i “protagonisti” sullo stesso piano (dalle imprese ai consumatori), combattendo gli oligopoli, oppure non si fonda sulle leggi della concorrenza e allora tutto è ammesso. Anche di celebrare, sperando nella generosità del “gigante buono”, ambigue operazioni oligopolistiche, come il progetto di fusione tra Intesa e San Paolo.
Come appunto fa Turani...

Carlo Gambescia

venerdì 25 agosto 2006



Fusione Intesa-San Paolo-Imi
I furbetti del "quartierone"




Oggi i media italiani celebrano la fusione tra Banca Intesa e San Paolo-Imi. In pratica, Bazoli (Banca Intesa) e Salza (San Paolo-Imi) hanno dato il via alla creazione del primo gruppo bancario italiano che, se l’operazione andrà in porto, varrà sessantamila miliardi e avrà centomila dipendenti e 6200 sportelli, tutti al centro-nord. Sostanzialmente il gruppo Intesa-San Paolo-Imi andrebbe a fronteggiare l’altro “gigante”, l' Unicredit. Resterebbero fuori Capitalia, Montepaschi e altri minori (inclusa la ormai “tigre di carta” Mediobanca-Generali). I primi due potrebbero dar vita a un terzo gruppo (una specie di polo bancario del centro-sud). A meno che non si giunga in seguito a una superfusione tra Unicredit e Capitalia ( e chissà quali altre “piccole” banche…). E così avremmo un duopolio.
Non si capisce perciò la grande allegria che impazza su giornali notoriamente iperliberisti, come il Corriere della Sera e Repubblica. Certo, è noto, da chi siano pagati stipendi e borderò. Chi scrive ha uso di mondo, come dicevano i nostri nonni… Pratica l’ambiente giornalistico, e non vuole infierire ulteriormente.
Ora, ci sono tre approcci per capire la questione.
Il primo, come dire, di “cucina interna”. E consiste nel chiedersi a chi gioverà l’operazione sul piano politico ed economico (facendo nomi e cognomi); nell'indagare i nuovi equilibri che si determineranno, eccetera. La riposta è presto data: il centrosinistra moderato e la finanza vicina a Prodi e alla Margherita (è nota la vicinanza a questa parte politica di uomini come Bazoli e Salza). Parlare della banca di Prodi è eccessivo. Ma significa andare abbastanza vicino alla sostanza delle cose. E di Draghi: visto che senza il placet (preventivo, al di là delle regole e regolette ufficiali) del governatore della Banca d’Italia (nella quale non dimentichiamo il nuovo gruppo avrà oltre il quaranta per cento delle azioni) l’operazione non sarebbe neppure iniziata. In certo senso a Draghi viene permesso quel che invece, all’epoca, non fu assolutamente consentito a Fazio: “difendere l’italianità e la competitività delle banche italiane all’estero”. Probabilmente perché Fazio era, e resta, estraneo al centrosinistra degli affari e vicino al centrodestra e al mondo cattolico (che irriconoscente lo “scaricò” subito …).
Il secondo, come dire, di tipo demistificatorio. E consiste nel rimproverare, evidenziandola caso per caso, la contraddizione tra liberismo teorico e antiliberismo pratico che caratterizza il dibattito politico-economico italiano. Valga per tutti l’editoriale su Repubblica di oggi, di Giuseppe Turani, dove si incensa, come segno di modernità questa fusione perché “contribuirà a rendere i giochi più chiari e trasparenti” per i consumatori. Ma quando mai: meno banche ci sono meno possibilità di scelta ha il consumatore. E soprattutto più facile sono gli accordi sottobanco tra gli oligopolisti a danno dei consumatori ( e di sempre più fittizie Authorities…). Ma basti anche pensare alle dichiarazioni favorevoli di Padoa-Schioppa, Montezemolo di solito iperliberisti. In realtà, come sanno gli economisti veri (pochi in verità) il mercato in genere ha struttura oligopolistica (più o meno flessibile, secondo il tipo di beni prodotti), e teme sia l’eccessiva polverizzazione, sia l’eccessiva concentrazione,come appunto sta avvenendo nel mercato bancario italiano. Le palinodie di Turani, Padoa-Schioppa, Montezemolo e altri ancora, sono legate al fatto che il liberismo puro, che celebrano così volentieri (a parole) non esiste di fatto. Di qui certe pessime figure…
Il terzo approccio, è di tipo sociologico. Le macrostrutture (di ogni tipo) “non funzionano”: sono burocratiche, antieconomiche e “autoritarie”. Certo razionalizzano, perché riducono il numero degli attori sociali ( o dei competitori), ma come insegna Max Weber, la razionalizzazione “politicamente” non mai è sinonimo di “buon governo” di un gruppo sociale, dal momento che la razionalità pura finisce per prevalere su ogni altra considerazione di tipo morale e sociale. E attenzione: la “razionalità” che “vince” è sempre quella ideologicamente espressa dal gruppo dirigente. “Razionalità che difficilmente si discosta dal peso di quelli che sono gli interessi materiali ed economici di coloro che sono nella “stanza dei bottoni". Ad esempio, e a proposito della fusione Intesa-San Paolo, l’integrazione prevede, come su modello tedesco, due consigli (uno di supervisione e l’altro di gestione). Il che significa che ci si è guardati bene, dall'imitare in toto il modello tedesco, che prevede anche la partecipazione decisionale, all’interno dei consigli, di rappresentanti dei lavoratori. Sotto questo aspetto, per i centomila lavoratori del futuro gruppo si preparano giorni difficili.
Un ultimo punto. Si è pure dichiarato che con due “colossi” (Unicredit e Intesa-San Paolo), l’Italia potrà essere più competitiva all’esterno. Per essere competitivi serve una strategia politico-economica, che l’Italia non ha più dai tempi di Enrico Mattei. E poi che senso può avere di fronte all’aggressività delle banche americane e giapponesi nel mondo, un confronto, anche duro tra le banche europee? Nessuno.
Dunque, si tratta di un’operazione, di corto respiro. Rafforza chi è già troppo forte (i Bazoli e i Salza) e presto penalizzerà i deboli: dipendenti e consumatori.
Roba, se ci si passa l’espressione” da “furbetti del quartierone”.

Carlo Gambescia 

giovedì 24 agosto 2006

Lo scaffale delle riviste/9



Va subito segnalato il dossier su “Guerre: le retour du réel” che apre l’ultimo di fascicolo di “Catholica” (n. 92 – Eté 2006), con articoli di Gilles Mignot (Le désarmement du politique, pp. 4-8), Bernard Dumont, direttore della rivista, (L’Eglise et la guerre avant et depuis Vatican II, pp. 9-21), Bernard Wicht (L’esprit militare, pp. 22-35), Christophe Réveillard (Théorie des relations internationales et état de guerre, pp. 36-41). E’ sorprendente, come una rivista, che del resto si muove nell’alveo di un tradizionalismo intelligente come “Catholica”, riesca a fondere così bene, realismo politico e critica ragionata dell’americanismo. Di certo, un dossier ( e un fascicolo, si vedano anche gli articoli di Vauthier, Polin, Sunic su altri argomenti,) da non perdere.
Molto denso anche l’ultimo numero del “Journal of Economic Issues (Volume XL - n. 2 – june 2006 – atkinson@unr.nevada.edu ), che in larga parte raccoglie i “papers” presentati al convegno annuale (2006) dell’ AFEE (Association for Evolutionary Economics), organizzazione alla quale la rivista è collegata.
Si vedano in particolare i saggi di Charles M. A. Clark (Christian Morals and the Competitive System Revisited, pp. 261-275), P. Sai-wing Ho (Analyzing and Arresting Uneven Development: Friedrich List and Gunnar Myrdal , pp. 359-367), Kenneth P. Jameson (Has Institutionalism Won the Development Debate?, pp. 369-375), Robert Waters (What Happened to Boulding’s Evolutionary Economics?, pp. 465-472). Il Veblen-Commons Award 2006 è stato assegnato a James Ronald Stanfield, studioso che ha rinnovato la teoria istituzionale, su basi olistiche (si legga il suo discorso di ringraziamento, pp. 249-259).
Da non perdere l’articolo di Jean-Yves Camus, La Nuova Destra [debenoistiana]: bilancio provvisorio di una scuola di pensiero, che apre il nuovo fascicolo di “Trasgressioni” (n. 42 - 2006, pp. 3-15 - http://www.diorama.it/ ). Scrive Camus: “La ‘ nuova destra” ha pagato con il prezzo salato dell’isolamento il fatto di avere difeso posizioni paradossali: ma perlomeno si è collocata in una prospettiva di lunga durata e rimarrà senza dubbio nella storia delle idee politiche come l’unico tentativo di elaborazione di una visione del mondo operato partendo dalle macerie dell’estrema destra attivistica degli anni Sessanta” (p. 14). Si segnala, inoltre, ma su “Diorama” (n. 278 - Luglio-Agosto 2006 - http://www.diorama.it/), rivista sorella di "Trasgressioni", l’interessante profilo di Raymond Aron, tracciato da Eric Werner (pp. 35-39). Di Werner, filosofo della politica svizzero, è possibile leggere in italiano L’anteguerra civile. Il disordine come condizione dell’ordine nelle democrazie contemporanee, Edizioni Settimo Sigillo, Roma 2004 (http://www.libreriaeuropa.it/ - ordini@libreriaeuropa.it ).
Si occupa invece di Islam il fascicolo appena uscito di “Imperi. Rivista quadrimestrale di geopolitica e globalizzazione”, diretta da Aldo Di Lello (n. 8 - 2006 - Nuove Idee - tel. 06455468600 fax 0639738771). Il dossier (pp. 5-86), ben articolato su tre livelli (“L’opinione islamica” - “La sfida islamica” - “L’elaborazione islamica”) offre, senza preclusioni, come del resto è caratteristico della rivista, interessanti contributi di studiosi, giornalisti e saggisti come lo stesso Di Lello, Enrico Galoppini, Cristiano Tinazzi, Marco Cochi, Gennaro Malgieri, Massimo Amorosi, Carlo Maciocco, Salvatore Santangelo, Andrea Marcigliano. Molto informato anche lo “speciale” sull’ “Europa in cerca di energia” (articoli di Antonio Moro, Antonio Pannullo e altri). Ricche di stimoli anche le rubriche “Osservatorio Globale” (si veda in particolare l’articolo di Alfonso Piscitelli sui paesi scandinavi, pp. 139-144) e “Geosofia” (dove prosegue l’affascinante viaggio di Barbara Carmagnola intorno alle radici dell’immaginario geopolitico, pp. 157-176).
Infine, due riviste per i cultori del realismo politico.
La prima, “Empresas Politícas” si pubblica in Spagna, a cura della “Sociedad de Estudios Politicos de la Región de Murcia” , ed è diretta da Jerónimo Molina, professore “titular” di Politica Sociale presso l’Università della Murcia (www.sepremu.org/publicaciones_empresas05.HTM sepremu@terra.es ) . Il fascicolo appena uscito (n. 6 - 1 semestre 2005 ) ospita articoli su Donoso Cortés (José Luis Montero, pp. 17-34), il diritto politico (Jerónimo Molina, pp. 49-69), e su Mihail Manoilescu (Angela Harre, pp. 71-86) e Peron (Fernández Prado e Leopoldo Frenkel, pp. 151-161). Ma si tratta solo di un assaggio… Il menù è ancora più ricco. In precedenza la rivista ha dedicato speciali monografie a Carl Schmitt (n. 4 - 1 semestre 2004) e Julien Freund (n. 5 - 2° semestre 2004).
La seconda rivista, Behemoth, si pubblica in Italia, ed è diretta dal giurista e politologo, Teodoro Klitsche de la Grange (legal.katte-wolit@tiscalinet.it ). Dal sommario dell’ultimo fascicolo (n. 39 - Gennaio-Giugno 2006): Noterelle sui poteri forti ( Teodoro Klitsche de la Grange, pp. 5-11), Michael Walzer e il presunto trionfo della teoria della guerra giusta (Andrea Salvatore, pp. 13-22), Interpretazione e positivismo giuridico (Gilles Dumont, pp. 27-30), e altro ancora.
(2- fine)
Carlo Gambescia

martedì 22 agosto 2006


Si torna a parlare di un  intervento italiano  in Libano
Prodi come Cavour?


Il parallelo storico piacerebbe sicuramente a Sergio Romano, benché possa apparire piuttosto azzardato. In effetti i due personaggi, Cavour e Prodi, sono profondamente diversi. Inoltre Prodi è sicuramente destinato a lasciare nella storia d’Italia una traccia meno rilevante…
Ma il parallelo può essere interessante perché permette di capire quel che fa differenza tra uno statista e un puro e semplice uomo politico: la prospettiva storica, vale a dire la capacità di collocare la politica interna, e in questo caso estera, nel quadro più generale dell’evoluzione storica. Volgarmente si può parlare di lungimiranza storica.
Ora, la spedizione piemontese in Crimea ( 1855), un contingente di circa 15.000 uomini (non un scherzo per il Piemonte dell’epoca, sia sul piano finanziario che militare) come tutti gli storici riconoscono, permise a Cavour di porre nel successivo congresso di Parigi (1856) la questione dell’ unità italiana e quella, più sottile, dell’ avvicinamento politico a Francia e Gran Bretagna (alleate della Turchia e avversarie della Russia), che sarebbe tornato utile nel decisivo “biennio unitario” (1859-1861).
Chi scrive non è uno storico. Inoltre sarebbe inutile entrare nel merito delle vicende che provocarono la “guerra di Crimea” (1853-1856), sostanzialmente legata alla Questione d’Oriente e al problema dello sbocco nel Mediterraneo del gigante imperiale russo, inviso soprattutto alla Gran Bretagna. Quel che invece interessa sottolineare è la capacità cavouriana (sorvolando sull’uomo, sulle sue idee politiche, e sui giudizi di merito che si possano dare sull’unità italiana ), di andare oltre la “politica politicante”, a breve scadenza: vale a dire di individuare chiaramente l’interesse italiano ( quello di allearsi con Francia e Inghilterra), e di utilizzare l’alleanza per la costruzione di un progetto storico concreto e di grande respiro: l’unità italiana.
Ma veniamo a Prodi. Sarebbe facile ironizzare sulla formazione e la personalità di tipo professorale-manageriale (pubblica) del personaggio: abituato più a ricevere ordini che a darne. E dunque a dipendere dagli altri (potere politico e accademico) più che da se stesso.
Ora, Prodi ha deciso, non solo di andare in Libano su mandato Onu (e dunque di un’entità politicamente fluttuante), ma propone, è notizia di questa mattina, la “guida italiana” ( e dunque l’assunzione di ulteriori impegni politici, militari, economici): il massimo dell’irresponsabilità politica e la prova di una assoluta mancanza di prospettiva storica.
Irresponsabilità politica, perché a differenza di Cavour, che stando ai documenti privati e parlamentari dell’epoca, conosceva la situazione politica fin nei minimi dettagli, Prodi non ha alcuna visione precisa né della situazione né delle sue conseguenze politiche, visto che al momento non c’è ancora alcuna chiarezza sulla natura del mandato, le regole di ingaggio, costi economici, eccetera. Perciò, a voler essere clementi, Prodi mostra una grande superficialità.
Mancanza di prospettiva storica, perché, se per Cavour lo scopo ultimo doveva essere il conseguimento dell’ unità italiana, in perfetta sintonia con lo “spirito dell’epoca”(l’Ottocento fu l’età per eccellenza dello Stato-Nazione), oggi per Prodi il solo vero scopo storico dovrebbe essere l’unità europea, non solo politica, ma militare ed economica. Oggi la storia e geopolitica, vanno verso la costruzione di grandi blocchi continentali. Lo stato-nazionale, può svolgere ancora un ruolo significativo, ma all’interno di grandi blocchi geopolitici, ben coesi. E l’ Unione Europea, malgrado la cecità di Prodi e di altri leader europei, ne costituisce naturalmente uno.
Ogni decisione che eventualmente vada contro questo processo, come appunto quella di Prodi (e a prescindere dalla eventuale partecipazione alla missione di Francia o Germania…) è antistorica. Ma si tratta anche di un gravissimo errore politico, che può andare a vantaggio solo di Stati Uniti e Israele (altrimenti non si spiegherebbe la sospetta acquiescenza israeliana alle truppe Onu). Ma che può però provocare altri inutili e tragici lutti in tante famiglie italiane. Per non parlare del già duramente provato popolo libanese.

Carlo Gambescia

lunedì 21 agosto 2006




Le parole e le cose
Islamo-fascismo



Il tema dell’islamo-fascismo richiede alcune riflessioni sul rapporto tra parole e cose: tra ideologia e realtà. Semplificando al massimo: accusare di islamo-fascismo i movimenti islamici di resistenza non ha alcun riscontro con la realtà. Ed è quindi inutile discutere le tesi di studiosi come Berman o peggio di giornalisti come Allam. Che non hanno alcun fondamento storico, sociologico, empirico. Parlare di un rapporto di identità tra il presunto estremismo islamico e i fascismi storici, solo sulla base di un supposto culto per l’irrazionalità è semplicemente ridicolo. E non merita alcun commento. Anche perché allora sarebbero fascisti tutti i movimenti di rinnovamento religioso, e in particolare quelli di derivazione monoteistica. Dimenticando così che i fascismi storici furono invece violentemente antireligiosi, in quanto vere e proprie controreligioni secolari. Ma lasciamo stare.
Quel che invece merita di essere analizzato è il carattere ideologico, se non proprio mitico (di vero e proprio mito politico, e dunque di rappresentazione della realtà) racchiuso nel concetto di fascismo. E nel conseguente uso che ne fanno Bush e in genere alcuni settori intellettuali e politici filoamericani delle democrazie occidentali.
In primo luogo, dopo il secondo conflitto mondiale, e le sue tragedie accusare un avversario di essere fascista (o peggio nazista) significa metterlo subito fuori gioco.
In secondo luogo, l’accusa di fascismo in genere, e ora in particolare (nel riguardi dei movimenti di resistenza islamica), serve a ricompattare il fronte occidentalista, in chiave, ovviamente anti-islamica). Si notino i frequenti riferimenti, non solo in Berman, agli anni Trenta, e alla politica di conciliazione (e dunque “storicamente” sbagliata) nei riguardi di Hitler e Mussolini. Parlare di islamo-fascismo significa perciò appellarsi all’immaginario politico e propagandisco atlantista degli anni delle seconda guerra mondiale. Una miscela ideologica a dir poco esplosiva: da guerra totale. Capace perfino di favorire l’uso di armi atomiche
In terzo luogo, e questo ha un valenza in particolare americana, diremmo liberal (ma recepita molto bene in Europa anche dalla sinistra “libertaria e radicale” (per intendersi, qui in Italia, da Veltroni alla Bonino), come un battaglia contro qualsiasi forma di “morale repressiva”… Sarebbero insomma, fascisti, per fare un esempio banale, sia il padre “all’antica” che intima alla famiglia di non uscire la sera, oppure un datore di lavoro spregiudicato che licenzia senza una ragione precisa, o perfino il professore che il lunedì mattina interroga a scuola studenti assonnati. Invece nel primo caso, quello del padre, si deve parlare di “patriarcalismo”, nel secondo di “liberismo selvaggio”, nel terzo di pura e semplice severità, frutto di frustrazioni personali. Ma non, in tutti e tre i casi, di fascismo. Soprattutto storico.
E’ inutile, ripetiamo, nascondere la pericolosità di questo “immaginario di guerra” (le parole), che oltre a non rappresentare la realtà (le cose) punta alla formazione di un fronte comune antifascista-islamico, delle stessa compattezza di quello contro Hitler, Mussolini e i loro alleati nel 1939-1945.
Un “immaginario di guerra” che non può non provocare reazioni sempre più gravi, e a tutti livelli, nel mondo islamico.
Il punto, purtroppo, è che non è più sufficiente criticare sotto il profilo della razionalità le tesi di Bush sul fascismo islamico. Riteniamo che l’idea, o meglio, il mito del fascismo islamico, stia assumendo forza propria. E che dunque le parole di Bush si stiano trasformando in cose. Soprattutto perché il presidente americano, e i suoi alleati, dispongono della necessaria forza politica, militare, mediatica per trasformarle…
Il che significa che, la situazione è così politicamente e militarmente pregiudicata, che difficilmente potrà essere ribaltata dalla pura e semplice costruzione di un contro-mito.
Ma è moralmente giusto rispondere alle “cose” con altre “cose”? Il vero dilemma, per chi crede nella pace, è tutto qui.


Carlo Gambescia

mercoledì 9 agosto 2006

Il libro della settimana: Costanzo Preve, Elogio del comunitarismo, Controcorrente, Napoli 2006, pp. 268. Euro 16,00

http://www.controcorrentedizioni.it/elogio-comunitarismo-p-108.html


Quel che stupisce del filosofo Costanzo Preve è la prodigiosa prolificità. Nel dicembre del 2005 è uscito Del buon uso dell’universalismo (Edizioni Settimo Sigillo http://www.libreriaeuropa.it/), qualche mese fa Il popolo al potere (Arianna Editrice http://www.ariannaeditrice.it/, già recensito nel post dell' 8 marzo 2006), e ora Elogio del comunitarismo, per i tipi della casa editrice napoletana Controcorrente (controcorrente_na@libero.it ). E in autunno vedranno luce, di nuovo per le Edizioni Settimo Sigillo di Enzo Cipriano, un saggio consacrato al padre della ND, Alain de Benoist, e uno studio sull’antiutilitarismo hegeliano.
E quel che più sorprende, se ci si passa l’espressione, è che Preve non perda mai intellettualmente un colpo: i suoi libri sono sempre intriganti, diremmo ghiotti, ben pensati e nitidamente scritti, soprattutto se raffrontati con la cripticità (programmatica?) di certi testi cacciariani.
Ma veniamo a Elogio del comunitarismo. Se si scorre rapidamente il suo indice ci si accorge subito che il filosofo torinese non si occupa di tardi epigoni come ad esempio MacIntyre e Taylor, ma dei fondamenti filosofici del comunitarismo. Preve, come suo costume, va subito alle radici teoriche del problema, per poi “posizionarlo” metapoliticamente rispetto alle urgenze dell’oggi. Per farla breve: analizzando il comunitarismo di Aristotele, Hegel e Marx, fornisce gli strumenti intellettuali per comprendere limiti e inadeguatezze di molti comunitaristi “dell’ultima ora”, a destra come a sinistra. Ma non è questo il punto che qui approfondiremo. Quel che invece ci preme evidenziare è che Preve, come Augusto Del Noce, ragiona per essenze filosofiche: indaga il comunitarismo nella sua forma pura: come essenza. Vediamo in che modo.
In primo luogo, rifiuta qualsiasi distinzione tra comunità è democrazia: la comunità o è democratica o non è. E questo discende dal fatto che Preve intende la democrazia non tanto come dominio della maggioranze consenzienti quanto come rispetto delle minoranze dissenzienti. Sempre compatibilmente, come è ovvio, con la necessità della decisione politica, e di una ordinata gestione della cosa pubblica.
In secondo luogo, respinge la dicotomia comunità/società: la società ha bisogno della comunità e la comunità della società. Secondo Preve, senza una comunità prepolitica, non è possibile alcuna società. Di riflesso la funzione della politica diventa quella di facilitare la comunicazione tra due realtà. In che modo? Rafforzando i pilastri di quel ponte naturale, già esistente, come ha insegnato Aristotele, tra comunità e società: tra essere e dover essere. Ma come? Puntando sul sincero e stabile riconoscimento dell’altro: non solo come membro della stessa comunità di lingua e nazione (l’essere sociale), ma come membro di una comunità, la più ampia possibile, addirittura mondiale (il dover essere sociale), coniugando così democrazia, dialogo e rispetto delle diversità (religiose, politiche, culturali), in un quadro universalistico.
In terzo luogo, secondo Preve, Marx è un pensatore comunitarista. Anzi il massimo pensatore comunitarista... Per quale ragione? Perché Marx, recepisce il pensiero di Aristotele (l’uomo come essere sociale) e di Hegel (l’uomo come esito di un’ etica comunitaria), per tradurlo nel “comunismo”, come massima forma di comunitarismo: una realtà dove finalmente convergono socialità ed etica (essere e dover essere), come effetto di una crescente “messa in comune”, diciamo così, di sogni e bisogni. I primi legati alla creatività dell’uomo, i secondi alla sua condizione materiale e fisiologica.
Si potrebbe osservare quanto il comunitarismo “fenomenologico” di Preve, sia debitore dello stesso universalismo spontaneista (non evoluzionista...) del giovane Marx: un universalismo che dovrebbe giustificare la spontanea "convergenza" finale ricorrendo all'idea di genericità o plasmabilità dell' uomo. Tuttavia sia Marx che Preve non spiegano o comunque chiariscono, se tale plasmabilità abbia o meno un punto di rottura. Ma del resto si tratta - piaccia o meno -almeno per Preve di una scelta obbligata. Per tre motivi.
Innanzitutto, perché è un' opzione legata alla sua formazione. Un percorso intellettuale e di studio, certo ricco e intenso, ma che ha trovato in Marx un prezioso quanto qualche volta ingombrante compagno di strada.
Inoltre, crediamo, che l'universalismo previano sia in questo caso anche il portato di una necessaria scelta metodologica, per poter indagare il comunitarismo come essenza (pura) , e dunque universale, al di là di certo particolarismo nazionalista otto-novecentesco.
Infine, Preve sembra ritenere che solo l’ universalismo dialogico - nel senso di una verità sull’uomo che può essere declinata secondo modalità differenti - possa impedire al comunitarismo pericolose involuzioni organicistiche o contrattualistiche: che nel primo caso possono trasformarlo in totalitarismo, e nel secondo in asettico e funzionale rapporto fiduciario tra estranei. Il che è vero.
In conclusione, non c’è alcun dubbio, che l’originalità - diremmo assoluta - del testo di Preve, consiste appunto nel proporre un comunitarismo fenomenologico, sia dal punto di vista descrittivo che normativo: come punto di incontro politico tra l'essere sociale e il dover essere etico. Quel che però non viene chiarito - e non è sufficiente compiere un passo indietro dal Marx evoluzionista al Marx spontaneista-universalista - è come si possa giungere a questo punto di incontro.
Malgrado ciò, il libro resta non tanto ( o solo) un “elogio”del comunitarismo”, quanto dell’uomo creativo, libero e solidale, come entitas coessenziale a qualsiasi progetto comunitario.
Una verità, o se si preferisce un' idea regolativa, da non dimenticare mai. E bene fa Preve a tesserne l'elogio. 

martedì 8 agosto 2006





Cari amici,
Sarò via per qualche giorno. 
Ma continuerò a tenervi d'occhio ... 
Chi desidera, può perciò inviare commenti, contributi, osservazioni... 
Un cordiale saluto 


Eventi estivi taroccati o reinventati?

Alla ricerca della sagra perduta




L’estate è soprattutto il momento, specie nelle località di villeggiatura, in cui il “turista per caso” si ritrova, improvvisamente, coinvolto, in sagre e feste locali. Alle quali il villeggiante partecipa, felice di poter recuperare un mondo che credeva scomparso per sempre. Come ogni buon cittadino...
Il problema è tuttavia più complicato di quel che possa sembrare. E merita di essere approfondito.
Oggi discutere di tradizioni e feste popolari, pur essendo importante in un mondo sempre più clone di se stesso, porta purtroppo con sé il rischio di suscitare un vespaio. Per almeno due ragioni.
In primo luogo, perché le tradizioni e le feste popolari, così come ora le intendiamo, sono un lascito del romanticismo ottocentesco: la “reinvenzione” di un passato idealizzato. I romantici, insomma, hanno scoperto per primi e imposto il culto delle radici. Una scoperta che in seguito, come spiccato senso di una comunità di lingua, costumi e tradizioni, vivificherà i cosiddetti risorgimenti nazionali. Grandi rivolgimenti politici che tuttavia - ecco il rovescio della medaglia - riprendono e sviluppano, su scala più piccola, quella dello Stato Nazione, il cammino accentratore dello Stato moderno. Che, una volta consolidatosi distinguerà fra tradizioni buone e cattive: nazionali antinazionali.
In secondo luogo, su questo inquietante “distinguo”, si è poi abbattuto nel Novecento, il ciclone dei totalitarismi (incluso il comunismo nazionalistico di Stalin). Che trasformerà le diverse tradizioni nazionali, in “serbatoi razziali”, puntando su un’esplosiva miscela di romanticismo e positivismo come nel caso del nazionalsocialismo, dove però il determinismo biologico soppianta persino la costruzione culturale. Tuttavia anche lo stato totalitario cercherà di privilegiare, sempre nel senso romantico dell’invenzione, le tradizioni e celebrazioni popolari in sintonia coi suoi principi.
Ecco dunque il problema: l’incendiaria triangolazione tra romanticismo, nazionalismo e totalitarismo ha travolto tutto. Fino al punto di far diventare per reazione i concetti di radici, identità e tradizioni popolari politicamente scorretti. Ovviamente, poiché il senso di appartenenza, come abbiamo visto non è stato - attenzione - inventato ma reinventato dai romantici, si è cercato nel secondo dopoguerra di attribuire alle feste popolari un carattere, come dire, “democratico” in linea con le ragioni ludico-turistiche ed economiche del nouveau régime politico. Si è tentato di appagare, ma in modo innocuo o “sublimato”, quei bisogni di appartenenza e di gioco innati nell’uomo.
E con ottimi risultati, visto che oggi resta complicato, e non solo in Occidente, rifarsi a tradizioni popolari autentiche, a parte quelle ancora esistenti in sperduti paesini scozzesi, bretoni, portoghesi, o comunque non lambiti dalla globalizzazione economico-turistica. E soprattutto ritrovare quelle che lo storico Eric Hobsbawm ha chiamato consuetudini: vecchi modi di agire e comunicare ancora vitali da secoli, se non da millenni. Detto in breve: la tradizione reinventata è una teoria “letteraria”, la consuetudine una pratica quotidiana. La prima viene “inculcata” dall’alto, la seconda “trasmessa” dal basso.
Purtroppo oggi grandi feste popolari come i Ceri di Gubbio o la Corsa dei Tori di Pamplona sono diventate eventi turistici. Dove, certo non manca il popolo, ma è del tutto assente qualsiasi riferimento identitario alle radici guerriere, religiose e ludiche delle celebrazioni. Un altro esempio può essere dato da certe kermesse come quella della Taranta, tenutasi la scorsa estate a Melpignano in provincia di Lecce. Con l’antichissima cerimonia della “pizzica”, la musica dei tamburelli che scandiva ossessivamente l’antico rituale precristiano di cura dal morso, non sempre immaginario della tarantola (la Taranta) trasformata in una specie di concerto rock, all’insegna dell’universalismo politicamente corretto, con De Gregori, Pelù e troupe televisive straniere al seguito. Ma la lista degli eventi “taroccati” potrebbe essere ancora più lunga.
Fine delle feste e delle tradizioni popolari? Il pericolo è grande. Così come è notevole, visto che si tratta di una situazione sociologica border line, il rischio del contraccolpo: della rinascita per reazione di un localismo esasperato, (ri)fondato su cerimonie e feste popolari “reinventate” di sana pianta. Valga come esempio, il rito della celebre ampolla, con le acque del Dio Po, levata solennemente verso l’alto da Bossi, come segno di una ritrovata quanto improbabile padanità …
E tra i due pericoli è difficile indicare il peggiore.

Carlo Gambescia

lunedì 7 agosto 2006


Nuove forme di  paternalismo (statale)
Il tabacco e suoi nemici





Come hanno riferito (e commentato) i giornali, tra i quali in particolare il Corriere della Sera, il Commissario Ue all’Occupazione e alle Pari opportunità, Vladimir Spidla, rispondendo a un’interrogazione, ha escluso che il rifiuto da parte delle aziende di assumere fumatori possa costituire una discriminazione sociale. Infatti molte imprese, in Europa come negli Stati Uniti, tendono ormai a non assumere lavoratori-fumatori. Di qui la presa di posizione “politicamente corretta” di Spidla.
Si dirà con quel che sta accadendo in Libano, queste sono sciocchezze… Tuttavia molti ricorderanno il clima infuocato, quasi da caccia alle streghe (fumatrici), che favorì, nel gennaio del 2005, il varo del decreto Sirchia che imponeva nei luoghi di lavoro gli stessi divieti di bar e ristoranti. Inoltre, dal momento che si tratta di una "battaglia" molto americana (e puritana) , ormai condivisa anche in Europa, prima o poi, anche in Italia si inizierà a non assumere più il lavoratore-fumatore. E’ dunque il caso di parlarne, magari partendo da lontano…
Una prima osservazione generale. Quel che, ogni volta, stupisce è l’inconsistenza delle tesi dibattute: i “puritani”, ormai la maggioranza, sostengono le necessità di una specie di via pubblica alla salute, i libertari, una minoranza, difendono invece il diritto a una via privata. In ultima istanza sarebbe addirittura in gioco la libertà individuale
Ora, la scarsa consistenza della due posizioni, deriva dal fatto che parlare oggi di libere scelte individuali è fuorviante. Rousseau, alcuni secoli fa, vedeva ovunque l’uomo in catene, prigioniero di padri tirannici, re capricciosi, preti e aristocratici dissoluti, grandi proprietari terrieri sfruttatori. Ma se per ipotesi oggi tornasse tra noi, troverebbe l’uomo ancora in catene. Certo, non sono più le catene del paternalismo tradizionalista, ma quelle, altrettanto pesanti, di un capitalismo che con la complicità dello stato interventista ha burocratizzato il mondo.
Non diciamo assolutamente nulla di nuovo. Questo processo di sostituzione dell’antico con un nuovo paternalismo, privo però della tradizionale figura del padre, è stato intuito e analizzato da filosofi della politica come Tocqueville, sociologi come Max Weber, storici come Christopher Lasch. Ma cerchiamo di spiegarci meglio e soprattutto di diluire nel modo più semplice possibile, almeno un paio di secoli di storia.
Dopo aver demolito il sistema feudale e accantonato il liberalismo aristocratico ottocentesco, il capitalismo liberale ha valorizzato nel Novecento una nuova ideologia politica, il liberalismo assistito. Una formula politica che consente di assolvere gli individui da ogni responsabilità morale e al contempo di considerarli vittime delle loro biografie sociali. Su queste basi le strutture del mercato e dello stato hanno elaborato nuovi sistemi di controllo sociale che trattano i devianti (dal criminale al fumatore accanito) come malati. Di qui però anche la necessità di sostituire la “pena” con la riabilitazione medica, o comunque con un nuovo paternalismo: l’individuo è libero e sovrano, ma a discrezione di uno stato e di un mercato così ossessionati dalla crescita produttiva, al punto di pretendere solo individui sani ed efficienti, in grado di ubbidire, produrre e consumare. Insomma liberalismo sì, ma assistito.
Dietro la formula politica, ovviamente si muove una classe dirigente, che pur rifiutando con orrore ogni forma di paternalismo, di fatto lo pratica. Parliamo di amministratori, burocrati, tecnici e specialisti, tutto un personale con doppi, tripli incarichi che serve indifferentemente sia nel pubblico che nel privato. Molti alti funzionari possono servire due padroni: essere al tempo stesso consulenti di una multinazionale e di una commissione ministeriale, oppure diventare ministri dopo avere gestito una grande impresa privata. Ma quel che è più grave è l’ideologia che permea questa classe di funzionari: per un verso si celebra la libertà dell’individuo consumista e narciso, perché utile al mercato, dall’altro si ritiene di sapere perfettamente cosa è bene per lui. Pertanto col consumismo lo si gratifica, e coi divieti lo si ammonisce o “cura”. Tuttavia in entrambi i casi non è l’individuo a decidere, ma il paternalismo liberale che gli impone quel che deve indossare, mangiare, bere, fumare, eccetera, affinché la macchina produttiva non si fermi mai. E, attenzione, è lo stesso liberalismo che un paio di secoli fa, tagliando la testa ai re, si illudeva di uccidere simbolicamente, e per sempre, anche la figura del padre.
Può apparire paradossale, e piuttosto irritante, ma probabilmente l’individuo era più libero due o tre secoli fa. Dal momento che oggi è costretto a mendicare perfino la libertà di accendersi una sigaretta. Oppure a scambiare una ridicola polemica per una battaglia di libertà. Le vere libertà sono altra cosa, richiedono secoli e padri, quelli veri, e purtroppo non si misurano con le teste tagliate né con le sigarette fumate.
Carlo Gambescia

P.S.
L'autore del post non ha mai fumato.


venerdì 4 agosto 2006


Il futuro del capitalismo
Che (brutta) età la terza età... 



Perché meravigliarsi se oggi capitalisti, imprenditori, manager, finanzieri non sono più quelli di prima? In realtà Tanzi, Cragnotti, Fiorani, Consorte, Ricucci, sono il frutto di una logica sistemica. Rappresentano un capitalismo in declino, entrato nella sua Terza Età. E non che all’estero vada meglio, come ha insegnato, a suo tempo, lo scandalo Enron...
Insomma, anche i padroni non sono più quelli di una volta. Ma diamo la parola alla storia.
Il capitalismo viene da lontano, Certo, c’ è la fase eroica, che va dal XVI al XIX secolo, e che vede al comando pirati come Drake, inventori-imprenditori come Wyatt. Arkwright, banchieri del calibro di Rotschild e Morgan e capitani d’industria come Carnegie, Rockfeller. Figure che interpretano la natura creativa e sanguigna del capitalismo. Ma nel 1914, si apre un periodo crisi e transizione. Magari, emergono uomini ancora capaci come Ford, ma la tendenza generale è verso un capitalismo manageriale e speculativo. Due guerre mondiali, l’abbraccio dello stato, la paura di nuovi crolli (come nel 1929) faranno il resto: il capitalista da sanguigno e attivo diverrà un parassita.
Ricapitolando: fase 1 o eroica (che tocca il culmine nel XIX secolo), dove si affermano i capitani d’industria, le cui attività portano alla formazione di grandi imprese, come le corporations americane; fase 2 o dei diadochi (che si generalizza nella prima metà del secolo XX), dove gli eredi dei grandi imprenditori, passano la mano a manager e proprietari azionisti; la fase 3 o speculativa (che dopo un primo sviluppo negli anni Sessanta giunge solo oggi a completa maturazione), dove i principale azionisti, non confidando nei manager, iniziano, come si dice in gergo, a non mettere tutte le uova nello stesso paniere, diversificando gli investimenti per distribuire i rischi. Nascono così i manager di portafoglio, la cui funzione è assolta da venditori istituzionali e intermediari finanziari (fondi di investimenti, società finanziarie ecc.). Ma anche da finanzieri e imprenditori privi di scrupoli…
Il “gioco” finisce così per riguardare solo chi decide di offrire capitale e chi decide come investirlo. E quel che conta per entrambi, non è più la bandiera o il carisma imprenditoriale, ma la redditività di un capitale investito, che a causa della crescente instabilità dei cambi e del progresso tecnologico, diventa sempre più speculativo.
E’ perciò ovvio che in tale situazione proliferino avventurieri di ogni genere. Il capitalismo sembra tornato alle sue origine piratesche. Ma personaggi come Drake erano intrepidi spadaccini e furbissimi pirati , mentre figure come Tanzi, Cragnotti e Ricucci sono a dir poco patetiche: da capitalismo con i pannoloni, O comunque in disarmo.
Come finirà? Schumpeter riteneva che il capitalismo generasse una forma mentis ipercritica, giovevole al progresso economico (la cosiddetta distruzione creatrice…), ma non a quello sociale. Perché l’ “ipercriticismo”, dopo aver distrutto l’autorità morale delle altre istituzioni, si sarebbe rivolto contro le proprie. Il sistema gli appariva proiettato, già negli anni Quaranta del secolo scorso, verso “l’esaurimento delle risorse morali”. E i continui scandali di oggi, come gli appelli retorici al rispetto delle “regole” , indicano che Schumpeter aveva ragione.
Del resto, come tutte le istituzioni sociali, anche il capitalismo è “mortale” (nonostante possa apparire eterno a coloro che vi sono nati e vissuti). Di conseguenza non si capisce perché, anche il capitalismo, come sistema politico, economico e sociale, non possa subire a sua volta, la stessa sorte di altre grandi istituzioni come l’Impero Romano, giudicato, altrettanto eterno dai suoi contemporanei.
Ecco, allora, che figure, in fondo patetiche, come quelle di Tanzi, Cragnotti e Ricucci, possono ricordare quelle degli ultimi imperatori romani d’Occidente, ad esempio Giulio Nepote e Romolo, detto Augustolo, dediti in modo infantile alle proprie questioni private e ignari di quel che stava accadendo intorno a loro.
Con una differenza: il capitalismo è un sistema economico, mentre l’Impero romano era un sistema politico economico integrato, su basi schiavistiche e autarchiche. E dunque sarebbe interessante studiare le relazioni tra questo capitalismo declinante, e il nascente “Impero americano”, che invece si professa liberista e liberale. Tenendo anche presente che il capitalismo americano, pur essendo entrato in una fase di declino, resta comunque più vigoroso di quello europeo e italiano.
Tuttavia, un sistema economico fondato sulla speculazione borsistica e privo di capi realmente creativi, può favorire la nascita di un grande impero divoratore di risorse ? Se il sistema economico (capitalistico) è entrato nella sua terza età, come si concilierà con la prima età (per alcuni seconda) dell' "Impero americano". Dove troverà il capitalismo nuove risorse morali per tornare a crescere? E gli Stati Uniti dove troveranno le risorse economiche necessarie per imporsi mondo? Il che pone, in seconda battuta, anche un intrigante problema teorico: la sorte degli imperi è decisa dalla logica economica o da quella politica?

Come si può notare, non sono domande prive di interesse.

Carlo Gambescia

mercoledì 2 agosto 2006



Profili/33
Franco Basaglia




Per molti Franco Basaglia (1924-1980) è "quello che liberò i matti”: il "padre padrone" della famigerata legge 180, che chiuse i manicomi e mise in discussione il trattamento obbligatorio dei “malati di mente”. In realtà lo psichiatra veneziano scomparso ventisei anni fa, nell’agosto del 1980, è soprattutto una figura intellettualmente intrigante. E dubitiamo che certi suoi critici ne abbiano mai sfogliato gli scritti.

Franco Basaglia nasce a Venezia nel 1924. Nel 1949 si laurea im medicina e nel 1952 si specializza in neuropsichiatria. Lavora nella Clinica delle malattie nervose e mentali dell'università di Padova. Si sposa con Franca Ongaro (scomparsa nel 2005). Gli anni Cinquanta sono anni di studio intenso e di lavoro universitario. Per il suo approccio molto particolare ai problemi delle malattie mentali, che mescola fenomenologia e sociologia, già all'epoca si parla di lui come del "filosofo Basaglia"... Nel 1961 diventa direttore dell'ospedale psichiatrico di Gorizia. A poco a poco, e tra grandi difficoltà riesce a creare intorno a lui un valido circolo di collaboratori. E a far così decollare l'esperienza goriziana... Nascono libri come L'Istituzione negata (con Franca Ongaro Basaglia, Einaudi, Torino 1968), Morire di classe (Einaudi, Torino 1969), Che cos'è la psichiatria ? (Einaudi, Torino 1973), Crimini di pace (con Franca Ongaro Basaglia, Torino Einaudi 1975). Testi, filosoficamente molto ricchi (e politicamente impegnati in senso libertario), che, in particolare, introducono in Italia, reinventandole, le tesi di Goffman sulle "istituzioni totali": un'autentica rivoluzione di pensiero e mentalità, in un'Italia, "psichiatricamente" ancora positivista e lombrosiana. Nel 1968 in un celebre servizio di "Tv 7" sull'esperienza goriziana, Basaglia, intervistato, fa un'asserzione, che condensa simbolicamente il suo approccio: "Tra la malattia e il malato, senza dubbio mi interessa di più il malato". Negli anni Settanta cresce la sua fama. Viaggia molto. Prende contatto con studiosi che si muovono sulle sue stelle linee di ricerca. Si reca anche in Brasile e negli Stati Uniti. Tra il 1969 e il 1971 dirige a Parma il manicomio di Colorno. Si impegna nel movimento di Psichiatria Democratica. E si batte a fondo per la legge 18o (che porta il suo nome), finalmente approvata il 13 maggio del 1978. Nel maggio del 1980, a Berlino, si affacciano i primi sintomi della malattia, che ne causerà la morte nell'agosto dello stesso anno.
Va subito sottolineato un fatto importantissimo. Basaglia fu il primo in Italia a considerare il cosiddetto paziente psichiatrico una persona e non un malato. Detto così può apparire retorico o semplicistico, ma tutti sicuramente ricordano la crudezza di Qualcuno volò sul nido del cuculo, interpretato da un magistrale Jack Nicholson. In quel film la condizione di non persona del “malato mentale”, è delineata con grande bravura e nettezza: dopo pochi istanti si capisce subito che i “pazienti” sono trattati come bambini, o come mine vaganti. E attenzione, in una realtà, l’America degli anni Cinquanta e Sessanta, dove i manicomi, tutto sommato garantivano dei requisiti minimi di “vivibilità”, molto al di sopra di quelli italiani all’epoca. Nicholson vi interpreta la figura di un pregiudicato ribelle, rinchiuso in una clinica psichiatrica, dove viene prima sottoposto a elettroshock, poi lobotomizzato e ridotto a un vegetale: in una parola “normalizzato”.
E questo accadeva nel paese-simbolo della modernità, gli Stati Uniti… Il punto è che la modernità, in particolare quella capitalistica, con le sue rigide istituzioni (a cominciare da stato e mercato), ha praticamente reinventato la figura del folle, come essere da emarginare, se non far sparire del tutto. E questo perché il “matto” così amato e rispettato da Basaglia, fino al punto di restituirgli le ali della libertà, costituiva e costituisce per le istituzioni economiche e politiche moderne, basate sul calcolo e la previsione razionale, un elemento di disturbo. Come definire altrimenti un individuo che non si adegua esteriormente, e che in fin dei conti, non “consuma” come tutti gli altri?
Pertanto considerare i “matti” persone significa andare controcorrente: vuol dire tornare all’antico. Dal momento che nel mondo premoderno, o comunque in altre civiltà, “l’invasato dalla passione per dio o per gli dei”, visto che non poteva esserci altra spiegazione per i suoi “strani” comportamenti, era rispettato, aiutato, talvolta temuto per i suoi “poteri”, e mai considerato un essere inferiore, da tenere ai margini.
Si dirà: ecco il solito buonismo (per giunta venato di tradizionalismo)… Infatti secondo i sostenitori della riapertura dei manicomi, i malati “liberati”, rischiano sempre di essere abbandonati a se stessi da famiglie che non vogliono o non possono seguirli. Certo, spesso è accaduto e accade, ma il vero problema è l’assenza di strutture comunitarie di vario livello capaci di accogliere senza umiliare, e soprattutto di sostenere le famiglie. Un problema che ha le sue radici in una società frammentata, competitiva ma dall’economia fragile e segnata da tempi di vita sempre più convulsi: se c’è tensione e disaccordo nelle famiglie economicamente autosufficienti, figurarsi in quelle che non lo sono, e che devono per giunta seguire da sole un parente in difficoltà.
C’è una bella espressione di Basaglia, che riprendiamo da una recente scelta dei suoi scritti (L’utopia della realtà, Einaudi, Torino 2006, a cura di Franca Ongaro Basaglia, introduzione di Maria Grazia Giannichedda; un volume che costituisce una buonissima base di partenza, anche biobibliografica per chiunque voglia approfondirne il pensiero - www.einaudi.it -) : “ Il re dorme se anche la guardia dorme”. Che significa? Che il re può riposare veramente, solo se il suo reame è in pace. E il miglior simbolo di una condizione di quiete è proprio nelle guardie che riposano tranquille, visto che non hanno più nulla da fare. Ma per giungere a questo serve che il re governi bene e soprattutto riesca a edificare una comunità segnata da scopi condivisi e non dalla lotta spietata di tutti contro tutti… In caso contrario, il re potrà dormire, poco e male, solo grazie alla sorveglianza delle guardie, particolarmente attente a tenere la guerra fuori dal palazzo.
Un guerra di cui i poveri “matti” sono invece le prime vittime.
E Basaglia lo aveva capito. 

Carlo Gambescia

Il libro della settimana: Wilhelm Röpke, Il Vangelo non è socialista, Rubbettino-Leonardo Facco 2006, pp. 168 , Euro 15,00 .


http://www.store.rubbettinoeditore.it/il-vangelo-non-e-socialista.html

Appena abbiamo avuto tra le mani l’ antologia röpkeana, curata da Carlo Lottieri, docente di filosofia del diritto a Siena (Il Vangelo non è socialista. Scritti su etica cristiana e libertà economica 1959-1965, Rubbettino Leonardo Facco, 2006, pp. 168, euro 15,00), il pensiero è volato agli anni Settanta. Quando i librai ti fissavano con aria di sufficienza , se osavi chiedere un classico del liberalismo. Non solo da Feltrinelli e Rinascita, ma in quasi tutte le librerie del centro storico romano. Anche quelle che non erano di sinistra. Ed erano la maggioranza.
Chi scrive ricorda di aver comprato, nel 1973, La società libera di Friedrich A. Hayek, alla libreria Remainder di Piazza San Silvestro, con lo sconto del 75 per cento (l’opera edita da Vallecchi nell’anno di grazia 1969, sontuosamente rilegata, aveva attirato pochissimi lettori nell’Italia mezzo pseudomaoista e mezzo democristiana di allora…): il liberalismo non era più di moda.
Anche i libri di Wilhelm Röpke erano introvabili: non si ristampavano da almeno venticinque anni. Quando nel 1974 uscirono i suoi Scritti liberali nella collana “Liberalismo nel mondo” (diretta da Ercole Camurani), per i tipi della Sansoni, all’epoca in brutte acque, chi scrive, perse un intero pomeriggio per recarsi al Tiburtino Terzo dal distributore romano, solo per acquistarne una copia…
Questo per dire, che negli anni Settanta, la cultura liberale italiana sopravviveva nelle catacombe. L’iniziativa di Camurani, patrocinata dall’Istituto per la storia del movimento liberale, si trascinò di editore in editore (Sansoni, Forni, Li Causi…), e riuscì a pubblicare, per quanto ne sappiamo, un quindicina volumi sui circa venti programmati. Il che, in quelle condizioni, fu quasi eroico.
E’ quindi spiegabile il senso di rivalsa che anima oggi la letteratura liberale italiana, soprattutto dopo la vittoria “mondiale” riportata sul collettivismo comunista nel 1989-1991. Qui però si apre un altro problema. I liberali italiani, come gli antichi cristiani, una volta usciti dalle catacombe, hanno cominciato a chiudere i templi pagani. Fuor di metafora: a scomunicare chiunque si mostrasse perplesso nei riguardi di un ritorno al laissez faire depoliticizzato di stampo ottocentesco. Da questa angolazione l’antologia di Röpke, curata da Lottieri, che attinge dalla raccolta sansoniana, suggerisce due riflessioni generali.
La prima è che il libro conferma che sarebbe meglio parlare di liberalismi e non di liberalismo. Solo nel Novecento, e per limitarsi alle correnti principali, abbiamo i liberali conservatori come Ortega, Croce, Einaudi, Aron, Oakeshott; i liberali progressisti, o liberal come Leonard T. Hobhouse, Carlo Rosselli, Bobbio, Rawls; i Libertarians, nei quali si riconosce anche Carlo Lottieri. Che in particolare apprezza la lezione dell’americano Murray N. Rothbard e del liberalismo della scuola austriaca di economia (Menger, Mises, Hayek, eccetera ). Non per niente i libertarians che includono individualisti radicali, anarcocapitalisti, giusnaturalisti, come nel caso di Rothbard e utilitaristi, sono oggi la corrente intellettualmente più vivace ( si veda la ricca panoramica di Lottieri Il pensiero libertario contemporaneo, Liberilibri 2001).
Tuttavia, non c’è rosa senza spina… I liberali conservatori condividono la causa del saggio realismo politico. I liberali progressisti quella del costruttivismo iperpolitico. I libertarians, invece, celebrano la fine dello Stato e il trionfo del mercato capitalistico, brindando alla depoliticizzazione totale. Per i conservatori senza decisione politica non c’è mercato. Per i liberal, la decisione politica deve sostituirsi al mercato. Per i libertarians la decisione economica deve sostituire quella politica. E qui veniamo alla seconda riflessione.
Non persuade del tutto il tentativo di Lottieri di presentare Röpke, come un libertarian depoliticizzato e “austriacante” a tutto tondo. Anche perché i testi antologizzati provano esattamente il contrario. La “Dritter Weg” (“Terza Via”), teorizzata da Röpke rinvia a un saggio liberalismo conservatore: un pensiero che apprezza la decisione ma non il decisionismo costruttivista liberal, e che celebra l’individuo ma non l’ individualismo libertarian. Facciamo subito alcuni esempi.
Ecco quel che scrive Röpke, a proposito dell’economia di mercato: “Per quanto sia essenziale, l’economia di mercato da sola non può bastare; occorre risolvere alcuni problemi che si pongono al di fuori del problema dell’ordine economico (…). L’economia di mercato deve trovare il suo posto, quale istituzione di inestimabile valore nella cornice più ampia di un ordine politico, sociale morale. Questo ordine economico deve integrarsi negli altri ordini, più ampi e più alti da cui dipende il successo dell’economia di mercato (…)” (p. 83).
Non meno interessanti sono le osservazioni di Röpke sul problema della concentrazione industriale: “L’opinione che la concentrazione sia immancabile non è altro che un mito (…). In fondo siamo tutti d’accordo che i limiti posti in questo campo alla nostra volontà ci lasciano ancora possibilità che meritano di essere esaminate con ogni cura (…).[La politica] intenzionalmente, o ancora più spesso senza avvedersene, sposta i pesi a favore delle imprese grandi e massime. E’ una lotta ad armi disuguali (…). Un programma liberale di decentramento consisterebbe dunque in primo luogo nel rendere le armi pari (…), è [perciò] giustificata la domanda su come potrebbe cambiare la situazione nel senso da noi desiderato, se, al contrario, i pesi venissero spostati a favore delle imprese medie e di giusta misura. Perché in fin dei conti, è più importante l’optimum umano e sociale di quello tecnico-economico dell’azienda” (pp. 84-85).
I due brani - ma si potrebbe citarne anche altri - rinviano all’ ordoliberalismus (liberalismo ordinato) della scuola di Friburgo, che Röpke condivise con altri economisti come Walter Eucken e Alexander Rüstow. Un forma di liberalismo “organizzato” che costituì la solida base teorica su cui la Germania costruì la sua “economia sociale di mercato”, che tanto contribuì al rilancio produttivo del paese nel secondo dopoguerra, grazie anche al saggio decisionismo politico di Ludwig Erhard. Mentre il liberalismo depoliticizzato di Mises, Hayek e dei libertarians privilegia lo scambio economico, trasformando il mercato nella madre di tutte le istituzioni, il liberalismo ordinato invece fa dipendere il mercato, pur sovrano nel suo ordine, da altre e più alte istituzioni (culturali, religiose, morali), e in primis dalla decisione politica. Per quale ragione? Perché, per Röpke, il mercato è una macchina semiautomatica che ha bisogno di essere azionata e sorvegliata, magari da lontano… Altrimenti si rischia di degradare i valori più nobili in valori puramente materiali e produttivi.
Pertanto, andrebbe riletta senza forzature libertarian la cosiddetta “trilogia di guerra” di Ropke: La crisi sociale del nostro tempo (1942, Einaudi Roma 1946); L’Ordine internazionale (1945, Rizzoli 1946), Civitas umana ( 1944, Rizzoli 1947). Per capire, finalmente, come le critiche di Röpke al gigantismo capitalista e collettivista procedano di pari passo. Ma anche per comprendere come l’instaurazione dell’ordine economico liberale, sia sempre esito di una decisione politica e non della mano invisibile.
A riguardo, è degno di nota, l’apprezzamento di Röpke verso Kemal Atatürk, quale modernizzatore della Turchia e veicolo di un fisiologico “elemento gerarchico-autoritario”, o decisionale, insito in tutti i sistemi politici, anche liberali ( La crisi sociale del nostro tempo, p. 102). Come è pure significativo il seguente giudizio: “ Non è Stato forte - scrive Röpke - quello che s’ingerisce di ogni cosa, e tutto attrae a sé. Al contrario [è] (…) il far valere inflessibilmente la propria autorità e dignità quale rappresentante dell’universale contraddistinguono lo Stato veramente forte (…). Questo è lo Stato che l’economia del mercato e il nostro programma economico presuppongono: uno Stato che sa tracciare esattamente il limite tra l’ agendum e il non agendum” ( p. 241).
“Uno Stato che sa tracciare”...  Ciò significa, che in ultima istanza, per Röpke, è la politica che decide e non l’economia.
Ecco il liberalismo che ci piace.

Carlo Gambescia