giovedì 30 settembre 2010

Il libro della settimana: Matthew Fforde, Desocializzazione. La crisi della post-modernità, Cantagalli pp. 390, euro 15.50.

www.edizionicantagalli.com


A chi abbia letto con gusto e attenzione il nostro post di ieri sul neo-corporativismo, consigliamo di recuperare un libro uscito nel 2005: Matthew Fforde, Desocializzazione. La crisi della post-modernità (Cantagalli, Siena, pp. 390, euro 15,50). Dove c’è un gustoso capitoletto proprio sul mercatismo. Che da solo vale la lettura dell’intero libro. L’autore, storico e filosofo sociale, già docente a Oxford, vive in Italia da una ventina di anni. Attualmente insegna Storia della cultura inglese e Storia contemporanea presso la Libera Università Santissima Assunta di Roma (LUMSA). Desocializzazione, oltre a vincere il "Premio Capri-San Michele 2006", è uscito nel 2009 anche in Gran Bretagna. Di prossima pubblicazione l'edizione francese.
Piccolo inciso: già il titolo è dirompente, perché sottolinea la fine di ogni legame sociale: ognuno per sé e neppure Dio per tutti… Va inoltre ricordato che Fforde ha scritto anche un’avvincente Storia della Gran Bretagna (1832-2002), tradotta da Laterza. Dove attraverso le lenti di un intelligente e ribelle (per l’Inghilterra) conservatorismo a sfondo cattolico, ricostruisce, parafrasando Battiato, la lenta disgregazione spirituale e sociale, della sua “povera patria”. Un processo, da lui visto, come anticipatore, di movimenti similari, poi rifluito verso il resto dell’Europa nei termini di quella “desocializzazione” di cui sopra. Capace, appunto, di recidere ogni legame sociale in nome di una visione egoistica dei diritti dell’individuo, e in particolare di quelli economici.

Ma, attenzione, Fforde non è un reazionario. Il suo cattolicesimo pur essendo esplicito è della stessa stoffa, finemente lavorata al cesello del ragione, dei Chesterton, dei Belloc, dei Dawson. Il suo è un pensiero fondato sull’accettazione del dettato di Papa Wojtyła: Quale? Quello di un mondo moderno da ri-evangelizzare, non con la spada, ma con la testimonianza della ragione, o meglio delle “ragioni” cristiane. Non vorremmo però metterla sul religioso, rischiando di confondere - o far scappare - il lettore, magari poco “frequentante”… Anche perché desideriamo parlare di “mercatismo”.
Ora però entriamo nel merito. A pagina 267 di Desocializzazione si legge:

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“Negli ultimi decenni il dibattito politico (e la politica) sono stati caratterizzati anche dal conflitto fra le varie forme di collettivismo e un approccio che mette in netto risalto i benefici del libero mercato. ‘Mercatismo’ potrebbe essere una definizione adatta a quest’ultima dottrina”. Ma che cos’è il mercatismo? Per saperlo, basta voltare pagina: “ Secondo il mercatismo, in una società è di primaria importanza l’economia della libera impresa, ciò che il mercato promuove ha senz’altro un grande valore, e il futuro della civiltà va garantito tramite l’adesione ai principi del mercato. Questo “orientamento” - prosegue Fforde - è però “chiaramente economicistico, in quanto si privilegia la dimensione economica dell’uomo e della società. Per molti aspetti il mercatismo, al pari del collettivismo e del dirittismo [come culto secolarizzato dei diritti dell’uomo], diventa una sorte di filosofia di vita che influisce sul comportamento, sui valori e sugli atteggiamenti, sull’identità individuale e sulle prospettive collettive” .
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Il che però non significa, che si debba sostituirlo con lo statalismo, o peggio ancora con il collettivismo: entrambi nemici del vero comunitarismo. Su questo Fforde è molto chiaro: si deve impedire che “il pensiero e la pratica mercatista” operino “in direzione di uno sgretolamento della comunità”. Recidendo - o “desocializzando” - tutti i legami che non siano di tipo economico: familiari, parentali, amicali e comunitari; legami che invece dovrebbero essere alla base di una sana economia di mercato.
Ma, ancora una volta, lasciamo che sia Fforde a spiegarsi:

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“Nel recepire l’economia o il mercato come una macchina indipendente” si è grandemente “sottovalutato l’importanza e il valore del patrimonio antropologico della comunità sia per l’economia sia per la comunità nel suo insieme”: un “errore elementare che, visto a distanza, sembra incredibile. Chiunque abbia viaggiato ha potuto constatare come la cultura imprima tracce profonde sul mondo delle ricchezza e della sua produzione. Basta andare in Italia per rendersi conto di quante siano le imprese a carattere familiare, di piccole o medie dimensioni; oppure in Giappone, con i suoi valori legati all’unità aziendale” (p. 269).
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In buona sostanza la tragedia del “mercatismo contemporaneo” è che
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"tralascia gli aspetti strutturali della società (...) sminuendone la portata. Si mette in opera una tendenza distruttiva: ci potranno essere anche stipendi elevati e abbondanza di beni grazie alle politiche mercatiste, ma le tradizioni che sostengono la comunità vanno perdute” (p. 270)
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In poche parole, conclude Fforde, il mercatismo
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“può incoraggiare una sorta di fissazione sull’economia a detrimento di altri elementi vitali della nostra vita comune… questa dottrina, inoltre può ridursi a nient’altro che un contratto sociale da due soldi fondato sul reciproco laissez-faire mirato al perseguimento del profitto personale” (Ibidem) .
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Ovviamente Fforde, che non è un economista, piuttosto che risposte formula domande. Ma di quelle buone, come questa:
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“Può l’uomo vivere di solo pane? Il successo del mercato gli può davvero portare la felicità? Può l’economia dare all’uomo ciò di cui ha veramente bisogno? Dobbiamo davvero inquadrare la nostra vita nella società in termini di realizzazione economica?" (Ibidem)
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Probabilmente qulcuno penserà che le domande poste sono troppo filosofiche… Certo, il problema, al quale Fforde non risponde, per ragioni di formazione, è come contenere tecnicamente il mercatismo. Probabilmente la riposta è quella, molto classica, del capitalismo sociale di mercato: di un sistema economico, capace di conciliare mercato e comunità, come ad esempio avvenne nella Germania di Adenauer ed Erhard. O se si vuole, in grado di coniugare un moderato interventismo pubblico nei settori delle infrastrutture sociali (scuola, università, sanità, pensioni), lasciando però larghi spazi alle autonomie locali, in termini di sussidiarietà e di partecipazione dei lavoratori agli utili ma anche alla gestione delle imprese. Perciò, sul piano politico, si tratterebbe di innescare un meccanismo virtuoso capace di favorire il rafforzamento di una società civile, economicamente sviluppata ma al contempo non priva di legami comunitari. Per farla breve: passare dalla desocializzazione alla risocializzazione, attraverso la gestione del mercato, fondata su una visione sociale dell’impresa (in termini di responsabilità verso la collettività e non solo nei riguardi degli azionisti).
Qualcuno però penserà che il capitalismo sociale è una sorta di quadratura del cerchio mai riuscita, se non per puro caso nella Germania del secondo dopoguerra. E che il mercato, per produrre ricchezza, non può essere imbrigliato. O al massimo “sottoposto a regole”. In effetti... Ma come far rispettare le regole in un mondo “desocializzato”, che “adora l’economia” e non rispetta l’uomo? regola delle regole. Nonché, quella che è la Regola delle regole delle regole... Quale? Dio, of course.


Carlo Gambescia

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mercoledì 29 settembre 2010

Riflessioni
Mercatismo o neo-corporativismo democratico? 


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Mercato o “Corporativismo? L'alternativa può sembrare desueta, stando almeno ai "gusti" iperliberisti oggi prevalenti. Ma non è così. Soprattutto se per corporativismo si intende il neo-corporativismo democratico.
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Qualche precisazione
Per i neoliberisti il mercato capitalistico resta l’unico sistema economico in grado di produrre ricchezza. Per gli avversari il mercato, se abbandonato a se stesso, provoca sfaceli sociali. Qui però le strade si dividono: perché per i riformisti il mercato va contenuto, mentre per i radicali di sinistra e destra, va soppresso. Chi dice la verità?
Probabilmente, a parte i riformisti, nessuno dei contendenti. Sul comunismo, visti i risultati, è inutile “ritornare”. Più interessante resta la posizione corporativa, che sembra animare la destra radicale nelle sue varie e pittoresche sfumature. Ma di quale corporativismo parlare?
Al tempo. Il mercato capitalistico accumula ricchezze che poi devono essere ridistribuite nel rispetto delle regole e della dignità umana.. Di conseguenza serve un “potere terzo ”: uno Stato-Arbitro. Ma ad alcuni non basta. Di qui l’ipotesi corporativa che punta sulla naturale l’insocievolezza socievole dell’uomo. Tradotto: un atavico unirsi per ma anche contro qualcuno. E appunto per questo anche il corporativismo (buono), se non vuole degenerare in “corporativismi” (cattivi) deve puntare sullo Stato. Ma non più sul “potere terzo” dello Stato-Arbitro, ma sul “potere primo” dello Stato Corporativo.
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Il compromesso socialdemocratico
E qui la questione si ingarbuglia. Si pensi alla società come a un elastico: da un capo il Mercato dall’altro lo Stato. Se lo si tira troppo, anche da uno solo dei due lati, si rischia di irrigidirlo fino a provocarne rottura…
Il polo del Mercato puro (mercatismo) risale all’Ottocento. E termina, verso la fine del secolo, con la nascita della prima legislazione sociale. Mentre il polo dello Stato puro (statalismo) si sviluppa nella prima metà del Novecento, attraverso il collettivismo comunista e - appunto - il corporativismo, soprattutto nella variante fascista. Al quale segue, nella seconda metà del secolo, lo Stato a economia mista aperto sia al capitale (economia sociale di mercato), sia al sociale (welfare state): una giusta via di mezzo, uno Stato, non proprio arbitro, ma neppure padrone. In quest’ultimo caso si può perciò parlare di “compromesso socialdemocratico” (nelle varianti cattolico-sociale e liberal-socialista) e soprattutto di “neo-corporativismo democratico”. Per quale ragione “democratico? Perché i rappresentanti della classe operaia vengono integrati nel processo di formazione delle decisioni economiche (concertazione democratica), grazie a un’ estesa politica dei diritti politici e sociali (welfare state), in cambio del rispetto delle “compatibilità” dell’economia capitalistica e del controllo della base operaia, soprattutto in termini di moderazione salariale (politica dei redditi). Ovviamente, semplifichiamo mettendo insieme esperienze diverse ( principalmente scandinave, britanniche, tedesche).
Per contro, il corporativismo fascista tra le due guerre, puntando al superamento del capitalismo ( si pensi in Italia alla versione “fascio-comunista” di Ugo Spirito) non poteva andare tanto per il sottile con le libertà democratiche. Di qui la nostra necessità di definirlo “autoritario”. Soprattutto perché siamo davanti a due modi di strutturare il rapporto tra Stato e società civile.
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Corporativismo autoritario e neo-corporativsmo democratico
Nel corporativismo autoritario le organizzazioni che rappresentano i grandi interessi sociali sono subordinate all’autorità dello Stato, se non addirittura una sua creazione. Mentre nel neo-corporativismo democratico, che ha distinto la politica europea nel primo trentennio post-Seconda Guerra Mondiale, siamo davanti a un movimento che proviene dal basso - dalla società civile - e che difende l’autonomia degli attori collettivi coinvolti nel processo.
Il corporativismo autoritario, oltre che monopartitico, è monistico “di dentro”, in quanto si impone di ricondurre ad unità la molteplicità degli interessi presenti nella società civile: la sua caratteristica più evidente resta l’identificazione tra società civile e Stato. Un fattore che implica l’eliminazione del confine tra pubblico e privato. Perciò il corporativismo autoritario, quale “agente organizzativo” di vertice, trasforma le organizzazioni di rappresentanza nella cinghia di trasmissione di una volontà politica verticale, a prescindere da qualsiasi iniziale auto-organizzazione corporativa. In termini formali, lo Stato riconosce le corporazioni come enti pubblici dotandole di personalità giuridica. Dopo di che le riconduce nell’alveo del diritto pubblico investendole dei relativi poteri pubblici e incaricandosi di coordinarne l’attività e dirigerne l’azione.
Il neo-corporativismo democratico, oltre che pluripartitico, è un sistema policentrico nel quale le organizzazioni degli interessi si mantengono autonome ed entrano in un rapporto con gli altri attori istituzionali. Rapporto che si presume basato sulla collaborazione reciproca e sulla negoziazione. Nel corporativismo democratico, oltre al permanere, rispetto al corporativismo autoritario, della libertà politica, la coercizione gioca un ruolo molto marginale; l’accento è messo sullo scambio, la contrattazione, il reciproco adattamento, la concertazione. Le sanzioni tendono ad essere più positive che negative: la partecipazione a strutture corporative è incentivata più che imposta. Dal punto di vista giuridico il fondamento dell’associazionismo corporativo continua ad essere privatistico: non vi sono norme che impongano doveri “corporativi” .
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Le "rivoluzioni" neo-liberiste e il mondo che verrà...
Tuttavia, negli ultimi trent’anni, con le cosiddette rivoluzioni neo-liberiste, il neo-corporativismo democratico ha perso colpi. E gli effetti, in alcuni casi devastanti, sono sotto gli occhi di tutti. Quel che sorprende è la stupidità del fronte neo-liberista: ci si rifiuta di capire, giocando sul mito della “modernizzazione”, quanto il mercato allo stato puro faccia male allo stesso capitalismo.
E in un senso politico ben preciso. Perché il mercatismo rischia di innescare reazioni uguali e contrarie. E così di fare il gioco del corporativismo autoritario, rischiando di uccidere anzitempo la gallina dalle uova d’oro: il mercato capitalistico. Nonché di cancellare alcuni secoli di preziose libertà democratiche. Perché, sia chiaro, mercatismo e corporativismo autoritario, elidendosi a vicenda, elidono anche la democrazia… E coloro che oggi a destra credono nella possibilità del corporativismo di reincarnarsi magicamente in una specie di armoniosa società corporativa, priva però, questo giro, di un centro politico (lo Stato), dovrebbero più propriamente parlare non di corporativismo fascista ma di utopico “gildismo” socialista.
In definitiva, il neo-corporativismo democratico resta il migliore strumento per governare una moderna società liberale e capitalistica. Del resto le incoraggianti esperienze del welfare state e del capitalismo sociale di mercato sono lì a dimostrarlo. Che nell’ultimo trentennio lo si sia messo in discussione, non significa che il neo-liberismo sia più affidabile. Anzi. Il pericolo resta quello di buttare l’acqua sporca (gli sprechi) con il bambino (il welfare e la concertazione). Perché rifiutarsi di capire che il neo-corporativismo democratico, stupidamente cacciato dalla porta, potrebbe rientrare dalla finestra? E, questa volta, in veste “autoritaria”?

Carlo Gambescia

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Bibliografia minima
Di solito non facciamo seguire ai nostri post alcuna biblibiografia, ma questa volta, considerato l'interesse dell'argomento, faremo un'eccezione. Le indicazioni (ragionate) seguono l'ordine di svolgimento della materia. (C.G.)
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Marco Maraffi (a cura di), La società neo-corporativa, il Mulino, Bologna 1981 ( ottimo studio introduttivo, storico e sociologico, imprescindibile)
Gaetano Rasi, La società corporativa, Istituto di Studi Corporativi, Roma 1973 (interessante rilettura neofascista, scientificamente in regola).
Luigi Cerasi, Corporativismo e Corporativismo (storiografia), in Alberto De Bernardi e Scipione Guarracino (a cura di), Dizionario del fascismo. Storia, personaggi, cultura, economia, fonti e dibattito storiografico, Burno Mondadori, Milano 2003.
Ugo Spirito, Il corporativismo, seconda edizione accresciuta, Sansoni, Firenze 1970 (per l'approccio "fascio-comunista").
George Douglas Howard Cole, Guild Socialism Restated, Transaction Books, New Brunswick (Usa) and London (UK) 1980 (testo "fondativo", 1920, del gildismo socialista novecentesco) 

martedì 28 settembre 2010

"Bossologia" (da Umberto Bossi) comparata
Sono Porci Questi Romani...



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E bravo il signor "Ce L'Ho Duro"”( per alcuni maligni Ce l’Aveva…). Anche questa volta è riuscito a scatenare il putiferio. Bravo si fa per dire. Bossi, se potesse calerebbe su Roma con i suoi Galli. Oddìo, secondo alcuni, sarebbe sufficiente fare un giretto intorno a Montecitorio per scoprire che Bossi e la truppa già si sono accampati da un pezzo. E magari affacciarsi sulla porta di un certo ristorante per scoprire un elmo con le corna lì, una lancia guarnita in pelle (verde) là, eccetera.
Ma veniamo alla ragione del contendere. "Il Bossi” in una serata di gala padana, probabilmente inebriato dal fascino emanato da alcune cavallone se ne è uscito con il famigerato SPQR “reso” (come diceva una traduttrice amica mia, molto snob) con "Sono Porci Questi Romani"… Roba, se ricordiamo bene, da scuole elementari (quando andavamo noi, primi anni Sessanta), che faceva arrabbiare le vecchie maestre ammalate di romanità fascista…
Insomma, la battuta non è fresca. E comunque fiacca come certe uscite “autoironiche” tipo “Er Monnezza”. Perciò non fa nemmeno ridere. Soprattutto i romani, tra l'altro, abituati da millenni a mandare giù di tutto.
Quel che sorprende, più della sparata bossiana sulla quale ritorneremo , è la reazione della sinistra. Quella che discende “per li rami” da quei bruti che nel 1918 insultavano invalidi di guerra e ufficiali; nel 1945 fucilavamo chiunque avesse simpatie monarchiche e unitarie, anche tra “i loro”; nel 1968, bruciavano le bandiere nazionali. Ma che ora hanno “scoperto” la patria, addirittura al punto di voler sfiduciare Bossi Ministro… Oddìo, come diceva quello, meglio tardi che mai. Ammesso però che siano sinceri… Cosa di cui dubitiamo. Soprattutto se Bossi, esprimesse all'improvviso il desiderio di passare con Bersani…
Ma torniamo al nostro Vergingetorige padano. Diciamo subito che Bossi è antiromano quando gli pare. Poi buono buono vota con il Governo. Inutile qui ricordare quante volte, troppe. Forse non tutti hanno capito, nonostante il buon Diamanti - sì, proprio lui il politologo di “Repubblica” - abbia più volte spiegato, che la Lega è una forza politica comunitaria e... trasversale, proprio perché comunitaria. E quindi disponibile a cavalcare, in nome dei suoi scopi identitari (federalismo, eccetera) sia la destra che la sinistra. In certo senso, la Lega - espressione non nuova, neppure per Bossi - è "un partito di lotta e di governo". Che a Roma (ladrona o meno) dice della cose di governo, buone, mentre, mettiamo, a Desenzano sul Garda, durante la festa dell’Anatra, ne dice altre, cattive…
Ma a voler approfondire - per buttarla sul socio-antropologico - tra il “Sono Porci Questi Romani” e il comunitarismo leghista (ma non solo), c’è un legame diretto. Ci spieghiamo. Una comunità è al tempo stesso per e contro. Si unifica sulla base di un per: per noi che abbiamo gli occhi azzurri, mettiamo. Ma sempre contro qualcuno, quelli che, ad esempio, hanno gli occhi castani. Purtroppo, il comunitarismo, in senso stretto, è così: non tollera differenze al suo interno, e se le gioca sempre, per ragioni di coesione identitaria, contro qualcuno. Quindi per tornare "all'Umberto", i porci sono sempre gli altri: romani, meridionali, tunisini, marocchini, e giù a scendere fino al Capo di Buona Speranza, per poi fare la circumnavigazione del globo, e infine tornare indietro all’interno del filo spinato che nei sogni di Bossi, dovrà, prima o poi, circoscrivere la Padania…
Come rintuzzarlo? Ad esempio, Alemanno ha fatto bene a ricordargli la sua qualità di Ministro della Repubblica, e quindi di tutti gli italiani, inclusi i “porci” romani. Come dire: caro Bossi, o cambi o ti dimetti. Un bravo al Sindaco di Roma.
Il punto però è che il Cavaliere non può fare a meno dei voti della Lega. E questo grazie anche i giri di valzer di Gianfranco Fini…
Perciò per ora - come sembra che Berlusconi sussurri a suoi - BSPB: “Bisogna Sopportare Pazientemente Bossi”.

Carlo Gambescia

lunedì 27 settembre 2010


Questioni  di lessico politico
Riforme vere e finte


Nel lessico politico non solo italiano, diciamo dal 1945 ad oggi, il termine riforma ha subito un notevole cambiamento. Quale? Se fino agli anni Settanta esso descriveva il riformismo come insieme di modifiche sociali al sistema capitalistico per “addolcirlo”, dagli anni Novanta in poi ha assunto un significato economico, anzi economicista: quello di un complesso di riforme economiche in grado di migliorare solamente, senza riguardo alla “questione sociale”, la competitività del sistema capitalistico.
Perciò quando oggi, come in Italia, Confindustria invoca le “riforme”, ci si riferisce alla competitività e non alla socialità. Per contro, chiunque sia rimasto legato al significato sociale del vecchio termine viene liquidato dai media, ovviamente vicini al potere economico, come un conservatore, se non un reazionario.
Alla base della "trasmutazione" - per usare un parolone - c’è sicuramente il cambiamento dei rapporti di forza mondiali: l’Urss non esiste più, e con essa il pericolo rivoluzionario. Di conseguenza, soprattutto all’interno degli ambienti economici che contano, oggi non si ritiene più necessario “andare verso il popolo”, puntando sulle riforme sociali e quindi sul capitalismo sociale di mercato.
Ma pesa anche un altro fattore. Quello dell’ascesa, soprattutto dagli anni Ottanta, della cultura dell’individualismo economico di massa. Una cultura del produci e divertiti di derivazione statunitense che ha contribuito a trasformare il concetto stesso di solidarietà e di Stato sociale. In che modo? Imponendo l’idea che nessun pasto sia gratis - l’espressione risale a Milton Friedman. E che la solidarietà debba esclusivamente esprimersi attraverso canali privati, sotto forma di carità e beneficienza.
Come tornare alla cultura delle riforme vere, quelle sociali? Difficile dire. Che forsa serva un nemico "ideologico" esterno capace, issando la bandiera di un sistema politico, economico e sociale alternativo, di spaventare il capitalismo e costringerlo a fare riforme vere ?
Ovviamente, almeno per ora, non possono essere considerati "nemici ideologici" né la Cina capitalista e autoritaria, né l’Islam, capitalista solo a metà (o per un quarto) ma altrettanto ferocemente autoritario. Entrambi incapaci di esercitare qualsiasi fascino sulle masse occidentali. Anzi, per contrasto, Cina e Islam, possono solo spingere gli occidentali, anche quelli “piccoli piccoli” (nel senso di Cerami), a farsi ancora più gelosamente individualisti. Manca, insomma quel forte “appeal” sociale esercitato a suo tempo dall’Urss, soprattutto sugli intellettuali europei e americani, poi trasformatosi, per reazione - secondo alcuni al "pericolo di contagio" - in buona cultura delle riforme sociali.
Come spiegare la transizione rivoluzione-riforme? Processo che oggi sembra lontano anni luce? Nobiltà ideale del comunismo? O delle riforme? Forza della paura? O dell'individualismo democratico e sociale di origine illuminista ? Oppure solo furba intelligenza occidentale degli eventi? Decida il lettore.



Carlo Gambescia

venerdì 24 settembre 2010


Senso dello Stato (che non c'è)  
e crisi italiana


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Che cos’è il Senso dello Stato? In un attore politico è consapevolezza. E di che cosa? E' quasi banale dirlo: del fatto che gli uomini passano mentre le istituzioni restano. E che quindi le istituzioni sono più importanti dei singoli.
Il Senso dello Stato si interseca e spesso confligge con la Ragion di Stato. Ossia - parliamo da sociologi - con la tendenza a considerare le istituzioni, oltre ogni ragionevole limite, come "proprietà" personale o di gruppo.
Perciò il confine tra Senso dello Stato e Ragion di Stato resta piuttosto labile, soprattutto quando un uomo politico identifica se stesso con una determinata istituzione. In linea di principio l' identificazione dovrebbe essere massima nella monarchia, minima o pari a zero nella democrazia. Abbiamo usato il condizionale perché non sempre è così. La storia mostra re che hanno favorito la democrazia parlamentare e politici democratici assurti a monarchi.
Dal punto di vista sociologico un’istituzione (monarchica o democratica) è una rappresentazione sociale. Il che significa che le istituzioni si nutrono di “consenso sociale”: la rappresentazione, oltre a rinviare al rappresentante, rimanda, perché ne vive, al rappresentato. Dove non c’è il consenso sociale ( di qualsiasi tipo, non semplicemente espresso con il voto) non c’è rappresentazione. Certo, sussiste il rappresentante, ma presto privo di qualsiasi rappresentatività.
In questo quadro, il Senso dello Stato, principalmente nelle democrazie moderne, assolve un ruolo confermativo delle istituzioni: le legittima. Nel senso che maggiore sarà il Senso dello Stato mostrato dagli attori politici ( di maggioranza come di opposizione), maggiore sarà la rappresentatività delle istituzioni. In certa misura il vero uomo di Stato, non “lavora per se stesso” ma “lavora” altruisticamente per le istituzioni, affinché possano “durare nel tempo”.
Su queste basi come giudicare quel che sta accadendo in questi giorni nella politica italiana? Lasciamo la parola ai lettori.
Carlo Gambescia

giovedì 23 settembre 2010

I libri della settimana: Hans Morgenthau, Il concetto del politico. ‘Contra’ Schmitt, a cura di Alessandro Campi e Luigi Cimmino, Rubbettino 2009, pp. CXVIII-200, euro 16,00; Ernst Nolte, La rivoluzione conservatrice nella Germania della Repubblica di Weimar, a cura di Luigi Iannone, Rubbettino 2009, XI-76, euro 10.00 - www.rubbettino.it ; Lorenzo Zambernardi, I limiti della potenza, Etica e politica nella teoria internazionale di Hans J. Morgenthau, il Mulino 2010, pp. 251, euro 23,00 - www.mulino.it


Hans Morgenthau                                                                                Ernst Nolte

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Ci sono libri che vanno letti uno dietro l’altro o insieme perché affrontano, senza magari dichiararlo nel titolo, la stessa questione, ovviamente anche per contrasto... Ne citiamo tre, e non tanto a caso, visto che sono la “materia prima” della nostra recensione: Hans J. Morgenthau, Il concetto del politico. ‘Contra’ Schmitt, a cura di Alessandro Campi e Luigi Cimmino (Rubbettino 2009, pp. CXVIII-200, euro 16,00); Ernst Nolte, La rivoluzione conservatrice nella Germania della Repubblica di Weimar, a cura di Luigi Iannone (Rubbettino 2009, XI-76, euro 10.00), Lorenzo Zambernardi, I limiti della potenza. Etica e politica nella teoria internazionale di Hans J. Morgenthau, (il Mulino 2010, pp. 251, euro 23,00).
Qual è argomento dominante? Hans Morgenthau? Carl Schmitt? La rivoluzione conservatrice? No, il realismo politico. E nelle sue tempestose relazioni con l’etica e con gli alti e bassi della storia, fatti di trionfi, cadute, guerre e rivoluzioni,
Hans Morgenthau, politologo e internazionalista tedesco-americano, si muove, più o meno abilmente, tra realismo politico e comando etico. Carl Schmitt, giurista, espunge l’etica dei valori dalla politica, anzi dal “politico”. Mentre un profeta della rivoluzione conservatrice, come Moeller van de Bruck, proietta la politica oltre l’etica borghese, verso i sentieri scoscesi del sentire storico di "un popolo" per alcuni, di "una razza" per altri.
Tre figure fatte per non intendersi. A partire dal giovane Morgenthau - come rileva Alessandro Campi - che muovendo da "una concezione psico-sociologica del politico" si “contrappone apertamente alla concezione metafisica, astratta e per di più frammentaria e logicamente incongruente, avanzata invece da Schmitt” ( Il concetto del politico. 'C0ntra' Schmitt , p. CVII). Povero Schmitt… un tempo così apprezzato da Campi. Sic transit gloria mundi.
Del resto secondo Zambernardi, autore di un eccellente studio, Morgenthau sperimenterà “su di sé quell’enorme ‘potenza del niente’ che un pensatore tedesco come Jünger riteneva esperienza necessaria per conoscere la propria epoca”. E con un effetto di ricaduta, questa volta positivo: Morgenthau “trasformerà la tentazione nichilista, in cui grandi filosofi quali Heidegger e Schmitt e lo stesso Jünger erano caduti, in una forma di sobria lucidità, in critica nei confronti di qualsiasi dogmatismo, e, infine, in prudenza nei rispettivi campi di conoscenza, della morale e, soprattutto, in quello dell’agire politico” ( I limiti della potenza. Etica e politica nella teoria internazionale di Hans J. Morgenthau, p. 242).
Insomma, realismo, sobriamente lucido, non ignaro dei valori (Morgenthau) contro realismo nichilista, per un tratto a braccetto con il Belzebù nazista (Schmitt). Ai lettori l’ardua sentenza. Anche se probabilmente la storia l’ha già pronunciata.
Qui però si apre la questione del complicato rapporto tra realismo politico e liberalismo. Altro piano inclinato della storia. Un liberalismo, accettato scetticamente come male minore da Morgenthau. Ma contrastato, come sappiamo, da Schmitt e Moeller van de Bruck. Scrive Nolte a proposito di quest’ultimo: “Moeller condusse un attacco al liberalismo già nella raccolta Il nuovo fronte, pubblicata nel 1922: il liberalismo sarebbe espressione di una società che non è più comunità; avrebbe ‘sepolto culture, annientato religioni, distrutto patrie’ e rappresenterebbe l’autodissoluzione dell’umanità” (La rivoluzione conservatrice nella Germania della Repubblica di Weimar, p. 52).
Come conciliare realismo politico ed etica della libertà? Difficile dire. Come scrive Iannone, nella sua Introduzione: “Nei periodi di profonda crisi gli intellettuali hanno il dovere di esplorare tutte le strade possibili, anche le più ardite” (p. XI). Giusto. Ma come capire dove fermarsi per salvare la libertà di tutti ? Carl Schmitt lo comprese troppo tardi: dopo essere passato attraverso il fuoco della catastrofe nazionalsocialista. Morgenthau, emigrato in America dopo l'avvento di Hitler, vittima delle leggi razziali, aveva invece intuito tutto fin dall'inizio. Mentre Moeller van de Bruck, scomparso nel 1925, non farà in tempo a scoprire dove avrebbe condotto il sentiero "non interrotto" da lui intravisto...
Concludendo, tre libri aperti, che alle risposte definitive preferiscono anteporre le domande giuste. Lasciando che sia il lettore a interrogarsi e giudicare. Il che di questi tempi non è poco.

Carlo Gambescia

mercoledì 22 settembre 2010

Riflessioni
La tolleranza questa sconosciuta



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Impedire di parlare a un sindacalista, come è capitato qualche settimana fa a Raffaele Bonanni è un brutto segno dei tempi. Purtroppo, pare si sia dimenticato il clima di intolleranza, non solo verbale, che poi sfociò nella violenza terrorista degli “Anni di piombo”… Possibile sia così difficile capire che dietro l’ intolleranza c’è sempre il settarismo? E che dietro il settarismo, si nasconde il delirio di onnipotenza del fanatico che ritiene di possedere la storia chiavi in mano?
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Tolleranza, “trucchetto” o conquista?
Per contro, la moderna idea di tolleranza, come è possibile leggere in qualsiasi manuale storico, nasce, “per stanchezza” alla fine delle Guerre di religione: conflitti che avevano insanguinato il Cinquecento e il Seicento. Una conquista preziosa, liquidata però come “trucchetto” liberal-borghese dai totalitarismi novecenteschi. Ma snobbata anche dai pittoreschi profeti della controcultura anni Sessanta, storditi dal contorto messaggio di liberazione, anche sessuale, della filosofia marcusiana. E qui torna giusto ricordare che per il Marchese di Sade, poi riscoperto e apprezzato dagli pseudo-rivoluzionari sessantottini, “la tolleranza è la virtù del debole”. Ma su questi aspetti “genealogici” rinviamo al notevole libro di Riccardo De Benedetti, La Chiesa di Sade. Una devozione moderna (Medusa ).
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Che fatica essere tolleranti…
Torniamo a noi. Che cosa vuol dire essere tolleranti? Sul piano umano e politico significa rispettare le idee degli altri. Cosa che richiede un’attitudine a mostrarsi ragionevoli, comprensivi verso le idee religiose, politiche, economiche, diverse o contrarie.Facile, no? E invece metterla in pratica non è così semplice. Si pensi ad esempio al rapporto tra lotta politica, tolleranza e intolleranza. Questione ignorata dagli stessi politologi. I quali talvolta non si pongono alcune domande fondamentali: la tolleranza è un fatto di costume? Nel senso che dipende da abitudini storiche condivise? Oppure può essere sancita e rafforzata da leggi in grado di imporre ai cittadini il rispetto di alcune procedure? Ma fino a che punto si può essere tolleranti? Come fissare i confini tra tolleranza e intolleranza? Il costume richiede secoli. Una legge pochi giorni o mesi. E di regola le leggi non fondate su costumi consolidati sono disattese dai cittadini.
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Lo “zampino del “Divin Marchese”
Quindi, per tornare ai fischi a Bonanni, i contestatori hanno mostrato di non essere “accostumati” alla democrazia. Potremmo perciò definirli “scostumati”: perché fautori di un comportamento contrario alla morale, certo, non sessuale, ma democratica… E qui si pensi anche ai possibili legami intellettuali con il “Divin Marchese” - sessualmente “scostumato”, e al tempo stesso nemico della tolleranza e della democrazia. Ovviamente si tratta di un pura ipotesi, suggestiva ma da dimostrare.
Ma va segnalata - onestamente - una contraddizione. La tolleranza rinvia a una visione relativistica della politica, capace di porre tutte le credenze sullo stesso piano. Mentre la politica - o il Politico se si preferisce - rinvia alla decisione. E la decisione implica la scelta fra credenze diverse, e quindi il “sacrificio” della credenza minoritaria.
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Chi decide?
La democrazia contemporanea, permeata di valori liberali, ha però tentato di aggirare l’ostacolo della decisione, imponendo per legge, anzi per costituzione, la mediazione procedurale. Come? Garantendo la rappresentanza partitica alle credenze minoritarie, libere di esprimersi duranti le fasi dibattimentali, come accade in Parlamento. Al prezzo però di annacquare talvolta i contenuti legislativi in discussione. Alcuni ritengono che questo sia il giusto tributo da pagare alla democrazia.Ma come comportarsi con una credenza basata su aspirazioni di tipo monopolistico? Ad esempio quella di un partito “settario”. Basterà - ammesso che sia giusto - escluderla dal gioco procedurale?
I contestatori, come nel caso Bonanni, per dirla tutta, mostrano di fregarsene delle procedure…. Forse perché si sentono esclusi.
Di qui il pericolo del “colpo di forza”, al culmine ovviamente di un’escalation. Perché l’escluso, o presunto tale, conferma e dà voce alla propria identità attraverso il conflitto nei suoi vari gradi di intensità, fino alla vittoria, alla sconfitta o all’ “armistizio che prelude alla democratizzazione “procedurale” dell’ escluso.
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Il dilemma della democrazia
Purtroppo, siamo davanti al più noto dilemma della democrazia moderna. Una democrazia illuminata e discorsiva che ha tentato di sostituire, almeno sul piano interno, alla forza il ragionamento; alla decisione imperativa la mediazione procedurale.Mediazione che purtroppo non sempre può essere condivisa da tutti e che spesso viene accettata strumentalmente dai partiti “settari”, soltanto per agguantare il potere. Di solito, i “settari” rischiano di rendere necessario, da parte dei “tolleranti”, l’uso difensivo della forza. Ma come definire una forza politica “settaria”? Basterà la sua volontà, pubblicamente espressa, di non rispettare le regole della democrazia liberale procedurale?No. Un intervento repressivo potrebbe essere giustificato solo “se e quando” il “settario” si trasformasse in terrorista.
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Il “tasso di democraticità”
Perciò lasciamo che i Bonanni italiani vengano fischiati anche in futuro? Non è facile rispondere. Come stabilire con sicurezza il tasso di “democraticità” dei fischiatori? Fischiare non è argomentare, ma non è neppure sparare… Il discrimine può essere rappresentato da quanto sia messa a rischio l’incolumità fisica del “fischiato”. Valutazione che spetta agli organizzatori e alle forze di polizia, se presenti. I problemi però non finiscono qui. Perché coloro che sono pronti a reprimere in nome della democrazia, a loro volta, possono essere monopolisti della forza legale (perché al potere), ma non di quella legittima (perché possono non godere del consenso della maggioranza dei cittadini). Esistono, infatti, anche le finte democrazie. Ma chi decide circa la qualità della democrazia? Gli elettori. Ma se gli elettori, ingannati, a loro volta errano?
Insomma, anche per i “democratici” e i “tolleranti” vale lo stesso discorso che si è fatto a proposito dei “settari”. Come stabilirne con sicurezza il “tasso di “democraticità” e “tolleranza”?

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Nessuno è perfetto
Inoltre, si tratta di valutazioni e decisioni che devono essere fatte e prese in situazioni storiche spesso tumultuose. Perché legate, ad esempio, alle condizioni economiche, politiche e culturali, all’ abilità dei capi, all’amore per la libertà di un popolo e a fattori minori e contingenti, come il “tasso di democraticità” delle forze di polizia e della magistratura:
Il che significa che la qualità democratica di un sistema politico è frutto di circostanze storiche: una specie di lotteria… E che la tolleranza spesso è stabilita dai vincitori o dia più forti. I quali impongono una “propria” idea di tolleranza, che di regola penalizza o rimuove le ragioni dei vinti. Di qui spesso l’accusa di ipocrisia, ovviamente da parte degli sconfitti.
Per contro, dove domina una dittatura monopartitica, di tolleranza ce ne sarà poca. Certo, spesso la tolleranza rischia di sfociare nell’ipocrisia. Concludendo, per dirla con Bernanos: “Le democrazie non possono fare a meno di essere ipocrite più di quanto i dittatori possano fare a meno di essere cinici”.
Insomma, nessuno e perfetto. Ma probabilmente argomentare è sempre meglio che fischiare. Per non dire di altro. O no?

Carlo Gambescia

martedì 21 settembre 2010


Trasformismi
Il “Secolo d’Italia” tra  Fini, Santoro, Vespa e Baudrillard



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Sappiamo bene che è roba da addetti ai lavori. E poi qualche lettore penserà “Che palle ‘sto Gambescia, ancora con Fini...”. L’osservazione è questa: oggi che tutti i giornali aprono con il “terremoto Unicredit”, il “Secolo d’Italia” che fa? Sbatte in prima Santoro, titolando: “Ed è subito emergenza ‘Anno zero”( http://www.secoloditalia.it/publisher/In%20Edicola/section/ ). Certo, perché “Michele chi?” è il primo problema degli italiani: uno si alza all'alba con la preoccupazione di non poter vedere Santoro alle ore ventuno...
Che vogliamo dire? Che Fini si è costruito un partitino su misura che vive all’insegna del “cogito (televisivamente), ergo sum”. Anzi, dell' “Appaio dunque sono”: proprio come le odiatissime veline berlusconiane. Detto altrimenti: sotto il vestito niente. Senza ovviamente disdegnare la rissa. Si pensi solo al botta e risposta estivo, quasi quotidiano - quando il “Secolo d’Italia” era in vacanza con l’immaginario al sole - tra Feltri-Belpietro e le truppe cammellate di “Fare Futuro” : roba, insulti compresi, da salottificio televisivo. Dunque, non solo Santoro. Diciamo che i secolisti, brancolano tuttora tra Vespa e Baudrillard.
Perciò il diuturno sforzo ( citazione demodè da Almirante…) di farsi riprendere da “Repubblica” & Company, l’esserci (non heideggeriano, ma rossiano-campiano) alle canoniche ore venti, non è un “genere letterario”, coniato da qualche bizzarro avversario, ma la causa sui di un gruppetto post-tutto di giornalisti con la foto incorniciata di Veltroni sulla scrivania. Ma con trent’anni di ritardo. E per giunta solo per tirare la volata a un burocrate di se stesso come Gianfranco Fini.
Concludendo, destra maggioritaria? No, immaginaria. E presto a spasso.

Carlo Gambescia

lunedì 20 settembre 2010

Elezioni svedesi

Attenzione, con la xenofobia non si scherza



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Apprezziamo molto il no del Primo Ministro svedese uscente, Fredrik Reinfeldt, tra l’altro di centrodestra, a qualsiasi collaborazione con la destra xenofoba di Jimmie Åkesson, leader dei ”Democratici di Svezia” (Sd). Non si deve scherzare con il fuoco. E in Italia Berlusconi - ma anche una sinistra disposta a vendere l’anima al diavolo pur di farlo cadere - dovrebbe riflettere sulla questione. I fatti di Adro rivelano una propensione della Lega, seriamente psicopatologica, verso tutto ciò che non sia “nordico” (tra l’altro coivolgendo Gianfranco Miglio, eccellente studioso, per un periodo vicino a Bossi, ma in realtà fedele solo alla scienza politica e perciò al di sopra di ogni sospetto xenofobo).
In effetti, esiste un problema fondo. Quale? Quello dell’esistenza in Europa di due destre: una destra conservatrice e democratica e una destra radicale e demagogica. La prima va incoraggiata, la seconda contenuta o addirittura isolata. Dal momento che la xenofobia, sempre disponibile in natura (sociale), può trovare e dare alimento, seguendo un processo a spirale, a un pericoloso radicalismo di destra disposto a tutto pur di agguantare il potere.
Nella Vienna d’inizio Novecento, quella che vide mescolarsi tra le sue folle il giovane Hitler in cerca di fortuna, la stampa pangermanista, chiaramente di estrema destra, chiedeva con forza di prendere misure durissime ( e inumane) “per combattere la piaga degli zingari ”, come qui:
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“ Ogni zingaro catturato doveva venire identificato in modo da poter essere riconosciuto in qualsiasi momento. Si sarebbe potuto, ad esempio, tatuare una cifra sotto l’ascella destra che avrebbe dovuto essere aggiunta al nome dichiarato dallo zingaro”. Così ‘le cifre tatuate sugli zingari potevano essere comunicate ai singoli tribunali distrettuali, come si faceva con le targhe automobilistiche che venivano comunicate alle circoscrizioni’ ”
(Brigitte Hamann, Hitler. Gli anni dell’apprendistato. Adolf Hitler a Vienna 1908-1913, Tea 2001, p. 157).
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La proposta, all'epoca non ebbe seguito… La Grande Vienna era umana, colta e civile. Però, non finì lì. Il veleno era entrato in circolo. E trent'anni dopo qualcuno la mise in pratica...
Perciò, qual è la lezione? Che il “fuoco" della xenofobia è pericolosissimo. Alla lunga ci si brucia sempre.

Carlo Gambescia

venerdì 17 settembre 2010

Italia "invertebrata"


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Italia invertebrata? L’espressione non è nostra ma di José Ortega y Gasset. Che in un libro, scritto nel 1920 (España invertebrada), addossò la responsabilità della decadenza spagnola ai conservatori poco illuminati, senza per questo risparmiare la sinistra invece accecata dai lumi del progresso. Si dirà ma che c’entra una Spagna che sarebbe entrata di lì a qualche nel vortice di fuoco della “guerra civile”, del franchismo, con la crisi italiana? Dove si discute fiaccamente di bipartitismo alla camomilla e si ridacchia di scandali e scaldaletti politici?
C’entra. E in un senso preciso: mancanza di “spina dorsale” Detto altrimenti, e in sociologhese: di solidarietà nazionale (verticale) e sociale (orizzontale). Qui sono tutti contro tutti. Proprio come nella Spagna di Ortega, frammentata in mille separatismi regionali, politici e sociali. Certo, quelle erano “fratture” novecentesche fortemente ideologizzate, oggi ci muoviamo in un contesto diverso E se non deideologizzato, di sicuro più soft: meno Marx, più Apicella e Ivano Fossati.

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Bipolarismo alla frutta
Scherziamo, ma fino a un certo punto.
Sotto questo aspetto che cosa accadrebbe nell’ “Italia invertebrata,” se il Centrosinistra e il Centrodestra si sciogliessero come neve al sole?
Di sicuro, il “Neo-Centrismo” di Casini e Rutelli perderebbe la sua funzione di “grande moderatore” tra i due poli. Per tornare a tenere insieme l’Italia dal Centro, grazie a una nuova DC”, serve un “nemico esterno” come negli anni della Guerra Fredda. Che oggi potrebbe essere l’Islam fondamentalista… Ma, per dirla con lo Stalin che irrideva l’inesistente forza militare di Pio XII, su quante divisioni contano gli scalcinati Talebani?
Più interessante è il discorso su che cosa ne sarebbe dell’attuale schieramento politico.
A sinistra, in caso di disgregazione dei Democratici dove finirebbero i voti? Probabilmente, in parte a un PD, tornato ad essere la vecchia “Quercia” in parte a Di Pietro e Grillo, ma anche a Vendola e ai post-comunisti. Avremmo però quattro alberelli, litigiosissimi fra di loro… A destra, la situazione potrebbe essere ancora più devastata e devastante. Perché di alberelli potrebbero nascerne il doppio, se non il triplo: i “berlusconiani d.o.c”, i “cicchitttiani”, i quagliariellani”, “i larussiani”, i gasparriani”, e altri cespugli. Ovviamente i finiani. E ancora a più destra, Storace, Forza Nuova, e chi più ne ha ne metta… Infine la Lega, tosto baobab padano.
Insomma, saremmo davanti a un quadro generale frastagliato, se non del tutto aggrovigliato.
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Elettori allo sbando
Come reagirebbe l’elettorato? Molto, dipende dalla legge elettorale scelta e dalla possibilità di accorpamento (legata a una soglia minima: il 5%?). Di sicuro gli italiani stufi da sempre - quelli che non votano da anni - non tornerebbero a infilare la scheda dell’urna. Inoltre ai non votanti “stabilizzati” andrebbero ad aggiungersi i “disgustati” dell’ultima ora: quelli messi a tappeto dalla fine del bipolarismo.
Morale della favola: lo torta-elettori potrebbe scendere sotto il cinquanta per cento. E ad avere la meglio elettoralmente sarebbero le forze politicamente più caratterizzate, magari su un tema particolare: ad esempio, il federalismo (Lega); giustizia (Di Pietro e Grillo), anticomunismo - sì proprio così (Berlusconiani d.o.c), identità nazionale (“La Destra” di Storace), Diritti civili (Vendola). Vediamo invece piuttosto male la sorte dei finiani, una volta privati della ragione (lo strapotere di Berlusconi) di un cavilloso, spesso comico, contendere, nonché di altri gruppetti a sfondo personalistico, provenienti dal PdL, ma privi di leader carismatici o adeguati… Oddìo rinunciare a Cicchitto e Bocchino che si “beccano” quotidianamente come i capponi di Renzo, non sarebbe poi una grande perdita…
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Il tecnocrate sul tetto
Dove potrebbe condurre tutto ciò? Gli animali invertebrati (insetti e vermi) non vivono a lungo. Probabilmente un’ Italia prigioniera dei ricatti di una folla di micropartiti, affamati di potere, cadrebbe nelle mani dei poteri veri: quelli che contano, economici, nazionali e internazionali.
Potremmo allora assistere alla nascita di governi tecnici - altro che “governicchi”- solidamente manovrati dall’esterno. In seno ai quali la micropolitica dei “partiti Sette Nani” finirebbe per contare meno di zero.
Va detto - altra utile indicazione di Ortega - che quando la politica, si fa “echinodermica” la parola passa ai pochi vertebrati rimasti. Nella Spagna dell’epoca il potere passò ai militari e ai partiti ormai “militarizzati. La crisi spagnola, anche per altre ragioni, sfociò nella guerra calda: quella civile, Oggi invece in Italia, il potere passerebbe subito ai tecnocrati, o comunque ai tecnici “puri”, quelli che svolazzano come pipistrelli sulla Banca d'Italia. Di qui non “guerre calde” o “fredde” ma una bella immersione collettiva nella dolciastra melassa delle cifre, della tabelle e dei conti che tornano, sempre e solo, per quelli che Ernesto Rossi chiamava “i padroni del vapore”: i grandi monopolisti economici privati, tra l’altro favorevoli, a delocalizzare o importare mano d’opera dall’esterno. Sai che allegria per il lavoro italiano…
Con un’eccezione: la Lega. Che, grazie alla sicura conservazione della fortissima base locale, potrebbe puntare, in via definitiva sulla secessione. E così provocare una controreazione politica unitaria... E vai con la guerra civile o quasi...

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Fantapolitica?
Concludendo: fantapolitica? Mica tanto. Ortega chiudeva il suo profetico libro, parlando della necessità di lavorare di scalpello, per “mettersi a forgiare un nuovo tipo di uomo Spagnolo”: Purtroppo sarebbero serviti sessant’anni e una disastrosa “guerra civile”… Qui, in Italia, tutti parlano parlano, ma poi se ne fregano, se ci si passa l’espressione poco sociologica. E in più esiste una differenza con la Spagna di allora: la storia prova che dalla guerra civile si esce, dalla dittatura pure, ma sulla possibilità di sortire o meno dal vischioso potere dei tecnocrati, la storia tace.
Perché allora infilarsi in questo tunnel? Forse siamo ancora in tempo...

Carlo Gambescia

mercoledì 15 settembre 2010


                                 La Francia vieta il volto coperto in pubblico

Forza o debolezza?




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La Francia vieta la “dissimulazione del volto nei luoghi pubblici”, divieto che include strade e piazze e "i luoghi aperti al pubblico (negozi, bar e ristoranti, parchi, trasporti)" o "destinati a un servizio pubblico (scuole, ospedali, uffici)". Le donne che insisteranno a indossare il burqa o il niqab "dovranno pagare una multa di 150 euro, o seguire uno stage di educazione civica". Chiunque invece obblighi una donna a coprirsi completamente rischierà "un anno di carcere e 30 mila euro di multa”. Inoltre la legge introduce un nuovo reato la "dissimulazione forzata del viso". Chiunque costringa "una donna a coprirsi completamente rischia un anno di carcere e 30 mila euro di multa". Se si tratta di una minorenne, "la condanna è doppia (due anni di prigione e 60 mila euro di multa)". La legge prende così di mira gli uomini che obbligano la partner a indossare il velo integrale "con minacce, violenza (...) abuso di potere o autorità" (http://www.ansa.it/web/notizie/rubriche/mondo/2010/09/14/visualizza_new.html_1783294478.html).
La legge è definitiva o quasi, dal momento che la sua l'applicazione, per ora, resta sottoposta a un ricorso presentato al Consiglio costituzionale.
Che dire? Che la Francia “repubblicana”, prima in Europa nel prendere un provvedimento del tipo, fa sul serio? Oppure, che nella pratica si finirà per chiudere un occhio, lasciando la decisione di applicare o meno la legge alla discrezione delle autorità di polizia? Mah... Forse in Italia potrebbe accadere una cosa del genere… In Francia, “paese giacobino”, di sicuro la legge verrà applicata in modo inflessibile.
Quali conseguenze? Sicuramente, la principale sarà quella di scontentare tutti: islamici moderati e non. Inoltre, in questo modo si rischia di perdere una grande occasione. Quale? Dare prova che in Europa non si parla a vuoto di tolleranza, ma la si pratica. Evidentemente, Sarkozy (che piace tanto a Fini, perché, come rileva Campi, non si allea con fascisti e populisti come Berlusconi...) è più vicino a Robespierre che a Montesquieu e Voltaire. Ne prendiamo atto.
Alcuni sostengono, infine, che in certe questioni debba valere una contorta idea di reciprocità negativa: le donne occidentali, si sottolinea, nei paesi islamici non sono costrette a indossare il velo? Bene, noi ricambiamo “la cortesia”, imponendo alle loro di non indossarlo…
Che malinconia. Perché la tolleranza, quella vera, non è virtù dei deboli ma dei forti. E la Francia, “vietando il velo” mostra soltanto la sua debolezza.


Carlo Gambescia

martedì 14 settembre 2010

La Costituzione, gli intellos di sinistra e il "Gran Ciarlatano"
                                                    di Teodoro Klitsche de la Grange





Gli amici lettori sicuramente ricorderanno il nostro intervento, piuttosto recente, sul rapporto tra costituzione sostanziale e formale ( http://carlogambesciametapolitics2puntozero.blogspot.it/2010/08/precisazioni-costituzione-formale.html): quasi un'invasione di campo... Alla quale poniamo rimedio con la pubblicazione dell'ottimo e - crediamo - dirimente contributo dell'amico Teodoro Klitsche de la Grange, avvocato, giurista, direttore del trimestrale di cultura politica “Behemoth" (http://www.behemoth.it/ ).
Tra i suoi libri: Lo specchio infranto (1998), Il salto di Rodi (1999), Il Doppio Stato (2001), L'apologia della cattiveria (2003), L'inferno dell'intellettuale (2007), Dove va lo Stato? (2009).
Buona lettura.
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Carlo Gambescia

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Caro Carlo,
non Ti devi meravigliare se da quando Berlusconi – o meglio i suo accoliti – contrappongono la “costituzione materiale” o la “costituzione sostanziale” a quella formale vigente, gli intellos di centrosinistra, dall’università agli asili – e anche altrove – si mettono a esorcizzare, sostenendo che questo è un artifizio o un raggiro del “Gran Ciarlatano”: una cosa inesistente o inventata da Berlusconi di sana pianta. Fanno sempre così.
Piuttosto e limitandomi alla costituzione materiale:
a) se li sentisse la buonanima di Costantino Mortati (costituzionalista e costituente) si rivolterebbe nella tomba: convinto (e giustamente) che il termine – non il concetto – l’aveva espresso, egli per primo, nel suo libro del 1940 La costituzione materiale.
In effetti Mortati, uomo di vasta cultura, sapeva bene che, nell’epoca moderna, ad avere formulato per primo il concetto (non il termine) di “costituzione materiale”, contrapponendolo a quella formale, era stato… non Berlusconi (di la da venire) né Gianni Letta, ma Ferdinand Lassalle nella nota conferenza “Über Verfassungswesen”, ove riconduceva la costituzione agli “effettivi rapporti di potere che sussistono in una data società” alla forza attiva “che determina le leggi e le istituzioni giuridiche”[1].
D’altra parte e a ben vedere concetti di costituzione del tutto irriducibili a quello di “costituzione formale” erano stati già formulati da Hegel, de Maistre, de Bonald, poi ripresi nel secolo scorso da Romano, Schmitt, Hauriou e molti altri che per economia di spazio non ricordo. Ma non è questo – che il “brevetto” non spetta a Berlusconi - la cosa più importante, in particolare nel momento attuale.
b) Come scriveva Mortati, riprendendolo da Lassalle, la costituzione materiale consiste essenzialmente nelle forze politiche e sociali che hanno voluto e sostengono l’assetto fondamentale di poteri delineato da quella formale in norme collocate “al sommo della gerarchia delle fonti”. E qua occorre una riflessione che dalle parti del centrosinistra non si fa.
La nostra costituzione fu votata da quasi il novanta per cento dei deputati alla Costituente.
Le successive elezioni politiche del 18/04/1948 diedero al complesso dei partiti ciellenisti (e che approvarono la Costituzione formale) oltre il novanta per centro dei suffragi popolari. Con ciò la costituzione – e quello che sarebbe stato poi l’arco costituzionale – otteneva un consenso “bulgaro”. Si può dire quel che si vuole, che la costituzione delineasse un governo debole, tendenzialmente consociativo e così via, ma non che non fosse stata se non voluta, almeno così accettata dalla stragrande maggioranza degli italiani.
La situazione costituzionale resta tale fino agli anni ’80, in cui si percepirono vistose crepe, per poi essere superata – come tutte le conseguenze di Yalta – dal crollo del comunismo e dell’Unione Sovietica (1991) seguito a brevissima distanza da quello dell’arco costituzionale, per mano (apparente) delle Procure. E così il sostrato reale che sosteneva la costituzione formale, cioè l’arco costituzionale, veniva meno. Divenivano extraparlamentari tutti i partiti laici, dai socialisti ai liberali, del già CLN; la democrazia cristiana, allo sbando, si spezzava in due tronconi, di modesta consistenza numerica; i comunisti – scissi anche loro – erano costretti a continui cambiamenti di nome, ormai impresentabile.
Diventavano forze maggioritarie – nel paese prima che in parlamento – soggetti politici o totalmente nuovi (Lega e Forza Italia), o dichiaratamente fuori dall’arco costituzionale ciellenista (MSI poi AN).
Sta di fatto che, indipendentemente dai meccanismi elettorali, dal 1994 in poi i partiti che si dichiararono eredi (di parte) dell’arco costituzionale, e cioè dell’insieme di forze politiche che sostengono la costituzione formale, ottengono i suffragi di una minoranza degli italiani, la maggioranza dei quali vota per altri partiti, a quella costituzione (formale) estranei, e che dicono di voler cambiare.
Conclusione prima: da oltre 15 anni la costituzione formale non ha il consenso della maggioranza degli italiani. La “costituzione materiale” in atto è diversa da quella formale. Emerge in specie nelle leggi elettorali, costituzionali per materia ma non per forma, approfittando che, per modificarle, non occorre il procedimento di revisione costituzionale.
Conclusione seconda: abbiamo due costituzioni e quel che ne risulta è una situazione di dualismo di potere che si protrae da oltre quindici anni, con una maggioranza che si richiama alla realtà, alla sostanza, ed una minoranza alla forma. Resta da capire quanto possa durare a “vigere” una costituzione formale che non ha più una costituzione materiale coerente e le “forze collettive” maggioritarie di supporto, e se in genere sia giuridicamente e scientificamente corretto trascurare completamente il dato reale – forza e consenso di un regime politico – rispetto a quello formale.
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Teodoro Klitsche de la Grange
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[1] Ovviamente sintetizzo ai minimi termini la tesi di Lassalle; per chi la voglia leggere per intero veda "Behemoth" n. 20, pp. 5-14, traduzione di Clemente Forte.
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Si pubblica qui di seguito, visto l'interesse della questione, il commento di Cinghios e la replica di Teodoro Klitsche de la Grange. (C.G)
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Ciao a tutti,
il ragionamento fila via liscio e potrei essere sostanzialmente d'accordo: la sinistra non si può attaccare ad un pezzo di carta, la costituzione va fatta vivere. Però sulle conclusioni ho qualche obiezione:perchè se da oltre 15 anni la Costituzione formale non ha il consenso della maggioranza degli italiani, in oltre 15 non sono riusciti ad "adeguare" anche il pezzo di carta? Ci hanno provato con la bicamerale... e niente. Quando ci hanno provato con il referendum, la (contro)riforma costituzionale è stata bocciata, non in maniera bulgara, ma comunque con un chiaro 62% di NO. Certo sono stati proprio "sfortunati"... in tutto il quindicennio il periodo di minimo storico del centrodestra. Un saluto.
Cinghios
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Il lettore Cinghios ha notato l’unico dato (apparentemente) in controtendenza alla tesi esposta nel mio articolo.
Tuttavia a ben vedere non è così rilevante. E per due ragioni: La prima che il quesito del referendum del 2006 era di approvare o meno la novella costituzionale del centrodestra. Ovvero: non era stato chiesto agli elettori se si “approvava” o meno la Costituzione del ’47, ma le modifiche alla stessa, per cui quel NO era un dissenso rispetto alle modifiche (non entusiasmanti) e non appare – se non per la probabile intenzione di gran parte dei votanti NO – come un SI' “a prescindere” alla Costituzione del ’47.
Ancor più il dato “reale”. Se è vero che al referendum i suffragi per il NO sono stati 15.791.293, dato l’altissimo numero degli astenuti (dovuti in gran parte, probabilmente, allo scarso entusiasmo per una revisione relativamente importante, ma non certo decisiva) il NO ha riportato il 61,3% dei voti espressi che erano complessivamente pari al 52,30% degli elettori. Cioè a interpretare tutti i NO alle modifiche come un Sì alla Costituzione formale, l’esito anche di questo referendum conferma la mia tesi: il consenso alla Costituzione formale è affetto da anemia cronica da più di tre lustri: è stabile a circa un terzo dell’elettorato.
Tanto per fare un paragone col dato reale del 18/04/1948: i partiti ciellenisti conseguirono complessivamente oltre 24 milioni di voti su 26.264.452 votanti validi e su 29.117.270 elettori: cioè ottennero il consenso dell’80% del corpo elettorale e di oltre il 90% dei voti validi.
L’abissale divario tra questi risultati schiaccianti e perciò legittimanti e quelli anoressici delle elezioni (e del referendum) degli ultimi decenni confermano che la costituzione formale non gode del consenso degli italiani.
Quanto alla… sfortuna, per ragioni di spazio ci ritornerò un’altra volta.
Anticipo che: a) come dice don Abbondio, se uno il coraggio non ce l’ha non se lo può dare; b) come insegna Montesquieu il potere consiste di due facoltà: quella di deliberare (statuer) e quella di impedire (empécher). Spesso si riesce in una e non nell’altra.
Ringrazio il lettore Cinghios per l’attenzione e per avermi consentito di ritornare sul tema.
Teodoro Klitsche de la Grange