venerdì 31 maggio 2013


Grillo, Rodotà e la sinistra: 
è la politica bellezza…




Ma è serio occuparsi di Beppe Grillo che insulta il professor Rodotà? Come pure del professor Rodotà che replica non replicando al comico? E della sinistra che si precipita a difendere il giurista?
No, però è bene parlarne, anche brevemente,  per capire il “funzionamento” della politica. La candidatura del giurista al Quirinale è stata una pura e semplice operazione politica, molto spregiudicata, tentata da Grillo per dividere il Pd  e  contrattaccare ai tentativo bersaniano di provocare rotture nel M5S.
Tutti - favorevoli e contrari - sapevano che il professore, politicamente non era di primissimo pelo, né che non fosse lo stesso personaggio vanitoso, ambizioso e cavilloso, a suo tempo capace di rompere con gli eredi del Pci,  per collose questioni di cariche interne…  Eppure tutti zitti  e pronti a recitare, anche  chi  non condivideva l’investitura grillina,  il caramelloso copione del  Padre Nobile.  Parliamo di un intellettuale, politicamente a riposo, ma improvvisamente resuscitato dall’ odore del napalm politico. E subito disposto a  tutto,  pur di diventare Presidente della Repubblica.  Anche a stringere la mano artigliata del tarantolato Beppe Grillo. Pertanto, il leader cinquestellato ha  ragione  quando afferma, anche se in modo scomposto,  di aver scongelato un ottuagenario. 
Rodotà era (ed è)  giudicato dalla macchina-partito del  Pd  un specie di pensionato, o meglio  una figura, come a teatro, simile a quella di un  invecchiato  maestro ipersensibile a qualsiasi critica,  magari ancora utile per incarichi coreografici:  un  cammeo qui, un  cammeo lì.  Ma totalmente inadatto  a ricoprire grandi ruoli, come nel caso della Presidenza della Repubblica, dove, di questi tempi,  servono equilibrio e capacità di mediazione.  E,  per dirla proprio tutta, anche  affidabilità politica... E l'infuocato viatico del leader cinquestellato non era sicuramente il  più gradito a Bersani  & Co. 
Però, adesso, dopo aver bocciato la sua candidatura, lo si difende dagli attacchi di Grillo. Sperando così di provocare rotture nel campo avversario. Nessuna conversione:  si cerca di   gestire  il professore,  ma da sinistra,  giocando sul suo smisurato ego.  Certo, se Rodotà fin dall'inizio  si fosse saggiamente  tirato fuori… Ma si sa, è la politica bellezza: sangue, merda e pure tanta vanagloria...

Carlo Gambescia 

giovedì 30 maggio 2013

Il libro della settimana: Andrea Granelli, Il lato oscuro del digitale. Breviario per (sopravvivere) nell’era della rete, prefazione di David Bevilacqua, postfazione di Antonio Spadaro, Franco Angeli 2013, pp. 160, Euro 21,00. 


- http://www.francoangeli.it/Ricerca/Scheda_libro.aspx?ID=21196


Di regola  le rivoluzioni, provocano reazioni politiche. Non per prenderla, troppo alla larga o addirittura fuori misura,  ma ad esempio alla Rivoluzione Francese seguì il Congresso di Vienna. E, per entrare in argomento, alle Rivoluzioni industriali (perché se ne contano più di una) la nemesi ecologista.  In fondo, gli scalmanati della No Tav stanno ai valori del progresso come gli aristocratici convenuti a Vienna stavano agli ideali repubblicani dei sanculotti.
Pertanto, anche la Rivoluzione digitale,  troverà i suoi accesi nemici reazionari? A questo e altri interrogativi risponde un bel libro, fresco di stampa: Il lato oscuro del digitale. Breviario per (soprav)vivere nelle’era della rete (Franco Angeli). Ne è autore Andrea Granelli, specialista della materia e imprenditore di successo proprio nel "ramo" del digitale (per usare il vecchio termine, tanto amato dai “cummenda”milanesi).
Parliamo di un libro ben scritto, diremmo  avvincente.  In poco più di centocinquanta pagine ( suddivise in quattro snelli e organici capitoli),  Granelli riesce a dominare una materia magmatica e controversa come quella del futuro digitale, sezionando, con abilità chirirgica,  i  suoi  lati dark.  E quali sono? Si va, solo per citarne alcuni,  dal rischio populista alla nascita di straripanti monopoli economici, dall’anomia digitale all’overdose di informazioni  e  allo scarso rispetto per la diversità culturale.
Si prenda, ad esempio, la questione - semplificando -   dell’anomia digitale.  Granelli scorge nel forzato isolamento dell’internauta,  chiuso in casa davanti alla tastiera (e perciò privo di riferimenti sociali: ecco l'anomia), un grande pericolo: quello di essere non tanto  in contatto  con  tutto il mondo quanto ( se non esclusivamente) con il proprio narcisismo... Siamo dinanzi a una falsa socialità,  illusoriamente fondata sul principio sbagliato. Quale? Che l’amico della rete sia un amico vero.  Insomma, che la quantità   delle amicizie con perfetti sconosciuti, alimentata da  Facebook,   possa  trasfomarsi  in  qualità,  ossia  in autentico capitale sociale: in rapporti  duraturi e  vissuti. Il che, come si  prova nel libro,  è falso. 
Sotto questo profilo, scrive Granelli, « il digitale - può essere un creatore di illusioni, con le sue promesse molto evocative ma difficilmente mantenibili. Queste promesse, quando vengono disattese, possono creare stati fortemente depressivi e quindi rafforzare la percezione che nulla funzioni e che viviamo in tempi di crisi. Questa percezione - che spinge a rassegnarsi e a tirare i remi in barca - è particolarmente pericolosa per i nativi digitali [i giovani nati e cresciuti con le tecnologie digitali, ndr], poiché (…) per loro la vita reale e quella virtuale sono un continuum integrato senza soluzione di continuità. Un problema nel mondo digitale equivale a un problema nella vita reale» (p. 103).
Ciò significa che la nemesi della rivoluzione digitale, in primo luogo, può culminare - come sta avvenendo - nella creazione di un universo irreale,  popolato di   persone reali ma sempe più incapaci di reagire e interagire concretamente con i propri simili,  a loro volta  prigionieri della crescente irrealtà digitale.  Il che, in secondo luogo, potrebbe però  non escludere,  per reazione, vere e proprie esplosioni luddiste.  Far nascere una specie di fondamentalismo antidigitale, destinato a crescere, anche se all’inizio patrimonio di pochi duri e puri.  
Non vanno però neppure  sottovalutate le conversioni in senso opposto: dal populismo analogico a quello digitale.   Come ad esempio quella di  Beppe Grillo. Secondo alcuni biografi,  sembra  infatti che  il carismatico  leader cinquestellato, prima di incontrare  Casaleggio, una specie di Casanova  del digitale,  predicasse contro l’uso del personal computer…
Come evitare questi  eccessi?  Granelli, parla della necessità di lavorare, cominciando dalla scuola,  intorno a una «pre-disposizione che ci consent[a] di cogliere il meglio del digitale ( e proteggerci dal peggio), andando molto al di là del semplice risultato di un addestramento o alfabetizzazione» (p. 132). Occorre «sensibilità», quale affinamento psicologico e culturale, da perseguire attraverso  l’uso  abbinato  di «cuore e cervello».
Insomma,  va acquisita,  fin da piccoli, l'abitudine alla  lettura,  allo  studio e alla riflessione: i soli mezzi capaci di   affinare  la nostra  sensibilità.  Granelli sottolinea l'importanza, psico-culturale di  farsi, come si diceva un tempo, una cultura. E principalmente  di  far capire, in particolare ai giovani,  che intorno al personal computer  c’è tutto un mondo…
Il lato oscuro del digitale sembra essere percorso da una antica certezza: che la conoscenza possa trasformarsi in virtù. Detto altrimenti, che il sapere faccia l’uomo buono. O «sensibile» per dirla con Granelli. In questo senso, lo scienziato-filosofo, il politico colto, il cittadino informato, lo studente modello, l’internauta umanista, l'imprenditore digitale che legge e rilegge la Divina Commedia,   potrebbero rappresentare la giusta risposta ai lati dark della rivoluzione informatica.  Augurio che facciamo nostro.

Carlo Gambescia 

mercoledì 29 maggio 2013

Divagazioni sociologiche sul concetto di ordine





Che cos’è l’ordine? Dal punto di vista sociologico è il buon funzionamento - buononel senso  della regolarità -  di un sistema sociale.   Esistono, ovviamente,  le  sfere più varie  di funzionamento, quelle dell' ordine politico, economico, religioso, culturale, eccetera. Come esistono idee molto differenti su   come un certo ordine  dovrebbe funzionare o essere. Tuttavia, dal momento che  la regolarità implica  la prevedibilità,  ed essendo quest'ultima  legata al bisogno di sicurezza,  la maggioranza degli uomini  dà la società per scontata:  cosi com'è.   Entro certi limiti come vedremo.
L’ ordine   implica  due fattori fondamentali:   l’idea di disposizione, ossia di come certe funzioni debbano essere svolte; una volontà esecutiva diffusa, nel senso del  regolare svolgimento delle funzioni individuali demandate, scelte, ordinate, ereditate, eccetera . Finché una società si autoriproduce  perché   tutto  funziona con regolarità, si può definirla ordinata. Niente di trascendentale,  parliamo, se ci si passa l'espressione, del minimo sindacale:  gli esercizi commerciali aprono, le industrie e uffici lavorano, poliziotti e soldati obbediscono agli ordini dei superiori proteggono i cittadini e difendono la patria.
Ad esempio, nella Russia del 1917 nelle carceri guardie e detenuti solidarizzavano, i soldati non obbedivano, fabbriche e uffici, pubblici e privati scioperavano, i negozi, impoveriti,  non aprivano. In quella società non “funzionava” più nulla. Vi regnava il disordine. Nella Russia pre-rivoluzionaria  l'assenza di regolarità rinviava alla mancanza di  una  volontà diffusa, capace di consentire il funzionamento della società.  Perciò nei processi di composizione e ricomposizione dell’ ordine sociale, l'  individuo, come soggetto in grado di dire sì o no a un certo ordine,  ha  un preciso e importante  ruolo sociale. La società, anche se entità funzionante e spesso  inglobante,  non va perciò mai intesa alla stregua di una macchina.
E come individuare il momento di passaggio dal singolo episodio di protesta alla crisi finale? Quando i cittadini, in misura crescente,  rifiutano di obbedire e lavorare perché  nella  società, così com'è    hanno tutto da perdere. In quel momento la società  smette di funzionare.  E l’ordine a poco a poco svanisce.
Ma non per sempre, come provano  le “ricostruzioni” post-rivoluzionarie. Anch’esse edificate, nonostante il fumo retorico,  sul concetto di ordine. Si pensi solo al cosiddetto ordine socialista nella Russia Sovietica. E alle conseguenti operazioni di polizia  per ripristinarlo...   O al “Nuovo Ordine” predicato, e fortunatamente mai realizzato,  dal totalitarismo nazionalsocialista.
Il problema è che le società, in quanto tali, non possono non funzionare: senza ordine nessuna società, senza società nessun ordine.

Carlo Gambescia - 

martedì 28 maggio 2013

Gianni Alemanno, Alessandro Campi 
e la spasmodica ricerca di un sasso da far  "voltolare"…



Diciamo subito che la ricomposizione -  parola grossa - della destra di origine  neofascista (da Storace ai naufraghi di Fli)  non è più  un argomento di grande interesse politico, né politologico:   quattro gatti spelacchiati,  litigiosi e  dalle  idee  confuse. E con un elettorato, in prospettiva, da prefisso telefonico. Tuttavia ci ha colpito, e spiacevolmente, un articolo di Alessandro Campi, apparso su “Il Foglio” (http://www.ilfoglio.it/soloqui/18358  ). Dove lo storico dell’ Università di Perugia, non smentendo la sua fama di studioso dalla cotta politica facile,  spezza una lancia per l'unificazione,   cambiando però  di nuovo cavallo. E, questa  volta,  a chi lancia il carotone?   A Gianni Alemanno.    
Campi ricorda  - certo,  si parva licet -   il Machiavelli  pubblico della chiusa de  Il Principe  in cui si invocava l'intervento unificatore della Casa dei Medici.   Ma anche il Machiavelli privato,  anzi privatissimo,  in riposo forzato causa cambio regime,  che sperava di guadagnarsi il favore dei «Signori Medici» ritornati al potere dopo la parentesi repubblicana. Insomma, gli stessi Medici che lo avevano messo alla porta. «Mi cominciassero adoperare - scriveva all’ amico Vettori – [quand’anche] se dovessimo cominciare a farmi voltolare un sasso; perché, se poi io non me li guadagnassi, io mi dorrei di me»…
Ma lasciamo il sasso, pardon la parola a Campi::

«[Alemanno] Da un lato deve convincere i cittadini romani a confermargli la fiducia ottenuta cinque anni fa, spiegando loro che la sua sindacatura – piena in effetti di errori e occasioni mancate – è stata a conti fatti meno catastrofica di come la raccontano gli avversari più risoluti e la stampa che li spalleggia (basti un’occhiata alla copertina dell’ultimo fascicolo dell’Espresso). Dall’altro, Alemanno è l’ultimo esponente della destra italiana – quella che provenendo dal Msi ha poi dato vita per tre lustri all’esperienza di Alleanza nazionale – che possa ancora aspirare ad una carica pubblica di una certa importanza e a giocare un qualche ruolo a livello nazionale. Ed è su quest’ultimo aspetto che forse vale la pena fare qualche ragionamento» (I corsivi e gli inserti tra parentesi quadre, anche quelli che seguono,  sono nostri).

Il meglio però deve ancora venire:

«E Alemanno, nel caso dovesse riconquistare il Campidoglio, parrebbe l’uomo giusto – per il prestigio e i mezzi che gli deriverebbero dal ruolo – sul quale puntare per una simile operazione. Tenendo anche conto che Roma è, per antiche ragioni storiche, la patria d’elezione della destra italiana in tutte le sue possibili espressioni: un simbolo identitario, un richiamo mitologico e ancestrale, prim’ancora che un terreno dove affondare le proprie radici organizzative e dove formare i propri ranghi».


Notare la strizzatina  d’occhio  finale,   in stile aquila littoria con pendant   mazziniano-garibaldino.  Filone con cui   fascismo  e neofascismo  hanno lungamente inciuciato. Sul mito di Roma correttamente  inteso  in tutte quelle  sfaccettature ( e   diversità tra l'interpretazione  liberaldemocratica e nazionalfascista),  su cui Campi sembra  agilmente sorvolare,  rinviamo i lettori  alle due storie  di Croce, da leggere in parallelo, e per contrasto, con  le pagine, comunque mai banali,  di Volpe.   Nonché alla  tuttora maestosa  Premessa  di  Federico Chabod, grande storico liberale. Senza dimenticare le pagine  altrettano dense e belle  di Walter Maturi, eccellente  storico del Risorgimento.
Ma c'è dell'altro.   Sulle ragioni che hanno provocato  l'implosione della destra di matrice neofascista,  Campi, ex consigliere di Fini, un po’ per auto-assolversi,  un po’ per  inventarsi una  linea di contnuità tra Alemanno e l’ex Presidente di Fli,  un po'  per impadronirsi  del  sasso  di cui sopra,  preferisce buttarla, come si dice a Roma, in caciara. Naturalmente prendendola da lontano. Leggiamo:

«Ma l’obiettivo di ricomporre la diaspora di questo mondo, rimettendo insieme quel che ne rimane, forse richiederebbe un’operazione preventiva di chiarimento sulle ragioni che hanno prodotto la sua débâcle. Per evitare che tutto si risolva, ammesso poi che l’operazione riunificatrice riesca, in un abbraccio nostalgico, inevitabilmente strumentale, tra reduci che temono per la propria sopravvivenza bisognerebbe insomma fare prima un collettivo e pubblico esame di coscienza, che sinora è del tutto mancato. Il che equivarrebbe a chiedersi, ad esempio, cosa non ha funzionato – sul piano politico-culturale – nella nascita, nell’azione e nelle scelte di Alleanza nazionale, un partito che in vent’anni non ha mai visto modificarsi il suo gruppo dirigente. A interrogarsi sulla natura del rapporto che la destra italiana ha stretto con Berlusconi e il berlusconismo (quanto è stato al dunque soffocante e/o penalizzante, dopo l’euforia e gli indubbi benefici seguiti all’operazione di sdoganamento operata e sempre vantata dal Cavaliere?). A domandarsi quale sia stato il senso autentico del tentativo di smarcamento da quest’ultimo condotta da Fini, invece di apostrofarlo come il traditore per eccellenza di una fazione politica che psicologicamente sembra non essersi mai emancipata dalla “sindrome di Badoglio” e dalla necessità, dinnanzi alle proprie sconfitte e manchevolezze, di cercare sempre il fellone cui appiccicare l’etichetta di voltagabbana»

Siamo d'accordo sulla  "sindrome Badoglio". Anche se  a criticarla è l' ex consigliere del Badoglio di turno... Conflitto di interessi? Ai posteri l'ardua sentenza.   Quanto al senso autentico,  presto detto: i post-fascisti di An dovevano lavorare dentro il Pdl.  «Smarcarsi» come scrive Campi, ma rimanendo all' interno.   Senza  immaginare  improbabili destre repubblicane, ideologicamente fondate sul Manifesto di Verona riletto alla luce dell’Impresa fiumana e dello sgangherato Sessantotto italiano. E per giunta tentando di mettere insieme, Mussolini, D’Annunzio, de Gaulle, Che Guevara e Mario Capanna.  È vero che una destra "normale" deve parlare di legalità. Ma deve anche criticare il giustizialismo, le tasse altissime,  il burocratismo, gli sprechi pubblici.  E soprattutto evitare, se ci si perdona l’espressione,  di dire fregnacce pseudo-libertarie che la sinistra, per Dna,  sa dire  molto meglio della destra di origine  neofascista.
Max Weber riteneva  che il ruolo dell’intellettuale  in politica  non fosse  quello di assecondare il Principe, bensì di consigliarlo circa la coerenza tra mezzi e fini da perseguire. Il succo del discorso weberiano, attualizzato, è il seguente: se ci si colloca a destra si devono dire e fare cose di destra, e non cose di sinistra, perché a sinistra, sanno farle e dirle meglio. In politica, la tattica è importante ma non quanto la strategia. E qui emerge un punto fondamentale: che il neofascismo italiano, per storia ideologica, non è  mai stato compiutamente di destra né di sinistra.  La "terza via" era e  resta una specie di  toppa ideologica per coprire due magagne di fondo:  disorganicità politico-culturale  e  fame, spesso atavica, di onori e prebende.   Di qui  però la grande confusione, che per l'appunto  risale al fascismo, tra “regimisti” e “movimentisti”, tra destra e sinistra fascista, tra tradizionalisti e modernisti, tra borghesi e antiborghesi, eccetera, eccetera.  Parliamo di una specie di mantra  ideologico  via via  trasmigrato nel Msi,  An,  An-Pdl e  Fli.   Perciò è ovvio che una volta spariti i valori (anche se pseudo…), e strumentalmente per acquisire, come  osserva  Campi, i «benefici seguiti all’operazione [berlusconiana] di sdoganamento»,  siano  rimasti solo gli interessi.  Tuttavia,  se tra i diadochi si tornerà  in qualche misura a parlare di valori,  torneranno a galla anche  le vecchie  idee fasciste del né destra né sinistra, magari mascherate  da ideologia repubblicana in versione giacobina,  o peggio,  da qualche altro pericoloso   fantasma olistico. Tanto resta sempre il pescoso  mare magnum  del sansepolcrismo...   Insomma, chiacchiere e distintivo, distintivo e chiacchiere… 
Che c’entra tutto questo con una destra liberale e conservatrice? Ad esempio con la Signora Thatcher?  Per la cronaca:  dentro quel che resta  della destra di origine neofascista (da Storace ad Alemanno), cui si rivolge Campi,  c'è ancora chi difende i generali argentini... 
Che c' entra tutto questo,  ripetiamo,  con la normale dialettica politica tra destra e sinistra? Nulla. E Max Weber sarebbe d’accordo con noi.
Perché Alessandro Campi, che, cotte politiche a parte,  resta un intellettuale di valore  (si visiti a Roma  la ricca  mostra su Machiavelli da lui curatahttp://www.oggiroma.it/eventi/mostre/niccolo-machiavelli-il-principe-e-il-suo-tempo-1513-2013/4950/  ) non torna a piegarsi sulle sudate carte?  Invece di aspirare a far  voltolare sassi per Alemanno, mescolando  improbabili identità  simboliche tra liberali e fascisti  con   ridicoli «richiami mitologici e ancestrali» dichiaratamente  nazionalfascisti?  

Carlo Gambescia 

lunedì 27 maggio 2013


Siria 
La “guerra lampo” di Obama 
   
  


La politica estera  è cosa molto  seria,  perché contempla  la possibilità del conflitto bellico. Ciò significa che deve  principalmente  basarsi  sugli interessi geopolitici, economici,  militari  e,  quando il caso ( e se sussistono),  sui valori comuni. 
Ora, a Stati Uniti e alleati conviene più  sostenere o far cadere Assad?  I giornali di oggi, parlano della “guerra lampo” di Obama.   Tuttavia,  per il momento,   il non intervento Usa,  saggiamente,  ha favorito il presidente siriano. Infatti,  sostenere Assad -  magari metterlo nelle condizione di  vincere, senza per questo rafforzarsi troppo  -  significa mantenere in quell’ area già abbastanza turbolenta  una situazione di status quo in versione,  tutto sommato,  politicamente laica.   Per contro,  le forze che si oppongono  sul piano interno al leader siriano sembrano  divise  e  rivolte  (non tutte)  verso la deriva islamista.  Ferma restando, tra i due campi, la divisione religiosa  in  Sciiti e Sunniti: frattura  che  implica ulteriori divisioni geopolitiche all’interno di un quadro strategico già composito. 
Precisazione: quando, a proposito della Siria,  parliamo di laicità,  non c’è da parte nostra alcuna attribuzione di valore, ma più semplicemente indichiamo con il termine una posizione politica più sensibile al ruolo degli interessi, quindi pragmatica  e tutto sommato più gestibile da parte di Stati Uniti e alleati.
Perciò il problema  fondamentale  non è quello di  punire  l'uso (ancora da provare)  delle armi chimiche,  ma rinvia  alla necessità di tenere  a galla  un leader  non nemico in modo aprioristico, per farla breve,  dell’Occidente.  Le grandi battaglie morali,  poco attente alle conseguenze -  o se si preferisce l'etica dei valori, così gradita a Obama -   possono portare alla catastrofe, prima sul piano regionale, poi su quello mondiale,  soprattutto quando non si hanno leader  di ricambio e idee chiare sul dopo Assad. 
Come nelle partite a scacchi,  dietro una  guerra  (ammesso che possa  essere “lampo”) devono esserci giocatori capaci di andare, strategicamente, oltre la prima mossa.  Insomma, occorre puntare sull'etica della responsabilità. Detto altrimenti:  un buon politico, soprattutto in circostanze difficili, deve sempre privilegiare,  valutando risorse e conseguenze dei suoi atti,  non il "bene assoluto", che non esiste (almeno nell' al di qua),  ma   il male minore rispetto al  male maggiore.       


Carlo Gambescia




Cara donna Mestizia,
Le segnalo un grave episodio recentemente verificatosi sotto i miei occhi. Con l’idea di acquistare una bistecca per cena, ieri sera, all’uscita dal lavoro, mi reco dal macellaio di fiducia. Sono le sei e mezzo, il negozio è affollatissimo, e il titolare, il sempre valido ma ormai ex giovane Cav. Nereo Sparacchini, non riesce più a servire i clienti con la prodigiosa, giocolieristica rapidità d’un tempo. Petulante, una signora che da qualche minuto gli ha ordinato una costata con l’osso lo sollecita, e addotti certi suoi improrogabili impegni lo apostrofa sgarbatamente così: “Che stamo ancora a pascola’ er vitellone?” Lo Sparacchini si annuvola, la guarda, fa una pausa significativa e a gran voce chiama in aiuto il suo garzone, in quel momento al lavoro sui quarti di bue nel reparto frigorifero. Il solerte giovanotto risponde tosto all’appello, e piomba in negozio ancora tutto infagottato nel grembialone coperto di macchie rosse, con le mani e la faccia insanguinate e brandendo alta la mannaia gocciolante. All’istante, il negozio si svuota in uno scomposto fuggi fuggi generale, al quale dà il via, sgomitando e distribuendo borsettate alla cieca, proprio la signora che con tanta impazienza aspettava la sua costata. Resto io solo, che nonostante fossi l’ultimo della fila vengo immediatamente servito. Non nego che ciò mi abbia fatto piacere, anche perché mi piace cenare presto per poi dedicare la serata allo studio dell’Esperanto e all’elaborazione dei miei progetti di Governo Universale Pacifico, recentemente minacciati dai sabotaggi della potente, infida organizzazione estremista dei Vegetariani per la Pace Vegetale Universale. Cionondimeno, l’episodio resta di estrema gravità, e testimonia, se ve ne fosse bisogno, quanto lavoro c’è ancora da fare per costruire una cultura dell’accoglienza, della solidarietà, dell’eguaglianza e insomma della cittadinanza e della pace universale. RingraziandoLa per l’ospitalità, La saluto cordialmente e mi deziras al vi multan feliĉon (Le auguro tanta felicità). Suo
Dott. Emerenziano Paraponzini

P.S. Rileggendo, mi accorgo che ho scordato di fare il nome del bravo garzone di bottega del Cav. Nereo Sparacchini. Il laborioso giovane si chiama Pik Badaluk, è originario dello Zambia, da quasi tre anni presta la sua opera – a prezzo assai modico, mi dicono - presso la macelleria del Cav. Sparacchini, e, benché clandestino, spera di ottenere quanto prima la meritata cittadinanza italiana (in attesa di poter rivendicare - aggiungo io - la cittadinanza del mondo che gli spetta di diritto).

Caro Dott. Paraponzini,
La ringrazio per la preziosa segnalazione, che per un caso curioso mi tocca anche personalmente. La mia domestica a ore Kabimba, originaria anch’essa dello Zambia, mi aveva infatti confidato, di recente, di un tenero legame nascente fra lei e un suo giovane compatriota, impiegato presso un macellaio del quartiere e ragazzo seriamente intenzionato. M’era sfuggito il nome del fidanzato, ma ora che Lei mi nomina il giovane Pik Badaluk e la macelleria del Cav. Sparacchini, a me ben nota, mi sovviene che si tratta senz’altro di lui. Ne sono assai lieta per la mia Kabimba. Purtroppo, la crisi economica che tutti ci colpisce mi costringerà, sin dalla settimana prossima, a privarmi della sua collaborazione domestica: ma sono certa di interpretare i Suoi sentimenti se anche da parte Sua faccio a Kabimba e a Pik Badaluk ĉiujn miajn gratulojn kaj bondezirojn por ilia estonteco kune (tutte le mie felicitazioni e i miei auguri per il loro futuro insieme).


Roberto Buffagni è un autore teatrale. Il suo ultimo lavoro, attualmente in tournée, è Sorelle d’Italia – Avanspettacolo fondamentalista, musiche di Alessandro Nidi, regia di Cristina Pezzoli, con Veronica Pivetti e Isa Danieli. Come si vede anche dal titolo di questo spettacolo, ha un po’ la fissa del Risorgimento, dell’Italia… insomma, dell’oggettistica vintage...

domenica 26 maggio 2013


Gesù avrebbe dato la comunione
a Vladimir Luxuria?
   


Prima la notizia:

Genova, 25 mag. - (Adnkronos) - Vladimir Luxuria ha ricevuto la comunione dal cardinale Bagnasco questa mattina alla messa per i funerali di don Andra Gallo. Nel suo messaggio, ha poi ringraziato il sacerdote genovese scomparso ''per avere dimostrato che una Chiesa inclusiva, che non caccia via nessuno, e' possibile'' e di ''averci fatto sentire, noi creature transgender, figlie di Dio e amate da Dio''.



E ora  una domanda:  Gesù avrebbe dato la comunione a Vladimir Luxuria? Probabilmente sì.  Di più:  avrebbe aperto le braccia  alla nuova pecorella.  Ma, ne siamo certi, a una condizione tacita: quella di pentirsi, indossare abiti maschili e pregare al fine di evitare le tentazioni…  Gesù, con la  sola bontà infinita del suo sguardo,  avrebbe chiesto  a Wladimiro Guadagno  di farsi pescatore di uomini . Ovviamente, e non è un battuta,  nel senso del ministero petrino.
Del resto la morale sessuale cristiana - basta leggere alcune pagine di Sorokin sull'etica ideazionalista -  fu l’esatta antitesi di quella precristiana. Anzi, sorse e si sviluppò in contrasto con quest’ultima, intrisa di sensismo   E, sostanzialmente (inutile spaccare il capello in quattro), sui rapporti omosessuali,  la  posizione cristiana  nei successivi duemila anni non è mutata.
Non che i “travestiti” fossero ben visti dai pagani… I quali, comunque sia, digerivamo la "diversità" sessuale meglio dei cristiani.   Salvo, s’intende,  mettere in pratica a più  riprese  lo  sterminio politico  dei seguaci  di Cristo.  Ma questa è un'altra storia... 
Non desideriamo però  tirarla troppo per lunghe.  Quel che troviamo incoerente è un fatto specifico: si può essere cristiani, non cristiani, atei militanti o meno, omosessuali, eterossessuali, transgender, eccetera. Ma non si può pretendere di essere tutte queste cose al tempo stesso. Per dirla brutalmente: prendere la comunione e poi non mutare vita.
Ovviamente, non parliamo a  nome della  Chiesa.  Né desideriamo dare lezioni a nessuno. Dio ci salvi dai cattolici saccenti (di qualsiasi colore politico) con tutte le risposte in tasca...  Poniamo, come dire, un problema di coerenza coscienziale. E perciò di autenticità della propria fede religiosa. 

Certo, dal punto di vista cristiano, è sempre meglio accogliere che respingere. Tuttavia, se per un verso è giusto che la Chiesa sappia attendere - senza imporre - la conversione, per l’altro sembra altrettanto giusto che coloro che ne cercano l’abbraccio materno,  debbano,  se sinceri, offrire qualche segno, anche piccolo, di pentimento… In questo senso ricevere la comunione, può  essere il primo passo. Ma non può e non deve restare l’unico.

Carlo Gambescia

sabato 25 maggio 2013





















Aforismi 1/ I sentieri del disincanto

La storia non è finita, dorme.

Il disincanto è l’incanto del nostro tempo.

Nessuno tifa per la catastrofe,ma la catastrofe accade.

La pazienza della scrittura mi dice che sono poche le cose e le persone che danno conforto.

I malinconici salveranno il mondo.

“Aforismi descrivono il mondo con mortale chiarezza”(Michael Krüger)
Sono sufficienti poche parole per incastrare qualsiasi forma di vita.

È spoglia la vita che ama vestirsi solo del superfluo.

Sono amico di chi esprime unicamente ciò che pensa. Non sono amico di chi rende noto agli altri solo quello che ha deciso di pensare.
Nicola Vacca


Nicola Vacca è nato a Gioia del Colle e vive a Salerno. È scrittore, opinionista, critico letterario, collabora alle pagine culturali di quotidiani e riviste. Svolge, inoltre, un’intensa attività di operatore culturale. Ha pubblicato numerosi libri di poesia, tra i quali ricordiamo, Civiltà delle anime (Book) , Incursioni nell’apparenza ( Manni), Esperienza degli affanni, Almeno un grammo di salvezza (Edizioni Il Foglio), nonché Mattanza dell' incanto ( Marco Saya Edizioni), intensa raccolta fresca di stampa.

venerdì 24 maggio 2013


Il matrimonio gay e 
la “megamacchina dei diritti”





La prendiamo da lontano. Quindi chiediamo ai nostri lettori un briciolo di pazienza.
Le democrazie liberali hanno il loro punto di forza nel relativismo politico-culturale. Dare la parola a tutti e favorire, anche sul piano dei diritti, le diverse minoranze è un importante strumento di democrazia. Per contro, dove invece predominano maggioranze dispotiche non si può parlare di democrazia.
C’è però una controindicazione. Se il relativismo - semplificando: la tua e la mia idea hanno pari valore e diritti - viene spinto oltre un certo limite può trasformarsi in elemento di debolezza.  Per funzionare bene il relativismo necessita di una forte coesione politica e sociale. Parliamo in particolare di un "sentimento" di responsabilità;  una  "sensibilità"  diffusa e perciò  condivisa da tutti:  dalle maggioranze come dalle minoranze politiche, sociali, economiche, culturali.
Cosa intendiamo dire? Che ogni gruppo sociale deve essere consapevole dei propri valori, mezzi e meriti in rapporto a tutti gli altri gruppi. E di conseguenza  assolutamente cosciente di  alcuni limiti insuperabili, pena il dissolvimento sociale. Pertanto, ogni buon relativismo non può  non essere fondato trasversalmente sull’autodisciplina dei diversi gruppi sociali.  Certo,  nella pratica, le cose possono seguire  un andamento diverso, se non opposto. Il buon senso non  si costruisce stando alla scrivania... La maturità sociale è conquista difficile perché di natura pratica.   Ad esempio,  Durkheim, fondatore della moderna sociologia e padre di una notevole teoria sull’autodisciplina gruppi sociali, visse politicamente inascoltato nella Francia della Terza Repubblica, spezzata politicamente in due blocchi contrapposti - si pensi al caso Dreyfus - e quindi ben lontana da quell’idem sentire de re publica, che deve sostanziare il buon relativismo.
Sotto questo profilo la “megamacchina dei diritti”,  nel senso di un meccanismo sociale automatico dove basta inserire un gettone per avere diritto a qualcosa,  rappresenta forse il più importante tentativo di conciliazione tra unità e diversità. Parliamo di un meccanismo, oggi predominante, che punta sulla concessione - ma in realtà sempre più “creazione” autoriproduttiva - di uguali diritti, estesi a tutti cittadini. Funziona? Dipende. E qui veniamo al punto.
Questo meccanismo,  se  lasciato libero di svilupparsi,  può produrre, come nel caso del matrimonio gay ( e corollari nell'ambito delle adozioni),  fratture sociali difficilmente ricomponibili.
Di solito, coloro che magnificano la “megamacchina dei diritti” invocano il suo essere al servizio di un progresso, genialmente favorito da una repubblica illuminata. In questo modo si vuole puntellare dall'esterno il relativismo,  introducendo  un fattore assoluto.  Il vero  problema è che però  il concetto di  progresso non può essere   interpretato in maniera univoca. Non esiste una “versione unica” circa "le  sorti progressive dell'umanità".  Da molti, infatti, il matrimonio gay viene giudicato una forma di regresso e penalizzazione sociale della famiglia.  Di qui, i  conflitti incomponibili, spesso violenti, nonostante, o meglio   grazie  all'inarrestabile  "motorizzazione" di un diritto oggettivo, costitutivamente  incapace di dire no a qualsiasi nuovo e presunto diritto soggettivo. 
Concludendo, servono freni sociali, ovviamente non imposti. Occorrono, insomma, senso della misura nei politici e autodisciplina sociale nei cittadini: capire fin dove ci si può spingere.  Evitando, si capisce, di   scaricare  la "produzione" della coesione sociale  su una megamacchina che  pretende di unificare  e livellare le coscienze   distribuendo diritti  à la carte.  Serve,  ripetiamo, senso del limite: valore tipicamente umano, anche se difficile da acquisire e "stabilizzare".  Del resto quali alternative? Dal momento che   il relativismo privo di confini o  basato su pseudo-limiti, come nel caso dell'idea di progresso, si trasforma inevitabilmente  nella  guerra autodistruttiva di  tutti contro tutti?
Purtroppo, la “megamacchina dei diritti”, se ci si passa l'abusata  metafora, assomiglia a una gigantesca automobile lanciata a folle velocità ma priva di freni.

 Carlo Gambescia 

giovedì 23 maggio 2013

Il libro della settimana: Edward Glaeser, Il trionfo della città. Come la nostra più grande invenzione ci rende più ricchi e felici, Bompiani 2013, pp. 588, Euro 23,00 .


Arnold Toynbee, di cui negli ultimi anni si è quasi persa memoria, dedicò nel 1970 al destino della città un bel saggio dal titolo molto suggestivo Cities on the Move (Città in movimento), reso dall’editore italiano con La città aggressiva. Nel libro lo storico britannico, sulla base del suo famoso schema sfida-risposta, applicato alla civiltà urbana, individuò la nuova e bruciante  sfida posta all'uomo del tardo Novecento  dalla "meccanizzata città mondo":  un gigantesco ed eruttivo agglomerato  teso come lava  a travolgere e assorbire  differenze, culture, economie.  In certa misura Toynbee, forse  da  buon lettore di Lewis Mumford (altro studioso del fenomeno urbano come macchina in grado di riprodursi all’infinito), anticipò l’idea di “megamacchina”, in seguito  teorizzata, in chiave più ampia,  dal sociologo-economista Serge Latouche, il padre della decrescita.
Per farla breve, Toynbee, come oggi molti decrescisti, scorgeva e  temeva la trasformazione  della città  in pura e semplice  sommatoria di  megalopoli: una "città-mondo" estesa, per l'appunto,  a tutto il pianeta.  Con una differenza: il decrescista invoca il ritorno alle campagne e all’autoconsumo nel nome di una visione comunitarista se non socialista, mentre Toynbee proponeva uno sviluppo sostenibile guidato da élite liberali e illuminate,  capaci di affrontare la sfida della megalopoli omologante. Insomma, l'eterno scontro rivoluzione-riforme.
Dove vogliamo andare a parare? Che l’interessante volume di Edward Glaeser, professore di economia alla Harvard University, Il trionfo della città. Come la nostra più grande invenzione ci rende più ricchi e felici (Bompiani), va  in direzione opposta.   Al meno città dei piagnoni decrescisti  e al città con giudizio di Toynbee, Glaeser, snocciolando montagne di dati statistici, oppone il più città. Ma, come vedremo,  al plurale e vero l'alto...  La sua tesi è dirompente e può far saltare sulla sedia persino l’ ecologista all’acqua di rose. Ascoltiamolo:  « Per capire le nostre città e sapere cosa farne, dobbiamo (…) sbarazzarci di dannosi miti. Occorre abbandonare l’idea secondo cui ambientalismo vuol dire vivere intorno agli alberi e che gli abitatori della città dovrebbero sempre e solo battersi per preservare il passato fisico delle città. Dobbiamo smettere di idolatrare il possesso della casa, che favorisce la formazione di distese suburbane di villette a scapito di palazzi a molti piani e smettere di idealizzare villaggi rurali. Dovremmo evitare di concepire l’idea semplicistica che una migliore comunicazione sulle lunghe distanze ridurrà il nostro desiderio e bisogno di stare vicini gli uni agli altri. Soprattutto dobbiamo liberarci dalla tendenza a considerare le città come l’insieme dei loro edifici, e ricordare che la città reale è fatta di carne, non di calcestruzzo» (p. 32).
Ed ecco ciò che egli osserva, in modo ancora più tranchant, a proposito degli Stati Uniti: «Attraverso tutto il paese le grosse città significano minore uso dell’automobile. In media, quando la popolazione raddoppia, le emissioni di biossido di carbonio a famiglia dovuto all’uso dell’auto scendono quasi di una tonnellata all’anno. Le città del Sud in particolare presentano alti livelli di uso dell’auto, e oltre il 75 per cento in più di carburante rispetto a New York (…). Questi fatti indicano che la densità abitativa urbana riduce le emissioni di CO2 nelle vecchie aree metropolitane del Nordest, ma anche nelle aree metropolitane più nuove che si sviluppano più velocemente (…). In parole povere, se volessimo ridurre le emissioni modificando le nostre politiche sullo sviluppo del territorio, un numero maggiore di americani dovrebbe vivere in ambienti più densamente abitati e più urbani» (pp. 346-350).
Anche se può apparire come un’ingiustizia verso un libro ricco di suggestioni,  ridotta all’osso, la tesi di Glaeser è che le città dovrebbero svilupparsi in altezza e non a macchia d’olio sul territorio: più grattacieli meno villette suburbane; meno traffico automobilistico, meno inquinamento.  Quindi stop alle megalopoli, e avanti tutta - il termine è nostro - con le "verticopoli". 
La premessa cognitiva - in effetti, difficilmente negabile - su cui è costruito il volume è che la città è sempre stata e sarà la culla intellettuale dell’umanità: più città, più contatti, più creatività, più invenzioni,  più  gioia di vivere,  eccetera.  Naturalmente,  la tesi   è ben corroborata sotto il profilo storico, economico e statistico. Lasciamo al lettore il piacere di scoprire tutta l’anticonvenzionale preziosità informativa di un libro ben scritto e tradotto. Un testo che si può anche non condividere, ma che va assolutamente letto. E per una semplice ragione:   aiuta a liberare  il nostro orizzonte intellettuale da molti luoghi comuni, soprattutto di matrice ecologista-decrescista. 
In qualche misura, ma non sappiamo se consapevolmente o meno (Toynbee non è mai citato), Glaeser recupera lo schema sfida/risposta.  Ma in modo particolare. A differenza di Toynbee, che forse amava troppo passeggiare tra le rovine, Glaeser crede, rasentando l’atto di fede, nella possibilità della civiltà urbana di farcela ancora una volta: « Le lucenti guglie della città additano la grandezza che l’umanità può raggiungere, ma anche la nostra tracotanza. La recente recessione ci rammenta dolorosamente che l’innovazione urbana può distruggere valore oltre che crearlo. Ogni crisi viene a sfidare il mondo e le sue città. Con la contrazione del commercio e dei mercati finanziari, le aree urbane soffrono. Con la riduzione del gettito fiscale, le città devono lottare per fornire i servizi fondamentali. I livelli crescenti della disoccupazione vengono a pesare ulteriormente su quei servizi, specie nella città che sono già povere». Però, conclude Glaeser, « il nostro futuro urbano resta luminoso. Neppure la Grande Depressione è riuscita a spegnere le luci della città. La tenace forza delle città riflette la natura dell’umanità. La nostra capacità di comunicare gli uni con gli altri è la caratteristica distintiva della nostra specie. Noi siamo cresciuti come specie perché abbiamo cacciato in branco e condiviso le nostra abilità. Lo psicologo Steven Pinker sostiene che la vita di gruppo, versione primitiva della vita in città “ crea i presupposti per l’ evoluzione dell’intelligenza di tipo umano” » (pp. 447-448).
Concludendo,  sembra che per Glaeser la città, o se si preferisce lo spirito stesso  della megamacchina urbana,  sia addirittura racchiuso (nel bene come nel male)  nel nostro corredo evolutivo. Una specie di bisogno  atavico... Detta in chiave filosofica:  un'invenzione, quella della città,  già  codificata nel nostro destino di uomini.  Un po’ troppo forse?  O no?   La parola ai lettori.


Carlo Gambescia 

mercoledì 22 maggio 2013

Il suicidio di Dominique Venner
e la cultura neofascista italiana


Dominique Venner (1935-2013)

Conoscevamo Dominique Venner. Alcuni anni fa lo avevamo contattato per proporgli la traduzione italiana della sua storia d’Europa. Ma la cosa non andò in porto. Chi era? Sicuramente non un picchiatore (come oggi  si legge su certi imbecilli giornali italiani e francesi). Venner fu uomo coltissimo dal carattere molto spigoloso, fiero delle sue idee non in sintonia con la modernità illuminista.  E di riflesso, capillare studioso degli sconfitti della storia, quelli schierati dalla parte sbagliata: tradizionalisti di ogni colore, sudisti,  russi bianchi (in senso politico), fascisti, nazisti, eccetera.
Parliamo di uno storico di razza, non togato ma  autore di moltissimi libri, tutti scritti molto bene. E di valore decisamente superiore, per capacità di sintesi e profondità,  ai  volumi   pletorici e disorganici di accademici come Franco Cardini,  tanto  per fare un esempio italiano.
Insomma, parliamo di uno storico troppo fine e colto - e meno  attento di Alain de Benoist, di cui era buon amico, al ruolo ipnotico-politico dei rituali “andareoltrismi” - per l’asfittico, indecoroso, muscolare scenario culturale del neofascismo peninsulare.  Infatti,   di Venner  resta,   quale solitaria testimonianza italiana  della corposa opera,    la   traduzione  di un volume  dedicato all’epopea sudista.  Un bel libro.
Probabilmente, il  suo  plateale  suicidio  trova spiegazione in quel fascino per le cause perdute (dall’Algeria francese ai matrimoni gay) che ne  animava l' intenso  lavoro intellettuale:  la scintilla per fare buona storia. Ma anche per uscire fuori dalla storia.  Per sempre,  e con quell' esemplare e toccante eleganza, racchiusa nello speciale  Dna  dei vinti.  Come è avvenuto ieri nella Cattedrale di Notre-Dame.
Resta la nobiltà del sacrificio individuale. O se si preferisce, il giusto onore delle armi verso un uomo che,  senza coinvolgere altre persone,  ha messo fine alla propria vita.  Naturalmente, sarà facile, per molti, parlare di "stile Mishima". In effetti, si può avanzare l’ipotesi della comune visione eroica della vita. Anche se dalla parte sbagliata. Ma l’eroismo,  anche quello esemplare di un suicidio,  si sa, non ha colore.
Di sicuro,  i tanti (troppi) pseudo-intellettuali italiani dal cuore neofascista ma dal portafogli a destra, pur idolatrando Mishima - e ora Venner - si guarderanno bene dal  seguire  le orme dei due scrittori suicidi.  Sembra quasi  di sentirli, ben accomodati   davanti  a un Brunello di Montalcino o  un Nero di Lupo:  "Fascio-nazisti sì, ma con grassa pensione (meglio se due) e badante… Maggiorata s'intende".
Un’ultima cosa. Il suicidio renderà molto appetibile Venner  agli occhi del necroforo Roberto Calasso. Che prima o poi,  per la serie "perle sottratte ai maiali",  si proporrà di   includere lo storico nel catalogo Adelphi…
Altra occasione perduta per l’editoria neofascista italiana. Che oggi però onorerà, senza averne mai letto una riga, il “camerata” Venner.

Carlo Gambescia