mercoledì 31 agosto 2011


Tremonti ha letto Hayek? 



Da tempo si “ciacola” intorno alla riforma dell’articolo 41 della Costituzione. A dire il vero, in argomento oltre ai peana (scontati) di Confindustria e “alette” liberal del Pdl e del Pd, la parte del leone sembra giocarla Giulio Tremonti. In realtà, per ora, siamo dinanzi al solito zig zag dialettico che però non promette nulla di buono, ovviamente per il cittadino. Tremonti, in particolare, si riferisce all’opportunità, di poter finalmente tagliare per ricaduta, grazie alla modifica dell’articolo 41, chilometri di leggi e regolamenti. Resta però difficile capire cosa effettivamente cambierà. Anche perché, ad esempio, durante il meeting riminese, il Ministro dell’Economia, abbottonatissimo in argomento, si è limitato a reiterare che «il Governo sta lavorando alla modifica dell’Articolo 41 della Costituzione». 
Intanto, per comodità del lettore, ne pubblichiamo il testo: 
«L’iniziativa economica privata è libera. Non può svolgersi in contrasto con l'utilità sociale o in modo da recare danno alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana. La legge determina i programmi e i controlli opportuni perché l’attività economica pubblica e privata possa essere indirizzata e coordinata a fini sociali». . 
Ora, l’articolo (anche alla luce dei successivi 42 e 43) è frutto di una intelligente mediazione tra il principio liberale che tutela l’esercizio del diritto di proprietà, (principalmente come «iniziativa economica privata») e il principio sociale, di derivazione cristiana e socialista, che pone dei limiti («programmi e controlli») a una pratica antisociale dell’ attività economica privata. Nel quadro - ecco il punto di forza - della comune condivisione (tra liberali, cattolici e socialisti) di un coordinamento a «fini sociali» tra economia privata e pubblica, costituzionalmente sancito. 
Siamo sicuri, allora, che un liberale vero, come Friedrich von Hayek ( e non in lega leggera come Tremonti & Company), riformerebbe l’articolo 41? 
No. E in particolare, pensiamo al grande Hayek di Legge, legislazione e libertà
Hayek distingue tra la legge in generale (nomos), intoccabile e necessaria, che può essere appunto quella racchiusa nell’articolo 41 (e di riflesso nella Costituzione), che fissa le regole generali, e il comando specifico (thesis), modificabile e non necessario, perché quasi sempre parcellizzato nei mille comandi racchiusi nella successiva, e in alcuni casi inutile, legislazione organizzativa. 
Ora, Tremonti vuole intervenire sul nomos, e non sul comando specifico o thesis (come invece, se fosse veramente liberale, dovrebbe fare…). Diciamo questo perché la Costituzione Italiana, per dirla ancora con Hayek, può essere interpretata come un’istituzione frutto di un ordine spontaneo nato da una dialettica evolutiva, e “dal basso”, tra posizioni intellettuali e politiche diverse, e non esito di un’ organizzazione imposta “dall’alto”. Parliamo, insomma, di un ordine spontaneo (non imposto), recepito nella sintesi costituzionale. Probabilmente la nostra può apparire un’interpretazione estensiva e in chiave sociologica del pensiero di Hayek. OK. Ma, anche ammesso che sia tale, la riteniamo comunque lecita, proprio alla luce di un liberalismo, ricco di spunti pragmatici, come quello hayekiano. 
Ricapitolando, Tremonti pretendendo di riformare l’articolo 41 pecca, per dirla ancora con Hayek, di costruttivismo: perché vuole imporre dall’alto il mutamento di quella cornice istituzionale (nomos) che assicura l’uguaglianza di tutti davanti alla legge. Quando invece basterebbe intervenire dal basso sul comando (thesis), riducendo il volume dei comandi (organizzativi) specifici. Sorge perciò spontanea la domanda: Tremonti ha letto Hayek? 

Carlo Gambescia 

martedì 30 agosto 2011

Cattive abitudini 
Chi dice «casta »...


I lettori avranno sicuramente notato che negli articoli, in particolare se legati alla politica italiana, non usiamo mai il termine «casta». Per quale ragione? 


Perché si tratta di un vocabolo che rinvia ad altri contesti storici, ad esempio all’India dell’antica tradizione Indù: un mondo totalmente diverso da quello dell’ Italia Repubblicana, segnata dalle moderne eredità della Rivoluzione francese e del Risorgimento. 
Dove vogliamo andare a parare? Semplice: spiegare perché Stella e Rizzo, i due giornalisti del Corriere della Sera cui è dovuta la fortuna italiana del termine, si sono ben guardati dal parlare di oligarchia in chiave politica e sociologica (dal greco, oligoi, “pochi”, più un derivato di arché, “comando”). Insomma, nel significato - più consono, almeno in Occidente - di un regime politico dove il potere viene esercitato da pochi a danno della maggioranza. 
Per contro, il termine «casta » (dal latino castus, “puro”), rinvia concettualmente a una classe ristretta che per razza e/o religione, come nell’India tradizionale, forma un gruppo sociale chiuso con uffici e privilegi particolari. 
Si dirà, sfumature filologiche… E invece no. Perché - ecco la “furbata” - “lanciare” il mantra «casta» nell’ Italia di oggi, significa puntare su un valore esotico dal forte impatto emotivo. Georges Sorel, che se ne intendeva, parlava di idee-forza, ossia della capacità dell’idea-simbolo, se opportunamente evocata, di spingere le persone all’azione senza andare troppo per il sottile. Cosa vogliamo dire? Che, nell’anno di grazia 2011, il membro di una «casta» , nel “civile Occidente” viene automaticamente considerato un razzista. E, come è noto, in una società democratica, il razzista, o presunto tale, non ha voce in capitolo. Quindi, per tornare alle questioni italiane, il politico nostrano, solo perché membro di una « casta», reinventata da due giornalisti, quella dei politici di Montecitorio, viene presuntivamente bollato come una specie di razzista della politica, da eliminare alla prima occasione, magari dandolo in pasto alla folla. 
E qui si apre un’altra questione. Il ricorso, ormai apparentemente inarrestabile, al termine «casta », può avere una pesante ricaduta su quel poco di democrazia che ancora esiste in Italia. Infatti, imporsi di sondare a ogni costo i pericolosi fondali dell’immaginario collettivo italiano, rischia di provocare il risveglio di qualche gigantesco mostro marino... Ad esempio, quello dell’odio popolare per le classi dirigenti, giudicate come corrotte e inette solo perché dirigenti. Parliamo delle arcinote ondate ribellistiche che hanno distinto (e distinguono) la storia dell’Italia moderna, da Masaniello a Beppe Grillo. 
Naturalmente, prendere atto del pericolo non implica alcuna rinuncia al sacrosanto diritto di criticare le non poche “oligarchie” economiche e politiche esistenti. Il nostro è un semplice invito a non scherzare troppo con il fuoco della demagogia politica. 

Carlo Gambescia