mercoledì 31 maggio 2006


Il libro della settimana. Guido Rossi, Il gioco delle regole, Adelphi, MIlano 2005, pp. 128, Euro 13,50.



http://www.adelphi.it/libro/9788845920141


Come molti ricorderanno, nelle Avventure di Pinocchio, il povero burattino, oltre a subire un furto, finisce pure in prigione. Infatti, il giudice della città di Acchiappa-citrulli, al quale si rivolge per avere giustizia, dopo averlo ascoltato con “molta benignità”, invece di ordinare l’arresto del Gatto e della Volpe, i due truffatori, lo spedisce in carcere. Perché, “fattosi derubare di quattro monete d’oro”. E subito “quattro can-mastini vestiti da gendarmi” lo accompagnano in cella. Ma Pinocchio, di lì a poco, grazie a una amnistia, tornerà in libertà.
Ma che c’entra Collodi? Anche il libro di Guido Rossi, Il gioco delle regole (Adelphi, Milano 2005, pp. 128, euro 13,50) che tratta dei rapporti tra il gioco (il mercato) e le sue regole (il diritto), descrive un mondo a rovescio. Il quadro tracciato è impietoso ma fondato, non per niente Rossi è professore di diritto commerciale alla Bocconi. Del resto la società da lui osservata, quello occidentale, così globale, veloce, caotica, stressata, appare in effetti sempre più sull’ orlo di una crisi di nervi. Una schizofrenia strisciante, che ricorda appunto la città di Acchiappa-citrulli. Dove la giustizia funziona al contrario e il gioco (del mercato) finisce per avere la meglio sulle regole (della legge). E dove le leggi sono troppe e non sempre si torna così in presto il libertà, come Pinocchio…
Di più. Stando al giurista la situazione è destinata a peggiorare: dal momento che più cresce la produzione legislativa, più diventa difficile gestirla. E soprattutto rischia di diventare sempre più complicato per il comune cittadino ottenere giustizia. “Il capitalismo finisce (…) per essere vittima di una alluvione legislativa che se da un lato tende ad affermare i principi di libertà (contrattuale, d’impresa, di mercato) dall’altro stritola quegli stessi principi attraverso la difesa burocratica delle asimmetrie, in un groviglio di regole che fanno prevalere la volontà del contraente più forte, o di quello che paradossalmente non rispetta alcuna regola” (p. 37).
Ma perché è così cresciuta la produzione legislativa? “Per sopperire alle inefficienze e alla crisi dei mercati” (p. 27), risponde asciutto Rossi. Aggiungendo che in questo modo però “l’economia non è più regolata dai giudici ma dai legislatori (p. 28). All’intervento ex post del giudice si è dunque sostituito quello ex ante della legge. Ma di quale tipo di legge?
E qui Rossi mette il dito sulla piaga. Il legislatore, e a suo avviso colpevolmente, avrebbe accettato quel luogo comune che attribuisce al mercato “una sorta di potenza magica in grado di comporre e risolvere qualunque problema economico” (p. 35) . E così il diritto, già di per sé rassegnato, a non poter mai raggiungere l’economia, si sarebbe addirittura posto al servizio della mano invisibile del mercato. In che modo? Suicidandosi… o quasi. Cioè favorendo il contrattualismo, un diritto pattizio che ha valore solo tra le parti, e non forza di legge per tutti, come il vero diritto, quello delle norme statali. Di conseguenza, per Rossi, la privatizzazione del diritto, di cui tanto si parla oggi, non significa, minore regolamentazione. Ma forte crescita di una produzione legislativa di natura privatistica: che favorisce strutture arbitrali, patrizie, societarie e attiva una normazione specifica per lobby economiche e gruppi di pressione di vario genere Questa “riduzione dell’intero corpo sociale a una folla di contraenti, e dello Stato a grande mediatore fra interessi contrattuali diversi, comporta un sostanziale svuotamento delle legge” (pp. 26-27): l’ obbligo collettivo viene sostituito da vincoli validi solo per le parti. Il che favorisce la nascita di quel “conflitto epidemico” e utilitaristico, tra amministratori, azionisti, eccetera, che si propaga poi a tutti i settori della società.
E questa, appena riassunta, è la parte più interessante del libro. Meno solida invece quella costruttiva. Ma partiamo dall’esposizione delle sue tesi.
In primo luogo, Rossi dichiara di respingere qualsiasi via d’uscita ispirata a codici etici o morali. Appellandosi, appunto da buon giurista, al fatto che “il richiamo del legislatore alla morale, o all’etica va (…) sempre guardato con sospetto”, dal momento che “spesso equivale a un’ammissione di fallimento: generalmente, infatti la morale viene chiamata in causa dove , e quando, il diritto fallisce” (p. 43).
Da ciò discende, in secondo luogo, che le due sfere devono rimanere separate, e che ai problemi giuridici, come quello della privatizzazione-proliferazione di norme particolaristiche, si deve rispondere giuridicamente. Come? Riprendendo e sviluppando la teoria pluralistica del diritto di Santi Romano. Infatti Rossi auspica di assecondare, indirizzandoli, quegli “ordinamenti paralleli o addirittura alternativi allo Stato-nazione” (p.83): sola e vera manifestazione di un pluralismo tra istituzioni nazionali e internazionali, in reciproca e pacifica relazione di subordinazione e supremazia. Un pluralismo capace però di incardinare imprese ed economie, grazie alla graduale istituzione di norme, giurisdizioni e sanzioni nazionali e internazionali. E Rossi cita come esempio la bisecolare vicenda dei diritti dell’uomo. In particolare focalizza l’ attenzione sulla Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo (1950). Che, a suo avviso, richiamandosi espressamente alla Dichiarazione universale del 1948, e pur essendo “di carattere generale, priva di forza coercitiva”, si è in realtà trasformata nei fatti in elemento propulsivo. Perché grazie a quel “testo i cittadini europei, attraverso i loro governi, hanno deciso che alcuni diritti si debbano considerare inviolabili” (p. 102). Dopo di che le corti dei singoli stati hanno iniziato a decidere in materia, favorendo così anche lo sviluppo di istituzioni come la Corte europea dei diritti dell’uomo. Un processo che “può davvero essere l’inizio di un’utopia antica, quella dello ius cosmopoliticum vagheggiato da Kant. E di quello ius i diritti umani potrebbero essere, molto semplicemente la pietra miliare” (p.106). Fin qui Rossi.
E ora tre problemi, che non possono essere ignorati.
Il primo è che i “diritti dell’uomo”, fino a prova contraria, fanno riferimento a un “codice etico”, certo, di tipo illuministico, moderno, progressivo e connesso allo stato diritto e alla democrazia. Tutto quel che si vuole… Ma che, comunque sia, resta sempre un riferimento morale. Si tratta perciò di un elemento extragiuridico che finisce per infirmare le tesi di Rossi, fondate appunto sulla necessaria e totale separazione tra etica e diritto.
Il secondo è che come insegna la triste sorte dei giacobini partenopei, immortalati da Vincenzo Cuoco, sarebbe sempre meglio non confidare troppo nella naturale bontà dell’uomo e delle carte costituzionali. Anche se è sgradevole riconoscerlo, spesso la forza, specie se associata a un eroico senso di giustizia, gioca un ruolo extragiuridico non secondario. Ad esempio la dichiarazione dei diritti dell’uomo, oggi patrimonio prezioso di tutti i popoli, è tale, solo perché coraggiosamente difesa con una guerra mondiale vittoriosa. Pertanto anche la pacifica evoluzione del diritto cosmopolitico kantiano (segnato comunque da controlli e sanzioni…), auspicata da Rossi, potrebbe purtroppo non essere indolore.
Il terzo problema è che non è chiaro chi debba assumere la guida del processo di reintegrazione dell’economia di mercato (il gioco) nell’alveo della legge (le regole). I politici? I giudici? I giuristi? Si ha l’impressione che Rossi, probabilmente perché giurista, punti a sostituire agli automatismi del mercato quelli del diritto, o comunque dia per scontata nei tempi lunghi la vittoria del diritto: al mercato inanimato e imperfetto, sembra perciò opporre un diritto “vivente” e perfetto (o comunque “più perfetto” del mercato). Che si imporrebbe attraverso la pacifica discussione e il convincimento personale: per socializzazione… Il diritto, invece del mercato, come macchina delle meraviglie, capace di mettere tutti d’accordo, come per incanto. Basta saper aspettare.
Sarebbe bello ma purtroppo la realtà storica insegna che non è così.
In conclusione, un libro interessante, che spiega, e con grande chiarezza, perché talvolta tutti ci sentiamo come tanti Pinocchi nella città di Acchiappa-citrulli. Mentre è meno convincente sul piano propositivo.
Il che è un vero peccato.
Carlo Gambescia

martedì 30 maggio 2006



Trittico su un  pensiero che si crede  liberale...
 Handke, Battista, Lévy  




Che cosa significa disinformare? Vuol dire fornire informazioni inesatte, scarse o carenti su una particolare situazione. Oppure per giustificare una certa tesi. Se "non informare" significa nascondere tutte le informazioni su un certo evento, allora "disinformare", vuol dire fornirle ma in maniera inesatta e poco attendibile. Come dire, "accentarle" in un certo modo...
Dietro la disinformazione, che funziona come una specie di filtro, c'è sempre un movente ideologico-utilitaristico: si disinforma per difendere determinate ideologie e interessi. I "disinformatori", nelle democrazie occidentali, in genere sono giornalisti o comunque operatori mediatici. Non tutti i giornalisti e gli operatori fortunatamente....
La disinformazione di regola gioca un ruolo fondamentale durante le guerre, e nel corso di qualsiasi forma di conflitto (sociale, economico, culturale): in teoria dovrebbe vincere sempre la verità ma in realtà non sempre è così.
Attualmente l' Occidente euro-americano è in "guerra" con tutto quello che non è occidentale : la definizione è piuttosto ampia, ma rende bene l'idea di conflitto.
In questo contesto la "disinformazione" ha assunto il ruolo di una vera e propria strategia politico-culturale. I maggiori giornali euro-americani esercitano quotidianamente una pressione fortissima sulla pubblica opinione, anche se apparentemente indiretta e non sempre chiaramente visibile.
In Italia, il "Corriere della Sera" è in prima linea. Ecco un piccolo ma significativo esempio.
Ieri l'altro, domenica 28 maggio, nelle sue pagine culturali è uscito un verbosissimo articolo di Bernard-Henri Lévy (nella foto a destra) sul caso Handke (censurato dalla Comédie-Française per il suo appoggio a Milosevic), dove si dice "non si doveva mettere in programma Handke (nella foto a sinistra), ecco la verità (...). Ma una volta fatto l'errore e messo nel programma della casa di Molìere l'incensatore del fascismo serbo, non si doveva correre il rischio di un annullamento, che (...) equivale a una censura". Il che il significa che il "libertario" Lévy, non è in linea di principio contrario alla censura: ne fa solo problema di opportunità. In poche parole, censurare Handke è stato un errore solo perché lo si doveva censurare prima...
Ieri, lunedì 29 maggio, Pierluigi Battista (nella foto al centro), nella sua rubrica "Particelle Elementari", ha subito rilanciato, indicando Levy come esempio encomiabile di intellettuale liberale che difende il diritto dell'avversario di parlare. Scrive Battista: "La rarità della posizione di Bernard-Henri Lévy si segnala perché non accade quasi mai che i principi sbandierati per la propria parte vengano agitati per difendere un nemico e per tutelare il suo diritto alla parola". Come per dire: sono cose che possono accadere solo nel libero Occidente... Quanto siamo fortunati...
In realtà l'articolo di Battista è un ottimo esempio di disinformazione: si presenta, riferendone parzialmente le tesi (in questo caso il contenuto di un articolo), come liberale "integrale", un intellettuale, Bernard-Henri Lévy, che è soprattutto uno strenuo occidentalista. E che, come si è visto, è favorevole, o comunque non contrario, alla censura preventiva. Veramente un bel liberale...
Tecnicamente, dal punto di vista logico-argomentativo, Battista, incorre in una fallacia di ambiguità, detta di accento, tipica del giornalismo disinformativo: che si ha quando le tesi di altri sono riferite, a supporto delle proprie, senza contenere quelle esplicite precisazioni, a causa delle quali (guarda caso) le tesi riportate, assumerebbero un significato completamente diverso.
Insomma, si pone l' accento su quel che fa più comodo.
Ecco, questa, è disinformazione.
Carlo Gambescia 

lunedì 29 maggio 2006



Quando una catastrofe naturale colpisce un paese povero
Terremoti: Istruzioni per l'uso


Nel 1755 un terremoto distrusse Lisbona, città ricca e splendida, provocando circa quindicimila morti. La sciagura, all’epoca di proporzioni enormi, innescò un dibattito a distanza tra le maggiori figure intellettuali del periodo, che durò a lungo. A un Leibniz, che molti anni prima della tragedia aveva definito la presenza del male nel mondo come funzionale a un disegno divino, rivolto al bene dell’uomo, si opposero Voltaire, Rousseau e in seguito Kant. Tutti d’accordo nel respingere l’idea di qualsiasi interferenza divina. E soprattutto pienamente convinti, pur con accenti diversi, della natura umana o comunque terrena del terremoto.
Nel dicembre 2004 - meno di due anni fa... - un maremoto di proporzioni gigantesche ha sconvolto il Sud-Est asiatico, provocando centinaia di migliaia di morti. Ora, pochi giorni fa se ne è abbattuto un altro su Giava, di dimensioni più ridotte, ma che comunque ha provocato migliaia di morti.
E' presto, e probabilmente per il momento fuori luogo (prima vengono i soccorsi...), parlare di giustizia divina o meno. Mentre sui media, come al solito, si è iniziato a parlare, e a sproposito, delle responsabilità umane. Generalizzando e senza fare inutili citazioni, ricordiamo le tre principali posizioni che di solito emergono quando un paese povero viene colpito da un terremoto : la tecnocratica, la razzista e quella no global o terzomondista. E' un'utile griglia per capire.
I tecnocrati, se la prendono con l’arretratezza di quei paesi: l’assenza di sistemi di segnalazione moltiplicherebbe ogni volta i danni a cose e persone; l’assenza di una burocrazia efficiente appesantirebbe invece l’opera dei soccorsi; la corruzione e l’autoritarismo impedirebbero la diffusione di informazioni e notizie, soprattutto sulla sorte - ecco di che cosa si preoccupa l'Occidente - dei numerosi turisti europei, americani. australiani, eccetera.
I razzisti, se la prendono invece con gli asiatici in quanto tali: il proverbiale fatalismo asiatico impedirebbe la costruzione di edifici a prova di sisma. Nel dicembre del 2004, dopo il maremoto che aveva sconvolto il Sud- Est Asiatico, alcuni scrissero che il "vivere alla giornata", tipico dell'asiatico, aveva condotto quelle popolazioni a dormire ( e morire) sulle spiagge... E che inoltre, solo la "totale mancanza di senso morale", poteva aver spinto gli esercenti locali a riaprire locali notturni, ristoranti e bar nei giorni successivi al maremoto, nonostante “l’odore di morte che si diffondeva nell’aria”.
I no global, chiamiamoli così per brevità, se la prendono con l’Occidente. Che continua a sfruttare i popoli asiatici e le risorse naturali del pianeta. Di qui il turismo sfrenato e indecoroso agli occhi di chi si nutre di un pugno di riso. Le capanne sulla spiaggia, la prostituzione, l’assenza di una classe politica indipendente, di scienziati e tecnici locali, capaci di studiare i terremoti, capirli, o comunque prevenirli.
Da quale parte è la ragione? I tecnocrati sognano un mondo, razionale e organizzato, che non esiste neanche in Occidente. I razzisti, hanno bisogno di capri espiatori. E inoltre di solito si occupano di terremoti in Asia, solo quando quelle le "splendide" spiagge asiatiche sono piene di turisti occidentali. I no global, qualche ragione l’avrebbero... Ma va alzato il il tiro: va messa in discussione, l' “economia della dipendenza” e la divisione capitalistica dei fattori produttivi su scala mondiale. Ma come? Su quali basi teoriche, economiche e politiche? E con quali alleati?
Insomma, per riprendere il titolo di un bellissimo libro di Conrad, Sotto gli occhi dell’Occidente, ambientato tra gli esuli russi prima della Rivoluzione, l’Occidente continua a rincorrere il mito del progresso e non capire quel che accade sotto i suoi occhi. Discute, per certi aspetti oziosamente, di come prevenire i terremoti (o magari di “abolirli”), di risorse, di corruzione, e pur guardando non vede, almeno due cose fondamentali: primo, la dignità che gli asiatici di solito mostrano quando si trovano in circostanze così avverse, un dato che dovrebbe far riflettere quell’Occidente che spesso sa solo singhiozzare sulle colpe dell’uomo bianco; secondo, la nostra costitutiva fragilità, perché in qualsiasi momento potremmo essere “spazzati via” da una catastrofe naturale o altro… Una precarietà, che spingeva Leibniz a dire, che proprio per quegli attimi di autentica felicità che l'esistenza , sempre legata a un filo, talvolta concede, la vita merita di essere vissuta.
Certo. Ma aiutando chi è "meno felice" di noi. E senza lederne la dignità. Questo è il vero problema.

Carlo Gambescia

venerdì 26 maggio 2006


Prodi e la "c
oncertazione"
Il ritorno della parolina magica




Sembra quasi un rito propiziatorio. Sembra...
Infatti, Prodi ieri, davanti ai vertici confindustriali ha pronunciato di nuovo la parolina magica: concertazione. Per il momento nessuno sembra aver raccolto... Ma nei prossimi giorni, come si dice, si aprirà il dibattito.
E' bene perciò fare subito chiarezza: la concertazione è uno strumento tipico delle socialdemocrazie europee, volto non soltanto a gestire i rapporti tra sindacato e associazioni dei datori di lavoro, ma anche funzionalmente capace di organizzare una rete istituzionale di rapporti stabili. Di che genere? Di regola si tratta di istituzioni con personalità giuridica pubblica, preposte a facilitare il confronto e la soluzione dei problemi di politica industriale, economica e sociale, sulla base di dati economici che vengono forniti da organismi istituzionali, al di sopra delle parti (in Italia il CNEL avrebbe potuto svolgere un ruolo del genere, ma tutte le parti sociali si sono sempre ben guardate dal valorizzarlo... ma questa è un'altra storia). Si tratta di istituto pattizio, e di vera e propria programmazione economica, che ha avuto massimo sviluppo nei paesi del Nord Europa e in Germania durante il cosiddetto "glorioso trentennio ( 1945-1975). E', insomma, uno strumento istituzionale che fa parte di quel più ampio fenomeno storico e istituzionale denominato "corporativismo democratico" (per distinguerlo dal "corporativismo" autoritario fascista). Che designa una società capace di autogovernarsi democraticamente, attraverso un sistema di do ut des tra le sue principali istituzioni economiche. E con il governo che gioca il ruolo di garante del bene comune, e in particolare di quelle fasce professionale e sociali che non sono rappresentate o pseudo-rappresentate al tavolo della concertazione.
Ora due riflessioni.
In primo luogo, l'Italia non ha mai conosciuto la concertazione nella sua forma classica . Se si è parlato di concertazione lo si è sempre fatto solo in riferimento alla "politica dei redditi" ( come ad esempio per gli accordi del 1992-1993): soltanto per tenere basso il costo del lavoro. Perciò ecco un primo aspetto sul quale riflettere. Quando Prodi parla di concertazione si riferisce essenzialmente alla politica dei redditi. E sotto questo aspetto il sindacato dovrebbe iniziare a preoccuparsi.
In secondo luogo, la concertazione, quella vera, richiede alcune condizioni base:
a) un tasso di sviluppo piuttosto elevato (sicuramente superiore 4-5 per cento, e noi siamo realisticamente sotto l'1 per cento), perché ci sia appunto un prodotto sociale da redistribuire e reinvestire (insomma, qualcosa per iniziare a discutere, non si può "concertare" la miseria...) ; b) nessun vincolo esterno di bilancio (come invece avviene attualmente: si pensi ad esempio al ruolo di controllo esercitato dalla Bce dal Fmi, e dalle agenzie di rating ) c) ampie possibilità di praticare una politica di svalutazioni competitive della moneta nazionale, per favorire l'esportazione (altra condizione, vedi punto precedente, oggi, irrealizzabile); d) alto senso di responsabilità e del bene comune, da parte delle organizzazioni dei datori di lavoro e del sindacato ( frutto di solide tradizioni capitalistiche e socialdemocratiche, di cui l'Italia è totalmente priva); e) autorevolezza e indipendenza del governo in carica ( fattore legato alla presenza delle tradizioni socialdemocratiche di cui sopra, e all'effettivo esercizio della sovranità nazionale) ; f) autorevolezza delle istituzioni preposte alla elaborazione e diffusione dei "fondamentali" economici: quei dati statistici che dovrebbero costituire la comune e naturale "piattaforma" di discussione ( mentre, come è noto, l' Istat, la Banca d'Italia, i centri preposti della Confindustria e dei sindacati forniscono, il più delle volte, dati contrastanti. Spesso non c'è accordo neppure sui tassi di inflazione e disoccupazione...).
Se questi sono i termini della questione. Che, tra l'altro, il professor Prodi, già docente di economia industriale, dovrebbe ben conoscere, allora perché parlare di concertazione? Solo per ragioni magico-propiziatorie? E per propiziarsi chi? I vertici dei sindacati? I vertici di Confindustria? Oppure Prodi, tenta solo di nascondere dietro la parolina magica concertazione, e piuttosto goffamente, una politica dei redditi a danno dei soli lavoratori?

Carlo Gambescia

giovedì 25 maggio 2006

Profili/27
Pitirim A. Sorokin




La biografia di Pitirim  Aleksandrovič  Sorokin (1889-1968) sociologo russo-americano, meriterebbe una fiction televisiva. Infatti, oltre a rappresentare uno straordinario caso di mobilità professionale, Sorokin ha per tutta la sua vita suscitato intorno a sé un groviglio leggendario di polemiche e passioni politiche, teoriche, metodologiche... Probabilmente perché la sua opera costituiva, e costiuisce ancora oggi, il primo e insuperato tentativo di costruire una sociologia "totale", capace di coniugare approcci differenti se non opposti -  filosofia della storia , teoria della cultura, metodi statistici -   e al tempo stesso  attirare le critiche dei cosiddetti specialisti.
Sorokin nasce nella Russia Settentrionale (1889), nella regione Komi del Vologda. Orfano di madre, figlio di un doratore itinerante di icone, subito si distingue per la sua intelligenza. Compie i primi studi presso un istituto religioso ( 1903), che abbandona per dedicarsi alla politica come militante socialrivoluzionario (1905-1906). Ma viene arrestato. Uscito di prigione, si reca a Pietroburgo per riprendere gli studi (1907). Nel frattempo svolge i mestieri più diversi. Si iscrive alla Facoltà di Legge (1910), ma non abbandona la sua attività politica, e viene di nuovo arrestato altre due volte. Rimesso in libertà, si laurea (1914). La rivoluzione lo trova schierato sempre dalla parte socialrivoluzionari. Viene imprigionato più volte dai comunisti, rischia la fucilazione, per le sue "attività sovversive", all'interno dell'Università di Pietroburgo, dove insegna e ricopre l'incarico di preside dell'istituendo dipartimento di sociologia. Nel 1922 viene espulso e nel 1923 approda negli Sati Uniti. Insegna sociologia all'Università del Minnesota (1924-1930), per poi passare all'Università di Harvard (1930), dove gli viene affidato l'incarico di organizzare il Dipartimento di Sociologia. E dove resterà sino alla fine della carriera accademica (1959). Nel 1949 fonda l'Harvard Research Center in Creative Altruism. Nel 1963 viene nominato, e con grande ritardo, presidente dell'Associazione Americana di Sociologia (ASA). Muore di cancro nel 1968.
La fama di Sorokin, autore di una trentina di libri in russo e americano, è soprattutto legata a Social and Cultural Dynamics (1937-1941, 4 volumi, circa tremilacinquecento pagine, trad. it. dell'edizione ridotta, Utet, Torino 1975 - www.utet.it). Un libro che rappresenta la più sistematica critica all'idea di progresso, mai tentata, nell' intera storia della sociologia. Sorokin ricostruisce la storia della cultura occidentale, sulla base di alcune personalissime tipologie di mentalità socioculturale, come periodico alternarsi di ideazionalismo (il pensiero religioso), sensismo (il pensiero materialistico) e idealismo (una sintesi delle forme precedenti). In buona sostanza, per Sorokin, il pensiero umano fluttua tra la celebrazione dello spirito e il culto della materia. Nella storia, malgrado le apparenze, non è dato progresso, ma solo fluttuazione di forme di pensiero (e dunque di società storiche, che ne riverberano "istituzionalmente" le idee) caratterizzate dalla "propensione" verso i beni ultraterreni o terreni. Come nel caso del XX secolo, epoca sensista per eccellenza, e soprattutto, secondo Sorokin, sull'orlo del precipizio storico.
Le sue tesi corroborate da una massa spaventosa di dati statistici, gli provocarono attacchi da tutte le parti, da sinistra come da destra. Il suoi studi sull'altruismo, da lui visto come forza sociologica positiva, e dunque in grado di aiutare il trapasso - per Sorokin più che certo - dalla società sensistica del XX secolo a quella altruistica e idealistica dei secoli successivi, furono ridicolizzati... E negli anni Cinquanta il suo ostentato pacifismo, attirò l'interesse della Polizia Federale (FBI).
Dopo essere stato perseguitato in Russia, Sorokin, rischiò perciò di essere perseguitato in America. Le indagini federali tuttavia non ebbero seguito, perché, tra l'altro, Sorokin era anche inviso ai pochi comunisti americani. Ma negli anni Quaranta e Cinquanta fu comunque emarginato dalla comunità sociologica americana, che aveva scelto Parsons come proprio mentore.
Troppo lungo sarebbe qui ricordare tutte le sue pubblicazioni. Si consiglia perciò la lettura di Pitirim A. Sorokin, La crisi del nostro tempo (1941), Arianna Editrice, Casalecchio (BO) 2000, pp. 288 - arianed@tin.it - commerciale@macroedizioni.it, un testo dove il grande sociologo, in meno di trecento pagine, riassume mirabilmente il suo pensiero e le sue previsioni. E dove è possibile trovare, nell'ampia introduzione del curatore, le necessarie indicazioni biobibliografiche.


Carlo Gambescia

mercoledì 24 maggio 2006


Il libro della settimana: Giovanni Damiano, L'espansionismo americano. Un destino manifesto?, Edizioni di Ar, padova 2006, pp. 146, Euro 16,00.


http://www.edizionidiar.it/damiano-giovanni/espansionismo-americano-un-destino-manifesto.


In un'antologia pubblicata circa trent'anni fa I profeti dell'impero americano. Dal periodo coloniale ai nostri giorni (Einaudi, Torino 1975, che tra l'altro ospitava un testo di Francis Parker Yockey, un pensatore "maledetto", secondo gli stessi americani), Piero Bairati, il brillante curatore, ricostruì in modo chiaro ma probabilmente anche didascalico , la costituzione ideologica e l'espansione storica dell'imperialismo americano.
Tuttavia il libro di Bairati, colmava all'epoca un vuoto (e una fame) di obiettività: per la prima volta si iniziava a ragionare "scientificamente", di imperialismo americano, e sulla base di testi e documenti, ancora oggi preziosi, soprattutto per "illuminare chi ancora creda che i neoconservatori Usa , siano sbucati da Marte...
In questo senso il libro, appena uscito, di Giovanni Damiano, L'espansionismo americano. Un destino Manifesto? (Edizioni di Ar, Padova 2005 - www.libreriaar.it ), ha tutte le caratteristiche per poter svolgere lo stesso ruolo chiarificatore del testo di Bairati. Soprattutto se si pensa alla marea di pubblicazioni e traduzioni sugli Stati Uniti, che affollano gli scaffali delle librerie, pur non avendo nulla di scientifico o di meritorio.
Si tratta di un testo sintetico, chiaro, ricco bibliograficamente, onesto e obiettivo. Che ricostruisce non solo sul piano storico ma anche su quello ideologico-politico lo sviluppo dell'espansionismo americano. L'autore - a differenza di Bairati - preferisce parlare di espansionismo invece che di "imperialismo (termine che a ragione ritiene " prettamente polemico"). E, inoltre, rifiuta assolutamente di scorgere dietro di esso un disegno o "piano storico" aprioristico. O peggio ancora, occulti e diabolici poteri.
Ma lasciamo la parola a Damiano.
"Credo - scrive - si possano definire gli Stati Uniti come una nazione ideocratica 'aiutata', nel suo 'tracciato' espansionista da una costellazione iniziale di favorevoli circostanze geostoriche, quali l'immenso spazio a disposizione; l'isolamento geografico; l'assenza di potenti vicini; una forte immigrazione; la conflittualità europea, specie nei primi decenni dopo l'indipendenza; il predominio inglese sui mari. A ciò va aggiunta la circostanza storica probabilmente più importante, ossia la 'deriva suicidaria dell'Europa', a partire dalla prima guerra mondiale" (p. 15).
L' altro aspetto interessante è che Damiano riprende da Costanzo Preve il termine "ideocrazia" (si veda L'ideocrazia imperiale americana, Edizioni Settimo Sigillo, Roma 2004 - www.libreriaeuropa.it). Che tuttavia non segue sino in fondo. A suo parere gli americani avrebbero invece "costruito la loro identità nazionale alla luce di un senso, via via più forte e radicato, di superiorità verso l'Europa (...). Che sin dall'inizio ha assunto nella 'narrazione' puritana i toni della contrapposizione: [del]la 'nuova Canaan' [che] si opponeva al 'nuovo Egitto' " (p. 11).
Quel che traspare dalle pagine dell'ottimo libro di Giovanni Damiano, è certo malinconico trasporto, che nasce probabilmente da una lucida consapevolezza del vuoto politico europeo. Vuoto, che ha permesso agli Stati Uniti dopo il 1945, di dettare le sue condizioni al mondo "libero", e dopo il 1989, di iniziare a imporle a tutti, proprio a tutti... Si tratta in fondo di una condizione di consapevolezza, certo dura, se non tragica, che l'autore riesce a trasmettere, al lettore, pagina dopo pagina. E che il lettore, a sua volta non può non avvertire, quasi fisicamente, una volta letto e chiuso L'espansionismo americano.
Da questa angolazione, il libro di Giovanni Damiano, al di là della sua sobrietà scientifica, va letto anche come testimonianza d'amore verso un'Europa che non c'è più... Una donna bellissima, un tempo amata, e all'improvviso sparita nel nulla... 

Carlo Gambescia

martedì 23 maggio 2006


E' ora che qualcuno lo spieghi a Giuliano Ferrara
La guerra è una cosa seria




La guerra è una questione seria. E Giuliano Ferrara sembra non averlo compreso.
Va fatta però una premessa, probabilmente lunga, ma necessaria.
Esiste un'ideologia della guerra, come esiste un'ideologia della pace. Dopo di che resta una realtà storica e sociale, in continuo movimento, in cui si mescolano al tempo stesso guerra e pace. Purtroppo, conflitto e cooperazione sono due forme di rapporto sociale, che hanno natura "scalare" e "bipolare" : si può passare dall' una all'altra rapidamente. Come pure, all'interno di ognuna di esse, esistono vari gradi di complessità e gravità. La guerra è l'esito finale del conflitto come processo sociale, così come la pace è il punto di arrivo della cooperazione. Tra la pace e la guerra esistono forme intermedie di conflitto come di cooperazione: ad esempio la guerra implica la cooperazione all'interno delle due parti combattenti, così come la pace implica forme di guerra economica ( lotte di mercato) politica (lotta partitica), sociale (lotta di classe), eccetera.
Il ruolo della politica è quello di ridurre i conflitti (in genere) attraverso la decisione, ma non certo di "cancellarli" completamente e per sempre. Il che, oltre a essere impossibile, come si è visto, implicherebbe l'uso scalare (e praticamente infinito) di "conflitti per eliminare i conflitti". Ad esempio un ipotetico governo mondiale, si limiterebbe a trasformare le guerre in operazioni di polizia, così come la forma-stato moderno, ha in precedenza trasformato le "guerre civili interne" (si pensi alla figura del "ribelle-brigante", e alle stesse origini storiche della mafia, in Italia), in operazioni di polizia a tutela dell'ordine pubblico.
Ora, non credere in un mondo paradisiaco, completamente pacificato, non significa però sposare l'ideologia della guerra, come invece fa Giuliano Ferrara.
In un articolo apparso ieri sul "Foglio" (22-5), l' Elefantino ha di nuovo invocato la guerra totale contro l'Islam partendo da una affermazione, come al solito capziosa, o comunque, vera a metà: "La guerra è la peggiore delle soluzioni ad eccezione dell'appeasement che ne produce una ancora più grande e fatale (...). Se dunque fai la guerra cerca di vincerla".
E' come dire che la pace (o qualsiasi tentativo ragionevole di salvarla) porti regolarmente alla guerra. Certo, che le guerre si devono vincere. Ma solo dopo che si sia eventualmente cercato di evitarle. E nel caso degli Stati Uniti è accaduto esattamente il contrario: non si è fatto nulla per evitare l'invasione dell' Afghanistan e dell'Iraq. Sotto questo aspetto è esemplare l'attuale atteggiamento di sfida nei riguardi dell'Iran.
Se l' "Occidente" ha un punto di vantaggio, se così si può dire, nei riguardi delle altre culture, è di aver elaborato una scienza sociale oggettiva della società. Scienza che consente di capire, e per quanto possibile, prevedere le dinamiche sociali. La guerra, per quanto ineliminabile, è assolutamente distruttiva, e dunque deve essere sempre fatto tutto il possibile per evitarla. E le scienze sociali offrono gli strumenti analitici e predittivi per far sì che si possa ridurre il ricorso al guerra.

E tutto quel che esula, dall'analisi oggettiva, è ideologia. E nel caso di Ferrara, ideologia della guerra. 

Carlo Gambescia

lunedì 22 maggio 2006


Libertà sessuale, un approccio ciclico
L'impossibilità di essere normale 




Nel 1895 Oscar Wilde, oltre a venire perseguito per la sua omosessualità, dovette essere protetto da una folla inferocita. Oggi nell'anno di grazia 2006, si celebra regolarmente nelle principali città dell'Occidente (come è giusto che sia in una società tollerante) il "Gay Pride", senza che nessuno si scandalizzi più di tanto. Ma il discorso può essere esteso anche ai rapporti eterosessuali, oggi molto più liberi e "fluttuanti": ci si incontra, ci si piace,"si fa sesso", come dicono gli americani, e poi ci si separa, senza tanti drammi.
Tuttavia, nonostante la libertà sessuale, oggi la qualità della vita interiore, non è migliore di quella di un secolo fa... Le nevrosi dilagano, il senso di insicurezza individuale pure, le paure sono rimaste quelle di sempre (di perdere il lavoro, di diventare poveri, di morire...): uomini e donne continuano a non essere felici... Almeno così dicono sondaggi e analisi sociali più approfondite.
Perché? Come mai una maggiore libertà sessuale, presentata e da molti vissuta come liberazione da ogni senso di colpa, non ha condotto a un migliore equilibrio interiore? Si possono dare due risposte (diciamo tentativi di risposta...), di tipo storico e sociologico.
Sul piano storico la sessualità in Occidente ha osservato un andamento ciclico: la nostra non è l'epoca per eccellenza, come dire, del "sesso matto" o sfrenato: Lawrence Stone, uno storico inglese che ha studiato questi problemi, ha rilevato un'alternanza di fasi "repressive": ascesa del cristianesimo (secoli III-VI); nascita della città borghese (secolo XIII): riforma e controriforma (secolo XVI): consolidamento delle borghesia puritana (secolo XIX); e di fasi "permissive": il mondo greco-romano antecedente al cristianesimo; il rilassamento morale tardo medievale (secolo XI-XII); la prima modernità, già libertina, almeno in alcune sue élite (secoli XVII-XVIII); la seconda metà del Novecento che ha identificato la libertà sessuale col progresso e la civiltà.
Quel che emerge dalle indagini di Stone è che la "sessualità normale" non è mai esistita. La realtà storica è sempre stata caratterizzata da eccessi nell'uno e o nell'altro senso: o troppo o troppo poco. Di conseguenza l'equilibrio interiore dell'uomo, ma questa è una nostra considerazione, non può che risentirne ogni volta.
Sul piano sociologico invece si può parlare di regolazione sociale del "residuo sessuale": termine introdotto da Pareto. Ogni società, o gruppo sociale, ha sempre regolato questo residuo ("il semplice appetito sessuale") in chiave permissiva o repressiva, "imprimendo" su quella che è un'attività fisiologica, i più diversi valori. In questo senso è "normale" quel che rispecchia i valori e i comportamenti dominanti. Il dato costante però è quello della regolazione sociale: si va dalla pena di morte per il peccato di sodomia alla legalizzazione dei matrimoni omosessuali; dalla lapidazione dell'adultera alla separazione consensuale tra coniugi: quel che non muta mai - il dato profondo, costante - è il fattore del controllo sociale, che proprio perché è imposto dall'esterno (dal gruppo sull'individuo, e di qui la sua "artificialità"), non può risolvere mai completamente le tensioni interiori dell'uomo: ci si accontenta della sua adesione formale ai valori dominanti, e non importa se libertini o ascetici.
Riassumendo: non esiste una sessualità "normale", ma un conflitto tra differenti visioni della sessualità, che le società cercano di normalizzare di volta in volta, secondo i valori dominanti, in chiave permissiva o restrittiva. Ovviamente, come per tutti i processi sociali, c'è un punto limite. Quando si passa dal "troppo" al "troppo poco", o viceversa, l'individuo entra in crisi e inizia a desiderare una forma di sessualità opposta a quella dominante. Il problema perciò non è nella maggiore o minore libertà sessuale goduta, ma nel grado di saturazione raggiunto da una delle due forme. Un "livello" o "grado" che poi si ripercuote sull'equilibrio spirituale dell'uomo.
Oggi pare che abbiano la meglio i sostenitori della libertà sessuale. In realtà, e contrariamente a quel che alcuni osservatori sociali superficialmente sostengono, stiamo invece entrando in una fase di saturazione, dal momento che nonostante nessuno si scandalizzi più per "certe cose" (per usare un'espressione "vittoriana"), persiste una diffusa condizione di infelicità. Già si scorgono - a saperli vedere - alcuni segni cambiamento: il risveglio della morale sessuale puritana negli Stati Uniti e la riscoperta del valore della castità, da parte di molti giovani europei di fede cristiana. Si tratta di una constatazione e non di un giudizio...
Pertanto, può piacere o meno, ma nel volgere di una generazione, potremmo passare dal sesso matto al sesso morigerato. E così via, fino a quando, la ruota della saturazione sociale non inizierà un altro giro...

Carlo Gambescia


venerdì 19 maggio 2006


Gli Usa e il  mercato legale degli organi 
Quanto vale un uomo? 




In Italia qualcuno si è mostrato spiacevolmente sorpreso. Ma perché meravigliarsi se sul "New York Time" e il Wall Street Journal" ("Corriere della Sera", 16-5-2006) si discute, e senza mezzi termini, sulla necessità di aprire un mercato legale degli organi umani?
In primo luogo, sembra che la proposta sia stata avanzata, già qualche tempo fa, da Gary Becker, che non è un economista qualsiasi ( e non solo per il Nobel Economia che può vantare), dal momento che è il principale sostenitore dell'estensione dei concetti economici all'analisi della società: un fautore dell'economicismo allo stato puro. Famosissimo il suo A Treatise on the Family (Harvard University Press, Cambridge 1981), dove applica i postulati del presupposto massimizzante, dell'equilibrio di mercato e della stabilità delle preferenze allo studio della famiglia. In buona sostanza mogli, figli e vita familiare sono studiati come forme di investimento economico. Secondo Becker, la famiglia, per ogni suo membro, deve essere esclusiva fonte di utilità (e profitti economici): una bella casa, un'ottima istruzione per i figli, eccetera.) . E si tratta di un approccio piuttosto diffuso nelle scienze sociali statunitensi (si veda Richard Swedberg, Economia e sociologia. Conversazioni con Becker, Coleman, Akerlof, White (e altri), Donzelli Editore, Roma 1994).
In secondo luogo, l'economicismo rinvia al pragmatismo materialistico americano. Una concezione, che non è prerogativa di quel popolo, ma che negli Stati Uniti è assurta a comportamento di massa (come già notò Tocqueville, nella Democrazia in America) . Se noi europei, di ogni livello sociale e culturale, ci appassioniamo all'idea di verità (se una tesi sia vera o falsa: dalla discussione sportiva a quella filosofica), l'americano è invece affascinato esclusivamente dalla sua utilità: una scelta non è buona perché riflette un criterio di verità ma perché è utile. E lo è ancora di più, se i suoi risultati possono essere quantificati. Ad esempio, un professore è bravo, e quindi le sue idee sono vere, giuste, buone, eccetera, se è pagato più degli altri colleghi; un uomo d'affari è altrettanto bravo, se realizza profitti elevati. E così via.
In terzo luogo, materialismo pragmatistico ed economicismo hanno dato vita a una forma di capitalismo per "uomini duri", molto aggressivo, molto competitivo, molto americano (sorvolando per ragioni di spazio sulla ricostruzione delle sue origini storiche e culturali)... Dove chi è in fondo alla scala sociale viene considerato colpevole della sua condizione: è lì perché se lo è meritato. Dal momento che il mercato capitalistico viene ritenuto come l'unico meccanismo in grado di giudicare l'operato tout court delle persone. Il mercato "quantifica" materialmente( prezzi X quantità) e "valuta" economicamente ( domanda X offerta). Tuttavia questa "fede" nel mercato rappresenta anche un elemento di contraddizione, perché il mercato-giudice finisce per essere implicitamente assimilato a un criterio di verità... Ma questa è un'altra storia.
Comunque sia, e per concludere, qualsiasi discussione americana sul commercio "legalizzato" di organi umani, si fonda non tanto sul fatto se sia vero, giusto, buono, bello che un uomo, anche consenziente, sia "fatto a pezzi" e venduto al migliore offerente, ma se sia utile "farlo a pezzi".
Ed eventualmente come.
Di qui la necessità, perché prima o poi il dibattito sulla "legalizzazione", si aprirà anche in Europa, di alzare il tiro, e proporre criteri veritativi. Ma quali? La discussione è aperta.
Carlo Gambescia

giovedì 18 maggio 2006

Profili/26
Charles Wright Mills





Charles Wright Mills (1916-1962)  incarna tuttora la figura del sociologo nemico di qualsiasi regola, chiesa, accademia. Il padre dell' "immaginazione sociologica". Alla quale oggi in effetti si ricorre sempre meno. Mentre per gli aspetti politici, probabilmente, la sua opera è datata . Tuttavia, vista la ricchezza del suo pensiero, è interessante ripercorrerne vita e opere.
Charles Wright Mills nasce a Waco nel Texas nel 1916, da una famiglia della middle class di origine irlandese e di religione cattolica. Studia filosofia e sociologia all'Università del Texas (1935-1939). Dopo la laurea (M.A.) consegue il dottorato in sociologia e antropologia all'Università del Wisconsin (1941). Dopo di che passa all'Università del Maryland (1941-1945), e infine all Columbia University (1945), dove insegnerà fino alla morte (1962) Negli anni Cinquanta, Mills affina il suo radicalismo politico (più vicino alle tradizioni populiste e democratiche americane, che a quelle marxiste europee), collabora a importanti riviste "liberal", come "Dissent", mette a frutto la sua salda preparazione scientifica, scrivendo libri importanti. E soprattutto viaggia molto, in particolare negli ultimi anni della sua vita. Si reca in Inghilterra, Polonia, Messico, Brasile, Unione Sovietica e Cuba. Condivide e difende gli obiettivi della rivoluzione cubana, come la causa delle popolazioni sudamericane. Attirando su di sé l'attenzione della Polizia Federale (FBI). Tuttavia la morte prematura, causata da un attacco di cuore (Mills soffriva di una grave cardiopatia), lo mette, purtroppo, a riparo e per sempre, da eventuali rappresaglie dei "federali" (Su questi aspetti si veda M. Forrest Keen, Stalking Sociologist. J. Edgard Hoover's FBI Surveillance of American Sociolog, Transaction Publishers, New Brunswick and London 2004 (2° ed.), - www.transactionbooks - in particolare pp. 171-186, (Hour Man in Havana: C.W.Mills Talks, Yank Listens ).
L'opera di Mills segue tre direttrici.
La prima è quella della critica della società americana, da lui affrontata in White Collar. The American Middle Classes (1951, trad. it. Einaudi, Torino 1966) e The Power Elite (1956, trad. it. Feltrinelli, Milano 1959). Mills mette a frutto la lezione weberiana- marxiana, per criticare dal punto di vista sociologico (e implicitamente politico) la rigidità (e grettezza) pseudo-aristocratica della società americana. L'homo americanus, secondo Mills, "vegeta", prigioniero di una serie di schemi socioculturali, utilitaristici, ottimamente manovrati dall'élite politica, economica e militare; schemi di comportamento, vere e proprie "maschere" marxiane, che impediscono la realizzazione della democrazia sociale ed economica. La sua ricostruzione dei meccanismi di inclusione-esclusione è magistrale.
La seconda direttrice è quella più propriamente teorica, e rinvia a The Sociological Imagination (1959, trad. it. Il Saggiatore, Milano 1962). Punto d'arrivo speculativo, che può essere compreso nel suo sviluppo, solo attraverso la lettura di una serie di opere, alcune delle quali pubblicate postume: Sociology and Pragmatism. The Higher Learning in America (1964, trad. it. Jaca Book, Milano 1968), la sua tesi di dottorato; From Max Weber. Essays in Sociology (1946, con H.H. Gerth, trad. it. Franco Angeli, Milano 1991); Images of Man (1960, Edizioni di Comunità, MIlano 1963), una ricca antologia sociologica, utile per capire le preferenze di Mills; Power, Politics and People (1963, trad. it, in due volumi, Bompiani, Milano 1971). Mills cerca una sua strada capace di conciliare pragmatismo (come uso pratico delle idee, in termini di riforme sociali), tecniche sociologiche (le più diverse, da quelle empiriche a quelle storiche), e immaginazione sociologica. Da lui intesa come ciò che "permette di afferrare biografia storia e il loro mutuo rapporto nell'ambito della società (...). [E'] la facoltà [di] saper passare da una prospettiva ad un'altra (...) di abbracciare con la mente le trasformazioni più impersonali e remote e le relazioni più intime della persona umana e di fissarne il rapporto reciproco" (trad. it. Il Saggiatore, Milano 1962, pp. 16-17).
La terza direttrice è più propriamente politica. Probabilmente la più caduca. Anche se stimolante sotto il profilo della battaglia delle idee e dell'autobiografia politica di Mills. Si vedano perciò: The Causes of World War Three (1959, trad. it. Feltrinelli, Milano 1959); Listen Yankee: The Revolution in Cuba (Feltrinelli, Milano 1962); The Marxists (1962, trad. it. Feltrinelli, Milano 1969). In Mills c'è come elemento di fondo, certa ingenuità politica, probabilmente molto americana, ben colta da Zygmunt Bauman, nel ricordare il viaggio di Mills in Polonia verso la fine degli anni Cinquanta: "Durante il soggiorno di Mills a Varsavia, Gomulka, parlò alla radio criticando un saggio del mio amico Lezek Kolakowski. Cominciammo a tremare tutti quanti: essendoci scottati le dita così tante volte in precedenza, ci aspettavamo di peggio. Ma Mills era euforico: "Come siete fortunati e come dovete essere felici... Il leader del paese che reagisce ai trattati filosofici! Nel mio paese, nessuno uomo di potere presta attenzione a quello che faccio" ( Keith Tester, Società, etica, politica. Conversazioni con Zygmunt Bauman, Raffaello Cortina Editore, Milano 2002, p. 29).
Scherzi dell'immaginazione sociologica... o politica?  Politica.
Per una buona biografia di Mills si rinvia a quella scritta - da alcuni però definita discuitibile - dal suo collaboratore e amico Irving Louis Horowitz, C. Wright Mills. An American Utopian, The Free Press, New York 1983 (www.freepress.). Tra i contributi italiani, si ricorda il saggio esauritissimo, ma ancora oggi suggestivo e accurato, di Giorgio Marsiglia, L'immaginazione sociologia di C. W. Mills, il Mulino, Bologna 1970. 
Carlo Gambescia

mercoledì 17 maggio 2006


Lo scaffale delle riviste /7



Questo mese lo scaffale delle riviste è particolarmente ricco.
Si segnala subito l'interessante articolo di Eduardo Zarelli, Perché siamo all'opposizione, pubblicato sull'ultimo numero di "Diorama Letterario" (n.276, marzo-aprile 2006, pp. 6-7 - www.diorama.it), storica rivista, fondata e diretta da Marco Tarchi. Zarelli asserisce la necessità per le forze sociali, realmente movimentiste, di non abbassare la guardia, "di fronte a qualunque risultato delle elezioni italiane". Soprattutto sul piano della critica culturale al modello di "sviluppo illimitato", che segna il capitalismo.
Da non perdere l'ultimo fascicolo di "Filosofia Politica" (n.1/2006 - www.mulino.it/rivisteweb), che affronta nei suoi "materiali per un lessico politico europeo" il tema della biopolitica (pp. 5-76). Articoli di Roberto Esposito (che introduce), Michele Cammelli (Comte, Foucault, Canguilhelm), Gaetano Rametta (Biopolitica e coscienza), Laura Bazzicalupo (Economia e dispositivi di governo), Simona Forti e Olivia Guaraldo (Il corpo femminile tra biopolitica e religione materna).
Come sempre ricca di spunti e idee "Eurasia - Rivista di Studi Geopolitici" (n.1 - 2006 - www.eurasia-rivista.org). Prezioso il "dossario" sulla Cina (pp. 43-163). Articoli di Yives Bataille, Braccio, Carminati, de la Nive, Enrico Galoppini, Hu Yeping, Preve, Scalea, Thion, Venier, Vernole). Particolarmente interessanti, ma su altri argomenti, le interviste di Tiberio Graziani a Sergio Romano (pp. 191-195) e di Enrico Galoppini a Lorenzo Trombetta, specialista del Vicino Oriente (197-201).
Il numero appena uscito della "Rassegna Italiana di Sociologia" (1/2006 - www.ilmulino.it/rivisteweb), si fa apprezzare per il notevole saggio di Carla Facchini e Marita Rampazzi su Generazioni anziane tra vecchie e nuove incertezze (pp. 61-88), che evidenzia limiti e le difficoltà di integrazione sociale dell'anziano, in un modello basato sui rischi di mercato; modello che non riesce a gestire il rapporto tra certezze e incertezze in maniera adeguata.
E' invece dedicato al cinema francese (Le cinéma français est-il le plus bete du monde?) l'ultimo fascicolo di "Eléments" (n.120 - Printemps 2006 - www.labyrinte.fr). Molto interessante l'intervista di Maurizio Messina a Danilo Zolo (Danilo Zolo s'élève contre une vision paroissiale de la vie politique, p. 54), già apparsa in Italia sulla rivista "Italicum" ( Novembre- Dicembre 2004 - www.centroitalicum.it).
Si segnala sulla "Nuova Informazione Bibliografica" (n.1, Gennaio-Marzo 2006 - www.mulino.it/rivisteweb) la rassegna tematica sulla mafia a cura di Antonio La Spina (pp. 59-75), ricca di riferimenti bibliografici e "telematici".
Sul fascicolo in libreria di "Alfa e Omega" (n.5 - Settembre-Ottobre 2005 - info@edizionisegno.it), rivista diretta da Siro Mazza, si legga, in particolare, l'articolo di Thomas Molnar, L'americanologia quattordici anni dopo, pubblicato in concomitanza con l'uscita in Italia dell' Americanologia. Trionfo di un modello Planetario? (Edizioni Settimo Sigillo, Roma 2005 - www.libreriaeuropa.it).
Molto ricco anche "Le Monde diplomatique - il manifesto" (n.4 -aprile 2006 - www.ilmanifesto.it/Mondediplo/), articoli di Gabriel Kolko (Casa Bianca e Cia), Lahouari Addi (il conflito sociale in Algeria), Odile Goerg (Guinea). Notevole l'analisi di Emilie Guyonett sui rapporti strategici in funzione anticinese tra Tokio e Washington (pp. 10-11).
Da non perdere l'ultimo numero di "Italicum" (Marzo-Aprile 2006 - www.centroitalicum.it), la rivista teorica e di sintesi politiche, diretta da Luigi Tedeschi. Il numero si apre con il brillante editoriale di Enzo Cipriano, un editore sempre più al di là della destra e della sinistra: politicamente inclassificabile. E infatti ne ha per tutti... Molto intrigante anche il focus sul sindacato (pp. 3-10: articoli di Tedeschi, Rimbotti, Landolfi, Preve (intervista), Segatori.
Ai cultori dell'alta filosofia politica, si segnala la nuova rivista "Metàbasis. Filosofia e comunicazione", disponibile solo in Rete, (www.metabasis.it), diretta da Claudio Bonvecchio, professore ordinario di Filosofia delle scienze sociali e comunicazione politica, presso l'Università degli Studi dell'Insubria (di cui è anche rettore) Il primo fascicolo (marzo 2006) è dedicato al Conflitto. Prospettive interdisciplinari. Articoli di Bonvecchio, Wunenburger, Limone, Pinchard, Bellini, Musso, Segatori e altri ancora. E vale veramente la pena di una "visitina.

Carlo Gambescia

martedì 16 maggio 2006

Polemiche
Pierluigi Battista 
e la “reductio ad hitlerum”




Ogni epoca storica ha i suoi "commissari politici". Il "pensiero unico" risponde a determinati meccanismi sociologici di inclusione-esclusione, che prescindono da qualsiasi presupposto storico e dottrinario. Ma risponde anche a meccanismi tipo argomentativo, spesso erronei. Dai quali non è esente neppure il liberalismo. Che però a differenza di altre ideologie "totalitarie", dovrebbe essere più tollerante con gli avversari politici e intellettuali. E soprattutto coerente sotto il profilo argomentativo,  visto che  certo liberalismo (non tutto) ama presentare se stesso  come  scienza (politica) del discorso pubblico. Evidentemente, nessuno è perfetto... Un buon esempio, di cattiva  retorica liberale , viene regolarmente offerto dagli articoli di Pierluigi Battista, vicedirettore del "Corriere della Sera". Il quale da buon aspirante "commissario politico" del partito-unico (presuntivamente)  liberale d'Italia è  privo di dubbi.  E' perciò interessante ricostruire il suo ragionamento, dal punto di vista delle fallacie informali (errori di argomentazione), di cui è infarcito.
Si prenda ad esempio il suo articolo di ieri (15-5-2005, p. 26, www.corriere.it) , sulle "sirene totalitarie (da Castro a Chavez) [che] irretiscono gli intellettuali".Lo scopo del pezzo, come è evidente, è quello di squalificare e demonizzare, al contempo, sia politici come Chavez, sia gli intellettuali favorevoli all'esperimento politico venezuelano.In primo luogo, Battista, parte da un premessa erronea, o comunque vera a metà, commettendo subito l'errore argomentativo dell' "accidente converso" (generalizzazione affrettata) . Dire che gli intellettuali siano "perennemente ammaliati dalle dittature" vale solo per alcuni casi... Sarebbe invece più corretto ammettere la possibilità che alcuni intellettuali (non tutti) talvolta restino ammaliati dalla fascino perverso di un potere, che può essere democratico o meno.In secondo luogo, Battista cerca di dimostrare la sua tesi fornendo un ridotto elenco di intellettuali (Brecht, Heidegger, Shaw, Drieu La Rochelle, Cantimori) che avrebbero scelto la causa sbagliata (quella totalitaria). Se la prende in particolare con Brecht (e qui, commette l'errore argomentativo "dell'appello all'autorità", argumentum ad verecundiam ", citando da uno dei peggiori libri mai scritti sugli intellettuali. Quello di Paul Johnson (Longanesi 1988): un testo privo di qualsiasi autorità scientifica, scritto da un saggista da "reality show", abituato a intrufolarsi e sguazzare nelle vicende intime degli scrittori. In terzo luogo , ed ecco la "petitio principii" (ammettere per dimostrata una questione), Battista mette Chavez sullo stesso piano di Lenin, Mao, Stalin, Hitler, Mussolini e Fidel Castro. Dando per scontato quel che invece non è: visto che non fornisce alcuna prova sulla natura totalitaria della politica di Chavez (che tra l'altro è stato democraticamente eletto dal popolo). E qui cade nell'errore argomentativo "di composizione": attribuisce le proprietà del tutto "dittatori totalitari" al singolo "dittatore" Chavez. Che tra l'altro, come si è detto, lo è solo per "petitio principii". Giornalisticamente la " fallacia di composizione", è denominata, in latino maccheronico, come "reductio ad hitlerum" (alla "classe" o tipologia hitleriana).Che c'è di liberale in tutto questo? E' necessario  aggiungere altro? 

Carlo Gambescia 

lunedì 15 maggio 2006

La fabbrica delle passioni
Calcio




Quel che sta (ri)accadendo nel mondo del calcio italiano può suscitare due tipi di di reazioni.
La prima di natura morale (o peggio moralistica) di condanna della corruzione e dell'affarismo che vi imperano, in nome del "ritorno" a una mitica età dell'oro. Dove finalmente si giocherà non per vincere ma per il piacere di partecipare, e nel più totale rispetto dell'avversario e delle regole.
La seconda è invece di natura più profonda e impegnativa: cercare di capire perché periodicamente il mondo del calcio, mediatizzato e globalizzato di oggi, dia il peggio di sé.
In primo luogo, corruzione c' è sempre stata, basta sfogliare qualsiasi storia del calcio, non solo italiano... Nella stessa misura lo sport (calcistico) novecentesco è segnato dall'ascesa e dal consolidamento del professionismo. Una società fondata sulla divisione capitalistica del lavoro, come la nostra, ha funzionalmente bisogno di attori sociali capaci di svolgere , ciascuno nel suo campo, e dunque "professionalmente", il proprio lavoro. Il che implica valori di riferimento ( ciò che buono e cattivo per e nel calcio), istituzioni di gestione e controllo (squadre professionistiche, tornei organizzati, dirigenze specializzate, giustizia sportiva, eccetera). E infine un processo di selezione di giocatori, dirigenti, arbitri (delle élite: dai calciatori al funzionariato sportivo), come avviene di regola in tutti i gruppi sociali.
In secondo luogo, e questo è il dato interessante, il calcio ha sempre più svolto una funzione sostituitiva sul piano delle "passioni sociali" collettive. Può sembrare banale ma ha funzionato, e in misura crescente, soprattutto nel secondo dopoguerra, come fabbrica di nuovi valori e comportamenti collettivi (per usare la terminologia di Moscovici). Meno pericolosi, meno vendicativi, di quelli politici... Gradualmente il calcio, in particolare dagli anni Sessanta, è però diventato non solo strumento di evasione dalla realtà, ma quasi la realtà stessa. Processo che, dopo la parentesi del Sessantotto, si è accentuato negli anni Ottanta, con la ripresa della globalizzazione economica e della conseguente mediatizzazione pubblicitaria della vita sociale, e dunque anche dello sport, e in particolare del calcio.
Mancano analisi precise, ma sembra che oggi il calcio, come argomento di conversazione, preceda la politica e il lavoro. Il che comprova (almeno tendenzialmente) come il calcio stia sostituendo la realtà. Il fenomeno del cosiddetto tifo sportivo politicizzato da gruppi di estremisti, è un altro segno della "mutazione" in atto: non indica infatti un ritorno della politica, come movimento sociale negli stadi, ma l'esatto contrario: la fine della politica come passione collettiva, come desiderio di cambiare il mondo, tipico di ogni autentico movimento collettivo.
Come hanno influito sul calcio (non solo italiano) la mediatizzazione e la globalizzazione economica? Ovviamente si tratta di un processo in corso: la mediatizzazione ha posto il calcio al centro della vita delle persone, trasformandolo, come si è detto, in fabbrica delle passioni; la globalizzazione ha trasformato le società di calcio - come qualsiasi altra impresa economica (come prova la nascita delle spa e l'ingresso in Borsa) ) - in macchine per competere e vincere a tutti costi: il calcio, dunque, come "fabbrica delle vittorie" a qualunque "prezzo". Soprattutto quest'ultimo fenomeno - sul quale ovviamente ha influito anche il calcio "fabbrica delle passioni" - ha provocato una diversa selezione del personale dirigente che ha condotto al potere personaggi privi di scrupoli come quelli che ora sono sulle prime pagine dei giornali.
Il calcio come fabbrica delle passioni e delle vittorie rappresenta oggi il nuovo universo di valori (sulle cui basi si decide appunto quel che è buono e cattivo per e nel calcio: chi vince e bravo, buono, giusto, bello, eccetera, mentre chi perde non lo è...). E le élite del calcio, una volta messo da parte Moggi, continueranno a essere scelte sulla base degli stessi valori, comportamenti e moventi mediatici ed economici.
Perciò per il momento è meglio rassegnarsi. Il calcio di oggi esprime una precisa fase della globalizzazione capitalistica. E fin quando durerà questa fase ( e i valori, comportamenti e moventi che esprime) la situazione difficilmente cambierà.

Carlo Gambescia

venerdì 12 maggio 2006

Dall'operaismo alla questione fiscale...
Mario Tronti  e l'Ici


l'ici e mario tronti


Non può non essere segnalato l'interessante articolo di Mario Tronti,  apparso sul Manifesto di mercoledì 10 maggio, come anticipazione del numero in uscita di "Democrazia e diritto" (fascicolo che ha per titolo Una legislatura da scrivere).
Ora, per discutere un pensiero, così ricco e articolato, come quello di Tronti, sarebbe necessario maggiore spazio. Quindi nessuna pretesa di compiutezza...
L'articolo intitolato, Il problema è la mela tutta intera, si occupa del voto e soprattutto dell'Italia post-voto, ovviamente dal punto di vista della teoria politica, così congeniale a Tronti.
A una prima parte, ampiamente condivisibile, dove il filosofo, mette in luce l'assiomatica utilitaristica su cui si fonda la vita sociale e politica italiana (a destra come a sinistra), ne segue una seconda meno convincente. Ma è meglio procedere per gradi.
Secondo Tronti l'alta affluenza è spiegata dal fatto che sarebbe sceso in campo "il popolo dei telespettatori, popolo politicamente muto, non rilevabile nei sondaggi, non controllabile dagli exit poll. La novità non è la mela spaccata, ma la mela intera che si lascia spaccare così. Con l'ottimismo della volontà, si può vedere una attiva partecipazione democratica. Col pessimismo dell'intelligenza, si vede una passiva mobilitazione di massa".
Tronti è dalla parte dei pessimisti. Infatti ritiene che abbia vinto l'Italia dell'antipolitica, degli slogan, del rapporto diretto coi capi carismatici, dell'egoismo e dell' utilitarismo borghese contro le passioni politiche del cittadino: "si è chiamati "a scegliere non l'interesse pubblico, ma l'interesse privato. Scelgo chi mi fa pagare meno tasse, chi mi toglie l'Ici dall casa", eccetera.
Secondo Tronti, e qui viene il punto debole e meno convincente della sua analisi, il "guasto sta a monte", e sarebbe dovuto al "dissolversi del legame di classe", nella "forma organizzata che aveva assunto nel Novecento"; dissoluzione che "ha aperto la via a processi selvaggi di privatizzazione, che nessuno sa più controllare".
Ora, se quel che si legge può essere impeccabile dal punto di visto dell'evoluzione del pensiero di Tronti... Il cui percorso, come è noto, si dipana dall'operaismo alla difesa dello stato socialdemocratico, come rivendicazione dell'autonomia del politico, all'interno del processo di sviluppo del capitalismo, quale  conflitto permanente tra irrazionalità (economica capitalistica) e razionalità (le politiche sociali della classe operaia come soggetto storico).    Non lo è però, per riprendere il filo del discorso,  da un punto di vista, come dire, esterno, oggettivo...
Tronti critica le sinistre "post-comuniste e post-socialdemocratiche" per avere sottovalutato gli aspetti "restaurativi" (negativi) del processo dissolutivo. In realtà, le cose non potevano andare diversamente. Il Novecento ha dimostrato che per la sinistra ci sono state ( e in fondo ci sono) due possibilità: o il processo rivoluzionario o la socialdemocratizzazione. Nel primo caso, i leninisti, chiamiamoli così, hanno mostrato di non saper gestire il passaggio dal movimento all'istituzione (la forma stato-socialista). Nel secondo caso i socialdemocratici hanno gestito l' istituzione esistente (la forma stato-liberaldemocratico) . Il leninista ha rifiutato il capitalismo, ma non lo sviluppo sociale. Il socialdemocratico ha accettato il capitalismo, cercando di modificarlo dall'interno, introducendo elementi di sviluppo sociale (gli "aspetti apparentemente innovativi" delle liberaldemocrazie, di cui parla Tronti). La questione è che, una volta accettata la "socialdemocratizzazione" e dunque lo scambio (dissolversi del legame di classe in cambio di  consumi e assistenza sociale) gli aspetti innovativi finiscono per confondersi con quelli negativi. Tutto diventa una questione, e a maggior ragione per le sinistre "post-comuniste e post- socialdemocratiche" (ideologicamente debolissime) di "utilitarismo sociale": di danni massimi e di minimi; di contabilità dei caduti e feriti nelle guerre di mercato. E infine di Ici.
La via operaista, né completamente leninista né compiutamente socialdemocratica, auspicata da Tronti negli anni Sessanta, che doveva tenere separato, ciò che il capitalismo, almeno ideologicamente, si proponeva di continuare a tenere unito (il rapporto capitale-lavoro, e le sue contraddizioni), non poteva dunque portare da nessuna parte. La mela del capitalismo non poteva e non può non restare divisa. Paradossalmente la sua forza è proprio nella "divisione" e nella promessa di salvezza ("riunificazione" sulla terra) della "Chiesa" capitalistica", come nota lo stesso Tronti: l'una è funzionale all'altra.
E' perciò mancata la scienza, anche questa auspicata da Tronti, e soprattutto la forte esaltazione di una morale operaia, invocata da Georges Sorel più di un secolo fa, suscitando l' ironia di leninisti e socialdemocratici... Sorel, non per niente fu attento studioso del cristianesimo antico e delle modalità con cui i cristiani conquistarono Roma, trasformandosi da movimento in istituzione. Un'istituzione, come nota con un pizzico d'invidia lo stesso Tronti, che è lì "da venti secoli" mentre "noi qualche decennio, e abbiamo chiuso bottega". Per parlare, e Tronti qui sarebbe d'accordo, solo di Ici... 

Carlo Gambescia