martedì 10 giugno 2008

“La clinica degli orrori” di Milano 
Liberismo straccione all' italiana

Nel boxino   a destra,  l ’ex primario del reparto di chirurgia toracica, Pier Paolo Brega Massone, 


Quel che è accaduto alla clinica Santa Rita di Milano è veramente grave (http://www.repubblica.it/2008/06/sezioni/cronaca/medici-arrestati/medici-arrestati/medici-arrestati.html). Ma, attenzione, lo scandalo va imputato non tanto alla sanità privata in sé, ma a quel particolare regime che in Italia regola la cosiddetta sanità privata in convenzione pubblica. E che assicura corposi rimborsi ai privati per ogni paziente curato.
Non diciamo nulla di nuovo, ci sono studi di sociologia economica che dimostrano come corruzione e concussione allignino soprattutto in quella zona grigia, dove il privato viene a contatto con il pubblico. Pertanto il vero problema, e non solo nel campo dell’assistenza medica, non è la privatizzazione o la “pubblicizzazione” di un certo servizio, ma la “coesistenza” dei due sistemi, grazie a un sistema di rimborsi ai privati. Come nel caso della Clinica Santa Rita, dove si praticavano su persone in fin di vita operazioni chirurgiche inutili, per lucrare sui rimborsi regionali previsti dal sistema sanitario.
Personalmente siamo per la sanità pubblica e gratuita. Ma al tempo stesso, per chiunque possa permettersela e per un principio di libertà individuale, non siamo contrari a quella privata. Ma a una condizione: che sia totalmente privata. Chi la vuole se la paghi di tasca sua... Insomma, al privato non deve andare un solo centesimo proveniente dal bilancio della sanità pubblica.
Ovviamente, alla base della questione sanitaria italiana ci sono anni e anni di mancati investimenti pubblici nel settore sanitario. Per farla breve: in Italia non è mai esistita una sanità completamente pubblica per ragioni strutturali. Piuttosto che costruire ospedali pubblici si è preferito tenere in piedi un settore misto pubblico-privato, vantaggioso solo per il settore privato in convenzione (dalle cliniche agli ambulatori). E naturalmente per i "decisori" politici della spesa pubblica...

Ma c'è dell'altro: a partire dagli anni Novanta, la crescente regionalizzazione della sanità e la progressiva riduzione del ruolo direttivo del Ministero (oggi) della Salute, volute da tutte le forze politiche in nome del “neo-liberismo sanitario” , hanno ulteriormente ridotto i margini di manovra della sanità pubblica, senza però valorizzare realmente quella privata… Di qui un vivere alla giornata, all’interno di una zona grigia pubblica e privata al tempo stesso, segnato però da lucrose convenzioni tra regioni e strutture private. Definite come necessarie, stante la "carenza strutturale" del settore pubblico. In pratica il solito circolo vizioso...
Purtroppo le cose non cambieranno, almeno fin quando mancherà una politica nazionale della sanità pubblica, fatta di cose concrete, come la costruzione di ospedali confortevoli, e di scelte strutturali, come la formazione di un personale pubblico adeguato (medico e paramedico), ben retribuito e motivato.
Il male è nel regime di convenzione pubblico-privato. Frutto di un neo-liberismo straccione e, dispiace dirlo, tipicamente italiano.
Possibile che tutti, a cominciare dai politici, facciano ancora finta di niente? 


Carlo Gambescia

giovedì 5 giugno 2008

Il libro della settimana: Julien Freund, La guerra nelle società moderne, a cura di Alessandro Campi, Marco Editore, Lungro di Cosenza 2008, pp. 126 euro 16,00.

www.costanet.it/marcoeditore


Ecco un libro che dovrebbero leggere tutti. Anche coloro che si riconoscono negli ideali arcobaleno del pacifismo. Del resto gli antichi romani che se ne intendevano asserivano solennemente si vis pacem, para bellum (se vuoi la pace, prepara la guerra). Dal momento che avevano capito che pace e guerra sono eventi collegati e storicamente ricorrenti, stante la natura “pericolosa” dell’uomo. Di qui la necessità di considerare la guerra una eventualità sempre incombente e alla quale prepararsi.
Dobbiamo perciò essere grati ad Alessandro Campi per aver curato la pubblicazione italiana di questo magnifico testo di Julien Freund, La guerra nelle società moderne (Marco Editore, Lungo di Cosenza 2008, pp. 126. euro 16,00). Dove il grande sociologo francese, scomparso nel 1993, appena settantenne, vicino a Carl Schmitt e allievo di Raymond Aron, tratteggia brillantemente forme, funzioni e significato della guerra moderna. E, attenzione, dal punto di vista di una sociologia realista: che non concede nulla alle utopie pacifiste come a quelle belliciste.
Qual è la sua tesi di fondo? Quella di imparare a conoscere la guerra, studiandola, e così ridurne la portata distruttiva. Partendo però da un presupposto: che “la guerra è una forma specifica di controversia socio-politica e che “pace” significa assenza di guerra”. Ma attenzione, non “assenza di conflitti”. Che a loro volta, se riguardano gli stati, possono, sfociare in guerra. E così via.
“Sarebbe ridicolo - scrive Freund - da parte di uno studioso condannare in nome dell’etica o di un’ideologia, un’eruzione vulcanica o la legge di gravità” . E la stessa cosa - aggiunge - vale per la guerra, che, come forma estrema di conflitto, può essere assimilata a un’ eruzione vulcanica, di cui si possono conoscere le modalità e perfino, entro certi limiti, la periodicità. Senza per questo poter ( o dover) cancellarla dalla sfera di una “eruttiva” naturalità delle cose sociali.
Pertanto se la realtà è quel che è, l’unica cosa che resta da fare è prenderne atto, cercando preventivamente di limitare, fin dove possibile, il ricorso alle armi. Indagando, da sociologo, e non da “sociogogo” (nuova versione della demogogia), la realtà sociale.
Ma in che modo? Secondo Freund si deve cercare di evitare che il conflitto si radicalizzi sulla base di due soli contendenti. E’ sempre necessario, a suo avviso, che vi sia un Terzo soggetto, capace di mediare tra i due in conflitto. Ci spieghiamo meglio.
Secondo Freund in politica il Terzo, come elemento mediatore, arbitro, intermediario, giudice, eccetera, è un fattore di equilibrio. Di conseguenza la sua scomparsa può determinare un dualismo pericolosissimo. E qui si pensi al radicalismo ideologico in bianco e nero delle guerre novecentesche.
Attualizzando la tesi di Freund si può ritenere che il presente conflitto tra Anglo-America e mondo Arabo-Islamico sia frutto dell’assenza di un Terzo: l’Europa. Come unità geopolitica capace di mediare e ricondurre alla ragione i due contendenti. Perciò fin quando l’Europa non riacquisterà la sua indipendenza economica, politica e militare difficilmente il conflitto tra Occidente americano e Islam cesserà.
Ovviamente il libro è interessante anche per due ragioni. In primo luogo, perché ci fa (ri)scoprire il pensiero di Freund, così ricco di profonde riflessioni storiche e sociologiche, al punto da sbalordire il lettore. Freund è tuttora poco noto in Italia, benché conosciuto e stimato soprattutto a destra: in molti ricordano le sue presenze ai convegni anni Settanta della Fondazione Volpe
In secondo luogo, la lettura di Freund, autore di una tra le maggiori opere di scienza politica della seconda metà del Novecento (L’Essence du politique, 1965), resta un ottimo vaccino contro gli estremismi del pacifismo e del bellicismo. Il suo è un sano realismo che indica le cose per quello che sono. Il che di questi tempi non è poco.

Carlo Gambescia

mercoledì 4 giugno 2008

Il ritorno di  Robin Hood

Tremonti  vs  petrolieri: chi vincerà? 





“L’idea è di ragionare sui profitti e non di applicazione dell’Iva alla pompa", dal momento che “tra il prezzo alla pompa e quello che c’è dietro in mezzo c’è il barile con sopra una bottiglia di champagne, che è la speculazione”. Per ora “non c’è nulla di definitivo, ma a noi sembra che dato il drammatico bisogno degli strati più deboli questo tipo di prelievo Robin Hood abbia senso” (http://www.corriere.it/economia/08_giugno_03/ue_ robin_hood_tax_c05d4e1a-315a-11dd-a85a-00144f02aabc.shtml).
Le parole sono di Tremonti. Che dire di un politico di destra che parla, come è evidente, un linguaggio di sinistra?
Finge? E dunque non se ne farà niente? Oppure, Tremonti "ci crede" e così per la prima volta, dai tempi di Enrico Mattei, si ritorna a fare le pulci ai petrolieri?
Da un paio d’anni a questa parte, Tremonti, dal punto di vista culturale, va dicendo cose interessanti. Il libro La paura e la speranza rappresenta qualcosa di autenticamente nuovo nell’ambito del dibattito economico italiano. Diciamo che Tremonti mostra di avere la visione e la cultura per impostare una nuova politica economica di maggior controllo sociale dell’economia. E dunque, semplificando, di sinistra... E l’ ”uscita” sui petrolieri, in qualità di Ministro dell’Economia e non di puro e semplice accademico, rafforza l’ impressione di un politico dotato di eccellente visione d’insieme e capace di andare oltre gli schemi. E di porre (e porsi) problemi autentici circa la natura politica e redistributiva dell’economia. Una visione, ad esempio, assente in Prodi. Il quale, benché a capo di una maggioranza di centrosinistra, si è sempre ben guardato, anche solo a parole, dal turbare gli equilibri economici e politici esistenti.
Ovviamente Tremonti si muove nell’alveo di un visione infrasistemica, cioè interna all’attuale sistema economico: per il nostro professore il capitalismo resta il migliore dei mondi possibili. E questo è il limite del suo no-globalismo di destra. Tuttavia la critica politica dei poteri forti, cui si spera dovrebbero seguire misure specifiche, è indubbiamente un fatto nuovo.

Qualcosa da seguire con interesse. Anche perché in Italia, sorvolando sul già citato Enrico Mattei, le ultime critiche militanti ai sovrapprofitti dei petrolieri risalgono a quelle (sciaguratissime) delle “armi”, legate al terrorismo brigatista e sanguinosamente attuate negli anni Settanta del Novecento, sparando alle gambe, se ricordiamo bene, dell'allora presidente dell'Unione Petrolifera Italiana.
Ora, il vero problema, è capire se Berlusconi, consentirà a Tremonti di “tassare” i petrolieri. Il Cavaliere non è uomo da guerre di classe tra ricchi. E sembra contentarsi, per ora, soltanto dei "bagni di folla", celebrativi della sua vittoria... Di qui due possibilità: o porrà un veto, oppure acconsentirà, ma concedendo ai “signori del petrolio” qualcosa in cambio.
Resta comunque un' indicazione storica e sociologica importante: una destra che voglia “durare” al governo e guadagnare consensi deve fare una politica sociale di sinistra. E qui si pensi all’opera di grandissimi statisti conservatori del passato come Disraeli, Bismarck, Theodore Roosevelt, Giolitti, Ma pure alla politica tedesca del secondo dopoguerra di Adenauer e Erhard, fondata sull’economia sociale di mercato. In Italia anche De Gasperi ed Einaudi ebbero sensibilità sociale, ma in misura minore rispetto agli statisti sopra ricordati. Anche il famigerato Tambroni, uomo della destra democristiana, prima di cadere nel giugno del 1960, aveva tentato di inaugurare una politica sociale di sinistra, ma nel contesto storico sbagliato, già segnato dalla volontà di apertura a sinistra della democrazia cristiana.
Ora Tremonti, così sembra, vuole tentare di nuovo. Auguri.
Carlo Gambescia 

martedì 3 giugno 2008

L'Onu, la Chiesa, l'Italia e il reato di immigrazione clandestina



Le critiche dell'Alto commissario delle Nazioni Unite per i diritti umani Louise Arbour e del Vaticano a proposito della politica del governo italiano nei confronti degli immigrati clandestini pongono alcuni seri problemi (http://www.repubblica.it/2008/05/sezioni/cronaca/sicurezza-politica-6/vaticano-2giu/vaticano-2giu.html).
Personalmente siamo contrari all’introduzione di questo reato. Si tratta di un provvedimento moralmente e giuridicamente improprio. Ci appare come una legittimazione dell’ “eccesso di legittima difesa” (dall’immigrazione). Inoltre si tratta di una misura, come alcuni osservatori sostengono, che servirebbe solo a riempire prigioni, già affollate e invivibili.
Però al tempo stesso ci infastidiscono le intromissioni esterne, soprattutto internazionali. Non tanto quella della Chiesa Cattolica: “potenza spirituale” che non dispone di alcun esercito. E che dunque ha tutto il diritto di perorare "culturalmente" certe cause, tra l’altro giuste come questa. Ben diversa è la posizione dell’Onu, che invece dispone di forze armate. E che soprattutto riflette uno schieramento di forze, rivolto ad azzerare, in nome di un pericoloso universalismo politico, sociale ed economico, oggi, blandamente, a guida statunitense - domani chissà - ogni sovranità particolare.
Non amiamo i nazionalismi. Ma al tempo stesso non ci piacciono gli universalismi armati , anche quelli fondati sui cosiddetti "buoni principi". Basati sulla visione di un supergoverno mondiale dei "buoni", con compiti di polizia universale. E, di regola, per arrestare quei "cattivi", di volta in volta, scelti con grande cura...
In realtà, come la storia insegna, si tratta di un universalismo volto a coprire ben altri, e concreti, interessi politici ed economici. In questo caso, probabilmente dipendenti da un sistema capitalistico, per ora a guida americana, che punta per ragioni legate alla volontà di fruire di flussi di manodopera a basso costo, a una liberalizzazione dei flussi migratori. Ovviamente non negli Stati Uniti, ma nel resto del mondo. E soprattutto nella rivale Europa, perché - ecco affacciarsi anche un movente politico - un’Europa “sovraffollata” e con le mani legate sulle questioni interne, come la gestione sovrana dell’immigrazione - potrebbe rappresentare un avversario molto più malleabile…
La nostra è solo un’ipotesi.
Resta però il fatto che l’introduzione del reato di immigrazione clandestina è moralmente deprecabile, oltre che giuridicamente discutibile (ad esempio alla luce dei principi costituzionali italiani). Insomma siamo davanti al classico dilemma tra etica dei principi ed etica della responsabilità. Oppure, se si preferisce, all'eterno ritorno delle leggi del Politico.

Dal momento che ciclicamente la politica può imporre, in nome del male minore (in questo caso la difesa della sovranità nazionale dagli eccessi  della globalizzazione), scelte moralmente difficili, se non addirittura deprecabili, proprio in nome dell'etica della responsabiltà. O no?

Carlo Gambescia