venerdì 30 marzo 2012


Piazza Fontana 
No immaginario?  No party?




Leggevamo del film in uscita di Marco Tullio Giordana sulla strage di piazza Fontana. Mah… Non entriamo nel merito dei contenuti prima di vederlo. Ma di una cosa siamo più che certi: esiste un immaginario dominante (o comunque chiassoso e invadente), piuttosto "sbilanciato" a sinistra, cui crediamo Giordana non sia estraneo, che fornisce un' interpretazione complottista e “unitaria” (Dc, servizi segreti deviati, Cia, manovalanza mafiosa e neofascista) della storia d’Italia, da Portella della Ginestra a Berlusconi, passando per piazza Fontana… Anche qui però non entriamo nel merito. Dal momento che sarebbe inutile discutere di “opinioni su”. Perché di questo si tratta… A cui si potrebbe rispondere con altre “opinioni su” di segno contrario.
In realtà, politicamente parlando, la scoperta della verità - ammesso che ci sia "una" verità - sulla storia d’Italia degli ultimi sessant’anni sembra non avere importanza per nessuno. Ci spieghiamo meglio. Se è vero (sempre secondo una certa “opinione su”, molto accreditata a sinistra), che la destra (vera e post-democristiana) non ha tuttora alcun interesse a scoprire antichi altarini, non si capisce perché la sinistra, una volta al governo negli anni Novanta e Duemila, non abbia aperto gli archivi del Ministero dell' Interno e messo a disposizione degli italiani quella verità, tanto invocata.
Tre, le possibili spiegazioni.
La prima. La politica - tutta - ha bisogno di miti, simboli, rappresentazioni collettive. Guai a “demistificare”, perché andrebbe perduto il fascino "mobilitante", come si leggeva un tempo, "delle forze della reazione in agguato". Per cavarsela con una battuta: No complotto? No party?.
La seconda. La politica - tutta - ha necessità del segreto (come insegna l'antica lezione della Ragion di Stato). Attraverso di esso, soprattutto quando si è al governo, si controlla l’avversario (ricattando, minacciando, ecc). Come dire: No segreto? No party?.
La terza, addirittura banale, è che non c’è nessun "filo" segreto da scoprire. Di qui però, la necessità politica, anche per le spiegazioni uno e due, di giocare sull’equivoco, lasciando che i “letterati” (scrittori, registi, artisti, ecc,) continuino a divertirsi, vendendo quell’immaginario di cui sopra. Sempre meglio che lavorare. Anche qui: No immaginario?  No party?.
Ai lettori l’ardua scelta.

Carlo Gambescia

giovedì 29 marzo 2012

Il libro della settimana: Alessandro Orsini, Gramsci e Turati. Le due sinistre, Rubbettino 2012, pp. 148, Euro 12.00. 

www.rubbettino.it

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A chiunque sia rimasto sorpreso dalla foto che ritrae Oliviero Diliberto, leader dei Comunisti italiani, sorridere beato, accanto a una manifestante che indossa la maglietta con la scritta “La Fornero al cimitero”, consigliamo la lettura di quest’ultima fatica di Alessandro Orsini, Gramsci e Turati. Le due sinistre (Rubbettino). Perché si tratta di un libro importante su un tema, di regola, rimosso dalla sinistra, e non solo radicale: quello del riformismo. Che c’entra il riformismo con una maglietta?. C’entra, c’entra… Perché, ad esempio, Gramsci, sul quale si fa tuttora molta confusione definendolo un riformista, se oggi fosse ancora tra noi, plaudirebbe alla maglietta contro la Fornero...
Qual è la tesi del libro? Scrive Alessandro Orsini, professore di sociologia politica e dell’educazione: « Attraverso l’analisi comparata della cultura politica di riformisti e dei rivoluzionari fino all’avvento del fascismo (1898-1921) sostengo che Turati è stato il protagonista di una tenacissima battaglia culturale consapevolmente intesa a portare un argine pedagogico all’ascesa dei totalitarismi di destra e sinistra. L’azione educativa di Turati mirò conciliare la cultura socialista con quella liberale nel tentativo di educare le masse al rispetto del gioco democratico. Sotto il profilo pedagogico, Turati è stato il difensore dei principi che sono oggi a fondamento della cultura politica dei socialisti liberali. Il più importante dei quali è ciò che propongo di chiamare “diritto all’eresia” » ( p. 10). Per contro, l’azione educativa di Gramsci, prosegue Orsini, si poneva agli antipodi di quella turatiana: secondo il pensatore sardo « la libertà poteva essere raggiunta soltanto attraverso la disciplina e la sottomissione al Partito. I giovani ribelli a tale disciplina erano “esseri inutili e dannosi” (…). A suo dire un buon socialista doveva rimanere il più lontano possibile da coloro che erano estranei al Partito (…). Coloro che militavano nel fronte avversario erano corrotti nello spirito. Erano tutti venduti e al servizio del padrone. Il vero socialista è un uomo che legge soltanto la stampa di partito. Egli non deve sfogliare né parlare di libri o di riviste che esprimono un punto di vista diverso da quello del Partito. [Mentre] Turati affermava che il Partito socialista aveva il dovere di educare al rispetto degli avversari politici e alla libertà di critica. Gramsci educava a rifiutare ogni confronto con le idee degli avversari» (p. 70). In sintesi: « Turati e Gramsci sono stati i rappresentati di due sinistre in irriducibile contrasto culturale. I loro valori furono inconciliabili. Turati condannava la violenza, l’intolleranza, l’insulto degli avversari l’ortodossia, la sottomissione al partito. Gramsci esaltava la dittatura, l’intolleranza, il disprezzo del nemico, la violenza, la parolaccia, la soppressione del dissenso e della libertà di critica» (p. 101).
Quindi altro che riformismo... Gramsci fu un leninista puro, come del resto Orsini documenta egregiamente. Insomma, esiste un filo rosso che va dal gramsciano «il nemico è un porco» al Diliberto che sorride accanto a chi invoca la morte dell’avversario politico. Salvo poi scusarsi in modo infantile…
Però, se oggi Diliberto sta a Gramsci, chi sta a Turati? E qui, purtroppo, se pensiamo al fenomeno dell’antiberlusconismo viscerale che ha animato l’intera sinistra nel demonizzare il Cavaliere, resta molto difficile fare nomi. Probabilmente si dovrebbe risalire a Craxi, che, pur sganciatosi meritoriamente dal berlinguerismo (forma senile del comunismo italiano), commise errori di altro genere, che con l’aiutino dei giudici portarono alla dissoluzione di un Psi, ormai su posizioni pienamente riformiste.
E qui, dobbiamo però muovere un rilievo, pur prendendo atto del notevole lavoro di scavo e concettualizzazione di Orsini. Il quale utilizza, e con grande eleganza applicativa, le teorie culturaliste di Geertz e Alexander, basate sul potere autonomo della cultura e delle norme di controllo sociale. Proprio per spiegare, e molto bene, come la cultura politica possa, interagendo con le scelte individuali, riequilibrare le dissonanze cognitive tra norme e fatti, o se si preferisce, semplificando, tra tra il dire e il fare. E come? Talvolta favorendo l’integrazione dell’avversario, talaltra la sua eliminazione, persino fisica. Insomma, Orsini è abilissimo nel indagare il peso di una pedagogia politica, capace di influire sulla formazione del singolo individuo, seguendo differenti direttrici: quella di Turati (riformismo) e quella di Gramsci (rivoluzione). Lavoro eccellente.
Nonostante ciò, Orsini sembra non scorgere la debolezza di fondo del riformismo turatiano, estesasi in seguito alle forze potenzialmente riformiste, in particolare le socialiste, soprattutto fra il secondo dopoguerra e l’avvento di Craxi. Ci spieghiamo meglio: è vero che Turati resta l’artefice di una salutare pedagogia riformista. Ma attenzione: il suo riformismo - apprezzabilissimo, per carità - era pur sempre da lui considerato un mezzo non un fine. Una modalità, se si vuole, per giungere, comunque, alla società socialista. In questo senso le istituzioni della democrazia liberale e rappresentativa, pur se giustificate sotto l’aspetto della contingente attività parlamentare, venivano giudicate, come superabili nella futura società socialista, certo, da costruire per gradi, attraverso le riforme e il rispetto dell’avversario.
Insomma, la debolezza costitutiva del riformismo turatiano è nella mancata accettazione della democrazia parlamentare e della società capitalista come fini e non come mezzi. Una mancata accettazione che caratterizzerà, in modo più o meno spiccato, il partito socialista fino all’arrivo di Craxi. Probabilmente, pur integrando Turati, il raffronto interno con Gramsci, andava perciò allargato al riformismo "finalistico" di matrice bernsteiniana, personificato in Italia, per fare due nomi illustri, da Bonomi e Bissolati. Per inciso: Die Voraussetzungen des Sozialismus und die Aufgaben der Sozialdemokratie di Eduard Bernstein, bibbia del socialismo riformista, uscita nel 1899 verrà tradotto in Italia nel 1945, e in edizione integrale solo nel 1968… Un ritardo, che da solo, meriterebbe uno studio approfondito…
Comunque sia, Bonomi e Bissolati, riuscirono, e con largo anticipo, a superare ciò che lo storico Massimo Salvadori ha definito “sindrome dissociativa” di una sinistra dominata da un antiriformismo mai diventato azione rivoluzionaria. E in che modo? Accordando il proprio consenso riformista allo stato liberaldemocratico e al capitalismo, puntando sul miglioramento progressivo delle condizioni di vita della classe lavoratrice. Certo, furono purtroppo generali senza esercito... E sulla ragione della maggiore "appetibilità" politica e sociale delle proposte massimaliste e, diciamo così, rivoluzionariste rispetto a quelle riformiste, va presa in considerazione un'altra questione, sempre di tipo pedagogico, ma più ampia. Probabilmente, alle origini dell'opzione antiriformista, rimane una particolarità italiana, che non riguarda solo la sinistra, e che risale alla fine dell’Ottocento: quella dell’antiparlamentarismo. Parliamo di una scelta fondata sull’ idea di una mitica democrazia senza parlamento e partiti. Detto altrimenti: di una democrazia organica o proletaria, tristemente capace di mettere a frutto l’odio verso le istituzioni politiche “borghesi”, come poi predicarono i teorici dello stato corporativo e della democrazia progressiva o proletaria. E come oggi continuano a sostenere gli apostoli dell’antipolitica e i grigi adepti del potere tecnocratico, ovviamente in compagnia dei pallidi adoratori della mano invisibile, per i quali, in ultima istanza, sono i mercati a votare e non i parlamenti.
Ecco, il problema italiano non sembra essere mutato: quello di una maturità liberale, tuttora latitante, come capacità di un’intera classe dirigente, sia a destra che a sinistra, di accettare istituzioni liberali per eccellenza, dal parlamento ai partiti. Insomma, di dare una risposta chiara all’antico quesito pre-liberale del ballots or bullets? Schede elettorali o pallottole? La risposta sembra facile: ballots, schede. Eppure…
Comunque sia, libri come Gramsci e Turati non possono non contribuire, e grandemente, alla qualità del dibattito. E soprattutto all’auspicabile sviluppo di una sincera pedagogia liberale delle istituzioni politiche.


Carlo Gambescia

mercoledì 28 marzo 2012


E tu di che di destra sei?


Tira una brutta aria per la destra. Ma prima una domanda: quante "destre-non-destre" esistono in Italia? Molte, troppe.

Innanzitutto c’è il Pdl, che però si autodefinisce forza di centrodestra, senza trattino. Ovviamente, si tratta di una posizione sbandierata in particolare dalla sua componente cattolica, criptodemocristiana e/o ciellina, rigorosamente di centro. Per contro, il posizionamento a destra è rivendicato dagli aennini rimasti con quello che fu il partito di Berlusconi. Un leader, oggi abbastanza ex, che si dichiarava moderato a tutto tondo , e quindi uomo di centro. Come del resto i finiani, ora alleati, per l'appunto, con Casini (l’uomo che più centro di così non si può...). E i socialisti del Pdl? Sicuramente non sono mai stati di destra, se non nell’antico e insultante senso di “social-traditori", ossia di transfughi della sinistra.
A destra del Pdl restano la Lega e i gruppetti dell’ultradestra, questi ultimi con spiccate simpatie fasciste, quindi a rigore né di destra né di sinistra. Stesso discorso per la Lega, il cui localismo, non è di destra né di sinistra. Un parametro, quello del né destra né sinistra, che può essere esteso anche al partito di Antonio Di Pietro e di riflesso ai gruppi che si riconoscono nella critica, spesso qualunquistica, alla democrazia rappresentativa.
Come risulta evidente, a parte qualche nome di politico che spesso rappresenta solo se stesso, manca tuttora una forza liberale e conservatrice (in senso illuminato si intende). L’intero perimetro della destra sembra colonizzato da forze che, a grandi linee, ondeggiano tra il moderatismo spicciolo, un destrismo post-fascista e purtroppo post-liberale, il centrismo cattolico (senza De Gasperi...), il neofascismo condito in varie salse.
Non che la sinistra stia meglio, ma il quadro della destra politica è veramente penoso. Invece di ricomporsi la destra si è completamente spappolata. Si dirà: la colpa è del ex monarca Berlusconi. Per certi versi di sicuro. Per altri no. È mancato alle varie anime della destra quel surplus sovrastrutturale, spesso alla base delle grandi "invenzioni" storiche, che rinvia sempre alla capacità politica di cogliere l’occasione, nel caso offerta dalla discesa in campo del Cavaliere nel 1994. Ma in cosa poteva, anzi doveva consistere il surplus di creatività storica? Nell' andare oltre gli antichi separatismi e oltre lo stesso Berlusconi, ma da destra e in chiave liberaldemocratica. Un pensare in grande e soprattutto al bene dell'Italia.
Evidentemente, anche la storia politica ha sempre un peso e finisce sempre per vendicarsi: in Italia la destra, anche prima dell’Unità (in Piemonte), ha sempre guardato al centro politico. Ora, il Cavaliere, come era prevedibile (anche per i suoi enormi errori), è rimasto a piedi. E così la destra, priva di un padre anche se putativo e mal-destro, rischia di sparire definitivamente. Per dirla con il grande Puccini, l' "ora è fuggita" e la destra rischia di "morire disperata" e ... democristiana.


Carlo Gambescia

martedì 27 marzo 2012


Sul “Barbarossa” di Renzo Martinelli





Due parole sul “ Barbarossa” di Renzo Martinelli. Dunque, abbiamo visto domenica e lunedì l’edizione televisiva del film, probabilmente più lunga di quella cinematografica. Che dire? Il film è indubbiamente spettacolare, senza però raggiungere livelli americani. Ma al tempo stesso risulta rozzo - proprio come un action film statunitense - nell'opera di tratteggio delle psicologie dei protagonisti. Inoltre, non si contano gli anacronismi, a cominciare dall’aver retrodato la caccia alle streghe di almeno due secoli e mezzo. Martinelli è un regista dalla mano decisamente pesante. I suoi film, anche se meritori come “Porzûs”, sono sceneggiati e girati a colpi di ascia. Quanto alla “tesi leghista” tutta giocata dall’inizio alla fine sul riscatto, politicamente post-moderno, delle libertà lombarde, c’è poco da aggiungere… In effetti, Milano correva per sé: i sogni risorgimentali erano lontani "secoli-luce". Se non che (forse per accontentare il neo-paganesimo rusticano dello sponsor Bossi?), si finisce per perdere di vista il profondo legame tra chiesa locale, in primis il basso clero, e rivoltosi. Un aspetto quest’ultimo, che è possibile ritrovare, e capire in tutte le sue conseguenze (soprattutto in chiave di intensa religiosità popolare), nella sempre intrigante Storia della Lega Lombarda, uscita nell'anno di grazia 1848 e scritta da Luigi Tosti. Un monaco di Montecassino, cattolico-liberale, che pur sopravvalutando la natura pre-unitaria (ben sette secoli prima!) di quei moti, ne evidenzia assai bene i risvolti religiosi, del resto tipici della società di quel tempo. Come testimonia e simbolizza, per l'appunto, la religiosissima presenza del Carroccio durante la battaglia, con tanto di altare e sacerdote celebrante una messa in onore del Dio degli Eserciti. Presenza cui sono dedicati nel film pochi fotogrammi e dall’alto… Riassumendo: un film dai caratteri psicologicamente rozzi, non privo di spettacolarità, certamente a tesi, che tuttavia non coglie quel nesso tra fede cristiana e libertà comunali, quindi libertà collettive, mai individuali o “dalla nascita”, come invece rivendica davanti ai suoi accoliti, con anacronistico piglio giacobino, il reinventato Alberto da Giussano del film.

Carlo Gambescia

lunedì 26 marzo 2012



Hobbes 
Malinconia e politico




Hobbes, con Machiavelli, padre del realismo politico moderno, era di indole ansiosa. Quel che è interessante è che Hobbes, consapevole dei rischi legati al violento erompere delle emozioni e passioni individuali e collettive, a differenza del segretario fiorentino (mosso da un forte sentimento di italianità), usò la sua ansia lucida come leva per sollevare-edificare una teoria generale della politica. Infatti, riflettendo, il nesso protezione-obbedienza posto alla base dell’obbligazione politica hobbesiana, può essere interpretato come una forma di autodisciplina. Per un verso rivolta a temperare l’ ansietà del suddito (affamato di protezione), e per l'altro dello studioso (affamato di certezze metapolitiche). Ma è soprattutto il pensatore politico che qui interessa. Perché Hobbes grazie alla sua ricerca consegue la consapevolezza di aver finalmente individuato una costante metapolitica ( comando-obbedienza), ovunque rilevabile storicamente, e perciò fonte - ecco il punto fondamentale - di certezza conoscitiva sul terreno della scienza politica. Tuttavia, l’ essere certi - scientificamente, diremmo oggi - di una "legge politica”, determina un importante effetto di ricaduta psicologica che si ripercuoterà sullo stesso Hobbes e sul cammino dell’intera tradizione del realismo politico moderno. Ci spieghiamo meglio.
L’esistenza - verificabile - di costanti e regolarità metapolitiche, difficilmente lascia scampo a ottimistici perfettismi di qualsiasi colore ideologico. Anche perché le ideologie, o forme di legittimazione, una volta studiate da vicino, non possono non mostrarsi come pure e semplici razionalizzazioni, usate dalle diverse parti in conflitto per giustificare, condannare, e poi di nuovo giustificare, condannare, e così via all’infinito.
La malinconia politica è perciò inseparabile da un altro sentimento: quel "sentire" che tutto si ripete e tutto torna. E che quindi al ciclico ripetersi delle cose nulla sfugge. E ciò rimane l'unica certezza o forma di perfezione, in un mondo altrimenti imperfetto e pertanto sorgente di ansia. Certezza che però finisce per tramutarsi in malinconia. Semplificando, forse troppo: Hobbes per combattere lucidamente l’ansia fonda la scienza politica moderna, per poi cadere in una malinconia, condivisa anche da altri studiosi venuti dopo. In questo senso, cosa di cui lo stesso filosofo inglese si mostrava seriamente convinto, nel realismo metapolitico, paradossalmente, la malinconia finiva e finisce per essere l'unica allegrezza.


Carlo Gambescia

venerdì 23 marzo 2012



Statuto dei lavoratori
Metapolitica dell’articolo 18





Oggi cercheremo di dare un’interpretazione metapolitica della cosiddetta riforma dell’articolo 18. Per quale ragione metapolitica? Perché non entreremo nel merito delle singole misure. Tratteremo la questione nei suoi termini generali, metapolitici, offrendo al lettori solo alcune chiavi di lettura: liberismo, socialismo, riformismo vero e falso.
Semplificando al massimo: per un liberista (delle varie tendenze), le proposte del Governo Monti sono fin troppo blande, dal momento che dal punto di vista - per usare un termine ottocentesco - manchesteriano, il lavoro non può essere regolato da nessuna legge: tutti hanno il diritto di licenziare tutti, poiché il lavoro è una merce come un’altra; per un socialista (in senso lato, includendo i vari tronconi della sinistra e certo cattolicesimo sociale, sospeso tra Cristo e Marx), l’articolo 18, così com’è, potrebbe essere cambiato, solo nel senso di pervenire a una sua migliore formulazione, capace di garantire l' impossibilità di licenziare: nessuno deve licenziare nessuno, dal momento che il lavoro non è una merce.
Tra queste due posizioni pure o estreme, possiamo distinguerne altre di intensità e qualità differenti, tutte “ufficialmente” segnate ( si vedano i giornali di oggi) dalla comune volontà riformista. Ovviamente, come abbiamo notato, in un post precedente ( http://carlogambesciametapolitics.blogspot.it/2012/03/riforme-non-basta-la-parola-riforme-si.html ) esistono due tipi di riformismo, semplificando, autentico e falso. Di qui, come sta avvenendo nel dibattito italiano, il sovrapporsi di due diversi modi, non proprio sinceri, di intendere le riforme del lavoro: come cavallo di Troia liberista per ulteriori e più radicali riforme o come ridotta sindacale per poi contrattaccare. Insomma, invece di ragionare in termini di riformismo vero, cercando di perseguire il giusto mix tra flessibilità e sicurezza, si discute di aria fritta, come se le risorse economiche, già ridotte, fossero infinite, e il tempo per intervenire illimitato.
Chi vincerà? Probabilmente un finto riformismo (del tirare a campare?), che pur di tenersi lontano dagli estremi, come del resto è giusto che sia, finirà però per venire a patti con i finti riformisti dell’una e dell’altra sponda, puntando su provvedimenti pasticciati che alla fin fine scontenteranno tutti: imprenditori, lavoratori e mercati. E sul vendicativo scontento dei mercati non c’è di che essere allegri…

Carlo Gambescia

giovedì 22 marzo 2012

Il libro della settimana: John C. Calhoun, Disquisizione sul governo, intr. di Luigi Marco Bassani, Liberilibri, pp. XCVII-104, Euro 16,00.




www.liberilibri.it



L’importanza di John Caldwell Calhoun (1782-1850), pensatore e uomo politico statunitense, nonché il valore e l’attualità di un libro come Disquisizione sul governo non possono passare inosservati. Di qui la necessità di offrire ai nostri lettori almeno due recensioni. La prima è di Teodoro Klitsche de la Grange, la seconda nostra. Gli approcci sono diversi. Ma, come si scoprirà, pur seguendo strade differenti i due recensori finiscono per incontrarsi. Buona lettura. (C. G.)



Calhoun, 
il costituzionalista ritrovato
di Teodoro Klitsche de la Grange


Scrive Luigi Bassani nell’accurata introduzione «il lettore italiano si trova fra le mani un gioiello della scienza politica vecchio di oltre centossessant’anni, un’opera che sta al fianco dei grandi capolavori dell’ingegno umano e che è il prodotto più sofisticato dell’Ottocento americano. Ohibò – esclameranno i nostri venti e colti lettori – non ne avevo mai sentito parlare”. In effetti chi scrive ne aveva sentito parlare (o meglio letto chi ne aveva scritto) ma tra “addetti ai lavori”».
L’interesse che suscita la traduzione di Calhoun (che ci auguriamo presto seguito da altre) è dovuto almeno a tre ragioni.
La prima è che fa parte di quel modo di affrontare Stato e costituzione tipico di un’epoca in cui non erano stati rigidamente (e “scolasticamente”) scissi politica e diritto pubblico, con gran beneficio per entrambi, ma soprattutto per il secondo che così non rischiava (come poi spesso capitato) di perdere senso e collegamento con la realtà politica e talvolta con la stessa problematica (più importante) della materia che regola (fino a un certo punto, ma questa è nella logica delle cose).
La seconda è collegata al rapporto con la realtà economica: che Calhoun «fosse una sorta di «Marx rovesciato», in quanto aveva in comune con il filosofo di Treviri il senso della storia come lotta irriducibile fra i vari interessi economici, salvo prendere apertamente le parti dell’aristocrazia sudista, la master class», come scrive Bassani nell’introduzione, citando Hofstadter.
L’uno e l’altra fanno si che Calhoun, morto nel 1850, avesse previsto il prossimo scoppio della guerra di secessione: logica conseguenza dei problemi costituzionali ed economici rimasti irrisolti, e che, non potendolo essere col diritto, lo sarebbero stati con la guerra (come scriveva de Maistre, «laddove non c’è sentenza c’è battaglia»).
L’approccio di Calhoun semplifica e chiarisce l’accesso alla problematica costituzionale.
Il primo quesito posto dall’assetto federale degli USA. è se sovrani sono gli Stati ovvero la “struttura” federale. Se, come argomenta Calhoun, la Costituzione è un “contratto” tra Stati, e il potere di revisione costituzionale è rimesso alla ratifica di una larghissima maggioranza degli Stati, conseguenza della sovranità statale (e non federale) è che uno Stato abbia il diritto di non applicare, perché nulla, la legislazione federale (nullification) e anche di secessione, se non è altrimenti componibile il dissidio con la federazione.
Il tutto poneva il problema, percepito in Europa, se la Federazione fosse realmente uno Stato sovrano. Due grandi pensatori europei, contemporanei di Calhoun se lo erano posto: Hegel e Tocqueville. Secondo il filosofo, l’America era uno Stato “tuttora in divenire... è uno Stato federativo: ma questi, per quel che concerne i rapporti con l’estero, sono gli Stati peggiori” e ricorda la guerra con l’Inghilterra, considerata anche da Tocqueville, in cui quattro Stati non avevano mandato truppe a combattere gli inglesi. Nel caso d’eccezione per antonomasia, cioè la (dichiarazione di) guerra la federazione era partita zaino in spalla e il New England era rimasto a casa. Per cui Hegel concludeva che l’America non è uno Stato “finito” come compagine politica, perché il processo di “formazione dei suoi momenti elementari è ancora in corso”. A concluderla, sull’essenziale problema della sovranità, furono le cannonate nordiste a Gettysbourg.
Come scriveva Tocqueville «è in guerra che si rivela, nel modo più visibile e pericoloso, la debolezza di un governo; e ho mostrato come il difetto inerente ai governi federali sia appunto quello di essere molto deboli»; il guaio è che ciò era originato proprio da controversie costituzionali. «All’epoca della guerra del 1812, il Presidente ordinò alle forze militari del Nord di portarsi verso le frontiere; il Connecticut e il Massachusets, i cui interessi erano danneggiati dalla guerra, rifiutarono di inviare il loro contingente. La costituzione, essi dissero, autorizza il governo federale a servirsi della milizie territoriali in casi di insurrezione o di invasione; ora, nel caso presente, non c’è né insurrezione né invasione. Aggiunsero poi che la stessa costituzione, che dava dell’Unione il diritto di chiamare le milizie in servizio attivo, lasciava agli Stati il diritto di nominare gli ufficiali; ne derivava, secondo loro, che anche in guerra nessun ufficiale dell’Unione aveva il diritto di comandare le milizie».
E Tocqueville prosegue: «Queste teorie assurde e distruttrici ricevettero non solo la sanzione dei Governatori e del corpo legislativo, ma anche quella delle Corti di giustizia di questi due Stati».
Questo rapido confronto tra la più nota delle tesi di Calhoun e le opinioni dei due pensatori, pone un problema, acutamente visto dagli europei: se i poteri federali erano così limitati, e non ci fossero state quelle cannonate decisive per interpretare la Costituzione, gli USA avrebbero avuto mai il destino imperiale che la Storia del XX secolo ha loro riservato?
Sicuramente non è possibile svolgere guerre o anche missioni militari ai quattro angoli del pianeta se non si ha un grosso esercito federale (e i mezzi economici per armarlo ed equipaggiarlo) e non si può contare sulle forze armate statali perché guerre e missioni militari in continenti lontani non sono riconducibili né ad insurrezioni né ad invasioni.
L’altra idea di Calhoun (tra le molte che il lettore può trovare nello scritto), cioè quella della «maggioranza concorrente» è contraria all’evoluzione degli Stati federali basati sul principio democratico, come notato da Carl Schmitt. Scrive il giurista tedesco «Nella stessa misura in cui avanzava la democrazia, diminuiva anche l’autonomia politica degli Stati membri. negli Stati Uniti d’America questo sviluppo inizia con l’approvazione del popolo nei singoli Stati (in opposizione addirittura a questi Stati) della costituzione federale... Le teorie federalistiche di Calhoun (per gli Stati Uniti d’America) e di Max von Seydel (per il Reich tedesco) sono perciò superate non perché – considerate secondo i giusti concetti del diritto federale – fossero in tutto false, ma perché lo sviluppo democratico e in particolare la conseguenza democratica della rappresentazione di un popolo unico e indiviso all’interno di una federazione nazionalmente omogenea doveva condurre all’unità statale»; tuttavia «se si riconosce questo, anche ciò che in quelle teorie federali rimane esatto può essere di nuovo tranquillamente apprezzato e utilizzato nella dottrina della costituzione».


Teodoro Klitsche de la Grange



Calhoun 
e il “giovane Ercole” americano
di Carlo Gambescia



Merle Curti, il grande storico americano dell’Università del Wisconsin, in un libro tuttora prezioso, The Growth of American Thought definì l’opera di John Calhoun, riferendosi in particolare a Disquisition on Government , «un ardito e originale sforzo per risolvere uno dei grandi problemi della democrazia, la protezione delle minoranze» ( trad. it. Neri Pozza, 1956, p. 432). Che poi l’« ardito e originale sforzo» di Calhoun fosse collegato alla difesa della società sudista e schiavista, restava secondo lo storico un vero e proprio peccato originale, che tuttavia non rendeva meno interessante il suo pensiero. Curti, uno storico allievo di Turner (il padre della teoria sull'importanza della frontiera nella storia americana), era un progressista tutto d'un pezzo passato attraverso il ferro e fuoco del Novecento. Perciò si tratta del riconoscimento di un avversario. Insomma, un apprezzamento che tuttora vale il doppio.
In effetti, sfogliando Disquisizione sul governo, non si ci può non interrogare sull’ erudizione con cui Calhoun affronta con grande preveggenza la questione del rapporto tra maggioranze e minoranze in democrazia. L’ottica scelta è quella preferita dai pensatori di largo respiro, capaci di muoversi con enciclopedica e spiazzante sapienza tra conoscenze storiche, filosofiche e sociologiche. Sono doti che il pensatore americano condivide con giganti del calibro di Tocqueville. Anche se, come nota Luigi Marco Bassani nella densa introduzione, Calhoun, a differenza di Tocqueville, troppo ottimista e fiducioso nel ruolo catartico del potere associativo, si schiera con Hobbes ( il che, però, come vedremo, è vero fino a un certo punto...). Scrive Bassani : Calhoun « da gran realista politico, sostiene che l’esperienza storica ha ampiamente dimostrato che “il potere può essere arginato solo dal potere e non dalla ragione o dalla giustizia e qualunque restrizione all’autorità che non sia sostenuta dalla forza di un eguale potere antagonistico si è dimostrata inefficace e pratica”» ( p. XXVII).
Perciò la grande questione individuata è come opporsi al potere assoluto della maggioranza. Tocqueville, senza tanti complimenti, parla, come è noto, di tirannia della maggioranza. Ma ne riferìsce in termini di conformismo culturale e sociale diffuso: si fa una cosa perché la fanno gli altri. Di qui, secondo il pensatore francese, l'importanza, per la sua ricaduta sociologica, dell’associazionismo sociale come fattore reattivo e di diversificazione culturale Per contro, Calhoun affronta la questione in chiave esclusivamente politica. Si legge in Disquisizione sul governo: «È difatti l’unicità del potere ad escludere il diritto di veto e a creare un governo assoluto, e non il numero di coloro che sono investiti del potere stesso. La maggioranza numerica è un potere unico, e non ammette minimamente il potere di veto, tanto quanto il governo assoluto di un singolo uomo o di pochi individui. Essa rappresenta la forma del governo assoluto assunta dalla democrazia o dal governo popolare, come d’altronde il governo di un singolo o di pochi individui rappresenta la forma dei governo assoluto assunta dalla monarchia o dall’aristocrazia – e a questi accomuna la medesima tendenza all’oppressione e all’abuso di potere » (p. 36).
Quale rimedio si propone al potere unico della «maggioranza numerica»? Calhoun punta sul potere frazionato della «maggioranza concorrente ». Cosa vuole dire? « Il governo della maggioranza concorrente, al contrario (…) evita che si verifichi qualsiasi oppressione , fornendo ad ogni interesse, fazione o ceto – laddove vi siano classi sociali nettamente delineate – i mezzi per tutelarsi autonomamente tramite il diritto di veto su ciascuna misura intesa a promuovere gli interessi particolari di una parte a discapito di un’altra. Esso finirà quindi con l’indurre i vari interessi, fazioni o ceti, a seconda dei casi, a desistere dai tentativi di adottare misure mirate a favorire la propria prosperità a spese di quella degli altri, obbligandoli così, per di più ad accordarsi su misure volte ad accrescere la prosperità di tutti, come unico mezzo per scongiurare una interruzione nell’azione del governo e, di conseguenza, il peggiore di tutti i mali: l’anarchia. Con questo tipo di resistenza, legale e incisiva, i governi basati sulla maggioranza concorrente evitano ogni forma di oppressione e rendono superfluo il ricorso alla forza – cosicché il compromesso, e non la forza, diventa il principio di conservazione» (pp. 37-38).
Il che, in soldoni, significa due cose: in primo luogo, che un parlamento statale deve deliberare all’unanimità, puntando sul compromesso preventivo e non sulla pura forza dei numeri; in secondo luogo, che una federazione di stati deve sempre tenere nel debito conto la possibilità, che anche uno solo degli stati che la compongono, possa dissentire su un provvedimento respingendolo ( Calhoun parla di “nullification”); di qui, come nel caso del parlamento statale, la necessità di puntare sul compromesso preventivo.
Ma in che modo? E poi con la ricerca dell’unanimità a tutti costi non si rischia la paralisi politica? No, perché, secondo Calhoun, il patriottismo ne è l’elemento portante e risolutivo. Seguiamo il suo ragionamento: « Il governo basato sulla maggioranza concorrente, (…) evita qualsiasi tipo di abuso e ogni tentativo di oppressione, e di conseguenza l’intero complesso di sentimenti e passioni che porta alla nascita di discordie e conflitti in seno alle diverse fazioni della comunità. Ciascuna di queste, difatti, verrà spinta dalla impellente necessità di evitare che l’azione di governo venga sospesa (…); e inoltre verrà spinta dal potente impulso dell’amore per il proprio Paese. E giungerà a considerare l’eventuale sacrificio dei proprio interessi particolari sull’altare della sicurezza di tutti, e quindi anche della propria, ben poca cosa in paragone alle sciagure che ricadrebbero sul complesso dei cittadini, e dunque su di sé, nel caso continuasse a perseguire ostinatamente una linea di condotta opposta. Le ragioni per convergere sarebbero così cogenti e d’altra parte in simili circostanze quelle per opporsi così deboli che ci sarebbe davvero da meravigliarsi, non nel caso in cui si giungesse a un compromesso, ma nel caso in cui questo non si realizzasse» (pp. 66-67).
Perciò se alla base delle tesi di Calhoun c’è Hobbes, va aggiunto che si tratta di un Hobbes, come del resto ha ben visto anche Bassani, riveduto e corretto alla luce della creativa socialità naturale teorizzata da Aristotele, tramutatasi in moderno amore di patria. Potremmo avvicinare il consociativismo calhouniano a quello delle liberal-democrazie welfariste, frutto post-bellico del capitalismo sociale di mercato, oggi rimesso in discussione dai processi di globalizzazione e conseguente grave “snazionalizzazione”. Pertanto non definiremmo Calhoun, come invece propone Bassani, un «liberale a tutto tondo». Diciamo che il suo liberalismo è di tipo politico più che economico. Ed è perciò funzionale non tanto alle necessità astratte del libero-scambio quanto alle necessità concrete del governo dello sviluppo nazionale. Come attesta la accettazione calhouniana nel 1816 di un regime protezionistico, seppure moderato, per sostenere il rafforzamento, degli Stati Uniti: un “giovane Ercole” secondo la sua suggestiva definizione
Da questo punto di vista sarebbe interessante un confronto con il pensiero di Friedrich List, padre dello Zollverein e profeta di un liberalismo nazionale teso a conciliare - funzionalmente - libero mercato all’interno e protezionismo all’esterno. Ricerca molto utile, anche per scoprire qualcosa di più sui possibili rapporti tra i due pensatori. E per una semplice ragione storica: List soggiornò negli Stati Uniti tra il 1825 e il 1832. Jacksoniano di ferro venne in seguito nominato dal neo-presidente Usa, console degli Stati Uniti ad Amburgo. Durante il suo soggiorno List, entrando a gamba tesa nelle durissime polemiche americane pro o contro le tariffe doganali, pubblicò un pamphlet filo-protezionista Outlines of Americam Political Economy, di grande successo, e proprio nello stesso periodo in cui usciva anonimo il South Carolina Exposition and Protest di Calhoun, dove invece si contestava in chiave anti-protezionista il forte aumento della tariffe doganali cui puntava il Nord per danneggiare il Sud. 



Carlo Gambescia

mercoledì 21 marzo 2012

Riforme, non basta la parola



Riforme sì, riforme no… sembra il ritornello della “Terra dei Cachi” di Elio e le storie tese. Serietà. Nel lessico politico non solo italiano, diciamo dal 1945, il termine riforma ha subito un notevole cambiamento. Quale? Se fino agli anni Settanta l’espressione descriveva il riformismo come insieme di modifiche sociali al sistema capitalistico per “addolcirlo”, dagli anni Novanta in poi ha invece assunto un significato ristretto: quello di un complesso di riforme economiche in grado di migliorare, senza alcun riguardo alla questione sociale, la competitività del sistema capitalistico. Insomma, l’esatto contrario del riformismo welfarista. Perciò, quando oggi, Confindustria invoca le “riforme”, si riferisce, semplificando, alla competitività, punto. Per contro, chiunque sia rimasto legato al significato sociale del termine viene subito liquidato come conservatore. Alla base della “trasmutazione lessicale” - per usare un parolone - c’è sicuramente il cambiamento dei rapporti di forza mondiali: l’Urss non esiste più, e con essa il pericolo rivoluzionario. Di conseguenza, negli ambienti economici che contano, da un pezzo non si ritiene più necessario «andare verso il popolo». Si pensi, ad esempio, a un manager come Marchionne.
Inoltre, va considerato anche un altro fattore: quello dell’ascesa, negli anni Ottanta della cultura dell’individualismo economico di massa. Una cultura postmoderna del produci e divertiti, di matrice nordamericana, che ha contribuito a trasformare il concetto stesso di solidarietà e Stato sociale. In che modo? Presto detto, imponendo due idee.
La prima, che nessun pasto può essere gratis (l’ espressione risale a Milton Friedman, padreterno liberale del monetarismo); la seconda, che la solidarietà debba viaggiare proprio come negli Usa, attraverso canali privati e soltanto sotto forma di carità e beneficenza.Come tornare alla cultura delle riforme vere, quelle sociali? Innanzitutto, occorre recuperare una dote oggi rara: la preveggenza politica. Per capirne il significato, lasciamo la parola a un riformista liberale (altro che Friedman...), di origine controllata, come Camillo Benso, Conte di Cavour, anno di grazia 1850: «Vedete signori come le riforme compiute a tempo, invece d’indebolire l’autorità, la rafforzano; invece di crescere la forza dello spirito rivoluzionario lo riducono all’impotenza». Cavour parlava al Parlamento subalpino evidenziando la necessità di un ciclo di riforme, rivolte a modernizzare il Piemonte (e in seguito l’Italia), scongiurando il pericolo rivoluzionario, all’epoca, repubblicano e socialista.
Che serva però, anche oggi, un avversario ideologico esterno? Un nemico, capace, issando la bandiera di un sistema politico, economico e sociale alternativo, di spaventare il capitalismo e costringerlo a intraprendere nuovamente il cammino delle riforme sociali ? In realtà, almeno per ora, non possono essere considerati rivali ideologici la Cina capitalista e autoritaria, né un Islam meno industrializzato, ma altrettanto autoritario. Dal momento che questi mondi, a differenza del mito sovietico e marxista, sono incapaci di esercitare qualsiasi fascino sulle masse occidentali. Anzi, per contrasto, Cina e Islam, possono spingere gli occidentali, soprattutto quelli « piccoli piccoli» (nel senso dello scrittore Cerami), a farsi fieramente ancora più individualisti. Manca, insomma, quel forte appeal sociale esercitato dall’Urss e dal marxismo sugli intellettuali europei e americani. Capace, in passato, per reazione (la paura del “contagio” di massa), di tradursi politicamente in Occidente - certo, obtorto collo - in buona cultura welfarista delle riforme sociali, frutto in parte di un intelligente liberalismo politico, non mercatista, in grado di intuire la pericolosità (per il capitalismo stesso) di tirare troppo la corda. Tutto qui.
C'è però una controindicazione politica, non da poco. Secondo Tocqueville, altro liberale di origine controllata, i cui occhi erano però rivolti al repentino crollo della timida (in senso riformista) monarchia francese; caduta che nell'immediato spianò la strada alla demagogia politica e sociale dei giacobini: «Il regime che una rivoluzione distrugge è quasi sempre migliore di quello che lo aveva immediatamente preceduto, e l’esperienza insegna che il momento più pericoloso per un cattivo governo è quello in cui comincia a riformarsi».
Ciò significa che le riforme, soprattutto se balbettanti, possono accrescere le aspettative della gente, o comunque provocare scontento tra i vari gruppi sociali in conflitto. E, per contro, alimentare negli oppositori la politica del "tanto peggio tanto meglio". Che, di regola, dopo la caduta del regime, si trasforma inevitabilmente nel "si stava meglio quando si stava peggio". Ovviamente, parliamo delle riforme vere, quelle che servono a evitare le rivoluzioni...

Carlo Gambescia

martedì 20 marzo 2012

Siamo d’accordo con l’acuta - e sempre gustosa da leggere - analisi dell’amico Teodoro Klitsche de la Grange sul “modo” di scrivere libri e articoli del “professor” Galimberti (nella foto) . Meno a proposito del "tormentone" sull' irresistibile egemonia della cultura di sinistra. Che se pure vi è stata - nessuno lo nega - è anche dipesa dalla pochezza culturale della destra dopo il 1945, e a tutti i livelli politici: dai cattolici ai liberali, passando per tradizionalisti e persino neofascisti. Il che spiega - certo, in parte - le ragioni dei successivi fallimenti politici del Pdl e di un’intera area culturale. Come pure, per contro, aiuta a capire i successi editoriali di personaggi alla Galimberti. Insomma, troppo facile - ci scusi l'amico Teodoro - prendersela esclusivamente prima con Gramsci, poi con i maneggioni di sinistra (pure capaci di fare la morale a tutti...) e con il "partito" delle trentamila professoresse che leggono la Repubblica, manco fosse quella platonica... Qui, ripetiamo, è mancata una vera cultura di destra, capace di riunire e interpretare tutte le varie anime ad alto livello. E soprattutto contrastare degnamente quella progressista. Gli unici a intuirlo furono l'editore Rusconi e Alfredo Cattabiani all'inizio degli anni Settanta del secolo scorso. Ma questa è un'altra storia. Buona lettura. (C.G.)

Ancora su Umberto Galimberti…

di Teodoro Klitsche de la Grange







La recensione (*), scritta dall’amico Carlo del libro di Francesco Bucci “Umberto Galimberti e la mistificazione intellettuale” sul modo del prof. Umberto Galimberti di scrivere i libri, stimola qualche considerazione.
Premetto che non ho avuto occasione di leggere il libro di Bucci: ho letto diversi articoli che ne parlano, spesso riportando alcuni passi “incriminati” perché scritti da altri autori, trascritti senza virgolette né l’indicazione della fonte (cioè copiati), ovvero di “prima mano” ma utilizzati in più libri per commentare il pensiero di filosofi (diversi e distanti), con un sospetto copia-incolla fuori luogo (proprio per l’eterogeneità dei pensatori). E ho letto un paio di libri di Galimberti. Questo, e la circostanza di non aver letto smentite dei “fatti” (le suddette copiature e utilizzazioni plurime) mi induce a pensare che quanto scritto dal Bucci sia verosimile e, almeno probabilmente, fondato. Anche per un’altra considerazione.
Galimberti è uno scrittore accattivante e garbato; oltretutto è chiaro, ed ha una scrittura piana com’è opportuno – anzi doveroso - per un insegnante. Tali qualità lo rendono un valido comunicatore, un trasmettitore di pensiero (altrui); e con ciò un giornalista (da quotidiano o da periodico). Queste doti ne fanno un ottimo “prodotto” per l’industria culturale; per la quale – come per qualsiasi impresa – vale il principio che non è tanto importante quello che è scritto, ma che sia venduto. E nello stesso tempo l’impresa ha la necessità di impreziosire il prodotto, presentandolo come il migliore sul mercato: per cui un bravo insegnante diventa un grande pensatore, un esperto violinista eccellente compositore, e così via. La logica del mercato prevale su quella della cultura: il “marketing” applicato all’arte moderna lo ha provato nel modo più evidente. Addirittura promuovendo ad arte quello che spesso è solo astuta provocazione; e che lo diventa (arte) grazie a un ben collaudato meccanismo di mostre, premi, articoli agiografici e critiche compiacenti. É una storia che si ripete tutti i giorni e per tanti “prodotti”. E che, almeno in Italia, ha una ragione in più. Che è l’egemonia, teorizzata da un acuto pensatore come Gramsci e da allora sempre praticata dalla sinistra a dispetto, prima, della mediocrità dei prodotti, e da vent’anni addirittura dall’implosione dello scopo di quella: il potere del “moderno Principe” e dell’ideologia di riferimento, crollata dall’Elba al Mar Giallo. Alla quale si è trovato un surrogato nel moralismo anti-berlusconiano, che consente agli ideocrati (e compagni di strada) di legittimare una propria (pretesa) superiorità morale fondata non sulla liberazione dell’umanità, ma sulla scostumatezza del nemico. Questo mélange d’egemonia ed industria culturale è quello che ci propone (in primo luogo, ma, tutto sommato, non esclusivamente) la sinistra post-comunista, che così coniuga l’obiettivo di reggere in piedi una classe dirigente archiviata dalla storia (gli “zombi” di Cossiga) con quello di far soldi, illudendosi (forse) e sicuramente illudendo, di fare pure del bene. In una logica così del tutto capitalista, se è vero che un detto americano recita che i quaccheri vennero in America per far del bene e finirono per far dei soldi. Lezione ritornata sotto i nostri cieli, dai quali era partita.


Teodoro Klitsche de la Grange


Avvocato, giurista, direttore del trimestrale di cultura politica "Behemoth" (http://www.behemoth.it/ ). Tra i suoi libri: Lo specchio infranto (1998), Il salto di Rodi (1999), Il Doppio Stato (2001), L'apologia della cattiveria (2003), L'inferno dell'intellettuale (2007), Dove va lo Stato? (2009).




lunedì 19 marzo 2012

 Papini, Pareto e
 l’ ateismo sociologico perfetto
...




Nei Carteggi paretiani, ottimamente curati da Gabriele De Rosa, quasi cinquant’anni fa, c’è una pagina fondamentale sull’ «ateismo sociologico». Di che cosa si parla? Della necessità per ogni sociologo ( o studioso), se vuole fare scienza seriamente, di assumere l’abito dell’ «ateo perfetto»: tesi avanzata, come ora vedremo, da un Giovanni Papini ancora in piena fase pragmatistica pre-conversione.
Dunque, in una risposta di Vilfredo Pareto a Vittore Pansini, si legge: « Il Papini, nell’ottima recensione [al Trattato di Sociologia generale, apparsa su “La libertà economica”, 31 gennaio 1917)] ha benissimo notata l’indole mia: Sono un ateo di tutte le religioni – compresa la metafisica – ma un ateo che riconosce il valore grande che, per la società, possono avere quelle religioni». Ma che cosa aveva scritto Papini? Il lettore è subito servito: « Il carattere fondamentale del pensiero paretiano è di essere “non religioso”. Badiamo: non religioso e non già antireligioso. È verità saputa, almeno da quei pochi avvezzi a rifettere, che gli antireligiosi sono dei religiosi fanatici per altre fedi. Quando gli uomini volgari parlano o sentono parlare di “religioni” intendono soltanto le antiche religioni provviste di miti, di rivelazioni, di clero regolare e di culto riconosciuto. Ma gli intelligenti sanno da un pezzo che presso codeste religioni vecchie ne sono nate e moltiplicate altre religioni – che chiameremo, se volete laiche - le quali non sono meno dogmatiche, intolleranti, sentimentali, mitologiche, metafisiche di quell’altre. Sono, per esempio, le varie religioni del popolo (o democratiche) del Progresso, della Ragione, della Scienza, dell’Umanità, della Solidarietà, dell’Igiene, della verità (…). Il Pareto – quasi solo nell’Europa moderna - non appartiene a nessuna di queste religioni, né alle vecchie, né alle nuove. Egli è l’ateo perfetto e completo dinanzi a tutte queste e fortunate divinità” » ( Carteggi paretiani (1892-1923), Edizioni di Storia e Letteratura, Roma 1964, pp. 112-113, nota 3).
Molti cattolici sobbalzeranno. Ma qual è in realtà il succo (certo, non gradevole per chiunque tuttora creda nella possibilità sturziana di una «sociologia del soprannaturale») del discorso paretiano-papiniano? Che l’ateo perfetto deve comportarsi da ateo anche nei riguardi della religione ateistica: ogni sociologo non può non fare conti con tutte le religioni vecchie e nuove, valutandone però debitamente gli effetti di ricaduta sociale, sia in termini di ordine, sia di rivoluzione. Ma in che modo? Affrontando il "fatto religioso", quando indaga la vita sociale, non da credente o fedele ma quale uomo di studi o di scienza. Il che però - ecco la controindicazione paretiana-papiniana - non deve mai implicare lo scivolamento nella fanatica religione degli scienziati: lo scientismo. Quindi, per un verso l'ateismo perfetto è rivolto contro tutti gli “ismi”, per l'altro, proprio per evitare i guasti dello "scient-ismo", si lascia libero lo studioso, quando non indaga, di credere o di non credere in qualsiasi religione.
Pareto, in realtà, era scettico. E quindi anche in privato dubitava di tutto e tutti, fuorché degli amici, talvolta poi pentendosene. Non per nulla, ai suoi tempi, si parlava di Pareto, e malinconicamente, come del solitario di Céligny, la località svizzera in cui risiedeva.
Insomma, nulla impedisce al sociologo cattolico di fare scienza, come dire, scienza sociale nuda, tesa a studiare la realtà effettuale. Il che però implica un pesante fardello esistenziale, tutt'altro che perfetto: quello del vivere sospesi tra teismo privato e ateismo pubblico (o accademico). Si tratta di un equilibrio difficile da conseguire, dilaniante sul piano personale, perché si rinuncia a perseguire la verità evangelica quando si fa ricerca, per attenersi alla applicazione di costanti socio-politiche. E non si vive bene: la corda del sapere metapolitico resta sospesa tra Dio e gli uomini, sotto il nulla, sopra il cielo. Si vive, insomma, sentendosi «invisi a Dio e a li inimici sui» ...
Del resto quali alternative? Trasformare la religione (qualsiasi religione, vecchia e nuova) in scienza pura o rivoluzionaria, sposando comunque una causa? Oppure dubitare sempre di tutto e tutti, anche nel privato, per vivere in modo solitario, o comunque appartato, rinunciando nell' intimo a tremare dinanzi alla grandezza di Dio?


Carlo Gambescia

venerdì 16 marzo 2012

L’Italia ha bisogno di un Tutore? Sì, almeno secondo il parere di chi scrive e dell’amico Roberto Buffagni . Il quale, come si usa dire, ha accettato il nostro incarico per puro spirito di servizio. Grazie Roberto! Evviva! Ecco il Proclama numero uno. Tutti sull’ attenti. Altri seguiranno. Buona lettura, avanti march! (C.G.)



COLPIRNE UNO PER EDUCARNE 27
Proclama numero uno del Tutore d’Italia





Spett. Popolo Italiano,
apprendo in data di oggi che mi hai acclamato Tutore d’Italia, conferendomi i pieni poteri temporali sulla nazione, e con la presente raccomandata a. r. vengo a dartene debito riscontro, comunicandoti quanto segue:
1) Era ora.
2) Però NON telefonarmi più nell’ora tra le 14,30 e le 15,30, che quotidianamente consacro al mio pisolino ristoratore.
E passo senz’altro indugio al mio primo proclama.
a) Visto la Grecia? Prima la ricattano: “o mi dai i soldi e la sovranità, o ti faccio fallire”; la Grecia molla la sovranità, molla i soldi, e adesso che non ha più niente da mollare il ricattatore le fa marameo e la lascia fallire.
b) Per forza che hai visto. Ma hai capito la morale?
c) Se non hai capito, te la spiego io.
d) La morale è che ai ricatti non si cede mai.
e) Non c’è il ricattatore a fin di bene, non c’è il ricattatore bravo ragazzo, non c’è il ricattatore che si accontenta.
f) Ciò non accade perché il ricattatore sia più cattivo della media (la media è già abbastanza elevata da consentire quasi tutte le cattiverie, escluse le più impervie alla cosmesi psicologica edulcorante, come il traffico di bambini a scopo espianto organi).
g) Ciò accade perché quando cedi al ricatto abdichi alla tua dignità, e il ricattatore perde ogni rispetto per te. Da quel momento in poi, il ricattatore si sentirà giustificato nel suo ricatto e niente lo tratterrà dall’escalation. Il ricatto è atto indegno, ma indegno è anche il ricattato che cede, e per la proprietà transitiva l’indegno non si merita altro che indegnità. Così tu gli dai il dito, e lui ti prende il braccio; gli dai il braccio, e lui ti prende tutto, lo spolpa e poi lo butta via.
h) A maggior ragione non si cede al ricatto di chi ti ricatta senza metterci la faccia: ricorda che chi non ha faccia non la può perdere, neanche davanti a se stesso: chi non ha faccia è per definizione uno sfacciato.
i) Dove hai visto la faccia dell’Unione Europea?
j) Esatto: da nessuna parte. Niente faccia e niente nome: questo Coso non ha neanche il coraggio, o la buona creanza, di mettere la faccia e la firma sulla sua creatura prediletta, l’euro.
k) Controlla: sulle banconote che hai in tasca non ci sono facce, ma ponti e archi, e manca la firma di chi le emette (sulle sterline c’è la firma del governatore della Bank of England, sulle lire c’era la firma del governatore della Banca d’Italia). L’euro è una lettera (di credito) anonima.
l) In greco moderno, “Banco di Credito” si dice “Trapèza dès pìsteos”. Pìsteos, genitivo di “pistis”, “fede”.
m) Infatti il settore produttivo in cui opera il Coso, l’UE, è la fede. Dietro l’euro, c’è la fede di chi lo prende e lo scambia e nient’altro. La fede che con l’euro saremo tutti più felici e contenti, la fede che senza l’euro saremmo stati tutti più infelici e scontenti. Domani si fa credito, ieri non lo si sarebbe fatto. E oggi? Mah.
n) A parte l’indicativo futuro (con l’euro, saremo più felici) e il condizionale passato (senza l’euro, saremmo stati più infelici), che sono entrambi inconoscibili, c’è l’indicativo presente: con l’euro, al presente indicativo come stiamo? Siamo più felici e contenti? Sì/No. Popolo italiano, metti un po’ tu la crocetta.
o) Ma è vero: il presente, l’ingannevolmente semplice presente, è inafferrabile: appena lo nomini, è già sparito. Ecco perché il futuro e il passato sono un argomento così forte; ecco perché non si può fare a meno della pìstis, del credito, della fede.
p) Il Coso una fede ce l’ha: ha fede nella fede che produce lui, e la produce a costo zero, facendo abile ricorso ai modi ipotetici del verbo.
q) Altre fedi il Coso non ne ha. Altrimenti non avrebbe ricattato, umiliato e rovinato la nazione dove è nata la parola e il concetto di Europa: tu ricatteresti, umilieresti pubblicamente e faresti fallire tuo padre, se in vecchiaia combinasse qualche affare sballato? Facendo affari con una persona che agisse così, ti basterebbe la sua parola d’onore?
r) E tu ce l’hai una fede, Popolo Italiano?
Ti lascio riflettere su quest’ultima domanda, Popolo Italiano. Gli (obbligatori) elaborati dattiloscritti a risposta, di non più di trenta righe da sessantacinque battute ciascuna, dovranno pervenirmi entro e non oltre una settimana da oggi. Un avvertimento. Non credere di cavartela menando il torrone con le seguenti scuse: Dio è morto; Dio c’era ma ha fallito; solo un Dio ci può salvare; e qualsivoglia altro pretesto, giustificazione e scappatoia che coinvolga Entità Superiori all’umano (personificate o meno).
Stammi bene, e omaggi alle tue signore (che non sono peraltro esentate dal rispondere: voluta la parità? E allora, etc.). Tuo aff.mo
Tutore d’Italia



Roberto Buffagni è un autore teatrale. Il suo ultimo lavoro, attualmente in tournée, è Sorelle d’Italia – Avanspettacolo fondamentalista, musiche di Alessandro Nidi, regia di Cristina Pezzoli, con Veronica Pivetti e Isa Danieli. Come si vede anche dal titolo di questo spettacolo, ha un po’ la fissa del Risorgimento, dell’Italia… insomma, dell’oggettistica vintage...

mercoledì 14 marzo 2012


Raffronto improponibile?
Elsa Fornero e Margaret Thatcher...





Non condividiamo la politica economica del Governo Monti, però, per dirla francamente, la signora Fornero non può non essere apprezzata, se non addirittura ammirata. Perché ricorda, per vigore, un'altra signora, Margaret Thatcher: si pensi solo alla sua leggendaria prova di forza con i minatori; per non parlare dell'abilissima conduzione della vittoriosa guerra delle Falkland/Malvinas.
Ebbene sì, ci piace il decisionismo. Certo, parliamo di una Thatcher all’italiana, più piccola, quindi con meno spigoli, meno ideologia e qualche lacrima facilmente concessa ai media. Ma gli spigoli sono sempre troppi per uno Stivale abituato, e male, alle "pacche sulle spalle" e al "tirare a campare". Quanto all’ideologia conservatrice, quale ministro di un governo tecnico, la Fornero, non è costretta, per ora, a dare il meglio (o il peggio, dipende dai punti vista politici…) di sé. I prossimi anni, per la Fornero potrebbero essere, politicamente parlando, gli anni della sua formazione come futuro Primo Ministro... Chissà... Tuttavia, alla stessa età (sessantaquattro anni), la Thatcher era già Premier da dieci anni (parliamo però di un politico, anche se al femminile, di professione).
Comunque sia, ecco quel che la Fornero è stata capace di dire ieri ( citiamo da La Stampa), spazzando via tutti i polverosi schemi del vecchio e cifrato linguaggio sindacalese.
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Quel che peggio, ai leader confederali - rei di «non aver espresso nemmeno una mezza parola di apprezzamento» sulle risorse aggiuntive reperite per gli ammortizzatori sociali senza intaccare altre voci della spesa sociale, e di non applaudire a una riforma che «ritengo sia buona» - Fornero rimprovera soprattutto un atteggiamento da scolari discoli. «È chiaro spiega - che se uno comincia a dire “no”, perché noi dovremmo mettere lì una paccata di miliardi e poi dire “voi diteci di sì”. No, non si fa così. Con un accordo mi impegno a trovare risorse più adeguate». Si sa che il ministro del Lavoro quando vuole sa adoperare anche il registro della polemica e frasi puntute. Toni che i suoi detrattori già più volte hanno definito «da maestrina». E sicuramente ieri la battuta sulla «paccata di miliardi» ha destato un po’ di sorpresa e fatto inarcare più di un sopracciglio.
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Più chiaro di così… E, soprattutto, quel che soprende è il radicale cambio di impostazione, e in termini di prassi: concertazione, se occorre, sì, ma comunque guidata con polso fermo dal Ministro del Lavoro. Per fare un altro esempio italiano, ovviamente sempre "in scala": Donat-Cattin (Ministro del Lavoro democristiano durante l’Autunno Caldo) era della stessa pasta della Fornero, anche se sbilanciato verso i sindacati.
Ovviamente, la direzione impressa alla concertazione (“ prima il sì, poi i soldi”) può anche non piacere per i suoi contenuti (poco o punto favorevoli ai lavoratori). E infatti non ci piace. Ma siamo stanchi delle cosiddette critiche all'avversario, in quanto tale, per partitito preso. Basta con il manicheismo! Soprattutto se ad personam. Il Ministro del Lavoro - e non abbiamo timore di ripeterlo - va apprezzato. E non per il puro coraggio, come ha dichiarato un ex Sottosegretario alla Difesa del Pdl (un povero orfanello in cerca di papà carismatici), bensì per aver mostrato di possedere polso fermo e idee chiare su ciò che si deve fare. Doti fondamentali che caratterizzano il politico di rango. Doti, che al Ministro del Lavoro, come sembra, non difettano. Infatti il solo coraggio tende a trasformarsi in temerarietà e in decisionismo a fondo perduto, soprattutto quando mancano visione riformatrice (anche se non sempre condivisibile...), nonché risolutezza, doti sconosciute a numerosi politici italiani di grido, in particolare della Seconda Repubblica. Chapeau, signora Fornero!

Carlo Gambescia

martedì 13 marzo 2012

Tagli di bilancio 
Sequestro della democrazia? 
No, della spesa pubblica 
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Raramente i media ne riferiscono, perché sono questioni tecniche di scienza politica, roba da accademici. Di che cosa parliamo? Dello studio dei cicli politico-economici all’interno, ovviamente, delle democrazie contemporanee.
In realtà, le “questioni tecniche” rinviano alla verifica empirica di un fatto molto semplice. Quale? Se i governi in carica siano in grado di creare artificialmente le condizioni economiche capaci di favorirne la rielezione (di qui la dizione ciclo politico-economico, da una tornata elettorale all'altra...). Le ipotesi di lavoro sono basate su due fattori: a) che gli elettori (sottoposti a quotidiani sondaggi di opinione) valutino le prestazioni del governo tenendo d’occhio i fenomeni economici (produzione, consumo, inflazione, disoccupazione, recessione, sviluppo); b) che il governo sia in grado di intervenire sulle variabili di cui sopra, per favorire, attraverso la crescita delle spesa pubblica, la rielezione e quindi la coniugazione del ciclo di governo (in genere una legislatura), con quello partitico (due o più legislature). Abbiamo, ovviamente, semplificato.
Ora, che succede? Il volume della spesa pubblica, che stando agli studi empirici, cresce sempre prima delle elezioni, per diminuire all’inizio delle legislatura successiva, si qualifica come un determinante fattore di consenso. Certo, nel meccanismo che regola il ciclo-politico economico gioca un ruolo notevole anche il controllo dell’inflazione, spesso collegato, alla crescita delle spesa pubblica, dell’occupazione e di riflesso della pressione fiscale (stiamo sempre semplificando). Comunque sia, la spesa pubblica, favorendo consumi e occupazione, rafforza il consenso al governo, mentre i tagli ne diminuiscono il gradimento e le future possibilità di vittoria.
Ogni governo, insomma, se vuole essere rieletto deve puntare su un giusto mix di inflazione, occupazione, tasse. Una miscela, la cui “qualità finale” dipende dalla crescita o decrescita della spesa pubblica. Un fattore che resta perciò la chiave di volta di ogni politica economica.
Ora, un governo tecnico, in quanto a termine e privo di qualificazione politica, non dovrebbe puntare sulla crescita dei cosiddetti “livelli di consenso”, “misurati”, come detto, mediante sondaggi di opinione. Di qui, i famigerati tagli alla spesa pubblica senza troppe preoccupazioni di perdere consenso ideologico. Pertanto, e in particolare per la situazione italiana, si potrebbe parlare piuttosto che di sequestro della democrazia, di sequestro della spesa pubblica... Anche se, ultimamente, vengono diffusi sondaggi attestanti la crescente popolarità del Governo Monti… Il che è inquietante dal punto di vista politico e scientifico. Perché? Delle due l’una: o i sondaggi sono falsi o è infondata la teoria del ciclo politico-economico.


Carlo Gambescia

lunedì 12 marzo 2012




 “Postfascisti”  
Il né destra né sinistra pavloviano



Che il Pdl faccia acqua da tutte le parti non è una grande scoperta. Però, piaccia o meno, ha una sua precisa collocazione di centrodestra. Certo, ancora intrisa di berlusconismo, tanto per usare un termine caro agli acculturati avversari del Cavaliere, ormai appiedato.
Sorprende invece leggere certe uscite di ex appartenenti al Pdl. Parliamo, ovviamente, dei finiani, il cui scopo gridato ai quattro venti doveva essere quello di far finalmente nascere una destra «normale» e « civile». Si prenda ad esempio la seguente dichiarazione rilasciata qualche giorno fa da Fabio Granata, vice coordinatore fliellino : «Futuro e Libertà non sarà mai neocentrista (…) siamo oltre destra e sinistra, non democristiani. Da Pietrasanta partirà una grande controffensiva di Futuro e Libertà per costruire il movimento del patriottismo repubblicano e legalitario».( http://www.iltempo.it/2012/03/09/1327639-fini_vuole_spazio_terzo_polo_convention_tutta.shtml ). A Pietrasanta, in Versilia, si terrà il prossimo fine settimana la convention di Futuro e Libertà. Auguri. Ma veniamo al punto. Che cosa vuol dire nell'anno di grazia 2012 essere «oltre destra e sinistra»? Certo, significa non voler morire democristiani o centristi… Il che può anche essere giustificato per chi provenga dalla destra movimentista e sia probabilmente in buona fede come Fabio Granata. Ma se poi non ci si definisce neppure di destra, che resta del progetto destra «normale» e «civile» ? Nulla.
Probabilmente, sotto c’è dell’altro. E per scoprirlo bisogna scendere nelle cantine dell'antropologia politica. Sotto sotto c'è un riflesso condizionato: pavloviano. Tipo quello del dottor Stranamore dell'omonimo e celebre film di Kubrick, al quale scattava all'improvviso il braccetto nel saluto hitleriano. Ma procediamo con ordine.
La pretesa di andare oltre la destra e la sinistra, come ha provato autorevolmente lo storico Zeev Sternhell, rinvia a quell'indigesto brodo culturale del “né destra né sinistra”, da cui nacque il fascismo. Un fenomeno ideologico e storico che resta culturalmente - a prescindere dalle successive e più o meno sincere conversioni individuali - la Casa del Padre di tutti postfascisti. Per dirla con Pavlov, padre della riflessologia: il suono del campanello ideologico del né destra né sinistra, attiva, per così dire, la salivazione politica del criptofascista… Non c'è il boccone di carne politica, ma solo il richiamo del campanello. Tuttavia - ed è proprio il caso di dirlo - la saliva resta fascista... Insomma, come per il cane di Pavlov, si tratta di un riflesso artificiale, condizionato. E tra gli uomini quell'artificialità sconfina nel mistero della cultura. Quante volte capita di discutere del condizionamento culturale e dei suoi misteriosi travestimenti? È perfino banale tornare sull'argomento. Diciamo solo che Granata, pur di tenersi al passo con i tempi, introduce forbitamente il concetto di «patriottismo repubblicano». E qui va notata una cosa: il fascismo, oltre a qualificarsi spavaldamente né di destra né di sinistra, nacque e morì repubblicano… Certo, il vice coordinatore dei finiani, da par suo, aggiunge «legalitario». Il che è apprezzabile.Però, visti i precedenti storici…
Inoltre, sono sciabolate che non contribuiscono sociologicamente allo sviluppo della destra «normale» di cui sopra: «Quella Destra che, per dirla con Montanelli, c’era prima di Berlusconi e ci sarà dopo di lui» ( http://www.fabiogranata.com/2010/08/16/un-futuro-da-ricordare/ ). Perché lo spadone del romanticismo post-fascista serve solo a diffondere tra i cittadini il letale germe della sfiducia nella democrazia rappresentativa. Un sistema che si fonda, per l’appunto, sul saggio discrimine parlamentare tra partiti di destra e di sinistra, normali. E non sull' imprudente e anormale romanticume politico del né destra né sinistra. Insomma, piaccia o meno, la scelta è tra dentro o fuori il sistema. Tertium non datur. O se talvolta è storicamente datur rinvia al governo, democraticamente eletto, di quel centro cattolico sgradito a Granata. Purtroppo, il vero punto della questione è il deficit di cultura liberale. Parliamo di una tradizione, il liberalismo, che paleofascisti (quelli studiati da Sternhell), fascisti e neo-fascisti hanno sempre disprezzato. Un grave deficit che caratterizza l’esperienza politica di tutti - e sottolineiamo tutti - i “postfascisti”: i postmissini, i finiani, gli ex aennini rimasti nel Pdl ( come mostra la recente e greve polemica di Gasparri contro "Il Riformista"); per non parlare dei partitini nati come funghi nella diaspora del dopo Fiuggi dove il culto di Codreanu tuttora impazza; oppure, peggio ancora, di certe amenità culturali messe in circolazione da intellettuali, addirittura vicini a Fini, sul libertarismo fascista ma in orbace o sul Sessantotto nero a braccetto però con i colonnelli greci. Qualcuno ricorderà sicuramente lo sciagurato "Madrid, Atene, e dopo Roma viene", slogan molto gettonato dalla destra studentesca e neofascista dell'epoca, oggi promossa sul campo per meriti libertari da alcuni "pamphlettari" postfascisti, specializzatisi nel genere... Roba da pazzi... Insomma, ideologicamente, siamo agli antipodi del liberalismo. Di qui, i frequenti richiami pavloviani al fascistoide né destra né sinistra, come nel caso di Fabio Granata. Il quale probabilmente, come tanti altri postfascisti, neppure se ne rende conto. Proprio come il dottor Stranamore.


Carlo Gambescia