giovedì 30 giugno 2016

Dopo la strage di Istanbul
L’aria degli aeroporti rende liberi ( ma nessuno   sa  più perché...)



Ci si chiederà, dopo  la strage di Istanbul, perché  gli aeroporti?  Al di là delle questioni tecniche (di tecnica terroristica), l’aeroporto, dal più piccolo al più grande,   rappresenta il viaggio nella  versione più rapida, scintillante,  cromaticamente moderna,  individualistica, quale scelta di libertà.  Si potrebbe dire, che l’aria dell’aeroporto rende liberi, come si diceva un tempo delle allegre  città  che faticosamente si ergevano, attraverso fiere e mercati, contro il fosco  castello feudale.  Pertanto, colpendo un aeroporto si colpisce il simbolo, forse più rappresentativo e concreto della libertà e del progresso occidentali.
E noi siano consapevoli di tutto questo?  E soprattutto siamo coscienti del fatto che il nemico  ci odia, perché, in ultima istanza, alla mobilità e all’apertura al mondo, privilegia (e ci oppone)  fissità e chiusura? Insomma, alle luci della città, la jihad continua a preferire  le ombre del castello... Ecco l'amara verità.
Si dirà,  ma allora, se siamo così aperti, moderni e  liberali, perché non apriamo le nostre frontiere agli immigrati ? Non è cultura del viaggio, anche quella ?  Rispondiamo subito.  Innanzitutto, anche negli aeroporti, simbolicamente parlando, si sono sempre fatti controlli e implementate misure di sicurezza.  Inoltre, l’Europa del dopoguerra  non mai  hai negato asilo politico a nessuno. E ha accolto e accoglie quante più persone  ha potuto e può.  Infine, a proposito di  coloro che si battono per la chiusura  ermetica della frontiere,  si tratta di una posizione intransigente sposata dai settori politicamente più retrivi della nostra società: il contraltare collettivo, psicologico e culturale, quanto a fissità, di chi si fa esplodere negli aeroporti, seminando il terrore.
Come difendere allora la  cultura (liberale) del viaggio?  C’è chi sostiene che dovremmo far finta di nulla.  Insomma, di  continuare a viaggiare come nulla fosse. In verità  è  ciò che  continua ad accadere, nonostante qualche piccola oscillazione dopo ogni attentato.  Il che però paradossalmente incoraggia l’inazione militare.  Solo se gli attentati dovessero ripetersi a scadenza sempre più ravvicinata, mettendo in crisi il consenso e il business,  allora forse i governi  interverrebbero con la decisione necessaria. Altra amara verità.     
Il che deve  far riflettere -  lezione di metodo n. 1 -  sul reale  rapporto  sociologico tra i  valori (la cultura liberale del viaggio) e le questioni elettorali ed economiche (consenso e business), ossia sulla reale influenza dei primi (i valori) sulle seconde ( gli interessi concreti). Influenza, che per ora non c’è.  Ciò significa che di regola -  lezione di metodo n. 2 -    ci si muove ( e nel caso ci si muoverà)  solo quando gli interessi sono (e saranno)  seriamente minacciati.   
In modo paradossale,  il valore simbolico della cultura liberale del viaggio è perfettamente compreso (e perciò disprezzato) proprio dai nostri nemici, che temendola si impongono di distruggerla nel nome di una cultura dell’immobilismo.   Noi invece, diamo tutto  per scontato, al punto di aver dimenticato l’immenso valore simbolico  di salire  su un aeroplano… Sicché in Occidente  si continua a viaggiare, ma, come dire, in chiave inerziale.  Si è mobili, come prima, forse più di prima,  ma senza capire perché e dove stiamo andando.    

Carlo Gambescia            
               

martedì 28 giugno 2016

Tutti pazzi per i populisti?
Gratta la nazione,  trovi lo stato sprecone



Si dice  spesso che la sociologia semplifichi troppo le cose e che quindi sia lontana dal fotografare la realtà. Non siamo d’accordo. Ecco  un esempio.
In questi giorni si discute della Brexit. I fronti sono divisi.  C'è chi  parla della necessità di trovare nuova coesione  e rilanciare l’idea europea, anche senza Londra,  oppure chi sostiene, come i populisti, di “sfasciare tutto” e ritornare alla cara vecchia nazione, all'insegna dell'  ognuno per sé dio per tutti. 
Ma perché non piace, oppure piace troppo, l’idea dell’unificazione europea?  Diciamo che al fondo della questione  - ecco la chiave sociologica -  c’è il rilancio o meno dell’idea di patto redistributivo.  Di che cosa parliamo?  Di un’idea che è alla base del welfare state e che ha contraddistinto l’evoluzione della società europea dalla  fine della Seconda guerra mondiale   agli  anni Settanta del Novecento.
Il patto redistributivo implicava (e implica)  il trasferimento di ingenti risorse  dal pubblico al privato, attraverso la leva fiscale (quindi tasse elevate)  e gli investimenti pubblici (a pioggia),  allo scopo di ridurre le diseguaglianze sociali e di favorire lo sviluppo economico. Il patto era (ed è) tra le forze politiche  di sinistra ( socialisti, partiti cristiano-sociali, liberalsocialisti), gli imprenditori  (dei vari settori), i sindacati. Da una parte si rinunciava alla rivoluzione, dall’altra si concedeva un sistema assistenziale e previdenziale, in genere a ripartizione, dalla culla alla tomba e per tutti. Il che, alla lunga,  ha condotto alla crisi  fiscale dello stato nazionale.
Per contro l’Unione Europea, e soprattutto monetaria,  incarna, pur con tentennamenti ( è pur sempre nelle mani dei catto-socialisti) l’idea opposta:  quella contributiva, profondamente liberale, ossia che  non è lo stato a guidare lo sviluppo, ma il singolo, che a proprio rischio e pericolo, affronta il mare tempestoso dei mercati, contribuendo, per così dire, alla baracca,  mettendo a disposizione le proprie capacità individuali. Il che spiega  le rigorose politiche  Ue di controllo dei bilanci pubblici che vanno a colpire proprio  quella che era l’idea guida del patto redistributivo: spesa pubblica a gogò. Di qui, meno spazio per i politici nazionali, che non possono più usare la spesa pubblica come strumento di consenso politico  e perciò  distruggere  il senso di responsabilità contributiva dei singoli ai processi di mercato: perché impegnarsi, pensavano e (pensano) i cittadini, se c'è chi provvede per me dalla culla alla tomba?  Si potrebbe chiamare, immaginosamente ma con un brutto neologismo:  welfa(re)talismo collettivo. Ricapitolando, e per dirla con una battuta di dubbio gusto: gratta la nazione, trovi lo stato sprecone…
Insomma,  dietro la rivolta populista c’è il vecchio partito della spesa pubblica a gogò (socialisti, comunisti, fascisti, cattolici e liberali di sinistra)  che spera, facendo un passo indietro, di agguantare il potere, per dirla brutalmente,  comprando voti in cambio  di pensioni facili, magari  già a  diciotto anni… Che ci vuole?  Basta cambiare il nome e chiamarle Reddito di Cittadinanza. Il che, come tutti sanno, è impossibile, se non distruggendo  il nostro sistema economico.
Concludendo, la sociologia insegna, che sotto gli alti ideali del sovranismo populista, si nasconde il partito della spesa pubblica. E sotto quelli, secondo alcuni ancora più elevati  dell’Europa unita? Il partito del rigore economico.  Il che, va riconosciuto, sul piano politico è poco attraente. Soprattutto se non si spiega ai cittadini europei  che ogni centesimo di spesa pubblica in meno è  un centesimo di libertà in più.  Ma a Bruxelles hanno paura di  dichiararsi liberali.  Sicché la gente comune non comprende la ragione dei tagli e vota per i populisti… Anche se, per alcuni osservatori, la gente non capirebbe comunque, perché  uomini e donne,  in larga parte,  alla libertà preferiscono la sicurezza. O meglio “una promessa” di sicurezza... 

Carlo Gambescia           

lunedì 27 giugno 2016

Calcio ed economia: Italia-Spagna, non solo una partita  
 “A las cinco de la tarde”



Oggi Spagna e Italia si affrontano sul campo di calcio.   Su quello dell’economia la sfida è stata vinta dagli spagnoli, l’anno passato, quando  la Spagna ha  registrato un reddito pro capite superiore nostro e una crescita del Pil  straordinaria (al ritmo del 3%, tendenziale), per un  paese, negli anni  Ottanta del Novecento ancora arretrato nei suoi fondamentali,  rispetto all’Italia.  Ma si leggano le interessanti e ben documentate  riflessioni di Gianni Balduzzi  sul grandissimo balzo in avanti,  nonostante una crisi che in Spagna aveva addirittura  morso di più  (*) 
Come si spiega  questo successo economico ? Più flessibilità, meno burocrazia, giustizia civile più veloce, tasse meno alte,  nonché  (di riflesso) quell' aumento dei consumi interni che ha trascinato la ripresa.  Come è stato giustamente notato  da Gianni Balduzzi, : “ è singolare ed è  un elemento di riflessione   che proprio i due grandi Paesi in cui vi è stata meno austerità e l’aggiustamento fiscale è stato minore [Italia e Francia, ndr], nonché non vi è stato alcun calo del costo lavoro, ora sono quello in cui i consumi  e la crescita in generale arrancano”.
Ma, allora, perché lo stallo politico? Le doppie elezioni, che non sembrano premiare il Ppe, principale artefice di questo successo?   Purtroppo -  ecco il rovescio della medaglia -  le liberalizzazioni non pagano.  Almeno nell'immediato.  Anzi, fanno addirittura perdere voti.  Come ieri è accaduto al Ppe, che però nonostante tutto  resta il primo partito spagnolo. E  a vantaggio di forze estremiste come Podemos , che comunque non ha “sfondato” come alcuni sondaggi invece annunciavano.  
Perché questa crisi politica?  Esiste, crediamo,  una  sfasatura tra  percezione della crisi e apprensione del progresso economico. Ci spieghiamo meglio.  
La percezione della crisi è  mediatica, intuitiva ed emozionale,   mentre  il progresso economico concerne l'apprensione ragionata e ragionevole  del proprio stile di vita.   Evidentemente, lo stile di vita degli spagnoli non è cambiato, probabilmente in alcuni  casi  è addirittura migliorato, per contro la percezione della crisi, soprattutto mediatica, con i mass media sempre pronti a enfatizzare virtuisticamente, gossip e scandali,  si è abbondantemente nutrita di  quel famigerato ritornello antipolitico  ben noto anche in Italia. E della fittizia discrasia tra percezione politica (negativa) e realtà economica (positiva)  hanno tratto vantaggio partiti come Podemos e C’s,  prontissimi a fare dell’antipolitica bandiera.  Mettendo in crisi anche un partito socialista, che da un pezzo non è più quello del grande riformista Felipe  González.  Ma non tutto l’elettorato  spagnolo, per usare, una frase fatta, “pensa negativo".  Dal momento  che in Spagna ha governato,  e bene, Rajoy, liberale e moderato e non  un' accozzaglia politica, all'insegna del populismo, come il centrodestra italiano.
Quanto detto spiega le divisioni politiche e il conseguente stallo elettorale, frutto, sintetizzando,  di un virtuismo immaginario e diffuso.  Che certe persone amino piangersi addosso? E che di conseguenza la "crisi" faccia ascolto? Di qui, forse, il cupio dissolvi mediatico? E la conseguente  invasione  delle prefiche populiste? A destra come a sinistra? Tema da approfondire. Fortunatamente,  l’economia spagnola va (perché a suo tempo  le riforme, a differenza dell'Italia, sono state fatte). La Spagna in crescita, nonostante lo stallo,  dimostra così  di  poter  fare a meno della politica.  Ma fino a quando?  
Quindi, concludendo:  Spagna 2 - Italia 0, almeno  sul manto erboso dell’economia. Su quello di calcio si vedrà  “a las cinco de la tarde”.  E che vinca il migliore.


Carlo Gambescia

sabato 25 giugno 2016

Il dibattito  politico dopo la Brexit 
Populista  a me ?
Ma mi faccia il piacere….




È veramente interessante osservare dal punto di vista sociologico come nel dibattito politico, successivo alla Brexit,  i perdenti  accusino di populismo i vincitori, attribuendo al termine un' accezione negativa.  E come invece nelle repliche i vincitori se ne vantino.  Vogliamo fare un poco di chiarezza?       
Secondo Vico, per prenderla da lontano, «la natura de’ popoli prima è cruda, dipoi severa, quindi benigna, appresso dilicata, finalmente dissoluta» (Scienza nuova, Libro I, Degnità LXVII). Insomma, il popolo era « uno istrumento», instabile e pericoloso da maneggiare. E oggi? Dopo alcuni secoli di democrazia, le cose sono cambiate? No. Infatti, nelle democrazie liberali e parlamentari si continua a diffidare, e giustamente:  il populista - colui che inneggia al popolo - continua a non essere ben visto. Di regola, si scorge nel populismo il tentativo di trovare facili consensi tra classi considerate poco evolute (per usare un eufemismo): roba da “arruffapopoli” per aspiranti dittatori. E qui Aristotele, Tocqueville e pure Vico si darebbero soddisfatti la mano…
Il populismo, insomma, pone al centro il popolo, quale fonte ideologica di ogni potere democratico. I suoi critici, invece, ritengono che l’appello al popolo sia puramente strumentale e basato sul ricorso ai peggiori “istinti animali”.  E qui nasce una  rilevante contraddizione, come dire, sistemica. Perché la democrazia ha il suo principio di legittimità  proprio nella volontà popolare. Quindi, "istinti animali" o meno, l’appello al popolo è fondante, rifondante eccetera.  Inoltre va  ricordato, che tutti i movimenti politici moderni, nella fase di “stato nascente” (prima di “acchiappare” il potere) si sono sempre appellati alla sovranità popolare, a cominciare da quelli liberali (si pensi alle rivoluzioni ottocentesche per le Costituzioni). Dopo di che, nella fase post-rivoluzionaria , il ricorso diretto al popolo, pur presente come principio, è sublimato  in favore di forme istituzionali di tipo parlamentare.
Riassumendo, all’interno della politica moderna, sprovvista di altre forme di legittimazione, l’appello al popolo è un dato sociologico e politico costante, che vale per tutti: populisti e anti-poupulisti. Perciò, l’accusa di populismo è certamente strumentale, ma “a doppio senso di marcia”. Perché, per un verso, riguarda il tentativo delle forze al potere (istituzionali) di tutelarsi, screditando, a priori, ogni opposizione movimentista (allo stato nascente, appunto), definendola nemica della democrazia rappresentativa. Per l’altro però, il movimentista, pur di conquistare il potere, attacca strumentalmente le istituzioni esistenti, liquidandole a priori come nemiche di un popolo- parte-sana per eccellenza, che viene così “reinventato” per puri scopo politici.
Comunque sia, e per farla breve: sia le istituzioni che i movimenti populisti si ritengono depositari della sovranità popolare. Di qui,  la feroce lotta, spesso sotterranea, che ha come obiettivo la conquista o la difesa della legittimità politica. Inoltre, i movimenti populisti tendono ad avere maggiore forza di penetrazione nella società rispetto ai movimenti sociali e politici della sinistra classica (socialdemocratica e rivoluzionaria), perché rifiutano l’internazionalismo e puntano sull’idea del popolo-nazione. Rifiuto che diventa tanto più efficace quanto più, come accade oggi,  la globalizzazione viene  considerata quale  causa di  disgregazione sociale. È vero? È falso? Che la globalizzazione faccia male ai popoli?  Chi scrive -  basandosi sulla letteratura più seria in argomento - ritiene che la più ampia circolazione delle merci e delle idee sia un fattore, in ultima istanza,  di progresso e di pace.  Tuttavia,  il pluricentrismo economico  collide  con l’ etnocentrismo politico e sociale, che invece sostiene l’esatto contrario. E la politica, che punta sull’effetto-credenza,  e quindi nel caso specifico sull'angoscia collettiva, come  paura di una prossima  perdita economica, piuttosto che sulla perdita effettiva di beni e servizi,  avrà sempre una marcia in più su una scienza, come quella economica, che parla alle menti e agli interessi e non ai cuori e alle passioni.  Il che, almeno da Adam Smith, è un bel problemino. Non solo cognitivo.     
Qualche conclusione.
La forza di un movimento populista, come quella delle istituzioni che ne ostacolano la crescita, dipende, dando per scontato un livello minimo di benessere,  dal grado di “scollamento” tra la realtà  e la  reinvenzione istituzionale e  populista della realtà.  
Siamo davanti a un problema di maturità e capacità collettive di apprezzamento dei risultati perseguiti dal sistema istituzionale. Quanto più cresce l’insoddisfazione - attenzione, come angoscia di perdere o di avere qualcosa, non come mix di dolore e paura  per  averla già persa  o non avuta -   tanto più la protesta dei movimenti populisti tende a rafforzarsi. Di qui, la necessità per le istituzioni di  non perdere credibilità ( e legittimità). Ma come?  Inseguendo il populismo sul piano della demagogia? Quindi “sfasciando” tutto, economicamente.  Oppure cercando di spiegare  razionalmente  la bontà (sistemica) di ciò che si è fatto finora? E in quanti ascolteranno o saranno in grado di capire o condividere?  Purtroppo, populismo e senso di angoscia collettiva procedono insieme.  E i discorsi razionali, di regola, lasciamo il tempo che trovano, soprattutto sul piano collettivo e  in particolare nelle fasi in cui il  giudizio sulla crisi (negativa) tende a prevalere sui fatti, perché “comanda” l' angoscia collettiva.  
Prove di forza in vista? Difficile dire. Dal momento che  resta molto complicato prevedere l’evoluzione sociologica di un populismo vittorioso. In genere, come mostra la storia del Novecento, la critica alle istituzioni liberal-democratiche rischia sempre di sfociare in forme autoritarie, se non proprio totalitarie. Tuttavia non si può neppure escludere che il populismo contemporaneo possa essere cooptato sul piano istituzionale, dando così un suo contributo politico di rinnovamento, senza "sfasciare"  tutto…
Un bel dilemma, insomma. Anche se non bisogna disperare, perché secondo Pareto, che se ne intendeva, i popoli, di regola, sono più conservatori di coloro che li governano.
Carlo Gambescia



venerdì 24 giugno 2016

Gran Bretagna fuori dall’Ue
Brexit ha vinto




Il lampionaio ce l’ha fatta… Per capire cosa vogliamo dire  è necessario  leggerci fino in fondo.  Prima però alcune osservazioni.
La prima  è che ciò che  sorprende non è tanto il risultato (che davamo per scontato, poi spiegheremo perché), quanto il testa a testa e la quantità di consensi ricevuti dal Remain nella patria degli  Hooligan e dell’insularità come valore politico:  un miracolo. Ciò significa che  il consenso (esistono i sondaggi, o no?) era  un  dato sul quale  di poteva lavorare politicamente,  per farlo crescere e poi  indire il referendum.  E invece Camerun si è infilato da solo, e prematuramente,  nel  tunnel della democrazia  diretta.   Soltanto per questa stupidaggine si dovrebbe dimettere.
La seconda,  è che il risultato era scontato, per almeno due ragioni: la prima, storica,  la tradizione di insularità  (per tagliar  corto, dello splendido isolamento imperiale: “Possiamo fare da noi”), idea che continua a tagliare trasversalmente lo schieramento politico inglese ( e  gli elettori).  Quindi, ripetiamo, se mezzo miracolo c’è,  è nella quantità di voti che ha ricevuto il Remain; la seconda ragione,  è che i processi di unificazione politica, di qualunque tipo siano (politico, economico, militare)  vivono di contraccolpi: non sono pranzi di gala...  Pertanto sulla sua  strada l’Europa unita (per giunta nella democrazia e nella pace, interne) troverà altri ostacoli del genere. È inevitabile.  
Quanto  alle conseguenze,  fermo restando che  tecnicamente  il passo indietro del Regno Unito, che tra l’altro godeva di statuto speciale Ue,  non è immediato (insomma non è per oggi, né per domani mattina), ne scorgiamo due: 1) l’apertura di una fase  di (ulteriore) instabilità economica,  che può contagiare anche il resto d’Europa; 2)  l’ estensione altrove, in termini di pratica del caos politico, dell’ esempio referendario (l' "effetto domino" di cui parlano con sussiego i media). La democrazia diretta è come la nitroglicerina, andrebbe maneggiata con cura.  E quel che manca all’Europa sono i bravi artificieri. Capaci di disinnescare la bomba referendaria. Veri politici. Non commessi viaggiatori dei diritti dell'uomo, ragionieri, esattori, assistenti sociali.
Ai malati di romanticismo politico che oggi festeggiano in nome della  retorica dei popoli contro le élites, cosa possiamo dire?  Che potrebbe essere una vittoria di Pirro. Perché il nemico esterno (sia politico, sia economico eccetera), in un mondo diviso in grandi aree geopolitiche,  non si può non affrontare uniti. Ciò però  significa  che anche  la  retorica europeista, evocata  da  una classe politica, quasi tutta di molliccia tradizione socialista e pseudocristiana, lascia il tempo che trova.  Dobbiamo restare uniti perché così impongono i  più  sani  principi del  realismo politico.    
Esiste però una differenza di fondo.  Rispetto agli europeisti (di ogni tendenza, anche la più insopportabile), nazionalisti, sovranisti, euroscettici, come il lampionaio del  Piccolo Principe,  continuano ad accendere il lampione, del “sacro suolo” appena  tramonta il sole, non accorgendosi che il sole delle nazioni tramonta sempre più in fretta.  E, tuttavia, come il lampionaio, rispondono che si tratta  della “consegna”.    
Che tristezza.  Non solo  per l’Europa unita, se ci si perdona l'enfasi, donna ancora giovane e bellissima,  il cui canto di libertà e indipendenza, nonostante le avversità,  raggiunge  il nostro  cuore colmandolo di gioia,   bensì per gli sciocchi lampionai   che non si accorgono che il mondo  ha mutato velocità. E che la “consegna”è superata.
Carlo Gambescia                  

giovedì 23 giugno 2016

Il libro della settimana (recensione a cura di Teodoro Klitsche de la Grange): Pietro Di Muccio de Quattro, L’ideologia italiana. Dialogo tra Callido e Stolido, Liberilibri, Macerata 2016, pp. 132,  Euro 15.00. 

http://www.liberilibri.it/pietro-di-muccio-de-quattro/237-lideologia-italiana.html

E’ connaturale alla politica la dialettica tra fatti e aspirazioni, interessi e valori, comando ed obbedienza, pubblico e privato. E così nella valutazione delle vicende e delle regolarità politiche è doveroso considerare gli uni e gli altri: essere e dover essere. Senza trascurare mai il monito di Machiavelli che “colui che lascia quello che si fa, per quello che si dovrebbe fare, impara più presto la ruina che la perservazione sua”.
I due personaggi del dialogo sono Callido e Stolido. Al di là del fatto che spesso quanto sostengono non è del tutto in linea con il significato dei loro nomi, nel primo prevale una considerazione realistica e disincantata della politica; nel secondo la contrapposta idealista ed “immaginaria” (nel senso del Segretario fiorentino). E sono due personaggi, in un certo senso “eterni” (anche per le tesi esposte). Ad esempio Callido a un certo punto afferma sui governanti “Che potere è il potere se chi comanda non può fare il proprio bene, com’è inevitabile, e pure il bene altrui, com’è lodevole?”; che è a un dipresso quanto sosteneva Trasimaco nella Repubblica di Platone “ciascun governo legifera per il proprio utile, la democrazia con leggi democratiche, la tirannide con leggi tiranniche, e gli altri governi allo stesso modo. E una volta che hanno fatto le leggi, eccoli proclamare che il giusto per i sudditi si identifica con ciò che è invece il loro proprio utile”. E Stolido replica a Callido “In democrazia e benefattori governano perché il popolo sceglie governanti buoni che comandano a fin di bene. Ciò che chiamano governo, dunque, è bontà fatta persona e istituzione” (p. 24). Tesi anch’essa antica, in vari modi e sfumature – anche se non così ingenue - sostenuti da Thomas Müntzer a Sieyés; dai Levellers a Mazzini.
Mentre le tesi di Callido sono per lo più ragionate, basate su fatti e confortate dall’esperienza, quelle di Stolido sono - scriverebbe Pareto – delle derivazioni, ossia giustificazioni pseudo-razionali di pretese, pregiudizi e aspirazioni. A un certo punto Callido lo rileva: “O Stolido, deciditi a rispondermi con le ragioni della ragione … Getti sul vuoto dei tuoi argomenti il mantello della sapienza greca e pretendi di camminarvi sopra senza sprofondare”.
Sulla giustizia sociale Stolido enuncia subito dopo, invece un imperativo categorico “La giustizia sociale non poggia affatto sullo spirito di fazione … Proclama e reclama un diritto universale: «voglio quel che hai tu perché tu hai quel che io non ho»”; Callido ribatte “Un diritto? Al contrario, una pulsione atavica!”. E Stolido, alle strette, riconosce la realtà “La democrazia è, appunto, il potere organizzato per prenderseli e spartirseli i beni altrui”; il quale tuttavia, come sosteneva già Hobbes, è un difetto di tutti i governi, anche se quelli democratici ne soffrono maggiormente perché devono soddisfare le aspettative di tanti.
Quanto alla meritocrazia, le tesi di Stolido la riconduce alla decisione di chi governa “E’ giusto che la democrazia, tramite la politica, decreti il successo dei cittadini … La remunerazione degl’individui e la distribuzione delle ricchezze devono determinarle il potere pubblico, politici, sindacalisti, funzionari, che sanno avvantaggiare chi merita e sfavorire chi non merita”, cui Callido risponde “Merito e successo non sono pane per i denti di chi li ha afferrati o tenta di afferrarli”. In sostanza le convinzioni di Stolido finiscono, nella pratica, per convertirsi nel loro opposto. Non è bene che il popolo sia lasciato libero di scegliere “Il piacere che procura la coscienza di aver rispettato la legge nel perseguire il proprio interesse materiale o spirituale non dev’essere lasciato ai governanti. Per gustarla, una tal soddisfazione, il popolo necessita d’esser lasciato libero di scegliere. Il che non è bene. L’onore di ricevere dall’autorità l’esplicito permesso per molte iniziative deve rendere l’aria irrespirabile ai cittadini desiderosi di vivere autonomi ed indipendenti. Perché in definitiva il potere democratico ha lo stesso vizio/aspirazione di qualsiasi governo: quello – come sosteneva Bonald – di rendersi indipendente da coloro su cui è esercitato. L’esperienza italiana di più di un governo degli ultimi decenni, prova che, nella misura in cui sono in-dipendenti dal corpo elettorale (non eletti) tendono ad opprimere ancor di più i governati (v. IMU e così via). Anche perché se non dipendono dal popolo devono rispondere a qualcun altro che li ha intronizzati.
E il dialogo va avanti in frizzanti botta e risposta, che stigmatizzano i luoghi comuni della vulgata post-comunista, cioè il “pensiero” della decadente repubblica italiana. Anche se questo comprende molte tesi sostenute nel “secolo breve” e arrivate per forza d’inerzia fino ad oggi, la considerazione che se ne può tirare è questa: che se il comunismo è morto, il luogocomunismo sopravvive e neppure malamente. Il campionario di luoghi comuni, frasi fatte e pregiudizi consolidati è sempre vitale. Perché quella italiana del pamphlet è l’ideologia del potere: che questo sia più o meno rosso, nero o a pois, poco incide sulla di esso vocazione profonda. Come sanno i liberali come l’autore per i quali vale sempre la tesi del Federalista, che se gli uomini fossero angeli non occorrerebbero governi; se i governanti fossero angeli non occorrerebbero controlli sui governi. Ma dato che gli uomini non sono angeli, occorrono governi e controlli sui governi. Quello che Stolido non vuole capire.

Teodoro Klitsche de la Grange

Teodoro Klitsche de la Grange è  avvocato, giurista, direttore del trimestrale di cultura politica “Behemoth" (  http://www.behemoth.it/ ). Tra i suoi libri: Lo specchio infranto (1998), Il salto di Rodi (1999), Il Doppio Stato (2001), L'apologia della cattiveria (2003), L'inferno dell'intellettuale (2007), Dove va lo Stato? (2009),  Funzionarismo (2013).


mercoledì 22 giugno 2016

Per battere  il M5S  serve un patto repubblicano
 Emergenza!



Le prime indagini sui flussi elettorali  provano che  non  fu  vera gloria quella del M5S.  A Roma e Torino la destra populista  ha votato ai ballottaggi (quasi in massa)  il partito pentastellato. Perfetta (e diabolica) consonanza tra politici ed elettori. Ciò significa che siamo messi molto male: prima, l'odio politico, poi si vedrà...  Anche perché lo stesso è accaduto, o poteva accadere,  dove era al ballottaggio la destra contro i pentastellati. Esiste infatti anche una sinistra populista, orfana di Berlusconi, che pur di far cadere Renzi (nuovo nemico assoluto) sarebbe disposta a tutto. 
Sicché  il M5S  si è guadagnato  il titolo onorifico di  “macchina da ballottaggi”.   Il che è vero.  Ma con una precisazione. I pentastellati non attraggono gli elettori di destra (e di sinistra) per la bontà dei programmi  - ecco il punto da chiarire, che sfugge a molti politologi -  bensì perché giocano sulla totale mancanza negli avversari , oltre che di senso politico, basato sul dare per ricevere,  di spirito repubblicano: quel senso dell’union sacrée della repubblica delle libertà contro il nemico populista e illiberale. Lo stesso spirito, per capirsi,  che  impedisce in Francia (dove ci sono doppio turno e ballottaggio), l'ingresso in   Parlamento di una forza anti-sistemica come il FN. 
Il M5S, insomma, sfrutta elettoralmente (beneficiandone) l'odio che i suoi avversari nutrono reciprocamente.  A grandi linee, e senza voler proporre paragoni storici impropri e imbarazzanti, Mussolini in Italia vinse - come del resto Hitler - giocando proprio  sulla divisione degli avversari, ridotti al rango di nemici assoluti ed epigoni di una democrazia rappresentativa  incapace di prendere qualsiasi decisione. Ovviamente, il M5S,  non può essere paragonato, sul piano organizzativo ( a due movimenti politici militarizzati), però la mentalità politica e la pratica populista sono le stesse. Come sono gli stessi i pericoli del plebiscitarismo  da  web-fiaccolata.  Davanti alle sinistre cattedrali di luce del grillismo blogosferico,  avrebbe   dovuto  accendersi, e da un pezzo, la spia rossa di pericolo.  E invece no.  Si è  preferito - ci scusiamo per la caduta di stile - lanciarsi palle di merda in pieno viso e  così  far crescere e vincere il (comune) nemico populista.  Come vogliamo chiamarla? Immaturità politica. Anche perché, in questo modo, gli elettori, raggiunti, per giocoforza,  da un messaggio politico ancora più elementare, diremmo infantile, continueranno a pascersi nel vittimismo, nell'irresponsabilità, nel gioco al rialzo delle promesse impossibili da mantenere, in cui i partiti populisti  possono  avere la meglio. Certo, a parole. Però. Quindi,  guai a inseguirli sul terreno demagogico, a loro propizio.   
Pertanto contrariamente,  a quanto sostiene Bersani e, come sembra,  Renzi  - i quali, se ci si perdona il frettoloso parallelo storico,  rischiano di finire come Facta e von Papen -  il  dialogo  dovrebbe eventualmente aprirsi con le forze liberali e democratiche del centrodestra. Escludendo però personaggi decotti, etno-leghisti e post-aennini, ormai  regrediti allo stato fetal-fascista. 
In realtà, il Partito della Nazione, teorizzato anche da Renzi (ma esistono varie versioni: ce n'è una di Ferrara e un'altra, addirittura, pentastellata),  non ci convince. E per una semplice ragione:  perché riteniamo che la destra (democratica) debba fare la destra e la sinistra (democratica), la sinistra, come impone ogni sana democrazia rappresentativa e liberale. Tuttavia il momento è grave: c'è un'emergenza. Grazie all’Italicum,  il M5S potrebbe agguantare il potere. E ancora peggio sarebbe, se non passasse la riforma costituzionale, perché l’Italia andrebbe al voto con due sistemi elettorali diversi: uno per il Senato (il Porcellum) uno per la Camera (l’Italicum). Sarebbe il caos. 
Pertanto di necessità si deve fare virtù: va  creato  un fronte politico repubblicano. O meglio, occorre un patto repubblicano:  prima sul referendum, per evitare  il caos  di cui sopra,  poi sul piano elettorale, a tutti i livelli, puntando su patti di desistenza  per contrastare il pericoloso populismo pentastellato.  
Ne saranno capaci i partiti repubblicani?


Carlo Gambescia                 

martedì 21 giugno 2016

Arma dei Carabinieri (*) 
Nucleo di Polizia Giudiziaria di [omissis]
VERBALE DI INTERCETTAZIONE DI CONVERSAZIONI O COMUNICAZIONI
(ex artt. 266,267 e 268 C.P.P.)
L'anno 2015, lunedì 19 ottobre, in [omissis] presso la sala ascolto sita al 6o piano
della locale Procura della Repubblica, viene redatto il presente atto.
VERBALIZZANTE
M.O Osvaldo Spengler
FATTO
Nel corso dell'attività tecnica di monitoraggio svolta nell'ambito del p.p. n 2367105 R.G.N.R. -R.R.I.T. nr. 34986, [Operazione “FINE PENA MAI”, N.d.V.] in data 19/06/2015, ore 09.45, è stata registrata una conversazione intercorsa tra l’utenza 322***, in uso a BERNASCONI SILVANO,  e l’utenza 388***, in uso a BRAMBILLA SERENELLA, ex segretaria personale di BERNASCONI SILVANO. Si riporta di seguito la trascrizione integrale della conversazione summenzionata:

[omissis]

BRAMBILLA SERENELLA: “Dottore, come sta?”
BERNASCONI SILVANO: “Serenella! Che piacere!”
BRAMBILLA SERENELLA: “E il cuore? Come va il cuore, dottore?”
BERNASCONI SILVANO: “Bene bene, dicono i medici che sono come nuovo…”
BRAMBILLA SERENELLA: “…però?”
BERNASCONI SILVANO: “Però niente, l’operazione è riuscita, sto bene, sono…[pausa]”
BRAMBILLA SERENELLA: “Dottore? Sono io, dottore. La sua Serenella, il suo…”
BERNASCONI SILVANO: [ride]: “Il mio scudo umano, sì…[pausa] Eh, Serenella…Il cuore che vedono i medici va bene. L’altro…be’, l’altro è un po’ stanco, Serenella.”
BRAMBILLA SERENELLA: “Dica pure, dottore, la seguo.”
BERNASCONI SILVANO: “Lo so che tu mi segui. Anzi, ti dirò che fino a quando mi hai seguito tu non…mah, inutile rivangare, non credi?”
BRAMBILLA SERENELLA: “Sempre guardare avanti, dottore.”
BERNASCONI SILVANO: “Ecco, brava. Solo che adesso, se guardo avanti cosa c’è? Ho ottant’anni, Serenella! Ottanta!”
BRAMBILLA SERENELLA: “Be’? La spaventano i compleanni, adesso? Cosa le è successo, dottore?”
BERNASCONI SILVANO: “Cribbio, non lo so cosa mi è successo, però mi è successo! [pausa] La famiglia, non c’è più. Le aziende, ormai le vendiamo. Il partito, ah, il partito…”
BRAMBILLA SERENELLA: “Dottore! Ma cosa dice!”
BERNASCONI SILVANO: “Non c’è più un cane, Serenella. Le ragazze, si fanno vive solo per chiedere soldi, per dire cose brutte, per ricattare…Nessuno mi ama più, Serenella! Anzi, peggio: nessuno mi odia! Nessuno mi odia più, nessuno mi invidia, nessuno ha paura di me…non mi fanno più le caricature, le vignette con il mostro Bernasconi…non mi arrivano neanche più gli avvisi di garanzia, ti rendi conto? L’altro giorno…[piange sommessamente]
BRAMBILLA SERENELLA: “Dottore? Dottore, cosa fa? Piange?!”
BERNASCONI SILVANO: [singhiozzi rattenuti] “L’altro giorno…l’altro giorno mi ha telefonato l’Elda Boccarini…”
BRAMBILLA SERENELLA: “Quella strega! Che l’ha perseguitata per una vita! Che faccia di tolla!”
BERNASCONI SILVANO: “E lo sai cosa mi ha detto?”
BRAMBILLA SERENELLA: “No! Un altro processo?! Che senzadio, quella lì!”
BERNASCONI SILVANO: “Mi ha detto: ‘Riguardati, Silvano, e tanti auguri.’ Con una vocina dolce dolce, come da sorella, capisci? Quasi da mamma…E sai il peggio qual è? Lo sai?”
BRAMBILLA SERENELLA: [pausa] “No, dottore.”
BERNASCONI SILVANO: “Era sincera, Serenella. Le dispiaceva per me.” [scoppia in lacrime, singhiozza convulsamente]
BRAMBILLA SERENELLA [lunga pausa]: “Dottore? [pausa] Dottore? [pausa] Dottore? [pausa] Dottore! Adesso basta! Torni a bordo! Torni a bordo, cazzo!
BERNASCONI SILVANO [sempre piangendo] “E dov’è Dudù? Dov’è? Me l’hanno portato via! L’unica persona che mi capiva!” [singhiozza, tira su col naso, geme]
BRAMBILLA SERENELLA [lunga pausa] “Va bene, Silvano. Adesso vengo lì. Ti porto anche Dudù. Stai buono, su.” [Profondo sospiro. Interrompe la comunicazione]

Letto, confermato e sottoscritto
L’UFFICIALE DI P.G.

M.o  Osvaldo Spengler

(*) "Trattasi" -   tanto per non cambiare stile,  quello  della  Benemerita...  -   di ricostruzioni che sono  frutto della mia  fantasia di  autore e commediografo.  Qualsiasi riferimento  a fatti o persone  reali  deve ritenersi puramente casuale. (Roberto Buffagni)


Chi è il  Maresciallo Osvaldo Spengler?  Nato a Guardiagrele (CH) il 29 maggio 1948 da famiglia di antiche origini sassoni (carbonai di Blankenburg am Harz emigrati nelle foreste abruzzesi per sfuggire agli orrori della Guerra dei Trent’anni), manifestò sin dall’infanzia intelletto vivace e carattere riservato, forse un po’ rigido, chiuso, pessimista. Il padre, impiegato postale, lo avviò agli studi ginnasiali, nella speranza che Osvaldo conseguisse, primo della sua famiglia, la laurea di dottore in legge. Ma pur frequentando con profitto il Liceo Classico di Chieti “Asinio Pollione”, al conseguimento della maturità con il voto di 60/60, Osvaldo si rifiutò recisamente di proseguire gli studi, e si arruolò invece, con delusione e sgomento della famiglia, nell’Arma dei Carabinieri. Unica ragione da lui addotta: “Non mi piace far chiacchiere .” (Com’è noto, il carabiniere è “uso a obbedir tacendo”). Mise a frutto le sue doti di acuto osservatore dell’uomo in alcune indagini rimaste celebri (una per tutte: l’arresto dell’inafferrabile Pino Lenticchi, “il Bel Mitraglia”). Coinvolto nelle indagini su “Tangentopoli”, perseguì con cocciutaggine una linea d’indagine personalissima ed eterodossa che lo mise in contrasto con i magistrati inquirenti. Invitato a chiedere il trasferimento ad altra mansione, sorprese i superiori proponendosi per la sala ascolto della Procura di ***. Richiesto del perché, rispose testualmente: “Almeno qui le chiacchiere le fanno gli altri.”
***

Roberto Buffagni è un autore teatrale. Il suo ultimo lavoro, attualmente in tournée, è Sorelle d’Italia – Avanspettacolo fondamentalista, musiche di Alessandro Nidi, regia di Cristina Pezzoli, con Veronica Pivetti e Isa Danieli. Come si vede anche dal titolo di questo spettacolo, ha un po’ la fissa del Risorgimento, dell’Italia… insomma, dell’oggettistica vintage...




lunedì 20 giugno 2016


Ballottaggi Comunali  2016/ La vittoria  del M5S
Ha vinto il popolo bambino



Innanzitutto ci scusiamo con i lettori ( e con l’autore), la Rubrica dell’amico Roberto Buffagni è posticipata a domani. Del resto come non dire la nostra sulla vittoria del M5S?
Un primo dato è che in Italia  non funziona l’unità repubblicana:  il patto tacito  che esclude i partiti estremisti -  come ad esempio  in Francia o Austria -   dove un elettore maturo, invitato da partiti altrettanto maturi,  impedisce  con il voto incrociato la vittoria  dei bambini bizzosi e pericolosi della politica:   populisti, neofascisti, neonazisti neocomunisti, eccetera.  Il che significa che alle prossime politiche, soprattutto se si svolgeranno sotto il segno dell’Italicum,  il M5S potrebbe avere il  via libera a governare l’Italia: “quelli”,  come afferma maliziosamente l’amico Carlo Pompei,  “del pallone  è mio e decido io chi debba giocare”.
Un secondo dato è che venti anni di stupido e controproducente debunking mediatico-giudiziario hanno contribuito a diffondere un’ immagine della politica  riduttiva e infantile:  come luogo del “bau-bau corruzione”,  sullo sfondo di fantasmagoriche ombre cinesi proiettate ad arte  sulla parete della sala mensa dell’ asilo nido della politica. Un teatrino, tra risate, urla, pianti e altro,  di cui il M5S, il massimo dell’infantilismo politico, ieri,  ha largamente  profittato.
Un terzo dato - molto amaro -   è che, alla fin fine, visti i risultati ogni popolo ha il governo che si merita:  un popolo di ragazzini  viziati, bizzosi e piagnucolosi,  perché questo sono oggi gli italiani, merita, per ora, in alcune grandi città, di essere governato  da un banda di ragazzini altrettanto viziati, bizzosi, piagnucolosi.                
Non ci si dica  infine  che questa è la democrazia.  Dal momento che   -  rileggevamo proprio ieri sera alcune bellissime pagine di Benjamin Constant -   la  sovranità, quale principale manifestazione del potere,  non diventa di colpo buona solo perché appartiene al popolo, trasformandosi, per l'appunto,  in democratica, ossia in "potere buono" perché democratico: la sovranità, per non diventare totalitaria, ha giustamente  necessità di incontrare quei limiti  rappresentati dai diritti dei cittadini: dalla libertà individuale alla  libertà di  opinione, che include la libertà di manifestarla, dal  godimento della proprietà alla garanzia individuale contro ogni arbitrio.  Il problema  non  è  chi sia il soggetto investito, bensì che la sovranità non sia mai assoluta, a prescindere dal soggetto che la genera: da dio al popolo divinizzato. Il popolo, insomma, può trasformarsi nel peggiore dei tiranni.   
Tematiche, queste, squisitamente liberali, come dire mature,  e perciò  assolutamente estranee all'infantilismo politico del  M5S e dei partiti populisti.  E per tale ragione, siamo molto preoccupati. Per parafrasare il grande ispettore Coliandro (e Callaghan), quando un popolo bambino incontra dei politici bambini, quel popolo è morto, o comunque  smette di crescere.  Ed è ciò che sta accadendo in Italia.  

Carlo Gambescia 

sabato 18 giugno 2016

 Luca Bergamo,  ideatore di “Enzimi”,  futuro  assessore pentastellato  alla “Crescita culturale”
 Cosi parlò Virginia Raggi



Tra i nomi dei futuri assessori pentastellati, colpisce quello di Luca Bergamo, che  si occuperà, come ha dichiarato Virginia Raggi,  di “Crescita culturale” (1).  Qui il curriculum (2).
Bergamo, di  cui non disconosciamo le notevoli capacità organizzative,  pratica però un approccio socratico-olista. Tradotto:   il futuro assessore  pone al centro della sua visione  politica  l’identità tra conoscenza e virtù ( più libri leggi, più musei visiti eccetera, più  diventi buono) e cittadinanza (più libri leggi, più musei visiti eccetera, più  ti trasformi in buon cittadino).  Roba da manuale del cittadino perfetto.  Che rinvia a quello dell’uomo perfetto, che a sua volta rimanda al pensiero utopico, facendo così scattare il sistema di allarme contro il virtuismo a sfondo totalitario, brevettato per l' Italia dall'ottimo Luciano Pellicani.       
Si dirà, perché questa severità?  Un signore che accetta di fare l’assessore non può  non avere una visione interventista della cultura.  E sia.  Ma Bergamo, almeno così sembra, vi crede troppo. Basta fare un giro su YouTube (3) oppure visitare i siti di “Culture Action Europe” (4), associazione che egli presiede, nonché di “Enzimi” (5),  sua creatura, per sentirsi ripetere in modo martellante che la cultura, a cominciare da quella giovanile,  è  fattore di trasformazione della cittadinanza da  “passiva in  attiva”, e che  è necessario implementare  “buone pratiche” che aiutino il processo. Non si pronuncia però mai la parola libertà, nel suo senso individuale. Il tutto sembra  prevalere sulla parte:  la stessa libertà artistica viene vissuta in chiave olistica, come strumento di cambiamento collettivo. La logica politica di Bergamo ( e sarebbe interessante saperne di più sulle sue letture)  è quella  del sassolino che, precipitando a valle,  insieme agli altri pezzi di roccia,  si  trasforma via facendo  in  gigantesco  e rovinoso smottamento collettivo capace di cambiare il corso della storia.
Insomma, nella  sua visione l’individuo conta solo se e quando  accetta le “buone pratiche”, naturalmente collettive.  E qui si aprono due (grosse) questioni:  sui contenuti delle “buone pratiche” e sull' implementazione delle medesime.
Da quel che per ora siamo riusciti a capire, le  “buone pratiche”, rinviano a un fritto misto di ecologismo, arte e musica urbana, mode giovanili, millenarismo museale,   transculturalismo  neo-mediatico. Tradotto:  fumo da Social Network. Mentre  l’ implementazione rimanda  all’idea, ben criticata da Fumaroli,  di un  État cultural, quale fonte però, come per il fisco, di redistribuzione  del capitale culturale  (Bourdieu?). Tradotto: tasse da Welfare.
Il punto, come dicevamo,  è  quanto Bergamo creda in ciò che dice. Perché scoprirlo aiuterebbe a capire se abbiamo davanti un buonista come Veltroni o un guru come Casaleggio…

Carlo Gambescia


venerdì 17 giugno 2016

Morta Jo Cox,  deputata laburista pugnalata al grido di “Britain First”
Il nazionalismo 
è vivo e lotta insieme  a noi




L’assassinio della deputata britannica contraria alla Brexit  e in qualche misura  i  durissimi scontri fra tifosi in Francia, sono un altro segno che il nazionalismo è vivo e lotta insieme a noi.  Perché?
Gli europei,  purtroppo,  non sembrano aver capito la lezione del Novecento, eccellentemente ricondotta  da Nolte  nell'ambito  storico  di una disastrosa  “guerra civile europea”: milioni di morti, causati da due conflitti di cui ancora si ignorano le vere ragioni politiche, se non quelle dell’odiosa prevaricazione, in nome di ideologie nazionaliste e/o socialiste.  E ciò che è più grave è il fatto che non si comprenda tuttora, per ricorrere a  un principio banale,  che l’unione fa la forza e che, ad esempio, il nemico jihadista  può essere combattuto e vinto solo  da un’Europa (e un Occidente) militarmente e politicamente coesa.  E lo stesso principio si può estendere alle misure anti-congiunturali  e alle politiche  migratorie.
Non  vorremmo però che le nostre critiche venissero confuse con quelle di certo umanitarismo psicologistico, buonista,  per dirla in termini giornalistici,  che non capisce, anzi non vuole capire,  come  il populismo, di cui tanto si parla oggi ( che in realtà non è che un combinato disposto di socialismo e nazionalismo), sia  in certa misura il portato delle  rivoluzioni liberal-nazionali che hanno distinto l’Ottocento europeo,  reinventando -  per alcuni addirittura inventando -  l’idea di nazione.  E che quindi questa idea sia una forza profonda ( e non  una patologia psichiatrica) dai  natali culturalmente nobili. Si pensi solo al nostro Risorgimento nazionale.      
Ora, la storia degli ultimi due secoli, prova che  fino a quando l’idea di nazione si è mantenuta all’interno di ciò che può essere definito l’apparato concettuale e istituzionale  del liberalismo (democrazia rappresentativa, stato di diritto, libertà di espressione e di iniziativa economica), altra invenzione ottocentesca coeva (ma grande invenzione…),  è rimasta  nell’ambito fisiologico del patriottismo.  Ma come l’idea di patria è fuoriuscita dal liberalismo, si è trasformata in nazionalismo, patologia politica, soprattutto quando contaminato dal socialismo nel sue varie forme, dalle più democratiche fino a quelle totalitarie.  Il punto di discrimine  - di passaggio  dall’uno all’altro -    per l’Italia può essere rappresentato dal conflitto politico-culturale tra Neutralismo e Interventismo ( e all’interno dell’Interventismo,  dallo scontro post-bellico tra  democratici e nazional-fascisti).  
Pertanto,  forze profonde -  come l’idea (collettiva) di patria - non possono essere liquidate tout court come forme psicotiche.  La storia degli ultimi due secoli non si può cancellare a colpi di spugna psichiatrici.  
Servono però correttivi. Perché è altrettanto inevitabile  che,  un’ Europa politica,  burocratizzata, socialista, umanitarista e codarda, provochi  contraccolpi nazionalisti.  Insomma,  socialismo e nazionalismo, anche in termini conflittuali, sembrano andare sempre insieme, di conserva si sarebbe detto un tempo.
In fondo, il processo sociologico è semplice (da spiegare);  più burocrazia, più centralismo a livello europeo,  per reazione più nazionalismo, più assistenzialismo, più  socialismo "decentralizzato" in basso tra le nazioni recalcitranti; in definitiva,  seppure secondo tempi diversi, più autoritarismo per tutti.  Se ci si passa la caduta di stile,  si rischia di cadere dalla padella  nella brace. Detto altrimenti, si tratta di un mix esplosivo, dai pericolosi risvolti, neppure tanto nascosti, totalitari.  E qui si pensi alla truculenta retorica populista.
Come “ingabbiare” il nazionalismo e ricondurlo nell’alveo protetto del patriottismo? Al malato, per così dire, si dovrebbero prescrivere  dosi massicce di liberalismo.  Ma come? Se nella patria stessa della rivoluzione liberale l’odio nazionalista sembra dilagare, come prova il feroce assassinio di ieri?
Carlo Gambescia    


                                                                

giovedì 16 giugno 2016

Comunali 2016. I ballottaggi per i sindaci
Come liberarsi del M5S?
Sperare  che vinca. O no? 


Probabilmente il modo migliore per capire l’inconsistenza politica del M5S  potrebbe essere quello della prova di governo, quantomeno sul piano locale  Perciò, perché non augurarsi che domenica vinca in due  importanti  città italiane come Roma e Torino?  
Del resto così funziona la democrazia.  Vince chi prende più voti.   Qui, però,  se ci passa l’espressione,  cade l’asino. Perché, in paesi come l’Italia, dove la modernizzazione di tipo liberale e riformista non è mai stata  di casa, quindi dove  destra e sinistra non hanno mai accettato la società aperta, il M5S rischia di vincere catalizzando i voti delle frange più reazionarie dei partiti e dell’elettorato  di destra e  sinistra.  E perciò di fare male alla democrazia...   Come del resto provano i dati  sui flussi elettorali e l’endorsement per i candidati pentastellati di alcuni dinosauri della politica come Alemanno e D’Alema.  Atteggiamento che fa il paio con l’odio puro verso Renzi, i cui spiriti animali modernizzatori fanno più paura ai retrogradi di quelli ostentati -  più che posseduti -  da Berlusconi e Craxi.  Ovviamente - inciso per i lettori  liberali - Renzi resta un riformista di sinistra. Purtroppo nessuno è perfetto. 
Dicevamo tendenze  reazionarie,  per quale ragione? Perché  si  guarda con nostalgia al welfare catto-social-comunista partitocratico e sindacatocratico, all’economia mista o partecipata, fonte di ogni corruzione, sistema costruito negli anni Sessanta, Settanta e Ottanta del Novecento (perché a Craxi, nonostante il fumo riformista molto Drive In,  faceva gola  il teleromanzo delle partecipazioni statali). 
Pertanto l’elettore pentastellato crede ancora nella befana welfarista.  Il risveglio perciò potrebbe essere brusco, molto brusco. Perché  scelte programmatiche come il Reddito comunale di cittadinanza a gogò, l’Acqua pubblica come se piovesse, la difesa a oltranza delle municipalizzate,  hanno  un costo enorme che  si tradurrà  in tasse e  balzelli, altrettanto elevati che i cittadini di Roma e Torino  saranno costretti  a subire.  Senza ottenere nulla in cambio. Perché il  pubblico non è la soluzione ma il problema.      
Quanto alla questione morale, sbandierata dai pentastellati, le sue radici sono proprio in quei  controlli burocratici soprattutto in ambito economico, che invece favoriscono corruzione e concussione, controlli che il M5S celebra e vuole intensificare a tutti i livelli, rischiando così di strangolare le economie di Roma e Torino.  Anche qui, insomma, il pubblico non è la soluzione ma il problema.  Il segreto di ogni buon governo è  governare il meno possibile.
Certo, per tornare alla domanda iniziale,  non  è  bello  dal punto di vista del patriottismo, per ora di città, augurarsi la vittoria dei pentastellati, pur  di  vederli, inevitabilmente, cadere nella polvere: caduta, magari disastrosa per tutti,  che però  toglierebbe al M5S la  possibilità di  nuocere.
In effetti, a  metterla in questo modo, ci si sente gufi  come gli antifascisti che salutarono, quasi con gioia, l’entrata in guerra dell’Italia fascista, sicuri che il conflitto avrebbe travolto Mussolini.  Però, ebbero ragione, perché poi tornò la democrazia.  Tuttavia,  a che prezzo?  Altissimo.  Pertanto, in contraddizione con l’analisi fin qui esposta, noi, domenica, proprio non ce la sentiamo di votare Raggi.   Voteremo Giachetti.  Non si sa mai…  

Carlo Gambescia           
                             

mercoledì 15 giugno 2016

Ostia, la sentenza:  criminali non mafiosi
Ancora sulla forza delle cose (sociali)




Chi informerà  “El País” e l’opinione pubblica spagnola, in ginocchio davanti alla  Raggi (1),  che a Ostia,  secondo i giudici della Corte d’Appello, la sentenza è di ieri l’altro,  non operava  alcuna organizzazione mafiosa ma  puri e semplici (certo, si fa per dire) criminali in combutta tra loro? (2)
Probabilmente nessuno,  già oggi i giornali italiani non ne parlano più. Pertanto il danno sociologico, ormai è fatto. Per quale ragione sociologico? Perché rinvia al  fenomeno sociale della mafia-romanzo (3), che per un verso è  forza di complemento psico-socio-culturale nella lotta alla mafia e per l’altro   puro veicolo di propaganda politica,  gonfiato, dai vari populismi nostrani, contro gli  avversari di turno,  come prova l’intervista della Raggi a “El País”.   Dove si legge , in perfetto stile  " Piovra  11",  che la presunta "Mafia di Roma Capitale", sui cui legami con quella di Ostia sì è molto fantasticato,   potrebbe addirittura minacciare la sua persona... E che comunque la candidata pentastellata non ha paura eccetera, eccetera.  Insomma, manca solo il commissario Cattani.., anzi,  "el Jefe" Cattani…     
Ovviamente, Ostia (e Roma) non sono isole felici.  Ci mancherebbe altro.  Però tutto questo è   ridicolo e malinconico. Ridicolo, perché il linguaggio è quello di una fiction, cui tutti sembrano credere con gli occhioni spalancati, imbambolati davanti allo schermo; malinconico, perché evocando lo spettro della mafia, anche dove poi risulta, giudizialmente risulta, che non c'era, si fa naufragare  del tutto, la  periclitante  immagine dell’Italia, dando un calcio definitivo  allo stile, già cattivo, della nostra lotta politica, dove l'importante sembra essere arraffare voti e distruggere l'avversario costi quel che costi,  puntando sul folclore comunicativo.  
Inoltre, abbiamo notato che molti  lettori non comprendono il nostro approccio realistico, sociologicamente realistico alle cose (sociali). Purtroppo, la sociologia deve sempre restare a guardia dei fatti. E i “fatti sociali” - prescindendo, sia detto per inciso, dalle  mitologie sulla liquidità cognitiva messe in circolazione da un sociologo post-comunista, riciclatosi nel libero Occidente, il cui odio biblico per la società libera è  da  sempre immenso  -  sono quanto di più duro possa  esistere in natura sociale.  Esistono infatti,  come abbiamo scritto ieri a proposito del referendum, idee, contraddittorie dal punto di chi osserva (il sociologo), nelle quali però l' osservato (gli attori sociali) crede inflessibilmente, senza percepire alcuna contraddizione. E in quelle credenze,  le  "rappresentazioni sociali" (le idee collettivamente propugnate, a prescindere dal contenuto di verità) acquistano forza propria, diventando verità sociali assolute e intoccabili: duri "fatti sociali" dalla irresistibile forza inerziale, anche se incongruenti sotto il profilo logico e dell'argomentazione razionale. Tradotto: il referendum fa bene alla democrazia; a Ostia ( e Roma) comanda la mafia siciliana, e così via.  Di qui, la nostra  parafrasi verdiana  sulla forza (quasi un destino...) delle cose (sociali).  
Queste  analisi "antipatiche", non in linea con il mainstream cognitivo, qualcuno  deve  pur farle. Certo, si rischia l'impopolarità,  perché purtroppo il prezzo (da pagare)  della spiegazione razionale è l'essere additati come nemici del popolo. Come è già capitato (e capiterà). Del resto, chi ragiona senza fare sconti,  rischia di asserire cose che spiacciono a dio e ai suoi nemici. Secondo Ortega (e Montanelli),  il miglior conferenziere e scrittore è  chiunque dica  cose in cui  i lettori si  riconoscono. Non è il nostro caso.  
Qualcuno penserà: ma allora l’educazione, l’istruzione, la cultura, la "civiltà della conversazione" e  i dibattiti non servono proprio a nulla?  La virtù non è conoscenza? E la conoscenza, virtù?  Insomma, il vero non è anche buono?  Non esiste il progresso morale? Non siamo diventati tutti più buoni e  amanti della verità?  
In realtà,  esiste una vernice sociale, ben studiata da Norbert  Elias, sviluppatasi soprattutto nei secoli "moderni",  sempre però pronta a scomparire sotto i colpi di ciò che rappresenta la principale proprietà sociale dell'uomo. Quale?  La volontà di credere piuttosto che di capire, razionalmente capire. E di "attaccarsi" (dividendosi)  a ciò che ritiene vero, pur in contrasto con qualsiasi spiegazione o dimostrazione razionale, reiterata o meno.
E per scoprirlo,  basta  iscriversi a Facebook… 

Carlo Gambescia



martedì 14 giugno 2016

Per andare oltre il Brexit
Referendum e forza delle cose (sociali)



Uscirà la Gran Bretagna dall’Ue?  Oppure resterà? Difficile prevedere. Preferiamo perciò parlare dello strumento referendario.
Che dire?  Se l'istituto del referendum  ha una caratteristica fondamentale,  è quella di essere legato a una risposta, come dire, di pelle e così  favorire ciò che gli esperti definiscono gli elettori dell’ultimo minuto: i più indecisi, perché lontani dalla politica, per le più differenti ragioni, ma comunque lontani.  Il referendum,  definito dai suoi cultori come il trionfo della democrazia, e anche giustamente se si ragiona  in termini di  meccanismi maggioritari, in realtà seppellisce  ogni forma di prudenza politica, virtù, come noto, che può appartenere soltanto  a pochi lungimiranti,  preparati, coltivati  dirigenti politici.
Inoltre  il  referendum semplifica problemi complessi, spesso di complicata soluzione anche per gli esperti e a maggior ragione per i politici che devono decidere, in un clima quasi sempre di incertezza cognitiva. Figurarsi per le persone comuni digiune di capacità cognitive, non solo specifiche ma spesso anche generali.  Di qui, l’importanza, per tornare sul punto,  della prudenza politica, come virtù delle scelte ponderate, capaci di evitare rischi inutili. Riassumendo, lo strumento referendario,  oltre a essere semplicistico sul piano cognitivo premia la sventatezza e l’imprudenza dell’elettore.    
Filosoficamente parlando, siamo davanti al conflitto tra due principi: uno politico, la democrazia diretta, come forma di legittimazione della decisione politica; uno cognitivo, che prova, come la decisione collettiva, sia l’esatto contrario, di qualsiasi scelta ponderata. Conflitto che però viene rimosso sul piano sociologico, della concreta vita politica,  attribuendo al referendum, a danno del principio cognitivo,  un valore salvifico che non ha alcun valore razionale, ma che dovrebbe garantire, come spesso si ripete,  la legittimità del sistema democratico.
Si sottovaluta però,  che la considerazione della democrazia come fine (celebrandone, in termini di principio, il valore maggioritario, quindi in ultima istanza referendario)  e  non come mezzo (strumento organizzativo da modellare secondo le esigenze, privilegiando comunque la chiave rappresentativa rispetto a quella referendaria) può  spalancare le porte, in nome della democrazia plebiscitaria, ai  nemici della libertà.  Hitler docet.
In fondo, si tratta di una verità scomoda, però riconosciuta da non pochi. Eppure, ci si continua ad affidare, al meccanismo referendario.  Perché?
La risposta è semplice, almeno per il sociologo. Il culto, in quanto tale (quindi irrazionale), del referendum, rappresenta un ottimo esempio di forza delle cose (sociali). O meglio, per dirla con un padre della sociologia, del potere delle “rappresentazioni sociali”,   le quali, assumendo forza propria,  finiscono per essere più forti degli uomini stessi, andando contro i fini razionali  che l'uomo pur si impone di perseguire, come nel caso della conservazione della democrazia. Infatti, la stragrande maggioranza dei politici, conosce lo scarso valore cognitivo-decisionale, dunque razionale, della “rappresentazione sociale referendum", eppure  non si oppone,  anzi, appena può, ne  promuove l’impiego politico, sperando magari di piegarlo a fini particolari o altro.  E, ovviamente, gli elettori, entusiasti o meno, seguono in termini inerziali.
E' razionale tutto ciò dal punto di vista  - generale -  della conservazione della democrazia? No. Pertanto, se le nostre democrazie un giorno cadranno, sarà per via referendaria. Paradossi del politico?  No,  o comunque non solo,  diciamo che la verità  finisce sempre per vendicarsi. 

Carlo Gambescia