martedì 30 novembre 2021

INCIDENTI SUL LAVORO. REPETITA IUVANT? BAH…

 


Un paio di mesi fa abbiamo scritto un articolo nel quale si mostra come la questione  "morti sul sul lavoro" sia affrontata esapserando contenuti e toni. 

Purtroppo i mass media tradizionali – si veda il titolo di “Repubblica” (*) – inseguono i social, gridano insomma, invece di mostrarsi pacati, ragionevoli e ragionanti. E soprattutto, se di sinistra, sembra che pur perdendo il pelo, non perdano  il vizietto anticapitalista.

Che malinconia.

Oggi lo riproponiamo. Repetita iuvant? Bah…

Carlo Gambescia

(*) Qui: https://www.giornalone.it/prima-pagina-la-repubblica/

INCIDENTI SUL LAVORO. PERCHÉ SEMINARE ODIO SOCIALE?
29 Settembre 2021

È proprio vero come si legge che gli incidenti sul lavoro hanno raggiunto un numero di casi inquietante?

Alcuni titoli, dopo le morti degli ultimi giorni, parlano di stragi, contribuendo alla creazione di un clima di paura e di conflitto sociale.

Allora andiamo a vedere i dati.

L’Inail, ente preposto come si dice, fornisce dati dal 1951. Fino al 2010 sono basati sulle denunce accolte, diciamo andate a buon fine. Invece tra il 2010 e oggi, comprendono anche le denunce di morte per infortunio che hanno avuto definizioni amministrativa negativa. Ossia che non sono state ritenute tali.

Nel 1951, settore industria e servizi, furono denunciati all’Inail 540.037 casi, di cui 2.199 mortali. Nel 1954, quindi con un sistema già a regime, 793.349 di cui 2.645 mortali. Dieci anni dopo, 1964, il numero di casi denunciati è di 1.257.470, di cui 3.094 mortali. Dieci anni più tardi, nel 1974, i casi denunciati sono 1.220.430, di cui 2.053 mortali. Ancora dieci anni dopo nel 1984, i casi denunciati sono 770.504, di cui 1.271 mortali.

Si noti, intanto, come tra il 1951 e il 1984 la mortalità si sia quasi dimezzata rispetto a un maggior numero di casi dichiarati. Dieci anni più tardi, nel 2004, i casi denunciati sono 869.439, di cui 1.137, mortali, sempre rispetto al maggior numero di casi dichiarati. Nel 2014, i casi denunciati sono 512.255, di cui 978 mortali (inclusi però, come si diceva, dal 2010, anche i casi non risarcibili) (1).

E nel 2020? Diamo, di nuovo, la parola all’Inail.

«Sono 554.340 – [dato, sorprendente, perché riferito a tutti i settori industria-servizi-agricoltura] gli infortuni sul lavoro denunciati all’Inail nel 2020, in calo del 13,6% rispetto ai 641.638 dell’anno precedente. 1.270 quelli con esito mortale, 181 in più rispetto ai 1.089 del 2019 (+16,6%) »(2)

Come si intuisce, rinunciando, per ora, a comparazioni con i dati europei, che, per quanto più dettagliati, sono consultabili a partire dal 2007-2008, e quindi inutilizzabili per confronti sul trend storico 1951-2020 (3).

Dicevamo, come si può intuire, la mortalità sul lavoro, per i settori industria e servizi tra il 1951 e il 2020 si è ridotta della metà: è passata da 2.199 casi mortali a 1270, in presenza di un maggior numero di denunce (da 540.037 a 554.340 (inclusive, rispetto a quelle del 1951, dei casi di infortunio mortale, con definizione negativa).

Va detto, per inciso, che il trend del settore agricolo ha più o meno le stesse caratteristiche, ma con un numero di addetti decrescente. Per contro, per industria e servizi, vale in contrario il numero, pur in fasi differenti, è crescente. Ecco alcuni dati occupazionali per settore, anno 2015, per farsi un’idea in termini di grandi numeri, tra il numero degli occupati per settori e numero degli infortuni mortali. I dati sono tratti da una sintesi Istat: agricoltura (843.000); industria (5.976) servizi (15.646) (4).

Ora, a fronte di questi numeri, e con il massimo rispetto per le vittime, perché parlare di stragi? Tra il 1951 e il 2020 la sicurezza sul lavoro è progredita in modo straordinario.

Certo, le cifre delle vittime non sono pari zero. E forse mai lo saranno, ma per inafferrabili ragioni legate alla natura umana, extrasociologiche, che riguardano imprenditori e lavoratori, come l’avventatezza e la temerarietà, la pigrizia e l’avidità.

Tutto ciò, ovviamente, non significa che la legislazione sulla sicurezza sul lavoro sia inutile. Anzi, come abbiamo visto è utilissima.

Concludendo, se le cose stanno così, perché seminare odio sociale?

Carlo Gambescia

(1) Inail, pagina dedicata Tav. 2: https://www.inail.it/cs/internet/attivita/dati-e-statistiche/statistiche-storiche/casi-denunciati.html
(2) Inail, pagina dedicata con tabelle all’interno:https://www.inail.it/cs/internet/comunicazione/news-ed-eventi/news/news-dati-inail-infortuni-malattie-professionali-2020.html
(3) Inail, pagina dedicata, con tabelle: https://www.inail.it/cs/internet/attivita/dati-e-statistiche/statistiche-europee.html
(4) Si veda qui, p. 27: https://www4.istat.it/it/files/2016/12/6-lavoro.pdf

lunedì 29 novembre 2021

“OMICRON” E I COSTI DELL’ISTERIA POLITICA E MEDIATICA

 


Non ci stancheremo mai di richiamare l’attenzione sul clima isterico a livello politico e mediatico che regna intorno all’epidemia, pardon pandemia.

Ora sembra giunto il momento di “Omicron”, la tredicesima variante (pare). Tutto però accade in un clima di incertezza, da ultimi giorni dell’umanità, in cui si evocano, con accenti spesso isterici, nuove chiusure.

Leggevamo alcuni giorni fa per ragioni di studio un libro sul Trecento europeo. Intorno alla metà del secolo si scatenò la “peste nera” che ridusse la popolazione europea, secondo alcuni storici di un terzo, secondo altri della metà.

Fu una catastrofe. L’Europa, diciamo politica e scientifica, che a quel tempo non poteva fare nulla, restò, ferma, passiva, autoflagellazioni e preghiere a parte.

Dopo di che si riprese. E nei secoli successivi conquistò il mondo e debellò, grazie alle conquiste della scienza medica, non poche malattie, anche molto contagiose come la peste.

Oggi, un’ Europa, che politicamente e scientificamente può tutto, sembra invece preda della classica “ansia psicomotoria”. Però collettiva.

Si teme di sbagliare, si teme di perdere il consenso. Però, proprio perché può tutto, l’Europa non può restare a guardare… Deve fare qualcosa… Di qui, un devastante attivismo politico, che, complice la cultura dello stato assistenziale, detta la linea.

Sicché si legifera, si minaccia, si chiude, senza fermarsi a riflettere sui veri termini della questione. A ogni minimo segnale, anche lillipuziano, si reagisce, in modo scomposto, senza interrogarsi sulle disastrose conseguenze delle decisioni politiche e mediche.

I mass media e i social producono in quantità industriale lanci e titoli, e i politici inseguono quei lanci e titoli. Dopo di che, di rimbalzo, seguono altri lanci e titoli, e così via. L’ansia si espande, la politica si avvita, seguendo una spirale che sembra inarrestabile.

In questo preciso momento è come se l’intera società – perché l’isteria politica è più contagiosa del virus – fosse prigioniera di una temibile ipocondria collettiva che trae alimento da una specie di delirio psicomotorio politico. Inutile discutere di dati obiettivi. L’ipocondriaco ascolta soltanto il medico capace di assecondarlo. Dopo “Omicron” ci sarà una nuova lettera dell’alfabeto greco. E così via.

Infatti, si legge, e si sente ripetere, che “dovremo abituarci a convivere” con questa situazione. Forse non ci si rende che in questo modo si teorizza una specie di società della sorveglianza sanitaria, rimodellata su un costrittivo sistema di protezione politico-medica. Qualcosa che l’Occidente non ha mai conosciuto.

Si diceva all’inizio della “peste nera” del Trecento. Gli uomini di allora, e per forza maggiore, subirono gli eventi.

Oggi invece la “passività” sembra essere il nemico principale della politica. Bisogna agire, bisogna fare, mai stare fermi, eccetera, eccetera.

Sia chiaro: non intendiamo fare alcun elogio della passività. Ci mancherebbe altro.

Però l’attivismo, che ha molti meriti, ha i suoi costi.

Ancora più alti, quando, come oggi, non si lotta contro “la peste nera”…

Carlo Gambescia

domenica 28 novembre 2021

GIORGIA MELONI. BUFALE E DISTINTIVO

 


Si parla molto di hater e di come contenerli. In realtà, i primi hater sono alcuni politici.

Si pensi a Giorgia Meloni che sembra ne attiri come mosche. Perché? Per la semplice ragione che la leader di Fratelli d’Italia comincia sempre per prima. O comunque sguazza nella corrente, sparandole grosse.

Si prendano gli ultimi twett sul Trattato tra Francia e Italia. Ma è normale che si mettano in giro bufale, schiumanti rabbia e  odio per i cugini francesi, del tipo “Si svendono pezzi di sovranità italiana alla Francia”? Oppure che il ” Parlamento viene messo a tacere” (*).

Siamo davanti alla vecchia retorica nazionalista e fascista sulla Francia come “nemico naturale” dell’Italia.

È perciò ovvio che un atteggiamento da hater, quello della Meloni, ne attiri altri simili. Si tratta di una  logica a spirale. Per capirsi, “di male in peggio”. Colpo su colpo:  purissima retorica dell’intransigenza.  Un veleno politico che distrugge il discorso pubblico liberal-democratico.

Si dirà che le persone comuni, tra le quali pescano gli hater della Meloni, non hanno gli strumenti, eccetera. E che quindi si esprimono brutalmente, come sanno, come possono, eccetera. Vero. Però Giorgia Meloni, giornalista di professione, gli strumenti dovrebbe averli. E invece? Si esprime come un hater. Di qui, come detto, la logica a spirale dell’insulto progressivo e incrociato.

Si provi a immaginare cosa potrebbe combinare, una volta al governo, un personaggio del genere, nemico assoluto delle più elementari regole del discorso pubblico.

Certo, si dirà che pure a sinistra non si scherza. Vero.

Però la Meloni, proprio perché la sinistra, quanto a bufale e hater non è da meno (basta toccare il tasto del cambiamento climatico), dovrebbe imparare a moderare i toni per rappresentare un esempio, come un tempo si insegnava a scuola.

E invece no. Bufale e distintivo.

Carlo Gambescia

 (*) Sono stupidaggini. Inutile sottrarre spazio al nostro articolo. Sui due punti si veda qui:https://pagellapolitica.it/blog/show/1322/il-nuovo-trattato-con-la-francia-che-divide-il-centrodestra. Quanto al Trattato, molto fumoso tranne che sulla fola del cambiamento climatico (punto sul quale la Meloni invece tace, da sovranista e nemica del libero mercato), si veda qui il testo:https://www.governo.it/sites/governo.it/files/Trattato_del_Quirinale.pdf . Per inciso, si parla tanto di multilateralismo, ma il Trattato, di fatto, è un ritorno al bilateralismo. Cosa che Giorgia Meloni, avrebbe dovuto apprezzare. E invece…

sabato 27 novembre 2021

Massimo Maraviglia e lo spot norvegese sul “Babbo Natale omosessuale” . Una risposta

 


Da Massimo Maraviglia, non si offenda per carità (a grande stima immutata), mi sarei aspettato altro… Il post che segue mi ha veramente sorpreso, e spiacevolmente.

«La disgustosa pubblicità norvegese che ha per protagonista un Babbo Natale omosessuale rappresenta l’ennesimo assalto delle lobbies lgbt all’infanzia. L’immaginario dei più piccoli viene sporcato e imbrattato dalla propaganda di chi, mediante l’inquinamento spirituale delle giovani generazioni e la (omo)sessualizzazione anticipata delle relazioni e della fantasia, intende fare proseliti e procurarsi un consenso a spese della crescita, della serenità, dell’integrità psicologica dei bambini e dei ragazzi. I giornalisti che diffondono in televisione queste porcate sono gli utili idioti al servizio della barbarie » (*).

Per prima cosa sono andato a vedere su YouTube il video, diffuso dalle poste norvegesi, pubbliche, di stato insomma: cosa gravissima questa, come vedremo più avanti, che però Massimo Maraviglia sembra ignorare.

Se però devo fare subito una critica, è che lo spot, per essere tale, è decisamente lungo. Sfora. Quanto allo stilema, per capirsi, è quello del Mulino Bianco. Quindi, una volta visto, lascia in bocca, per così dire, un sapore dolciastro, stucchevole. Il bacio finale è castissimo, in linea con la formula.

Ma non voglio aggirare l’ostacolo, puntando sul tecnico. Veniamo ai contenuti.

Cosa dire nel merito? Che sicuramente lo spot scontenterà, per il contesto ultraborghese, i commandos d’assalto delle lobbies Lgbt, per dirla con Maraviglia.

In realtà però, serve un altro approccio alla questione. Perché viviamo in una società pluralista. Di conseguenza una lobby ne fa parte in termini di pluralismo degli interessi e dei valori. Scelte e posizioni che se restano sul piano legale hanno pieno diritto di manifestarsi.

Ciò che invece non va apprezzato è l’intervento dello stato quando vuole imporre regole e comportamenti che rinviano a questo o quel gruppo di pressione: dai difensori dei diritti dei giocatori di calciobalilla ai santi protettori dei diritti gay. Soprattutto quando la società ne discute ancora, dividendosi (come è giusto che sia), perché il processo evolutivo-selettivo delle idee è ancora in atto e lontano dal concludersi (se mai si concluderà…).

Di conseguenza, se una critica deve essere fatta allo spot norvegese va estesa all’intrusione dello stato nella vita privata delle persone. Lo spot, come detto, è prodotto dalle poste norvegesi per festeggiare i cinquant’anni della depenalizzazione dell’ omosessualità. Come un qualsiasi  francobollo  commemorativo…  Concedo che sulla questione la società norvegese sia meno divisa della nostra, ma ciò non significa che non sia comunque divisa.

Perciò l’intrusione dello stato va criticata perché la materia è magmatica, al centro di conflitti, e lo stato non può e non deve intervenire a gamba tesa. Quel che invece non va criticato è il pluralismo in se stesso, cosa che a Maraviglia sembra sfuggire.

Parlo di un fattore determinante, soprattutto in una società che si vuole aperta. Un fattore che rinvia proprio al ruolo del giornalista, che invece Maraviglia vorrebbe, a sua volta, al servizio di valori che però, a loro volta, non sono condivisi da tutti.

Sicché il rischio è quello di far passare l’idea di un giornalismo non libero, ma eterodiretto, su basi assolutistiche, nel senso della difesa di valori assoluti, anche se opposti.

Per contro, è proprio lo stato che, restando doverosamente neutrale, non deve interferire nella sfera dei rapporti privati tra i cittadini, resistendo ai gruppi di pressione. Come? Evitando accuratamente di recepirne la logica a livello istituzionale in nome del dio dei cieli o del dio liberalsocialista del progresso.

Riassumendo: il punto non è il pluralismo, ma il finto relativismo di stato che fingendosi neutrale sposa invece la causa del gruppo di pressione, tradizionalista o progressista che sia.

Neutralismo vero – attenzione – significa evitare che i gruppi di pressione si impossessino delle leve dello stato, trasformando il relativismo ( che poi relativismo non è perché c’è un vincitore) in dottrina di stato.

Allora che fare? Si deve lasciare che la società, come del resto è accaduto, ed è bene che sia accaduto (giudizio personale), evolva da sola, quindi che i gruppi di pressione confliggano liberamente, e che su tali basi i cittadini da soli possano farsi un’idea, cambiando opinione o meno. Per inciso, ai  bambini, anzi ai minori, pensano i genitori, seguendo le proprie opinioni. Ogni televisore ha un telecomando.

Non si dimentichi mai che alla base dell'”aiutino” di stato, per così dire, c’è l’idea giacobina di obbligare le persone ad essere libere. Ovviamente, secondo una “certa idea” di libertà, ignorata dal popolo bue, eccetera, eccetera.

Perciò, concludendo, certi spot vanno bene, ma non a spese dello stato. Non esistono verità di stato da imporre alla gente. Né un’idea di bene o di male calata dall’alto. Si lasci che la gente decida liberamente. O addirittura che non decida mai.

Certo, comunque sia, serve tempo. Le società evolvono lentamente. E non sempre nella direzione che si preferisce. Bisogna avere pazienza.

Carlo Gambescia

(*) Qui il suo post:   https://www.facebook.com/massimo.maraviglia.1/posts/10227692260037032?from_close_friend=1&notif_id=1637993342934158&notif_t=close_friend_activity&ref=notif

(**) Qui lo spot “incriminato”: https://www.youtube.com/watch?v=vCd5kOGR1Jo

venerdì 26 novembre 2021

LA GIUSTIZIA FISCALE SECONDO DRAGHI...

 


Altra prova che Draghi è come tutti gli altri. Le sue scelte fiscali non sono altro che la prosecuzione con gli stessi mezzi delle rapaci politiche socialdemocratiche o liberalsocialiste.

Di che parliamo, nello specifico? Della “sforbiciata alle tasse”, oggi celebrata perfino da quei cretini dei giornali di destra.

I fatti: per i contribuenti con reddito tra 15 mila a 28 mila euro, l’aliquota Irpef (prima  del 27%) passa al 25%; quella per i redditi tra i 28 mila (+ 1) e i 50 mila (prima fino a 55 mila) passa dal 38 al 35 per cento. Oltre i 50 mila scatta l’aliquota al 43 (come per i redditi oltre i 75 mila): prima era al 41 per cento.

In pratica, le aliquote da cinque passano a quattro. Ma molti ignorano ( o fanno finta, pur di celebrare l’ “Autorevole”) che nella fascia fino a 15 mila euro sono compresi quasi 30 milioni di contribuenti su 41 milioni  ( in termini di dichiarazioni presentate, 2019).

Per contro i contribuenti, tra i 15 e i 50 mila sono circa dieci milioni. E su di loro si è concentrata la benevola attenzione di Draghi. Il cosiddetto ceto medio con punte verso l’alto (tra i 28 e i 50 mila, circa quattro milioni di contribuenti). Attenzione però: su 41 milioni in totale.

Escluso, ovviamente, quel mezzo milione, o poco più, di nemici dell’umanità, oltre i 100 mila euro, in pratica l'1 per cento di tutti i contribuenti che paga da solo quasi il 20 per cento dell’Irpef. “Scaglione di ultraricchi”, come talvolta si legge, che vede invece confermata, come detto, l’aliquota al 43 per cento (*).

Insomma, nella migliore delle ipotesi, pannicelli caldi. Scelte che non invertono la tendenza tipicamente socialista e liberalsocialista, confermata dalle scelte di Draghi.

Quale tendenza? Semplice: di spremere i pochi a vantaggio dei molti, anzi dei troppi.

E la chiamano giustizia fiscale…

Carlo Gambescia

(*) Le aliquote riguardano la parte eccedente dello scaglione e i redditi cui ci riferiamo sono al lordi. Quindi, per dire, 100 mila euro lordi sono pari a 52 mila euro netti. Due buoni articoli giornalisti in argomento, per capire meglio, alla portata di tutti:https://quifinanza.it/fisco-tasse/fisco-irpef-2019-il-12-degli-italiani-paga-il-58-delle-tasse/273705/ ; https://www.corriere.it/economia/tasse/21_novembre_17/tasse-71percento-dell-irpef-pagata-italia-21percento-contribuenti-ecb2f4a4-477d-11ec-8bc9-3ede90e62115.shtml .

giovedì 25 novembre 2021

L'INFANTILIZZAZIONE DEL CITTADINO

 


Premessa doverosa: non ci passa neppure per l’anticamera del cervello l’idea di mettere sullo stesso piano etico e storico l’ unicità della Shoah con la restrittiva normativa antiepidemica, pardon antipandemica.

Allora per quale ragione il nostro accostamento di immagini in copertina? Che alcuni potrebbero definire addirittura blasfemo?

Perché può essere l’occasione per approfondire le caratteristiche comuni dal punto di vista sociologico di un testo esplicativo con finalità subordinative ( per dirla in sociologhese).

In altre parole, i “messaggi” disciplinari, nel senso dell’ introduzione di una disciplina di comportamento oggetto di sanzioni giuridiche, sembrano somigliarsi tutti.

Si noti subito la comune stilizzazione delle figure umane, come se ci si rivolgesse a una popolazione di analfabeti o peggio ancora di minus habens.

Quanto alla figurazione complessiva del messaggio, le immagini del Ministero della Salute risultano più neutrali di quelle della “Difesa della Razza”: immagini che invece evidenziano, con ripugnanti finalità irrisorie, alcuni caratteri ritenuti somatici.

Tuttavia, il contenuto disciplinare è identico: di tipo negativo, perché ruota intorno a un divieto, anche quando lo si maschera, come nel caso del Ministero della Salute,  sotto  un "che cosa si può fare" a proposito dei tamponi...

La semplificazione, forse ancora comprensibile nel 1938, quando l’analfabetismo era un problema sociale, non ha invece scusanti nel quadro di una società non solo alfabetizzata ma acculturata come quella del 2021.

Evidentemente, gli ordini sono sempre ordini e devono essere semplici e chiari per essere eseguiti con facilità e immediatezza. Di qui, la comune natura semplicistica dei messaggi, nonostante siano trascorsi più di ottant’anni.

Il che impone una riflessione sulle radici infantili dell’obbedienza sociale.

Non può sfuggire, a chiunque conosca anche in modo non profondo la storia del pensiero politico, che solo da alcuni secoli, in pratica nell’età moderna, si è tralasciata una visione del rapporto tra potere politico e individuo di tipo patriarcale per sostituirla con una visione di tipo contrattualistico.

Al potere paternalistico del monarca è subentrato il potere della costituzione. Le moderne carte costituzionali sono un contratto tra cittadini rivolto a istituire il potere politico: dalla patriarcale sottomissione “a un uomo”, se si vuole al “padre”, si è passati all’obbedienza “di tutti” cittadini, finalmente “maggiorenni”, a un legge che liberamente si sono dati.

Sembra però che alla trasformazione delle concezioni politiche non abbia del tutto corrisposto quella della mentalità e soprattutto degli strumenti ideologici per favorire l’obbedienza.

Di qui, la persistenza di una logica disciplinare che tuttora si ispira a una semplificazione di natura patriarcale che ricorre all’ “infantilizzazione” del cittadino.

Insomma, il fascismo era un regime dittatoriale, il sistema politico in cui viviamo si dichiara  ultrademocratico,  eppure…

Carlo Gambescia

mercoledì 24 novembre 2021

METAPOLITICA DEL CORONAVURUS, un ripassino (in vista della prossima “stretta”)

 


Sono mesi, anzi anni (perché ne sono trascorsi quasi due), che proponiamo una lettura tutta sociologica, o meglio metapolitica, di quel che sta accadendo. Abbiamo persino dato alle stampe un libro in cui sono approfonditi questi aspetti, Metapolitica del Coronavirus (*).

Il vero punto della questione, punto metapolitico, e non ci stancheremo mai di ripeterlo, non è rappresentato dall’efficacia dei vaccini, dalla natura del virus, dagli errori organizzativi, eccetera, eccetera. Ma da ciò che si potrebbe chiamare il “rischio metapolitico”.

Un aspetto che spesso sfugge alla stragrande maggioranza delle persone, attente soprattutto alle questioni di breve momento. Diciamo pratiche (non è una critica), anche perché di immediato impatto sulla vita quotidiana.

Aspetti anche di comprensione più semplice, come le precedenze sulla distribuzione dei vaccini (“Io ne ho diritto subito, quel signore no”), il rilascio dei pass (“Io farei così”…), oppure di natura più emozionale che razionale (“Se politici e vip si fanno il vaccino…”).

In realtà, nel marzo del 2020 è iniziato un radicale cambiamento di paradigma politico-sociale: se prima i margini di libertà dell’individuo (quindi, attenzione, “margini”; poi torneremo sul punto), non erano messi in discussione, perché comunque situati al centro o quasi di un paradigma in qualche modo liberale, che privilegia l’individuo rispetto allo stato, ora, dopo quasi due anni di pubblica emergenza, è il governo a dettare la linea e il cittadino a obbedire senza fare domande. Un governo, attenzione, che tende sempre più a identificarsi con lo stato.

Ecco, il mutamento di paradigma, cosa non nuova nella storia, rimanda al “rischio metapolitico”.

Ci spieghiamo meglio.

Se la metapolitica, come spesso ripetiamo, è lo studio di ciò che non cambia nei processi sociali e politici, di ciò che storicamente e sociologicamente rimane costante (le regolarità), il “rischio metapolitico” indica quanto un determinato sistema politico e sociale sia vicino a subire un danno connesso a circostanze più o meno prevedibili, proprio grazie a uno strumento analitico di prim’ordine rappresentato dallo studio delle regolarità metapolitiche.

Ad esempio, una prima regolarità politica è quella del processo con finalità egemoniche: nel senso che il potere, da chiunque sia esercitato e a prescindere dal regime politico, tende sempre all’autoconservazione, al dominio, spesso ad ogni costo.

Fenomeno, facilitato dal fatto – seconda regolarità, della persistenza delle élite – che comprova, sempre a prescindere dal tipo di regime, che sono sempre in pochi a gestire il potere.

Infine, terza regolarità,  quella dell’assenza di spazi vuoti, contesi dal conflitto tra forze centripete e centrifughe (ad esempio stato vs individuo):   quanto più il potere si concentra ed estende, a prescindere dalla natura delle ragioni evocate sul piano retorico, tanto più si riduce l’ampiezza della sfera di libertà del cittadino, o se si preferisce delle persone. E viceversa, ovviamente.

Queste tre regolarità (ma potremmo indicarne anche altre) sono rinvenibili nei processi politici e sociali in atto.

Si pensi al protagonismo egemonico di stato e governo (non arrestatosi con la sostituzione di Conte con Draghi): prima regolarità. Inutile dire – seconda regolarità – della natura elitaria, ristrettissima delle decisioni prese. Infine, si osservi, come dicevamo all’inizio, il mutamento di paradigma che vede al centro dell’agire politico, non più l’individuo, costretto a subire un duro processo di disciplinamento sociale, ma stato e governo come potenti forze centripete, terza regolarità.

Ora, si può intuire, come processi metapolitici di questo tipo, prescindano dalla questione delle intenzioni dei governanti. Insomma, dalla loro volontà, buona o cattiva che sia. Il che non depone a favore della popolarità tra i politici della metapolitica, che,  in quanto disciplina fondata sullo studio dei fatti,  uccide ogni retorica tesa infiorarli.  Se ci si passa la battuta, diciamo che è una scienza antipatica.

Certo, come anticipato, conoscendo e “praticando” (soprattutto) la metapolitica, certi errori politici si potrebbero evitare, o comunque attenuare. Nel senso di meditare bene, “prima” sulle conseguenze metapolitiche, quindi “dopo”, di ogni decisione.

Insomma, si tratterebbe di riflettere pacatamente, prima di sposare una causa, evitando di subire le emozioni del momento, oppure di abbandonarsi al delirio di onnipotenza, creando  false e pericolose aspettative nei cittadini.

E qui, a proposito di deliri, si torna alla prorompente carica statalista, o centripeta, racchiusa nella filosofia sociale, pseudo-assicurativa, del welfare state, che, già prima dell’epidemia, pardon pandemia, incideva, e non poco, sui margini di libertà dell’individuo. Ma questa (per oggi) è un’altra storia. O se si preferisce, una pena al giorno…

A proposito del prossimo CdM, si parla pomposamente “del varo” di nuove misure restrittive verso i cosiddetti “No Vax” e “No Green Pass”, perché, si dice, colpevoli di diffondere il virus. I mass media, parlano di “stretta” come se fosse la cosa più naturale del mondo.

Non sappiamo se le accuse rivolte verso il dissenso organizzato o meno, siano vere o false. In ogni caso, siamo davanti a una quarta regolarità metapolitica, quella dell’ uso dell’ideologia, in questo caso “del capro espiatorio”, per giustificare una decisione politica, presa, ovviamente, in chiave autoconservativa del potere, quindi con finalità egemoniche (prima regolarità).

Concludendo, in politica, si ragiona sempre il termini di “successo”. Per capirsi: se la “battaglia” contro il virus sarà vinta, allora si sosterrà che “i sacrifici” erano giusti, eccetera, eccetera. Oppure, in caso contrario, si parlerà della loro inutilità, magari, riabilitando i “No Vax” e così via.

In realtà, comunque vadano le cose, la metapolitica insegna che una volta cambiato paradigma sarà difficile tornare indietro, al “vecchio”… O comunque servirà tempo, molto tempo. E purtroppo questa è la cosa più grave.

O se si preferisce la cattiva notizia. E la buona, si chiederà il lettore? Per ora, non c’è.

Carlo Gambescia

(*) Carlo Gambescia, Metapolitica del Coronavirus. Un diario pubblico, postfazioni di Alessandro Litta Modignani e di Carlo Pompei, Edizioni Il Foglio 2021:   https://www.ibs.it/metapolitica-del-coronavirus-diario-pubblico-libro-carlo-gambescia/e/9788876068287

martedì 23 novembre 2021

MAI SCHERZARE CON LA STORIA...



Per dirla francamente, se una persona nel pieno possesso delle sue facoltà decide di togliersi la vita, non vediamo in questo nulla di male.

La vita, di fatto, appartiene all’individuo, non si può scegliere di nascere, ma si può scegliere di morire. E questo, ripetiamo, è un fatto.

Parliamo di libera scelta, non di diritto, perché il diritto, così come è inteso oggi (altra cosa invece quando si opponevano i diritti allo strapotere del monarca assoluto), indica una legislazione, che rinvia, per essere chiari, alle leggi dello stato e alla conseguente articolazione sociale del diritto in chiave organizzativa.

Insomma, il diritto, sia oggettivo che soggettivo, tramuta la libera scelta in scelta organizzata sulla base di regole che rinviano alla gestione pubblica del diritto stesso: una commissione medica ad esempio che dichiari se le ragioni individuali in base alle legge, eccetera, eccetera; un funzionario che certifichi se in relazione alla circolare attuativa, eccetera, eccetera. Commissioni, contro le cui decisioni, ovviamente, si potrà ricorrere, eccetera, eccetera. E così via in “saecula saeculorum”…

Detto altrimenti: la trasposizione organizzativa della scelta in diritto soggettivo, la trasforma in scelta non più libera, perché sottoposta a processi valutativi di tipo organizzativo.

Che poi siano leggi approvate dal Parlamento, non significa un bel nulla: perché un parlamento di statalisti farà sempre leggi stataliste. Come del resto un popolo di statalisti, voterà sempre parlamentari statalisti.

Il discorso potrebbe essere esteso ad altri “diritti”, in particolare i diritti sociali, che curiosamente quanto più guadagnano terreno, tanto più riducono la sfera della libertà individuale. I meccanismi oppressivi del welfare state, ne sono un esempio palmare.

Tornando alla libera scelta di morire trasformata in diritto, insomma regolamentata per legge, va precisato che non si tratta assolutamente di un progresso per libertà individuale, come invece si legge oggi su “ La Stampa”. Proprio perché, dove c’è regolamento, c’è organizzazione, e dove c’è organizzazione non c’è più libertà individuale. Quindi di storico, nella decisione enfatizzata da “ La Stampa”, non c’è un bel nulla. Sarebbe meglio non scherzare con la storia.

Ovviamente, le società o sono organizzare o non sono. Servono regole, eccetera, eccetera. Nessuno lo nega, tanto meno la sociologia. Il che però non significa che le regole siano un bene di per sé. Asserire ciò vuol dire sposare la devastante mentalità di coloro che promuovono regole su regole fino al punto di opprimere le singole persone privandole di ogni libertà in nome della libertà…

Può sembrare pazzesco, ma è proprio così. Si chiama eterogenesi dei fini sociali: si cancella la libertà in nome degli stessi diritti che, come si ripete fino alla nausea, ne dovrebbero essere l’augusto compimento. Per quale ragione? Perché presuntuosamente ci si impone di decidere in alto del bene dell’individuo, per così dire, in basso.

Commettendo in questo modo un errore cognitivo. Perché, come si può conoscere il bene dell’individuo meglio dell’individuo stesso? In realtà, il decisore pubblico, per dirla in sociologhese, non conosce i fatti, fatti individuali, se non sulle base di non sempre fondate medie sui comportamenti standard dei singoli. E qui, ripetiamo, il welfare state, basato su palafitte cognitive, ne è un esempio, e dei peggiori.

Ecco perché, attualmente, parlare troppo di diritti può essere pericoloso, perché sono diritti gestiti dallo stato, non dal singolo.

Come dice giustamente l’amico Carlo Pompei: si costruisce la gabbia, vi si chiude l’individuo, e di volta si decide se dargli o meno la chiave. “La gabbia dei diritti”, potrebbe essere il titolo di un libro in argomento…

Pertanto, meno regole ci sono, più la libertà del singolo è tutelata. Alle regole va posto un freno. E di certo, non vanno aumentate. Occorre un freno soprattutto dove non servono, come nell’ambito delle scelte individuali, tra le quali c’è la scelta di morire. In qualche misura, piaccia o meno, siamo davanti alla più alta forma di libertà.

Pertanto il vero progresso è quello di lasciare all’individuo la libertà di decidere quando e come morire , magari con un semplice atto notarile per tutelare gli eredi in previsione di una malattia invalidante. Oppure di procedere direttamente, “attuando” di persona o con un aiuto tecnico. Riteniamo, anche se non siamo del tutto sicuri, che allo stato attuale della legislazione, possa bastare una depenalizzazione.

Così, senza complicare le cose, un cattolico sarà libero di attendere la decisione di un dio che lo ama, eccetera, eccetera, un laico, di decidere quando e come, in nome della sua libertà, eccetera, eccetera.

Si chiama libertà di scelta. E nel Settecento, secolo che ancora ammirava gli antichi, si diceva, che fosse un morire da Filosofi.

Carlo Gambescia

lunedì 22 novembre 2021

SECONDO NATALE DI GUERRA?


Purtroppo la politica si riduce sempre a questione di coercizione fisica. Per milleni è andata così.

Negli ultimi secoli, i più fortunati della storia sotto questo aspetto, si è scoperto, e soprattutto teorizzato, il valore della libertà individuale, e di una politica, che invece di essere coercizione si propone come discussione.

Insomma, alla sparatoria si è tentato di sostituire il discorso pubblico a più voci.

Al riguardo, parlamenti, economie di mercato, società civile, sono i fattori e gli strumenti (al tempo stesso) di una società libera basata sulla discussione pubblica.

Un buon politico moderno non dovrebbe mai sposare la causa della ragione assoluta. Sintetizzando il concetto: “Noi abbiamo ragione, tutti gli altri torto”.

Anche perché, rifiutando di ricorrere alla sola forza del convincimento o comunque della discussione con chiunque non la pensi come “noi”, si rischia fortemente di avviarsi verso la strada minata della coercizione pura e semplice.

È verissimo che la politica è decisione. Però, modernamente parlando, la decisione deve essere preceduta dalla discussione. Anche perché si rischia di non essere capiti dagli elettori, o comunque dai cittadini, ai quali per anni è stata magnificata l’importanza del discorso pubblico, del voto, eccetera, eccetera.

Favorendo, tra l’altro, il gioco dei nemici del sistema politico moderno.

Sono considerazioni che nascono da una semplice osservazione: se il prossimo Natale sarà un nuovo “Natale di guerra”, il secondo in due anni, la gente, stanca, di una politica della coercizione, potrebbe essere tentata dalla la strada della protesta. Della “voice”, per dirla in sociologhese.

Già in questi giorni, e non solo in Italia, reagendo alle sole voci di un nuovo possibile giro di vite alcune persone sono scese in piazza.

Per quale ragione abbiamo parlato di Natale di guerra?

Perché la coercizione che in questi due anni ha impedito la libera circolazione di uomini e beni, è stata giustificata con la guerra al virus. Di qui, una serie di misure restrittive, come quando si entra in guerra (qui, si pensi solo coprifuoco), che ha minato la vita morale e materiale di milioni di persone.

Da ultimo, e la cosa sembra ora assumere l’aspetto di una vera e propria persecuzione, l’atteggiamento di chiusura verso coloro che non nutrono fiducia nel vaccino e temono le conseguenze illiberali racchiuse nell’ideologia proibizionista del “Green Pass”.

Ora, addirittura si parla di “Super Green Pass”, minacciando gravi ritorsioni nei riguardi di coloro che rifiutano di vaccinarsi.

Come si diceva all’inizio, alla fin fine la politica rischia sempre di ridursi a pura e semplice coercizione.

Non potendo convincere tutti – perché tra l’altro il dissenso fa parte della natura sociale dell’uomo – si rischia sempre di sposare, quanto più si ritenga una situazione eccezionale (come una guerra ad esempio), la logica di tipo imperativo: “Si deve fare questo, perché si deve fare questo”.

Ovviamente, il comando puro e semplice urta contro i moderni principi liberali, sicché si preferisce ricoprirlo con una foglia di fico: in questo caso quello della guerra al virus. Detto altrimenti: chi non si vaccina viene definito un traditore , quindi passibile di una specie di codice militare di guerra sempre al virus.

Questa logica, come spiegavamo ieri, prescinde dalla natura giusta o ingiusta della guerra – che è frutto di percezioni individuali e istituzionali – perché, una volta accettata, buone o cattive che siano le intenzioni, produce inevitabilmente quei processi inerziali (*), che, espungendo dalla politica il discorso pubblico, la riportano al suo grado zero: quello della coercizione pura e semplice .

Non per nulla abbiamo parlato di un Secondo Natale di Guerra, il Natale della stanchezza, dei dubbi, come mostrano due guerre mondiali (in particolare la Prima).

Per restare in metafora, il rischio è di favorire puntando sempre più sull’uso della coercizione, l’ammutinamento delle truppe nella guerra al virus.

Pertanto un buon politico – e diciamolo pure, un buon politico liberale – dovrebbe sempre sapere fin dove spingersi.

Il vero realismo politico consiste nell’ interrogarsi su come evitare la contagiosa lebbra delle “forze inerziali. Che comunque esistono, perché la sociologia come si dice per la matematica, non è un’opinione.

Però un cosa è essere al corrente della loro esistenza, un’altra favorirne lo sviluppo senza preoccuparsi delle conseguenze.

Carlo Gambescia

(*) Qui: https://cargambesciametapolitics.altervista.org/una-repubblica-fondata-sullinerzia/