venerdì 26 luglio 2024

Trump & Co. e il dilemma della democrazia liberale

 


Era inevitabile che Trump usasse il passo indietro di Biden come un’occasione per dipingere i democratici come autori di un golpe e nemici della democrazia.

Dall’introduzione storica della democrazia liberale, i suoi nemici – e Trump non è che un epigono – usano i principi democratici per agguantare il potere e poi cancellare la democrazia liberale.

Di regola, viene evocato il potere del popolo, del plebiscito, contro élite dipinte come corrotte, che predicano bene e razzolano male (per dirla alla buona). Da almeno due secoli la stampa di destra pubblica gli stessi articoli e titoli. I nostri Sechi, Belpietro, eccetera, non dicono nulla di nuovo.

Si potrebbe risalire a Napoleone III, foraggiatore di giornali amici e affossatore di un parlamento liberale e di una monarchia costituzionale. Napoleone III prima fu presidente repubblicano poi imperatore per plebiscito.

In seguito Lenin, Mussolini, Hitler usarono i mezzi della democrazia liberale (dalla libertà di stampa allo stato di diritto) per afferrare il potere e poi sopprimere tutto.

Come ci si può difendere dai nemici della libertà che sfruttano la libertà per liquidarla? Mettendoli fuori gioco. Come? Ricorrendo a ogni  mezzo: legale e illegale. E, come vedremo, la cosa  potrebbe non bastare.

Sarebbe ovviamente preferibile la via legale. In Europa, dopo il 1945, in particolare in Germania, si vietò per legge la ricostituzione di partiti nazisti, fascisti e comunisti. Nella Germania occidentale venne istituito un apposito organo che doveva decidere della costituzionalità dei partiti. In Italia, tra le norme transitorie della Costituzione, si introdusse il divieto di ricostituzione del partito fascista.

Nonostante ciò (inclusa una successiva legislazione,   con tentativi perfino  di respiro europeo), oggi in Germania e in Italia, partiti, pur con denominazioni diverse ma di derivazione fascista o comunista, competono ad armi pari con i partiti liberal-democratici, addirittura all’interno del parlamento europeo. In Italia sono addirittura al governo. E il fenomeno riguarda, purtroppo, l’intera Unione Europea.

La legalità non è bastata. Come del resto negli Stati Uniti, dove Trump, grazie al garantismo del sistema giudiziario liberale, è uscito indenne persino dall’accusa di tentato colpo di stato. Il paradosso è nel fatto che il sistema giudiziario statunitense, come in ogni sistema liberale, pur ritenendolo colpevole di varie frodi e abusi (anche sessuali), ha permesso a Trump, a causa di una specie di proceduralismo inerziale, di continuare a insidiare la democrazia liberale.

I suoi avversari si trovano nella strana situazione di competere con un nemico che, una volta al sicuro grazie  a leggi che disprezza e vuole cancellare, rovescia sui democratici le stesse accuse rivolte contro di lui. Trump utilizza il sistema contro il sistema. Per distruggerlo.

Dicevamo del ricorso a mezzi illegali. Illegali rispetto alle norme in vigore, ma perfettamente legittimi rispetto alla difesa dei principi liberali che regolano il sistema. Se la legalità implica la distruzione di una società liberale, va sospesa, per il periodo di tempo necessario a eliminare i suoi nemici in nome della legittimità liberale.

Qui risiede il dilemma della società liberale: una società per pochi, che per reggersi ha necessità dei molti, ma che favorisce, rispetto ad altre società storiche la libertà dei molti.

Per capirsi: a governare, storicamente e sociologicamente sono sempre in pochi, ma, all’interno di queste coordinate metapolitiche, il liberalismo garantisce, rispetto ad altri sistemi, maggiore libertà e migliore tenore di vita. Sono verità lapalissiane eccetto che per i nemici del liberalismo che blaterano, solo per afferrare il potere, di democrazia integrale, articolandola di volta in volta in termini di sovranità popolare, secondo criteri, comunitari, identitari, nazionalisti e razziali. Si potrebbe parlare di una specie di istinto cieco dell’assolutismo politico (sul punto torneremo più avanti).

Si pensi a una dinamica in atto da alcuni secoli tra superlegittimità (la sovranità del popolo, evocata dai nemici del liberalismo come mezzo per distruggere le istituzioni liberali), legittimità (propugnata dai difensori delle istituzioni liberali) e legalità (delle procedure, che mette sullo stesso piano i nemici e i difensori della libertà).

Ovviamente la difesa della legittimità, sulla base del ricorso alla forza, implica alcuni pericoli, che di seguito elenchiamo: 1), quello principale, della volontà di martirio che sfocia nella guerra civile; 2) quello secondario, sempre legato alla martirologia, di ricorso al terrorismo, da parte dei partiti messi fuori gioco; 3) quello di una situazione di stato di eccezione, gestita dalle forze dell’ordine, che rischia di limitare la libertà anche degli stessi membri, in alto come in basso, favorevoli al sistema liberal-democratico.

Il ricorso alla forza, come altre forme di azione sociale, è sempre suscettibile di effetti perversi, contrari alle intenzioni, pur buone, dei promotori.

Il vero punto della questione è che si dovrebbe fare il possibile per non giungere all’uso della forza contro i nemici della liberal-democrazia. Pensiamo ad esempio a una socializzazione liberale e a un’economia di mercato in costante crescita. Insomma a una maturazione che purtroppo la società di massa, con i suoi riti e costumi plebiscitari, non favorisce.

Si rifletta. Già il nostro ragionamento sulla necessità del ricorso alla forza rappresenta un punto a favore dei nemici della società liberale. Fascisti, nazisti, comunisti, oggi mascherati da populisti, sovranisti, isolazionisti, insomma in veste di difensori di un “dato” popolo, si augurano la guerra civile, per poter così dare sfogo a tutto l’odio che hanno in corpo contro la liberal-democrazia. E finalmente distruggerla.

A che scopo? Per imporre una superlegittimità, che, come la storia mostra, dove sono riusciti, non è assolutamente esercitata dal popolo. Cosa che, va ripetuto, rimane impossibile da realizzare in chiave integrale. Infatti, storicamente parlando, la sovranità del popolo ha trovato il suo combinato disposto, per quanto imperfetto, nelle liberal-democrazie. Sotto questo aspetto, metapoliticamente parlando,  da una parte abbiamo  2-3 secoli di esperimento liberale, dall'altra  47-48 di assolutismo.

Conclusioni? Siamo messi male. I nemici della società liberale potrebbero vincere. La storia, tornando sulla questione del “cieco istinto”, parla la lingua dell’ assolutismo, prima per “diritto divino”, poi per “diritto popolare”. Non è facile cambiare le cose.

Purtroppo, sul piano di una specie di superlegittimità, la sovranità, sia nel caso della liberal-democrazia che in quello dei suoi nemici, viene considerata patrimonio del popolo. E il popolo sovrano, come detto, oggi come oggi, segue gli usi e costumi della società di massa. Non immuni da quel cieco istinto assolutista già ricordato.

Bad Moon Rising, per dirla con i vecchi “Creedence”. E non solo sugli Stati Uniti.

Carlo Gambescia

giovedì 25 luglio 2024

Esoterismo liberale

 


Cosa c’entra il liberalismo con l’ottimo libro di Bérard e La Fata? Presto detto.

Che cos’è l’esoterismo tra verità e contraffazioni (Solfanelli*) è uno dei pochi libri, forse l’unico, che tratta la materia in modo, oltre che scientifico, senza apriorismi di tipo ideologico. Fa “parlare” tutti, e in questo senso è tollerante, quindi liberale.

Diciamo che l’ “umilità cognitiva”, virtù caratteristica dello studioso Aldo La Fata, è riccamente apprezzata anche dal suo interlocutore Bruno Bérard, brillante studioso di storia delle religioni e di metafisica (senza dimenticare la puntuale postfazione di Jean-Pierre Brach). E da questa condivisione è nato un ottimo studio.

Come si è capito si tratta di un libro-intervista, o per meglio dire di un libro-dialogo tra due specialisti della materia, che però cercano di parlare al mondo. Qui la differenza con altri lavori prodotti dalle le varie tribù degli esoterismi armati di un esclusivismo che per un  verso gratifica per l’altro nullifica, come spiegheremo più avanti.

Intanto, non un aspetto della materia è dimenticato. La lista è lunga: esoterismo e scienza; esoterismo e religione; storia dell’esoterismo ( o meglio “una storia”), esoterismo ed esoteristi; esoterismo e mistica, esoterismo ebraico, islamico, cristiano, hindù, buddhista, taoista, moderno.

Centrali, almeno a nostro avviso, sono i capitoli sul rapporto tra “esoterismo e metafisica” e tra esoterismo e “umiltà cognitiva” ( qui, i nostri ringraziamenti agli autori per aver ripreso e sviluppato la nostra terminologia). Non meno interessanti i capitoli sulla biografia intellettuale di La Fata e quello conclusivo sulla natura dell’esoterismo.

Dal punto di vista del recensore il volume può essere affrontato seguendo due modalità: 1) in termini di critica interna ( analisi dei punti, delle virgole, eccetera, puntando sul richiamo della foresta delle differenti scuole, di qui però i possibili sposalizi, divorzi, anatemi e conflitti ermeneutici nella più benevola delle ipotesi); 2) in termini di critica esterna tesa a capire e sviluppare il valore metapolitico dell’esoterismo, racchiuso nel volume.

Sotto quest’ultimo aspetto, che è quello che abbiamo scelto (anche per ragioni disciplinari), il volume di La Fata e Bérard rimanda a un approccio che vede nell’esoterismo un “fenomeno di mediazione” (che dialoga con la scienza, la metafisica, la religione), fautore di transizioni sociali. Un fenomeno, che, come sembra di capire, va al di là della dimensione quantitativa del “gruppo esoterico”. In questo senso piace molto – perché a nostro avviso giusta e giustificata – l’ immagine,  proposta da La Fata,  di derivazione guénoniana (se ricordiamo bene) della religione, come esoterismo vittorioso.

Una vittoria che vede la trasformazione in quantità, cioè in religione, di una qualità, ossia l’esoterismo, come sapere di pochi.

Il che – e torniamo al punto – risulta esito di una mediazione, che potremmo chiamare metapolitica, perché esito di un processo di razionalizzazione sociale (in senso moralmente buono; siamo consapevoli del fatto che il termine possa non piacere, ma rinvia alla metapolitica delle regolarità); razionalizzazione, dicevamo, di una “verità” precedentemente di pochi. Per dirla banalmente: il seme mette radici, si trasforma in albero, e l’albero fruttifica abbondantemente

Se non si fa religione – ecco il punto fondamentale – l’esoterismo resta setta o se si preferisce regredisce a fenomeno settario . E qui si pensi alla classica dinamica setta-chiesa studiata da Troeltsch ne Le dottrine sociali delle chiese e dei gruppi cristiani , ma anche a quella istituzione-movimento proposta da Alberoni (altra regolarità metapolitica). Detto in altri termini: Tertium non datur .

Un inciso. Sotto quest’ultimo aspetto, la biografia di Aldo La Fata sembra essere un continuo prendere le distanze, per allargamenti cognitivi successivi, da ogni forma di stantio e lunatico tradizionalismo. Un farsi “istituzione”. Ai futuri biografi il compito di approfondirne, al di là del bene e del male, i sulferei apporti evoliani (dal punto di vista del “movimento”), che ovviamente non sono i soli nel brillante quadro intellettuale della formazione lafatiana che include come “padri”, tra gli altri, Panunzio e Guénon.

Perciò la dinamica metapolitica dell’esoterismo sembra essere bidirezionale (processi di inclusione-esclusione, altra regolarità metapolitica): setta-religione; religione-setta. E qui si pensi per un verso alla magniloquente evoluzione delle grandi religioni, e per l’altro alla sorte, a un certo punto involutiva, del buddhismo in India, nonché alla pietrificazione di non poche sette, come ad esempio le misteriche precristiane, o a certe diramazioni desertificanti del protestantesimo e del tradizionalismo cattolico.

Si tratta di un approccio metodologicamente profondo e produttivo che ritroviamo puntualmente in Che cos’è l’esoterismo. Un libro, ripetiamo, che vuole parlare al mondo. Qui il suo liberalismo, la sua tolleranza, frutto di un’umiltà cognitiva sconosciuta ai fautori di un esoterismo settario, o peggio ancora politicizzato. Insomma, come detto, siamo davanti a un’ottima prova, largamente superata, di esoterismo liberale.

Carlo Gambescia 

 

(*) Qui: http://www.edizionisolfanelli.it/checoselesoterismo.htm .

mercoledì 24 luglio 2024

Il fascismo come culto privato (e altre cosette)

 


Cari amici lettori, Fratelli d’Italia ha sposato la causa liberale. Per bocca (non solo) di Ignazio La Russa, seconda carica dello stato, il giornalista della “Stampa”, preso calci da alcuni facinorosi di estrema destra, doveva qualificarsi.

La stessa tesi è sostenuta a proposito delle frasi antisemite, tralasciando inni fascisti e saluti romani, “rubate” da un giornalista a un gruppo di giovani iscritti alla Gioventù Nazionale di Fratelli d’Italia.

Cosa vogliamo dire? Che il culto del fascismo si è fatto privato. La “religione” come questione coscienziale. Il fascismo, come una qualsiasi scelta religiosa, è diventato un fatto di coscienza. Insomma testimoni di Geova e testimoni di Mussolini. Stessa cosa. Un classico del pensiero liberale.La Russa come Tocqueville.

Le “celebrazioni” sono fatti di natura privata e i giornalisti si devono “qualificare”. Anzi essere invitati. Il fascismo non è più ideologia pericolosa, ma una fede privata. Che tutti hanno il diritto di professare. In privato.

Che poi questa gente meni e voti è solo un piccolo dettaglio.

Per gli smemorati: “L’ Asso di Bastoni” – il nome del ritrovo milanese – rimanda al titolo di una testata neofascista, letta dai più facinorosi, che usciva tra gli anni Quaranta e Cinquanta. Capito l’excursus storico-filologico? Di che panni si vestono costoro?

Notazione di viaggio. Anzi due.

In un comune del Nord mi sono ritrovato, gomito a gomito, a comprare il giornale, con una signora di una certa età, dall’aspetto illetterato, che, tutta ispirata, ordinava il libro di Vannacci. Un regalo forse? Ancora peggio allora… Come ha giustamente sostenuto il giovane amico che mi accompagnava.

Seconda notazione. I treni, nelle due versioni, pubblica e privata (privata si fa per dire), fiori all’occhiello, si diceva e si dice, del fascismo, non funzionano: ritardi di quattro-cinque ore. Giorgia Meloni, la bisnipote, è un fallimento anche in questo. Il che non significa che serva il fascismo per far funzionare i treni. Basta una cosa che si chiama libera concorrenza. Vera però.

Ma la cosa più brutta è la gente. Che subisce passivamente. Il personale del treno si nasconde. A parte una specie di Mago di Oz, che chiuso in cabina annuncia i ritardi. Motivo? Alcune “presenze estranee” sui binari. Che vuol dire? Il vampiro? Un gruppo di zombies? Son tornati i ragazzi della via Pàl…

Quando poi i treni   si  sfasciano e si giunge a destinazione con cinque ore di ritardo ci si ritrova  in un Roma laicissima, come asserisce il sindaco Gualtieri, ma prigioniera –  questo non lo dice – del combinato disposto tra preti e costruttori. Cemento e aspersorio.  Detto altrimenti:  traffico  tipo Dakar niente metro, taxi invisibili e autobus come carri bestiame…

Quindi, a fronte di tutto questo, che sono due ore di ritardo? Perciò sul treno si ride, si fanno battute. Come i comici televisivi. Ormai la scuola è questa, si ride di tutto. Oppure, mentre i cretini ridono, altri restano per ore al cellulare a consumare i loro imbrogli. Si salvi chi può insomma…

E se uno osa dire mezza parola. Trova pure i Tafazzi che difendono le Ferrovie.

Così vanno le cose.

Carlo Gambescia

giovedì 18 luglio 2024

Qualche giorno di relax...

                   



 

Si può trasformare un avviso per i lettori in articolo? Tenterò.

Sì, mi prendo qualche giorno di relax. Diciamo subito che il relax come concetto è borghese, come del resto spiega la derivazione linguistica anglofona. Relax da to relax, rilassare, rilassarsi. In questo caso come forma di distensione fisica e psichica, dopo un sforzo notevole.

Dicevamo borghese. Chi meglio di un britannico, in senso storico, può essere definito borghese? La patria della borghesia e delle libertà politiche ed economiche. Gran Bretagna, patria del liberalismo. Una terra che, suscitando l’invidia di Carl Schmitt, ha conquistato il mare. E attraverso il mare il mondo, dalle Americhe all’India. L’orbe terracqueo per parlare difficile. Trasformando costumi, economia, mentalità. Il borghese è la modernità. Francis Drake, persona reale, è il contrario di Don Chisciotte, personaggio letterario.

Oggi, piaccia o meno, siamo tutti borghesi. E non solo in Occidente. Perché, ecco il punto: mentre il comunismo è rimasto confinato in un solo paese (semplificando), il capitalismo borghese, partito dalla Gran Brategna, del libero scambio, delle navi e delle ferrovie, ha conquistato il mondo. E ne dobbiamo essere orgogliosi. Su la testa borghesi! Non esiste capitalismo in un solo paese. Il capitalismo o è mondiale o non è.

Oppure è altra cosa. Vecchio mercantilismo. Un fenomeno preborghese e precapitalistico. Ammesso e non concesso che esista un ipercapitalismo (definizione di tipo anticapitalista priva di qualsiasi fondamento teorico e storico), come fenomeno rinvia alla completa internazionalizzazione degli scambi. Il protezionismo è la morte del capitalismo. In questo senso il protezionista Trump è il necroforo del capitalismo.

Ma torniamo al relax. Chi scrive non si vergogna di essere borghese. Cioè innanzitutto un uomo libero, da chiese e partiti, che crede nella libera iniziativa, nella volontà individuale, e nel lavoro, nel mio caso intellettuale, che è il naturale prolungamento della volontà. Si dirà che il vero borghese, nel senso weberiano, non deve conoscere il relax. Il principio non è sbagliato, perché il lavoro è il riposo del borghese, il suo relax costruttivo.

Sotto questo aspetto il mediocre socialista conosce le ferie… il borghese liberale, talvolta a malincuore, il relax. Le ferie, modernamente intese (non i culti del romano antico), sono un diritto, il relax una scelta. Da un lato il petulante welfarista dall’altro il potente imprenditore di se stesso. Dietro le ferie c’è il gregge socialista, dietro il relax l’individuo liberale.

Perciò cari amici lettori ho “libera(l)mente” scelto di concedermi qualche giorno di relax.

A presto.

Carlo Gambescia

mercoledì 17 luglio 2024

Perché l'odio politico?

 


Perché politicamente oggi ci si odia? Perché si spara a un leader politico? Perché si leggono sui giornali e sui social titoli militarizzati? X sbaraglia Y… Z non fa prigionieri… Il sindacato Abc si batterà fino all’ultimo uomo.. E così via.

Innanzitutto diciamo che la violenza è sociologicamente ineliminabile. E l’odio è ciò che la sostiene e rafforza. Come ben sanno i polemologi (Sorokin, Bouthoul. Freund ad esempio), esisterà sempre una minoranza di violenti, ribelli, disadattati che rifiuta l’obbedienza ricorrendo alla violenza e alla "somministrazione" dell’odio. Il fenomeno è circolare, l”odio alimenta la violenza e viceversa. Talvolta le stesse élite del potere, parliamo dell' 1-2 per cento della popolazione, possono includere individui del genere.

In sintesi: dal momento che  parliamo di fenomeni collettivi va sottolineato che  si tratta di  comportamenti che sembrano  riguardare il 5 per cento della popolazione. Il dato base più eclatante è rappresentato dalle guerre civili, che di solito assorbono un 10 per cento della popolazione ( a fronte di un 90 per cento di soggetti passivi, inclusi i rinunciatari, diciamo  ragionanti, per principio, calcolo o altro, e non solo per conformismo sociale o paura). Il 10 per cento include  i violenti puri e la  parte motivata alla violenza per ragioni politiche.

Con le guerre il tasso dei soggetti coinvolti aumenta, può giungere al 20, 30 per cento: non si tratta di individui, motivati alla violenza, ma più semplicemente di soggetti in stato costrittivo, per i quali l’esercizio della violenza non è spontaneo, come per il 5-10 della popolazione, ma adattivo, cioè vincolato al comportamento che ci si aspetta da uomo in uniforme.

Pertanto che abbiano sparato a Trump, per venire a un esempio recente, è perfettamente normale per così dire. Per i motivati alla violenza l’omicidio politico è un normale mezzo di risoluzione dei problemi.

Si può incoraggiare o scoraggiare la violenza politica? Sotto questo aspetto il liberalismo può essere definito un gigantesco quanto nobile tentativo storico, prima inconsapevole poi consapevole, di sostituzione del voto al fucile. O se preferisce del contratto alla depredazione. 

Nonostante ciò nel Novecento si è verificata una esplosione di violenza. Si pensi alla violenza, addirittura teorizzata, verso i nemici di classe, di religione, di razza.

In parte è stata una risposta, quasi naturale, dei motivati alla violenza, di varia estrazione politica, al tentativo liberale di pacificare i rapporti umani, per l’altro dello sprezzante rifiuto di rientrare nei ranghi della modernità contrattuale.

Per rispondere alla domanda iniziale, oggi ci si odia perché si rifiuta la modernità pacificatrice e liberale. Stiamo nuovamente  assistendo alla saldatura politico-sociale, tra una minoranza attiva di violenti di tutti i colori ideologici, annidati nella politica, nei social, nei mass media, e una maggioranza passiva che sembra non rendersi conto di quel che sta accadendo e che purtroppo, per quel conformismo, tipico della società di massa, si adatta ai tempi.

Si va sviluppando una tendenza, sempre più diffusa all’accettazione dell’ uso della violenza come strumento politico. Si rischia di tornare per così dire alla guerra di tutti contro tutti. Infatti,  oltre al tradizionale campo della politica esterna, la violenza sembra prevalere anche in politica interna.

Si può fare qualcosa? Purtroppo non si tratta più di un fenomeno di disadattamento al 5 %, ma di una tendenza in crescita. Incoraggiata da una destra, ovunque in ascesa, che di liberale non ha nulla. In questo favorita anche da un sinistra che non ha mai cessato di essere antiliberale.

Insomma tutto congiura perché la violenza intorno a noi dilaghi. Del resto il predominio di leader  come Trump, Putin, Xi Jinping e molti altri indica che il futuro non sarà roseo. Anche perché quel che resta della democrazia liberale, volente o nolente, non potrà non rispondere ai violenti, come già accaduto, per garantire la propria sopravvivenza.

Carlo Gambescia

martedì 16 luglio 2024

1933

 


Nel 1933, novantuno anni fa, Hitler andò al potere in Germania. Aveva dinanzi a sé un’Europa smarrita. Che pensava ad altro. Forse alla precaria situazione economica. Molti osservatori vedevano addirittura in Hitler un fattore di pace.

Una pace che Hitler  in seguito non mancò mai di evocare dopo ogni colpo messo a segno. A cominciare dalla rimilitarizzazione della Renania, anno di grazia 1936, in piena violazione dei trattati di Versailles e Locarno. Sarebbero seguite, due anni dopo, l’ Austria, la Cecoslovacchia, e infine nel 1939 la Polonia.

Si resta attoniti davanti alla passività delle principali potenze liberal-democratiche dell’epoca: Francia, Inghilterra, Stati Uniti. Ci si stava infilando nel tunnel di una guerra mondiale. Il nazionalismo vinceva su ogni fronte, sia in senso passivo (disinteresse per quel che di terribile accadeva nelle altre nazioni, come nel caso della Germania, a proposito delle persecuzioni degli ebrei), sia attivo, (come la conquista militare italiana dell’Etiopia, ultimo degli stati sovrani dell’Africa).

Oggi lo si chiama sovranismo. Forse per ragioni di coscienza, e chissà nascosti sensi di colpa. Ma si tratta dello stesso nazionalismo passivo che permise a Hitler di dispiegare il suo nazionalismo attivo.

I sovranisti sembrano essere insediati ovunque, o comunque di essere a un passo dalla conquista del potere. In Italia, nel 1933, era al potere Benito Mussolini, oggi l’Italia vive i fasti di Giorgia Meloni, erede di un partito, il Movimento Sociale, sorto dalle ceneri del fascismo, che nulla ha imparato nulla ha dimenticato. Negli Stati Uniti rischia di prendere il potere un leader altrettanto nazionalista, complottista, autoritario, divisivo e bugiardo quanto Hitler. L’Europa è altrettanto divisa, prigioniera di sovranisti-nazionalisti, per ora passivi, come in Austria, Ungheria, Francia, solo per fare qualche nome. Nella stessa Germania hanno rialzato la testa quelli dell’ “Hitler, tutto sommato”: incredibile ma vero.

Insomma, in ogni paese europeo il sovranismo-nazionalismo è all’attacco. E può vincere la partita del potere.

Per giunta, come appena detto, con la prospettiva, novantuno anni dopo, della vittoria di un sovranista, per ora passivo, negli Stati Uniti. Un’altra tessera di un volgarissimo mosaico sovranista che già vede sovranisti attivi ai confini d’Europa ( Russia) e in Estremo oriente (Cina). Come non essere preoccupati per il destino del mondo liberal-democratico?

Il nazionalismo, con la sua carica di odio tra i popoli, sta tornando in auge, addirittura a Washington. La nuova Berlino. Eppure la gente non sembra accorgersi della pericolosità della svolta, come nel 1933. Allora c’era la morsa della grande crisi. Oggi invece tutto sembra andare come sempre: certo, si mugugna, però si lavora, si va in vacanza, eccetera, eccetera. Il bambino povero del 1933 oggi è un bambino viziato.

La sinistra sembra sull’orlo dell’estinzione o dell’estremismo, che è addirittura peggio. La destra, quella che si autodefinisce conservatrice, ha sposato la causa del sovranismo. Come se fosse la cosa più normale del mondo. Corsi e ricorsi. I conservatori ricordano l’atteggiamento dello stato maggiore tedesco che credeva di addomesticare Hitler.

Ma va segnalato anche un altro aspetto, curioso. Oggi si tende a tramutare tutto in gioco e psicoterapia. Trionfano l’infantilismo, l’irrisione dei comici (tutto è barzelletta), i giochi di ruolo, i romanzi distopici o utopici. C’è un contrasto tra la pesantezza della situazione storica e la cinica leggerezza con cui la si affronta. L’autoironia è importante, ma quando si trasforma in sistematica demolizione dell’ Io, fa più male che bene. I mass media tradizionali e i social sembrano ignorare il pericolo o addirittura credere ai sovranisti ricoperti di pelli di agnello. Perché morire per Kiev? Perché difendere i “nazisti” di Gerusalemme?

Dopo di che, come detto, si ride di tutto.

Che ci sarà mai da ridere? A trasformare il sovranismo da passivo in attivo basta un attimo. Come nel 1933 quando tutto iniziò.

Carlo Gambescia

lunedì 15 luglio 2024

Trump "ipercapitalista"?

 

 


Ieri, su Trump, ne abbiamo lette di tutti i colori. Pensiamo in particolare, per parlare del micro mondo dei nostri social, a un commento dell’amico Carlo Pompei. Bravo analista che però nega l’epiteto-qualifica di fascista a Trump. Perché, nota, “ipercapitalista”, eccetera, eccetera (*).

Non può essere altrettanto negato che nella polemica giornalistica e politica il termine fascista – dopo il 1945 – abbia assunto un significato molto ampio, forse troppo, soprattutto negli Stati Uniti, dove ogni forma di autoritarismo la si usa tuttora liquidare come fascismo.

Però il ragionamento dei nemici americani di Trump, non è del tutto sbagliato. E per una semplice ragione: il fascista nega la libertà, qualsiasi tipo di libertà. Di conseguenza Trump che ha una visione tradizionalista, quindi coercitiva delle libertà individuali, rientra di diritto, per così dire, nella casistica.

Inoltre sul piano politico-economico Trump è un isolazionista, quasi ai limiti dell’autarchia. Crede in un’ America autosufficiente, che non ha bisogno di commerciare con altri paesi. Lo slogan “Fare  di nuovo grande l’America”, significa ribadire che gli Stati Uniti non hanno bisogno di nessuno. Un principio contrario a ogni forma di libero scambio.

E qui va fatta una precisazione. Tra le due guerre mondiali, il capitalismo, nei paesi dove prevalse il fascismo, si adattò al nuovo sistema, venne a patti: commesse militari, sostegno finanziario di banche pubbliche, o semipubbliche, in cambio di zero scioperi e pace sociale. 

Diciamo un capitalismo, che invece di espandersi all’estero in cerca di profitti, si accontentava di rendite interne, garantite dallo stato.  Così ad esempio, in Germania e Italia. Era il modo capitalista di sposare la causa della tentazione fascista. Non di tutto il capitalismo, ma di quello più accomodante e meno liberal-democratico.

Lo si può definire capitalismo fascista? Sì. A queste specie sociologica di capitalista, ben evidenziata anche nel suo primo mandato, quando il magnate si scontrò con i libero-scambisti americani, appartiene Trump. Pertanto, se dovesse vincere le elezioni – semplificando – migliorerebbero, di poco, le condizioni dei lavoratori americani ma peggiorerebbero, e di molto, quelle dei lavoratori non americani.

Trump, per dire una banalità, è per il capitalismo in un solo paese. Separa lo sviluppo capitalistico dallo sviluppo del mercato mondiale, che vedrebbe ben volentieri invaso – ecco il suo nazionalismo economico o neomercantilismo – da merci americane, senza però riceverne in cambio di non americane. Insomma Trump  più che iper, ipocapitalista.

Non ci vuole il cervello di Vilfredo Pareto per scoprire che il capitalismo americano propugnato da Trump è la copia conforme di quello di Xi Jinping. Che a sua volta si è ispirato, intenzionalmente o meno, al sistema economico della Germania Nazista (controlli sul commercio estero, anche monetari, diffusi finanziamenti pubblici, costruzione statale di infrastrutture, zone di sviluppo e piani economici controllati dal centro)

Inoltre la visione della politica di Trump (il suo odio per le istituzioni liberali, per ogni forma di dibattito pubblico, l’appello alla violenza popolare, eccetera) è tanto autoritaria quanto quella di Xi Jinping. Inoltre, sebbene possa sembrare eccessivo quanto stiamo per dire, il partito repubblicano, dal punto di vista del controllo, anche formale, che Trump esercita su di esso, ricorda quello del partito comunista cinese.

Queste riflessioni, politiche ed economiche, valgono anche per un allineamento tra gli Stati Uniti auspicati da Trump e sistema politico-economico russo. Per contro l’Europa, al momento, sembra andare a rimorchio di americani, russi e cinesi. Il vaso di coccio tra vasi di ferro, soprattutto militarmente. Ma questa è un’ altra storia.

Ovviamente non pensiamo a un cinesizzazione politica degli Stati Uniti, però il mondo di Trump, come quello dei cinesi ( e dei russi), è un mondo di blocchi economici, pronto, con la pistola carica, a farsi la guerra. Trump ha una visione bellica dell’economia. Proprio come il fascismo (e, mai dimenticarlo, come il nazionalcomunismo, e il populismo militare). E questo lo rende molto pericoloso.

Naturalmente, per chiunque abbia una visione romantica del fascismo, Trump è un capitalista, un borghese, nemico del popolo.

Ma è proprio così? Ora, a parte che il fascismo romantico è comunitarista, quindi arcinemico di ogni forma di individualismo liberal-democratico, va anche detto che sul piano economico è autarchico. Proprio come Trump. Diciamo che al momento fascisti romantici e Trump si annusano. Sebbene, come provano le frequentazioni di Trump e l’assalto al Campidoglio del 6 gennaio 2021, le frange lunatiche non lo disdegnino. Per dirla alla buona, tutto fa brodo pur di abbattere l’odioso sistema liberale.

A quest’ uomo ieri hanno sparato ritenendolo un pericoloso fascista capace di attentare alle libertà americane. Diciamo pure che il metodo è sbagliato, però la pericolosità fascista del personaggio, non solo per le libertà americane, non può essere negata.

Carlo Gambescia

 

(*) Qui le tesi di Carlo  Pompei: https://www.facebook.com/photo?fbid=3850818338538949&set=a.1388148961472578   .

domenica 14 luglio 2024

Attentati. Donald Trump e Huey Long

 


Sarebbe errato fare raffronti con  le uccisioni  di Abraham Lincoln, James A. Garfield, William McKinley e John Fitzgerald Kennedy. Trump innanzi tutto non è ancora in carica. Ed è ancora vivo.  Inoltre i presidenti uccisi non erano in odore di fascismo, anche per ragioni cronologiche.

Lincoln fu ucciso da un sudista, Garfield da un suo sostenitore non accontentato, Mckinley da un anarchico di origine polacca, Kennedy da un comunista americano formatosi a Mosca.

In realtà l’attentato a Trump, ricorda quello del 1935,che mise fine alla vita di Huey Pierce Jr. Long, governatore della Louisiana e aspirante Presidente degli Stati Uniti. Per opera di un medico, Carl Weiss, un borghese, privo di qualsiasi legame con associazioni terroistiche,  dalle idee democratiche, probabilmente ossessionato (ma si era negli anni Trenta) dall’ascesa di Hitler in Germania.   Sembra  fosse genero di un giudice, politicamente contrario e Long, e per questo non rieletto.

Long, anche a detta di Salvemini ( L’Italia vista dall’America, ed. Opere, Feltrinelli, p. 141), era il classico esponente del partito democratico del Sud:  razzista, populista, isolazionista, non scevro da simpatie fasciste. 

Un bruttissimo personaggio, adorato da folle peggiori di lui. Un pericolo dal punto di vista politico. Probabilmente Long venne ferito, morendo poche ore dopo (sembra anche per errori medici), dagli uomini della sua scorta: i “cosacchi”, armati di mitra a tamburo, come i mafiosi di Al Capone, che crivellarono di colpi l’attentatore, sembra circa sessanta. American pulp.

Ecco Trump è dello stesso stampo ideologico di Long. A novant’anni di distanza gli Stati Uniti si trovano a fronteggiare un personaggio della stessa pericolosità politica. All’epoca, anche se per ovvi motivi non riuscì a far progredire la sua candidatura, Long aveva davanti a sé il politicamente fortissimo Franklin Delano Roosevelt.  Probabilmente non ce l’avrebbe fatta. Trump, già una volta presidente e con un indecoroso tentativo di golpe sulle spalle, potrebbe invece essere rieletto.

Probabilmente chi gli ha sparato, prontamente eliminato, porterà il suo segreto nella tomba. D'Altra parte è  ancora presto per dare giudizi definitivi.
 

Per Trump, già in vantaggio su Biden, l’attentato è un colpo di fortuna elettorale, sul quale costruire, come fu ai tempi di Long, teorie complottiste sui poteri della massoneria, degli ebrei, dei servizi segreti, di Zelensky, Biden, e così via fino al Papa.

Una manna insomma.  Anche per la Russia di Putin.

Carlo Gambescia

sabato 13 luglio 2024

Cattive notizie da Marte

 


Vorremo che i lettori conservassero memoria, per così dire, del nostro articolo di oggi. Per mesi, anni, non sappiamo dire. Per quale ragione? Perché parleremo di inevitabilità storica e di regolarità metapolitiche. In pratica parleremo di metapolitica applicata alla realtà che ci circonda.

Da Marte, nome bellicoso non scelto a caso, che cosa si potrebbe osservare?  Un "Marziano" che idea si farebbe della Terra?

Da una parte noterebbe la disunione politica europea e statunitense, interna e esterna diciamo. Dall’altra,  scorgerebbe invece la compatezza  russa e cinese, capace di  estendersi   anche ai rapporti tra le due potenze orientali.

Nei prossimi anni queste tendenze si accentueranno. Perché i conflitti esterni favoriscono le tendenze interne già in sviluppo. Dove prevalgono le forze centripete, come in Russia e in Cina, la compatezza si accentua, come pure le divisioni dove prevalgono le forze centrifughe, come in Europa e negli Stati Uniti. Ovviamente, le inversioni tendenza sono possibili ma rare, come prova la decadenza e caduta di unità politiche frammentate al loro interno. L’ìnerzia storico-sociologica è fortissima. Per dirla alla buona, "il tirare a campare"...

Il resto del mondo si agita, è diviso e non conta nulla. Se non quel rappresentare, in alcuni punti “geocritici”, motivo  di conflitti più gravi  tra le due potenze mondiali: da un lato l’Occidente, dall’ altro l’Oriente. Come ora in Ucraina ad esempio. 

Oriente e Occidente: parliamo di due mondi completamenti differenti sul piano dei valori e degli interessi. Non c’è alcun ponte. E di questo si deve prendere atto.

Dicevamo dell’inevitabilità storica. Cosa significa innanzi tutto inevitabilità storica? Che un certo evento storico, come la guerra, non si può evitare. Forse si può rinviare, per un certo periodo, ma prima o poi ci “piomberà sulla testa”.

Quanto ai determinismi sociologici e politici (potenziali ovviamente) si pensi al ruolo delle regolarità metapolitiche. In particolare alla regolarità amico-nemico (è il nemico che ti indica come tale, a prescindere dal tuo “buon” carattere), alla natura del ciclo politico (conquista, conservazione, perdita del potere) , alla persistenza di un potere mondiale che nessuno vuole dividere con nessuno.

Infine la pace, che tutti dichiarano di voler difendere, non è altro – dal punto di vista delle regolarità metapolitiche – che una razionalizzazione-giustificazione dei conflitti politici. Detto sinteticamente: la pace come risorsa politica per fare la guerra. E qui ci fermiamo per non confondere troppo le idee dei lettori.

Se la guerra è inevitabile, perché portato di determinismi metapolitici, quale dovrebbe essere l’atteggiamento dell’Occidente? Di prepararsi adeguatamente a combatterla. E invece da Marte, cosa si vede? Che l’Occidente non vuole prepararsi. Risulta diviso, e di conseguenza non può neppure provocare divisioni nel campo nemico. Quindi, per ora, da una parte regna la divisione dall’altra compatezza.

Certo, in Occidente, si è liberi di pensare, che qualche evento straordinario ( la morte di un leader, una calamità naturale, una seconda venuta di Cristo), scompaginerà le file nemiche. Ma, pur essendo giusto, come riteneva anche Machiavelli, contare sulla fortuna, si deve considerare che la fortuna (nonché la sfortuna) rappresenta solo una parte della faccenda, l’altra è regolata dai meccanismi metapolitici appena ricordati.

Perciò, come osserva il mio amico professor Molina, si deve puntare, nel nome dell’ “immaginazione del disastro” (cioè della precisa percezione-visione del nemico orientale mentre ci attacca con l’intenzione di distruggerci), sull’ idea di inevitabilità della guerra e sulla persistenza delle regolarità metapolitiche.

Quanto alla pace, è cosa risaputa, che il prepararsi alla guerra, può contribuire a prolungare la pace, diciamo a rinviarla, non per sempre ma per periodi anche lunghi.

Pertanto, riassumendo,  da Marte cosa si scorge? Che l’Occidente sta lavorando alla sua sconfitta. E che i prossimi secoli (ci teniamo larghi) potrebbero vedere l’orientalizzazione dell’Occidente. E non pacifica. Quindi cattive notizie da Marte.

Certo non è ancora detta l’ultima parola, però le linee di tendenza, metapolitica, sono quelle che abbiamo descritto. E vorremo che il lettore ne conservasse memoria.

Carlo Gambescia

venerdì 12 luglio 2024

Il declino "mitografico" dell'Occidente

 

 


Il mito politico ha una sua grande forza morale. Se poi esista un nesso tra mito, come percezione di un’immagine, pregna di energie, con conseguente passaggio all’azione diretta, resta cosa difficile da dire.

Però il mito indica soprattutto i valori condivisi e diffusi in un certo periodo storico. Valori in cui si crede. E collettivamente.

Si pensi alla pacchiana mitografia fascista e mussoliniana, mai del tutto scomparsa dai  muri delle città italiane. 

Oppure all’inquietante fascino delle croci uncinate. Stesso discorso si può fare per la lettera A (cerchiata) di anarchia. Oggi sono tornati di gran moda i murales, che risalgano alla stabilizzazione politica delle rivoluzioni messicane, laiciste e semisocialiste, degli anni Dieci del Novecento. 

Si parla anche di grafit art, di grafitismo, di arte di strada, dalla colorazione socialista e popolare. Ieri, con un cerimonia ufficiale, si è “scoperto”, come si sarebbe detto un tempo, un "mural" romano, dedicato a Michela Murgia: si vede la scrittrice di semiprofilo, sullo sfondo di una bandiera Lgbtqi+.

In questo panorama mitografico, che va dal sostegno della causa palestinese alle varie battaglie ecologiste e anticapitaliste, c’è un grande assente: il "mural" occidentalista. Detto altrimenti: il "mural" dalla parte dell’Occidente. Soprattutto in momento in cui Europa e Stati Uniti affiancano militarmente l’Ucraina di Zelensky contro l’aggressore russo. Sfido il lettore a individuare in tutto l’Occidente un "mural" pro Zelensky o che celebri la Nato. Ne esistono di contrari. Ma a favore nessuno o comunque in quantità rlevanti dal punto di vista della “battaglia” mitografica.

Sembra incredibile, ma l’Occidente, grande fabbricatore di miti musicali, cinematografici, letterari, eccetera, rifugge da una mitografia che qualifichi l’Occidente per quello che è: una grande forza di libertà in tutti i sensi, politici, economici, culturali. L’ultima grandissima mitografia pro Occidente risale alla Seconda guerra mondiale. Come mostra l’illustrazione di copertina. Perché?

Crediamo che la causa del declino mitografico dell’Occidente sia nel senso colpa abilmente coltivato dalla cultura conservatrice e progressista. Si dividono una specie di balconcino rigoglioso, pieno zeppo di fiori ma venefici.

Il conservatore, di regola, è un antiliberale. Non ha mai accettato i valori liberali. Al punto talvolta di sposare la causa della reazione fascista. Il progressista invece li ha sempre considerati superati, o comunque da superare. Di qui lo sviluppo a destra come a sinistra di un minimo comun denominatore antiliberale.

Il liberalismo è bollato come il nemico del dio patria e famiglia (valori condivisi dai conservatori e venerati dai reazionari), e delle libertà sociali se non socialiste (valori difesi dai progressisti e propugnate anche con le armi dai comunisti).

Di qui quel vergognarsi – ecco il senso di colpa – di alcuni secoli di grandi trasformazioni liberali (parlamenti e liberi mercati, innanzittuto), visti da conservatori e reazionari, come distruttori dei valori tradizionali, e dai progressisti come inutili conquiste formali, negatrici delle libertà sostanziali dei popoli, dei lavoratori, eccetera, eccetera.

Ma come trovare un legame diretto tra l’assenza di murales pro Zelensky e il senso di colpa coltivato da conservatori e progressisti, sotto lo sguardo premuroso di fascisti e comunisti?

Zelensky crede, e fermamente, in quelle trasformazione liberali, disprezzate invece da conservatori e progressisti. Polvere da nascondere sotto il tappeto. Motivo di vergogna. Il che ha tramutato Zelensky in una specie di nemico naturale – semplificando – dell’artista di strada, che a sua volta non è altro che un utile idiota che favorisce il Convitato di Pietra della crisi, non solo mitografica, dell’Occidente: il fascio-comunista (per dirla giornalisticamente).

Ovviamente, per ora, le strutture militari e in parte politiche dell’ Occidente resistono, ma senza l’appoggio di una specifica mitografia. Che, ad esempio, nella Seconda guerra mondiale, ebbe la sua importanza. Si combatte – Zelensky a parte – senza credere nei valori per cui si combatte. E la mitografia ne risente. Sotto questo aspetto il presidente ucraino è  l’ultimo portabandiera dell’Occidente. Che però non trova il suo "mural".

Duole il cuore dirlo, ma l’Occidente euro-americano ricorda, secondo versi attribuiti a vari poeti,   quel “ prode cavaliere che non s’era accorto, che andava combattendo, ed era morto”.

Detto altrimenti, l’Occidente, ferito a morte, continua a combattere. 

Fino a quando?

Carlo Gambescia

 

giovedì 11 luglio 2024

Abuso d’ufficio? No, abuso di pazienza (del cittadino)

 


Non abbiamo le competenze tecniche per fornire un giudizio giuridicamente compiuto sulla cancellazione del reato di abuso d’ufficio (art. 323 del c.p.), da non confondere però con l’altro di omissione di atti ufficio (art. 328, del c.p.).

Semplificando: il primo rimanda a una violazione della legge per un interesse personale in un certo atto da parte di un funzionario pubblico; il secondo rinvia invece al rifiuto di adempiere un atto dovuto per per un serie di ragioni di giustizia o sicurezza pubblica.

Per capirsi: nel primo caso un sindaco fa assumere chi non ha titoli, magari un suo parente, nel secondo un negozio di alimentari, che non ha i requisisti igienici e sanitari, non viene chiuso. Però anche questo secondo caso potrebbe essere in gioco un interesse personale. Diciamo che nell’abuso c’ è una condotta attiva, il sindaco si “dà da fare”, nel secondo passiva, “guarda altrove”.

Speriamo di essere stati chiari. Perché il punto è importante. Infatti l’abuso d’ufficio non è più reato, mentre l’omissione lo è ancora. Già questo dovrebbe far riflettere: i due reati, due configurazioni attive e passive di uno stesso comportamento illecito, dovevano o cadere insieme o non cadere. Ovviamente, per i cervelloni della destra era troppo. Il mal di testa li avrebbe sopraffatti.

Ci si è lanciati in una battaglia a metà, e qui pensiamo ai cervelloni della sinistra. Si pensi al rispetto o violazione di un regolamento edilizio comunale, dove sono in gioco interessi economici fortissimi. Si fa costruire in barba alla regole (abuso), si guarda dall’altra parte mentre si inizia a costruire (omissione). Che cambia?

Il punto è che spesso leggi e regolamenti, fitti di rinvii interni, sono confusi, sicché i margini di speculazione politica, nel denunciare un sindaco, spesso di idee diverse rispetto a quelle di coloro che denunciano, sono discrezionali: “azzeccarbugliati”, se ci si perdona l’espressione. Di qui, prima i titoli sui giornali, poi all’interno, infine le archiviazioni, che non sono poche, di cui i giornali neppure parlano. Un gran lavoro per i giudici, per i giornalisti, che però sfocia, quasi sempre nel nulla. O quasi.

Il lettore vuole un nostro parere personale? Da un punto di vista sociologico esistono troppe leggi e troppi regolamenti. Su questo si dovrebbe lavorare e intervenire: poche leggi, pochi regolamenti, ma chiari. Il margine di discrezionalità, quando non addirittura  previsto dalla stessa legge o regolamento, favorisce abusi e omissioni. Reati, che a nostro avviso hanno una loro ragion d’essere ma in un quadro normativo stringato.

La destra, cioè il ministro Nordio e il governo Meloni, sembra non capire che il male è nell’eccesso di produzione normativa. Una cosa che si chiama anche statalismo legislativo. Mentre la sinistra, va a rimorchio della destra, trascurando anch’essa questo aspetto fondamentale.

E così nulla cambierà. I furbi potranno continuare a fare i furbi. I paurosi, di apporre la propria firma sotto una misura, i paurosi. E i cittadini, soprattutto la parte più economicamente attiva, a subire. In realtà se abuso c’è, riguarda la pazienza del cittadino. Sì, abuso di pazienza.

Carlo Gambescia

mercoledì 10 luglio 2024

La Nato, il nemico e le forze centrifughe

 


Una regola fondamentale in politica internazionale è che è sempre alleato più forte a indicare il nemico. Qual è l’alleato più forte della Nato? Gli Stati Uniti. E quali sono i nemici della Nato? Secondo gli Stati Uniti Russia e Cina. Che sono, in primis, i nemici degli Stati Uniti.

Il resto della Nato non è grado di indicare nessun nemico, in particolare gli stati appartenenti all’Unione Europea, deboli militarmente e politicamente. Sappiamo già che qualcuno penserà che un’Europa unita, anche militarmente, potrebbe controbilanciare il potere degli Stati Uniti e contare di più nella Nato. E quindi indicare il nemico. Si tratta di un’arma a doppio taglio. Perché, se in un’Europa più forte, ma comunque sempre più debole delle grandi potenze ricordate, comandassero i partiti nemici degli Stati Uniti (Russia e Cina), il nemico all’ Europa lo indicherebbero russi e cinesi.

Il problema è che per diventare una grande potenza militare, oltre alle risorse, occorrono le vittorie sul campo, e l’Europa, da sola, al momento non ha né le une  né le altre. Si fatica persino a inviare munizioni e altro in Ucraina. Figurarsi una Grande Armée

Pertanto, la Nato rappresenta l’unica risposta possibile, sempre che si voglia restare all’interno dello schieramento occidentale. Fortunatamente il nemico indicato dagli Stati Uniti è anche il nemico dell’Europa. Russia e Cina sono agli antipodi del lato europeo dell’Occidente per valori e interessi. Diciamo che gli stati europei membri della Nato, non dovrebbero sentire come una imposizione la scelta americana del nemico russo-cinese. Si può parlare, almeno dalla fine del secondo conflitto mondiale, di una naturale alleanza tra Europa e Stati Uniti.

Non dovrebbero… Il condizionale è d’obbligo, perché in Europa sussiste, sia a destra che a sinistra, una forte corrente politica e culturale contraria agli Stati Uniti e al sistema di valori e interessi che unisce le due sponde dell’Atlantico. Sono gli eredi politici dei fascisti e dei comunisti, che oggi sbavano al cospetto dei russi, come cani randagi affamati. O che, come Giorgia Meloni, aspettano il “momento trumpiano” per prendere il largo dagli Stati Uniti. Si potrebbe perciò parlare di nemico interno, alleato o possibile alleato dei nemici esterni.

Una vittoria di Trump potrebbe condurre alla dissoluzione della Nato. Si lascino per ora da parte i meccanismi mentali e politici che portano il magnate americano a prendere questa decisione. Diciamo il colore psico-politico, che piace tanto a mass media e social. Ci si concentri invece sulla sua volontà di sfasciare tutto. Cosa potrebbe accadere ? L ’Europa finirebbe in balia dei suoi nemici interni ed esterni. La Russia farebbe un solo boccone dell’Ucraina e poi toccherebbe all’Europa indifesa a occidente dell’Impero russo. Così come la Cina farebbe subito un solo boccone di Taiwan. Probabilmente si concretizzerebbe il rischio di una guerra generale in Oriente come in Occidente.

Per capirsi, come nella seconda guerra mondiale, Stati Uniti ed Europa, una volta risvegliatisi dallo stato narcotico isolazionista-pacifista, saranno “costretti” a battersi, partendo però da una grave condizione di svantaggio e di debolezza. E magari con i russi già padroni dell’ Europa occidentale.

Sotto questo aspetto – della ferma indicazione del nemico – le prossime elezioni americane avranno un’importanza fondamentale. Una vittoria di Trump potrebbe causare una specie di effetto domino sulla Nato. Biden, anche solo come presenza nominale, può impedire questo processo centrifugo. Quanto meno rallentarlo. In attesa, per così dire, di un giovane e brillante sostituto democratico (su possibili candidati repubblicani alternativi, per ora, inutile sperare). Si tratta di stringere i denti e resistere.

Insomma, per dirla in chiave metapolitica, l’indicazione del nemico, rimanda a un processo centripeto, che si oppone a un processo centrifugo. E la Nato è un elemento centripeto. Ma per sussistere ha necessità dell’indicazione di un nemico. Se viene meno questa indicazione viene meno anche la Nato. E con la Nato l’Occidente. Non per sempre, ma sarà comunque la guerra a decidere.

Sotto questo aspetto, e a proposito dell’invasione russa dell’Ucraina, i predicatori di pace, tra i quali molti svergognati ferrivecchi di destra e sinistra, conducono alla guerra generale, perché il pacifismo indebolisce le difese, innanzitutto morali, dell’Occidente, accrescendo l’appetito del nemico. Mentre chi si schiera dalla parte della vittoria ucraina, e quindi della guerra, allontana il pericolo della guerra generale, perché il polso fermo induce i russi a più miti consigli. Con effetto di ricaduta sulle manovre cinesi.

E se poi guerra comunque sarà, sarà la Nato, a farsi carico del conflitto, e non un’Europa debole e divisa.

Carlo Gambescia

martedì 9 luglio 2024

Elezioni francesi. Francia 2 - Italia 0

 


Siamo d’accordo con Piero Sansonetti (che per inciso, adotta anche lui il termine petenisti, così siamo in due…), l’appello antifascista funziona ancora.

Però, perché funzioni, serve una salda forza di centro, centro-sinistra, come nel caso del partito di Macron, che in Italia non esiste. Il Partito Democratico della Schlein, con il suo populismo è lontano anni luce dal rigoroso riformismo di Ensemble pour la République.

Per capirsi: perché funzionino le desistenze, nel quadro di un sistema uninominale a doppio turno, serve un’unità di fondo – ecco l’aspetto culturale dell’appello antifascista – che in Italia non c’è. Certo siano bravi a creare slogan. Insegniamo ai francesi quel che non sapevamo il giorno prima e continueremo a non sapere il giorno dopo…

Il problema italiano è l’estremismo politico che rovina ogni cosa, e che fa sì che la destra, a cominciare da Fratelli d’Italia, dipinga l’antifascismo come un ferrovecchio usato dalla sinistra per discriminare la destra.

Ci dispiace per Sansonetti ma la lezione francese non può essere estesa all’Italia, perché non ci sono le condizioni. I sistemi elettorali, pur importanti eccetera, come dicevamo ieri, non sono un toccasana. Prima viene la “mentalità politica”, diciamo così, poi le metodologie elettorali. Sansonetti corre  invece subito alle conclusioni.

Ripetiamo. La Schlein non è Macron e Conte è più populista di Mélenchon. Inoltre i leader  riformisti che potrebbero avvicinarsi ideologicamente (e sottolineiamo potrebbero) al partito di Macron, pensiamo a Calenda e soprattutto Renzi, difficilmente accetterebbero di far parte di un “Fronte popolare” che riproduce lo schema (fagocitante) Cina-Hong Kong.

Ma non è questo il punto: in Italia, al momento (ma sono più di trent’anni), manca una forza di centro, consistente, che condivida, ricambiata, con una sinistra riformista (non populista), i valori antifascisti.  Un centro capace di tenere a bada la destra, sottoponendola a periodici esami del sangue.

L’antifascismo, che è sacrosanto, perché da noi di fascisti in giro ce ne sono tanti (addirittura al governo), è usato invece come una risorsa politica, che invece di unire divide. Cioè, a sinistra si lo è usato, tipo mazza da baseball per distruggere, personaggi discutibili politicamente (pensiamo a Berlusconi e Craxi), ma che di sicuro non erano fascisti. Anche con Andreotti hanno tentato. E ora che i fascisti sono al potere, l’antifascismo, reso così poco credibile, non unisce. E “quelli”, i fascisti veri,  vincono.

Forse l’errore più grande di Berlusconi resta quello di avere distrutto il centro dello schieramento: il suo famigerato centro-destra era più destra che centro. Così come la sinistra, quasi di riflesso,  piano piano si è spostata sempre più a sinistra. 

I famosi professori, Monti e Draghi, restano un esempio classico di generali privi di truppe, ritrovatisi al comando, perché destra e sinistra così impegnate a odiarsi,  difettavano di personale politico all’altezza, scelto sulla base, del "basta che respirino".  Diciamole queste cose. Se i voti degli studenti sono cattivi non è colpa degli insegnanti che complottano contro gli studenti, ma di questi ultimi che non studiano.

Perciò per tornare a Sansonetti, l’antifascismo può funzionare, ma ci si deve credere. E per credervi deve essere una cosa seria. E in Italia, al di là dei fuochi d’artificio retorici e della mazza da baseball, l'antifascismo non è più visto da un pezzo come un cosa seria (non parliamo solo  dei fascisti, ora abilissimi nel fare lo gnorri,  ma anche degli antifascisti dalla memoria selettiva ). E, cosa più importante, non esiste una forza politica moderata, riformista e antifascista al tempo stesso.

Concludendo, e visto che si giocano gli Europei di calcio, Francia 2 Italia 0. Con buona pace di Spalletti. Pardon Sansonetti.

Carlo Gambescia

lunedì 8 luglio 2024

Elezioni. Il vicolo cieco francese e la nuova età del ferro…

 


Sulle elezioni francesi invitiamo il lettore a non tenere in gran conto la questione delle desistenze. Tesi usata dai commentatori di destra (soprattutto in Italia) per far passare l’odiatissimo Macron come complice della sinistra e così denigrarlo.

In realtà, per ora, resta ancora difficile definire con precisione il numero dei candidati macroniani realmente ritiratisi al secondo turno, dove però, attenzione, arrivati terzi al primo turno. Si parlava di 305 triangolari su 501 (*).

E comunque sia, non è un problema di turni, cioè di meccanismi elettorali, ma di contenuti politici e culturali. Di tradizioni politiche. Perché, ad esempio, proprio pochi giorni fa in Gran Bretagna, con il maggioritario secco, a un turno (non due come in Francia, quindi ancora più duro ), ha vinto una sinistra moderata, che non ha nulla in comune con il radicalismo della sinistra francese.

Insomma il problema – ripetiamo – rinvia ai contenuti. Dove resta viva una tradizione liberale e non c’è pericolo fascista, né di altro tipo di estremismo, anche di sinistra, può vincere una specie di centro-sinistra o centro-destra dal carattere esplicitamente moderato.

Onestamente va detto che sul piano europeo (ma anche negli Stati Uniti con Trump non si scherza) il liberalismo moderato, con sagge aperture a destra o sinistra, rappresenta una “tradizione” politica al momento in declino. Si pensi alla democrazia cristiana italiana (con le sue diverse anime), ai popolari spagnoli, ai democristiani e socialdemocratici tedeschi, ai repubblicani francesi prima di Sarkozy, e ovviamente al laburismo britannico.  Insomma, dove c’era e c’è una prevalenza dell’approccio liberale, o comunque moderato, si riducevano e riducono le potenzialità elettorali del radicalismo rosso o bruno o addirittura rosso-bruno.

Quanto appena precisato, non rappresenta però una specie di scappatoia dialettica, per giustificare il caotico quadro politico francese uscito dalle elezioni. Anche perché alcune risposte le elezioni le hanno date.

In primo luogo, gli elettori hanno mostrato di preferire ( e non è la prima volta in Francia, si potrebbe addirittura risalire a Guizot), gli estremi. Semplificando: fronte popolare e  petenisti. Sembra veramente di essere tornati, anche sul piano del lessico storico, agli anni Trenta-Quaranta dei Novecento. Il che è molto preoccupante.

In secondo luogo, dal momento che nessuna forza politica di destra, centro e sinistra ha i numeri per governare l’unica prospettiva resta quella di un governo di coalizione. Cosa che, a nostro modesto avviso, se si concretizzerà, qualsiasi “colorazione” politica questo nuovo governo assuma, la Francia sarà ingovernabile. E anche questo è molto preoccupante.

In terzo luogo, non vediamo che due possibilità, non prive di lati negativi.

La prima: nuove elezioni. Che non è detto, risolvano la questione delle governabilità. Una specie di poker. Con Macron che, purtroppo, ha in mano una sola o doppia coppia. Di conseguenza, la possibilissima vittoria di petenisti o frontisti porterebbe la Francia, fuori dall’Europa, e dal consorzio delle nazioni liberal-democratiche. Con il classico pendant della fuga di capitali, inflazione, crollo del tenore di vita, eccetera, eccetera.

La seconda: un golpe macronista, diciamo liberale, per la difesa della costituzione democratica dall’attacco concentrico di petenisti e frontisti. Che però, se non riuscisse (e l’ipotesi non è così remota) , favorirebbe un’instabilità ancora più spiccata, con scontri di piazza, guerrriglia urbana, eccetera. Inoltre militari e polizia, potrebbero pronunciarsi per gli insorti, di destra o sinistra che siano (non è solo la Spagna a godere di una tradizione in materia), anche appoggiando gli uni contro gli altri.

Come si può intuire, la situazione francese è molto grave. Sembra, come abbiamo più volte scritto, che i popoli europei – quindi non solo i francesi – non vogliano più sentire parlare di moderazione politica.

Si sognano nuove avventure politiche? Rosse o brune che siano? Non si capisce. Probabilmente, a livello di massa, prevale una visione paranoica della realtà. Non c’è epoca della sua storia (forse solo durante gli imperatori Antonini), in cui  i popoli europei abbiano goduto di un eccezionale tenore di vita come quello degli ultimi ottant’anni. Eppure – ecco il delirio paranoico – proliferano scontento, delusione, amarezza, sentimenti assolutamente ingiustificati.

Si vive un’ età dell’oro, ma nell’immaginario la si giudica del ferro.

E ferro si potrebbe ricevere. Anche nelle carni.

Carlo Gambescia

(*) Sulle sfide al secondo turno si veda qui: https://www.ilpost.it/2024/07/01/triangolari-ballottaggio-elezioni-francia/?utm_source=ilpost&utm_medium=leggi_anche&utm_campaign=leggi_anche  . Al secondto turno sono poi rimasti 89 ballottaggi a tre  e  due a quattro. Si veda qui: https://www.ilpost.it/2024/07/02/candidati-ritirati-secondo-turno-elezioni-francia-triangolari/ .

domenica 7 luglio 2024

Da Marine Le Pen a Philippe Pétain ( e oltre)

 


Purtroppo si deve prendere atto che in Francia, per la prima volta dal 1945, esiste il rischio che vincano le elezioni coloro che scorgono tuttora nel Maresciallo Pétain, che collaborò con i nazisti, un salvatore della patria.

Il nome della “cosa ” può mutare. Cioè li si chiami neofascisti, fascisti, nazisti, radicali di destra, eccetera, ma la sostanza non cambia: sono forze politiche anticapitaliste, antiliberali, razziste e nazionaliste.

I francesi, come nel 1940, sembrano essere stanchi della democrazia parlamentare. E come nel 1940 sullo sfondo si staglia un nuovo alleato, Putin, che ricorda Hitler, al quale la Francia di Pétain sacrificò tutto, a partire dalla dignità nazionale, pur di tornare al quotidiano tran tran.

I popoli, purtroppo, non avvertono le grandi questioni della libertà,  introdotte per la prima volta nella storia dalle moderne rivoluzioni liberali. E se questo ricorrente atteggiamento politico è diffuso  in Francia, patria del costituzionalismo liberale, figurarsi altrove. E qui si pensi a un paese come l’Italia che addirittura ha politicamente inventato il fascismo.

È amaro asserirlo, ma sociologicamente parlando, sul piano della libertà di parola e di pensiero, gli effetti di un regime politico sulla gente comune, dal punto di vista della vita quotidiana – il tran tran – sono quasi nulli. L’impiegato continua fare l’impiegato, il tassista il tassista, l’infermiere l’infermiere, e così via. Non poter leggere un libro, un giornale, esprimere un' opinione politica, per chi vive in modo inerziale, non è un problema.
 

Ci si chiederà allora il perché della possibile sconfitta di Macron: se le masse sono “inerziali”, lo stesso governo dovrebbe durare per sempre. Diciamo Macron a vita.

Non è proprio così. Un grande liberale francese Raymond Aron, sulla scia di un altro pensatore, suo conterraneo, Élie Halévy, riprese il concetto, tipico della “tirannie del XX secolo”, di “organizzazione dell’entusiasmo”. Che aveva e ha il suo corrispettivo nell’ organizzazione dell’odio: un processo politico-sociale, fondato sul meccanismo del capro espiatorio e su una mobilitazione di massa, organizzata dall’alto, tesa in realtà a paralizzare l’individuo e intrupparlo in una massa abulica e guidata da parole d’ordine.

Pertanto la violenta polemica, non solo contro la sinistra,  ma   contro le forze liberali in quanto tali, non è altro che il frutto velenoso di una organizzazione dell’odio, come in Francia, contro il liberale Macron, dipinto come un nemico del popolo, proprio come nel 1940 la destra reazionaria, intorno a Pétain, liquidò ministri e deputati della Terza Repubblica, frutto marcio, si diceva, del liberalismo francese.

La vita dei  popoli rimane in uno stato di quiete, inerziale,  fin quando non interviene una forza esterna a modificarne lo stato. Ed è questo il caso dell’organizzazione dell’odio che sollecita una nuova risposta, anche violenta, per poi lasciare che le masse tornino allo stato di quiete. Al tran tran quotidiano.

Ovviamente, come nel caso francese, non si tratta di un  puro caso: Marine Le Pen rinvia a Philippe Pétain, il quale rimanda a Charles Maurras, e quest’ultimo a Joseph de Maistre, insomma al pensiero controrivoluzionario nemico del liberalismo. Una forza esterna, come dicevamo.

I nemici della civiltà liberale sono tornati. E ora, per ironia della sorte, potrebbe toccare alla Quinta Repubblica. In Francia, dove il liberalismo mosse i primi passi.

Carlo Gambescia

sabato 6 luglio 2024

La cultura di destra e la vittoria di Keir Starmer

 


La destra, oltretutto, è ignorante. Bella scoperta si dirà.

Senza fare riferimenti specifici ai vari giornali “organici” al governo Meloni, appena nota la vittoria del laburista Starmer, la prima reazione, diciamo all’unisono, è stata quella di evidenziare la responsabilità dei conservatori: “Troppo morbidi sui diritti civili, troppo liberisti, eccetera”.

Oggi però molti giornalisti di destra, inclusi alcuni direttori, si sono accorti che il Labour di Starmer è moderato, nulla in comune con la sinistra alla Corbyn e alla Mélenchon. Allora subito la musica è cambiata: “La sinistra italiana impari da quella britannica, eccetera”. Per dirla in francese: una figura di merda.

Per passare dal particolare all’universale, questa incultura della destra, soprattutto dalle radici fasciste, si esprime attraverso un provincialismo senza pari. Diciamo che è un’eredità nazionalista. Per fare un esempio macroscopico: chi ha studiato a fondo il fascismo? La destra. No Renzo De Felice, che proveniva da sinistra, convertitosi al liberalismo, o comunque al riformismo, dopo l’invasione sovietica dell’Ungheria. Da destra, sono giunti solo studi apologetici o comunque molto di parte. Con una eccezione: A. James Gregor, un professore di scienze sociali, bravissimo, italo-statunitense, ma di formazione tipicamente americana. Conservatore (relativamente diciamo), che però, di sicuro,  non era un fascista.

Si prenda un altro esempio, Giuseppe Prezzolini, grande organizzatore culturale, eccellente divulgatore, vissuto per anni all’estero, in particolare negli Stati Uniti, per poi morire in Svizzera, Prezzolini non sprovincializzò la cultura americana, ma provincializzò (o comunque tentò) la cultura americana, sulle basi, sebbene intelligenti, di certa retorica nazionalista. Il suo incontro con il pragmatismo d’Oltreoceano fu qualcosa di occasionale, senza vere e proprie radici culturali, se non quelle, molto italiane, di un Machiavelli, come teorico dell’arte di arrangiarsi.

Per capire il significato di una vera e propria apertura al mondo, e agli Stati Uniti, si deve rileggere Cesare Pavese, il traduttore di Melville e il cultore di una rinnovata etnologia e storia della religioni. Un uomo di sinistra. Che studiava senza paraocchi nazionalisti. Come del resto Vittorini, altro scrittore, dalle radici siciliane ma universaliste. Come Sciascia, Bufalino, Tomasi di Lampedusa. Altro che Buttafuoco, che invece ha fatto sempre l’elogio del provincialismo.

La destra, per dirla sempre in francese, non sa un cazzo della Gran Bretagna. E’ rimasta ferma alla Sagra di Giarabub: “Ma la fine dell’Inghilterra incomincia da Giarabub…”. Oppure al mito della “Perfida Albione”, mito, tra l’altro, secondo alcuni, di origine napoleonica. Guai però a dirlo ai fascisti prima e dopo Mussolini, fanatici di quel Made in Italy che ai loro tempi si chiamava Autarchia.

Ieri, prima che arrivasse il contrordine, un cretinetto di destra, con pretese intellettuali, pontificava, sul fatto che la sconfitta dei conservatori britannici è figlia del rifiuto di fare la destra. Come per dire, che imparino dalla Meloni.

Certo, trecento anni di parlamentarismo, quindi di fair play ( o quasi) tra maggioranza e opposizione, in religioso silenzio dinanzi a Giorgia Meloni, andata a ripetizioni da Gennaro Sangiuliano e pronta a tramutare  il Parlamento nell’ufficio bolli del catasto.

Carlo Gambescia