martedì 24 giugno 2025

Iran, cambio di regime facile?

 


Il “cambio di regime” come lo si definisce in gergo politologico non è cosa semplice. Anzi, è quasi sempre una scommessa. E quando riesce, i frutti che produce sono spesso acerbi, amari, instabili.

Si pensi all’Iraq, alla Libia, all’Afghanistan, per fare tre esempi recenti (o quasi). La grande questione dell’esportazione, per così dire, della democrazia liberale si infrange, quasi sempre, in linea pratica, contro strutture sociali e politiche, arcaiche quanto si voglia, ma solide e resistenti. Molto più di quanto certi strateghi da tastiera vogliano ammettere.

Il caso dell’Iran è emblematico.

Qui ci troviamo davanti a un sistema politico-religioso che, a differenza di molte autocrazie del Medio Oriente, non poggia solo sulla repressione, ma su un consenso reale e stratificato. L’Iran non è solo una teocrazia: è una repubblica teocratica con un robusto apparato istituzionale, una burocrazia efficiente, un sistema economico statale e parastatale dirigista ma funzionale, e una classe dirigente che si rigenera internamente, secondo logiche di cooptazione che nulla hanno da invidiare a quelle dei partiti politici occidentali, studiate da Roberto Michels fin dai primi decenni del Novecento.

Chi parla con leggerezza di cambio di regime a Teheran come Trump, ignora – probabilmente nel suo caso per crassa ignoranza – la coesione ideologica dell’élite sciita, il radicamento sociale dei Pasdaran, e la capacità del regime di mantenere un equilibrio tra potere religioso e interessi economici nazionali. Non è solo questione di moschee, capestri e mitra, ma di reti clientelari, università, associazioni culturali, fondazioni religiose e di una ideologia rivoluzionaria ancora capace di mobilitare le masse.

Certo, esiste un’opposizione. C’è malcontento. C’è gioventù urbana che guarda all’Occidente. Ma questa opposizione sembra divisa, ideologicamente debole, facilmente infiltrabile. E – cosa fondamentale – manca del sostegno di un ceto medio compatto e organizzato, vero motore di ogni cambiamento politico serio. Quando cadde lo Shah nel 1979 gli si rivoltò contro perfino il mondo economico, in particolare quello urbano: un tessuto di imprenditori, mediatori, partner commerciali che riteneva corrotto e repressivo il regime di Mohammad Reza, lo Shah deposto, asceso al potere nel 1941 (va ricordata che la dinastia Pahlavi fu fondata da Reza Shah nel 1925). Ora sembra farsi avanti il figlio dell’ultimo Scià, Reza, ma in realtà si sa pochissimo sul suo reale peso politico.

Il vero ostacolo al cambio di regime in Iran non è l’ingenuità ideologica dell’Occidente, ma la natura profondamente strutturata del sistema che si vorrebbe abbattere. A cominciare, ripetiamo, dal carattere radicale e totalizzante dello sciismo politico, che non è semplice religione, ma dottrina di governo, visione del mondo, grammatica del potere: un canone che rinvia a una dinamica secolare interna all’Islam tra sunniti e sciiti (semplifichiamo). E che vede questi ultimi, animati da un potente radicalismo, proprio perché minoritari, quindi desiderosi di proselitismo, secondo la classica spirale dell’estremismo che conduce al potere o alla rovina.

Parliamo, per tornare all’Iran, di un potere che si legittima non solo sul piano teologico, ma anche attraverso reti sociali capillari, una classe dirigente coesa, e un’ideologia rivoluzionaria ancora attiva nel plasmare l’identità nazionale.

Il regime iraniano non è una dittatura personale o un’arbitraria tecnocrazia militare: è un ordine politico che si percepisce come sacro, storico e necessario. In questo senso, più che l’assenza di democrazia, a rendere arduo qualsiasi cambio di regime è la presenza di una legittimità alternativa, di pari forza. Può il liberalismo occidentale assolvere al compito? E soprattutto con quale tempistica storica? Lunga molto lunga, riteniamo. Nei tre principali casi storici di modernizzazione riuscita, esterni all’Occidente (Cina, Giappone, Turchia), il liberalismo, cioè la modernizzazione politica, non ha mai avuto vita facile.

Pertanto pensare di rovesciare il regime iraniano con un colpo di bacchetta magica, come sembra credere Trump, è ridicolo. Tra l’altro, Israele, nella sua logica prussiana, alimentata da Netanyahu , non sembra molto interessato, a possibili trasformazioni politiche.
 

Pertanto il vero rischio è di alimentare il caos, senza costruire alcun ordine nuovo.

Nel 1979 la Rivoluzione islamica non fu un colpo di mano di fanatici religiosi, ma una mobilitazione di massa sostenuta da larghi settori della società, desiderosi sì di cambiamento, ma non certo di occidentalizzazione, a parte i frammenti di borghesia urbana, cui accennavano, ovviamente poi sacrificati dallo stato teocratico.

Nel 2009, l’Onda Verde, che nacque in risposta alle elezioni presidenziali, percepite da molti come truccate a favore di Ahmadinejad, fu un’enorme mobilitazione popolare (soprattutto a Teheran e nei centri urbani). Tuttavia il movimento non ebbe il sostegno decisivo né tra le élite religiose né tra i militari. Si avvertì l’assenza di un’organizzazione politica coesa e un programma alternativo chiaro. Insomma, le piazze si riempirono, ma il potere non vacillò.

Chi oggi fantastica di un nuovo cambio di regime dovrebbe ricordare che in Iran non siamo di fronte a un sistema improvvisato o di cartapesta, ma a una macchina ideologico-religiosa che ha saputo mantenere coesione, continuità e capacità di adattamento per oltre quarant’anni, anche sotto sanzioni, isolamento e pressioni internazionali.

Pertanto è verissimo (e giustissimo) che un Iran secolarizzato, filoccidentale, liberale, eccetera, sarebbe oggi più che mai necessario per stabilizzare il Medio Oriente, ma non si tratta di impresa facile da perseguire per le ragioni che abbiamo fin qui illustrato.

Ciò non significa, beninteso, che non si debba tentare. Ma il punto è evitare la faciloneria – tanto più pericolosa quanto più arrogante – di personaggi come Trump, convinti di poter piegare la storia con un tweet.

La realtà, come insegna la metapolitica, è più ostinata. I regimi solidi, coesi, non cadono per pressioni esterne, ma si sfaldano dall’interno, lentamente, sotto il peso delle proprie contraddizioni. Certo, nulla si può escludere. Le “esplosioni” di questi giorni – politiche o belliche – potrebbero alimentare fratture nella classe dirigente iraniana. Le sconfitte militari possono agire da catalizzatori.

Tuttavia, non per questo si deve credere all’esistenza di una nuova élite pronta a rimpiazzare i teocrati e a guardare al liberalismo occidentale con occhi pieni di ammirazione. Sarebbe un’altra ingenuità.

Altra leggerezza, altrettanto grave, è pensare che un eventuale ricambio – vale a dire una vera e propria mutazione sociologica del regime – possa avvenire in modo rapido e indolore. La storia, anche quella più recente, insegna il contrario.

Carlo Gambescia

lunedì 23 giugno 2025

Bombe senza progetto: l’impasse occidentale sull’Iran

 


Inutile nasconderlo. Oggi l’Iran è un nemico strategico dell’Occidente. L’idea che debba essere messo nelle condizioni di non nuocere è in linea di principio giustificabile sul piano di un sano realismo politico.

Ovviamente, ci si riferisce all’Iran fondamentalista, guidato da un regime teocratico che combina, esaltandoli, autoritarismo interno e politica estera aggressiva. Un Iran secolarizzato, modernizzato, persino liberal-democratico, rappresenterebbe al contrario un potenziale alleato prezioso per l’Occidente in Medio Oriente, come lo fu in parte l’Iran prima del 1979. Semplificando, forse troppo: la missione è riportare l’Iran ai tempi dello Scià quando a Teheran si ballava il twist.

Pertanto un’azione militare contro l'Iran non può non implicare il cambio di regime orientato verso l’Occidente. Di conseguenza, come sta accadendo, un intervento senza una visione chiara sul “dopo” (dire che lo si bombarda per convincerlo a trattare, significa tutto e niente), rischia di tradursi, “prima”, in una dimostrazione di forza fine a se stessa. Un pura e semplice esercitazione muscolare. Stati Uniti e Israele sono consapevoli che distruggere l’apparato militare iraniano, senza offrire un’alternativa politica credibile, potrebbe rivelarsi un gesto isolato, privo di effetti duraturi? 

Diciamola tutta, una campagna di bombardamenti può certamente infliggere danni: logorare le strutture militari iraniane e accrescere la sofferenza della popolazione. Ma difficilmente, da sola, può minare le fondamenta ideologiche e istituzionali del regime. L’Iran fondamentalista è infatti cementato da una legittimazione religiosa che lo rende più resistente a pressioni esterne rispetto ad altri regimi autoritari.

In teoria, una strategia di logoramento potrebbe funzionare, ma imporrebbe: 1) impermeabilità rispetto alla pubblica opinione occidentale, di regola pacifista; 2) tempi lunghi e costi economici e politici elevatissimi. Va infine ricordato che, a differenza dell’Iraq nel 2003, l’Iran è un paese più vasto, popoloso, e dotato di una rete di alleanze regionali.

Al momento, l’ipotesi di un’invasione terrestre in stile Iraq sembra esclusa, a causa delle enormi risorse umane, economiche e organizzative che richiederebbe. Resta in piedi, per ora, la strada dei bombardamenti mirati su infrastrutture militari e nucleari con armamenti americani di ultima generazione.

In realtà ciò che colpisce è l’assenza di una strategia chiara. Si colpisce oggi, si attende domani. Senza un progetto politico per il futuro dell’Iran, ogni attacco rischia di essere solo un’azione tattica, priva di sbocchi concreti. Ripetiamo: un esercizio muscolare. Si può anche parlare di impasse. Vicolo cieco. Il “martello di mezzanotte”, martella, ma tutto rischia di restare come prima.

Un conflitto a bassa intensità con l’Iran non può prescindere da considerazioni metapolitiche più ampie. Fino a che punto Russia e Cina — potenze che mantengono solidi rapporti con Teheran — tollereranno un accerchiamento militare da parte di Israele e Stati Uniti?

E cosa faranno gli Stati del Golfo, storici rivali dell’Iran sciita ma al contempo legati a Teheran da interessi energetici ed economici? L’eventualità di una chiusura, anche solo simbolica, dello stretto di Ormuz — da cui transita circa il 20% del commercio globale di petrolio — potrebbe scatenare un terremoto nei mercati mondiali.

In tutto questo, l’Europa appare sostanzialmente assente. Italia inclusa. Non ha toccato palla, come si dice. L’idea di Bruxelles di affidarsi alla sola diplomazia, mentre la situazione evolve rapidamente sul piano militare, suona più come un segnale di impotenza che di saggezza politica.

Che fare, dunque? Dichiarare nel più breve tempo possibile l’operazione Iran felicemente conclusa, sebbene falso, e prepararsi meglio per la prossima volta.

Ripetiamo: al momento, Washington e Gerusalemme non sembrano disporre di un disegno complessivo. Solo per dirne una: ieri Trump di punto in bianco ha parlato di cambio di regime a Teheran. Come si trattasse della cosa più semplice del mondo. Che lui, nuovo dio onnipotente, può realizzare con un semplice “Fiat”. E Netanyahu ha ribadito, da par suo, che l’operazione militare contro l’Iran andrà avanti fino a quando necessario. Iran come Gaza? Bah…

Netanyahu e Trump hanno un problema: sono privi di senso del limite. Una lacuna che potrebbe avere conseguenze molto più gravi del previsto.

Carlo Gambescia

domenica 22 giugno 2025

Trump attacca l’Iran: il ritorno del dinosauro politico

 


È accaduto. Il presidente Trump ha ordinato il bombardamento di tre siti nucleari iraniani. Era prevedibile: Trump è privo di scrupoli e richiama alla mente per certi aspetti il Principe, così vividamente dipinto da Machiavelli più di cinque secoli fa. Per farla breve: l’annuncio secondo cui gli Stati Uniti avrebbero atteso ancora due settimane aveva solo una funzione fumogena. Pura dissimulazione.

Sulle conseguenze effettive dell’attacco, per ora si sa poco o nulla. Si è appreso soltanto che aerei e sottomarini americani sono rientrati indenni alla base.

C’è una strategia dietro tutto questo?  Qual è il modello di conflitto – perché ormai si può parlare di guerra aperta – su cui puntano Stati Uniti e Israele?

Il riferimento potrebbe essere alla guerra aerea come strumento per piegare il nemico. Un precedente remoto si trova nella Operation Deliberate Force, la campagna aerea condotta dalla NATO contro la Repubblica Serba tra il 30 agosto e il 20 settembre 1995. Un’operazione che portò alla resa serba e agli accordi di Dayton. Tuttavia, quella fu un’azione condotta dalla NATO, con il supporto formale di una risoluzione ONU, e il nemico aveva caratteristiche del tutto diverse: dimensioni geografiche, demografiche, militari, culturali e religiose incomparabili. Solo per fare un esempio: la Serbia contava allora sei-sette milioni di abitanti; l’Iran ne ha oltre ottanta milioni.

Prima osservazione: Trump e Netanyahu non sembrano avere un piano preciso. La questione del nucleare iraniano sembra essere lo specchietto per le allodole. Il vero obiettivo potrebbe invece essere il cambio di regime. Ma in realtà c'è molta confusione nell'aria. Quel che c'è di sicuro  rinvia  alla logica-prurito alle mani: “prima si spara, poi si vede”. E se anche il modello fosse quello serbo, difficilmente sarebbe applicabile al caso iraniano. Perciò d’ora in avanti si navigherà in mare aperto: tutto è possibile. L'Iran può piegarsi, come pure resistere  fino a quando le risorse lo consentiranno,  molto dipenderà da Russia  e Cina. Quanto al mondo islamico, Teheran è praticamente isolato. Potrebbe vendere cara la pelle, bloccando lo stretto  di Hormuz, oppure cedere improvvisamente, aprendo le porte  a un cambio di regime. Vedremo.

Seconda osservazione: emerge chiaramente la componente egopolitica di Trump, ossia di un ego spinto da una smisurata volontà di potenza. Questa nostra affermazione può essere definita di parte. Ideologica. Per nulla scientifica. In realtà, la maggior parte degli analisti non sembra aver capito che Trump è un fenomeno politico di tipo preliberale. Si pensi, a un dinosauro, risvegliatosi dopo sessantacinque milioni di anni. La sua logica, fuor di metafora, è quella di un Luigi XIV: “L’État, c’est moi”. Opporgli la lavagnetta con su scritto l’elenco dei diritti dell’ uomo è patetico.

Ora Trump, in base alle reazioni mondiali, a partire da quella europea, prenderà le misure per future operazioni simili, almeno per livello di aggressività: contro Panama, Groenlandia, Canada, Messico. Esageriamo? Si provi a vedere il mondo attraverso gli occhi di un Luigi XIV. O se si preferisce di un affamato dinosauro politico.

Persino l’Europa stessa – per non parlare dell’Ucraina, ora che Putin ha le mani libere – è potenzialmente in pericolo. Del resto anche la Cina ha ricevuto un messaggio forte e chiaro: per Trump il ricorso alla forza, senza troppi scrupoli o riflessioni sulle conseguenze, è normale. Non ha remore morali di alcun tipo. Si fa guidare da una specie di istinto carnivoro pre-liberale, piuttosto che da un consigliere come Machiavelli. E’ un Principe allo sbaraglio.

Terza osservazione: le possibili conseguenze per l’uomo e per l’ambiente. Un bombardamento che danneggi un reattore nucleare o un deposito di combustibile esausto può causare la fuoriuscita di sostanze radioattive, contaminando aria, acqua e suolo. Le conseguenze sanitarie potrebbero essere simili – se non peggiori – a quelle di disastri come Chernobyl o Fukushima. E, cattive nuove,  anche questo aspetto viene sottovalutato da Trump.

Come si può intuire, ciò che potrebbe rappresentare un bene per l’Occidente – il ritorno dell’Iran nei ranghi della diplomazia e dell'ovile occidentale – rischia di trasformarsi in un incubo se gestito in modo confuso, senza alcuna considerazione per le conseguenze strategiche, militari e ambientali.
 

L’unica certezza è che l’Europa è sola. E l’unica possibilità di salvezza è il riarmo massiccio. Perché la politica egocentrica di Trump riconosce e teme solo la forza, quando questa è pari o superiore a quella degli Stati Uniti.

Riarmarsi, riarmarsi, riarmarsi. Altro che le  manifestazioni in favore della pace o il controproducente rilancio di sorpassati e stupidi nazionalismi che fanno soltanto il gioco di Trump. 

Un’ osservazione finale. Ci si potrà rimproverare, come talvolta accade, la mancanza di fonti istituzionali o grafici a sostegno delle nostre affermazioni. Obiezione legittima, almeno sotto il profilo di un certo rigore scientifico. Tuttavia, occorre chiarire sin da subito che non siamo sul terreno della geopolitica, bensì su quello – ben più sdrucciolevole, ma anche più rivelatore – della metapolitica. E qui rinviamo i lettori al nostro Trattato di metapolitica (Edizioni Il Foglio, 2 volumi).

Il fenomeno Trump, a ben vedere, è insieme antico e radicalmente nuovo. Repetita iuvant.

Antico, come il ritorno periodico di una figura arcaica, potremmo dire “il dinosauro”, che porta con sé istinti primordiali, sedimentazioni profonde dell’immaginario politico.  Nuovo, perché incarna una volontà di potenza che si pensava scomparsa nel chiacchiericcio liberal delle democrazie postmoderne.

In tal senso, non si tratta tanto di analizzare, quanto di intuire. L’essenziale non sta nei dati, ma nel segnale. E Trump, piaccia o meno, è un segnale. Forte, disturbante, tellurico. Come certi simboli che la ragione non spiega, ma che metapolitica e storia riconoscono subito.

Carlo Gambescia

sabato 21 giugno 2025

Crisi iraniana. Prima la forza, poi la pace. Il realismo che l’Europa rifiuta

 


L’Europa “buonista”, secondo il lessico giornalistico,  ha ormai fatto propria la parola trattativa. Anche sotto le bombe, come si legge  a proposito dell’Iran. La stessa parola magica viene estesa alla guerra in Ucraina e alle altre guerre sparse nel mondo.

Nelle facoltà di scienze politiche oggi si studia il peacekeeping (il come conservare la pace). Mosca, Pareto, Michels, di lassù, si faranno grasse risate.

Definizione. Trattare nel senso di discutere di qualcosa con qualcuno per raggiungere un accordo. Trattare, si dice, non è guerreggiare e la trattativa, si chiosa cinguettando, è il contrario della guerra.

Ecco perciò la regoletta aurea, dicono: smettere di spararsi per sedersi intorno a un tavolo.

Le cose in realtà non sono così semplici.

In primo luogo, per trattare si deve essere in due: parlare di trattative mentre il nemico (cioè uno dei contendenti) continua a sparare è inutile. E qui si torna al famoso cessate il fuoco, così difficile da accettare, soprattutto dalla parte che sta per vincere o che si sente vicina alla vittoria.

In secondo luogo, la trattativa se autentica, deve essere priva, tra le parti, di riserve mentali. Si tratta perché si vuole trattare e non perché si vuole perdere tempo ( e guadagnare terreno) formulando richieste impossibili o fuori contesto.

In terzo luogo, la trattativa, per le due ragioni appena ricordate, può non partire o fallire. Di conseguenza risulta scontato il ritorno della guerra.

Insomma trattare non basta. Serve la volontà di trattare, se non c’è quella, trattare resta una parola vuota e ingannevole.

Alla luce delle attuali dinamiche, l’ipotesi di una trattativa sul nucleare iraniano favorita da una mediazione europea appare per quello che è: un esercizio di stallo. È evidente che non si sta realmente costruendo un percorso di soluzione, ma semplicemente guadagnando tempo. E non è detto che lo stiano guadagnando tutti nella stessa misura.

Si rifletta. Perché fingere che l’Iran, teocrazia armata di cinismo politico-diplomatico, sia un interlocutore “come gli altri”? La retorica dei “diritti all’uso civile del nucleare” diventa, in simili mani, la maschera buona per ogni ambiguità strategica. Si continua a parlare di trattative, tavoli comuni, garanzie multilaterali. Ma quali garanzie? Quelle di un regime che ha fatto della manipolazione l’arte regina e del martirio una leva geopolitica?

Il problema non è tecnico, bensì politico e culturale. Ecco l’errore: credere che sia possibile disinnescare l’ideologia attraverso il protocollo. Come se il linguaggio del diritto potesse convertire un progetto di potenza, fondato sulla religione politicizzata, in volontà di sviluppo pacifico. Come dicevamo è una pia illusione quella di pensare che ogni conflitto si possa “negoziare”, ogni minaccia “contenere”, ogni volontà di dominio “regolare”. Come se bastasse dire IAEA (Agenzia Internazionale per l’Energia Atomica) per dormire sonni tranquilli.

Il commercio, cosa verissima, tiene lontane le guerre, ma quando l’interlocutore agisce in malafede, ogni presunto equilibrio si rivela fragile, ogni accordo un mero espediente tattico. In questi casi, il commercio diventa uno strumento tra gli altri, piegato agli obiettivi di dominio, non un argine alla violenza. È proprio la malafede, cioè la distanza tra ciò che si dichiara e ciò che si persegue realmente, a rendere inefficace il linguaggio dei trattati, delle risoluzioni, delle conferenze.

Del resto, non è forse sempre l’Iran che da decenni alimenta reti paramilitari in tutto il Medio Oriente? Lo stesso che oscilla, con disinvoltura teatrale, tra ghirigori diplomatici e minacce velate o meno? Parlare oggi di “diritto all’arricchimento dell’uranio” in mano iraniana è come discutere del diritto alla libertà di stampa in Corea del Nord. È un concetto mal posto.

L’errore strategico dell’Occidente è questo: credere che le trattative funzionino anche quando la parte opposta non condivide neppure in minima parte il quadro valoriale su cui quelle trattative si basano. Un dialogo tra sordi, nel migliore dei casi. Un gioco delle tre carte, nel peggiore.

Insomma, trattare con l’Iran sul nucleare, “in nome della pace”, significa ignorare che la pace, per certi regimi, è solo l’intervallo fra due offensive (il che dal punto di vista metapolitico non è neppure sbagliato). E a furia di dialogare, rischiamo di risvegliarci un giorno sotto l’ombra – finora solo metaforica – di un fungo atomico mediorientale.  A quel punto  altro  che trattati da  firmare e tavoli da convocare...

Inoltre la storia insegna una regola elementare, quasi brutale nella sua semplicità: per trattare, si deve prima vincere. E vincere significa imporsi, piegare l’altro alla propria volontà, costringerlo a considerare il negoziato non come opzione, ma come necessità. Solo allora può iniziare il dialogo. Ma prima viene il suono degli stivali, non il tintinnio delle posate alla tavola imbandita delle conferenze. 

Si badi, la logica dei negoziati preventivi o delle  esperienze in cui la diplomazia ha avuto successo prima della guerra possono valere per i  conflitti  tra  piccoli stati ma fino a un certo punto: si pensi alla Guerra del Chaco, conflitto armato sanguinosissimo, per un pezzo di deserto,  tra Bolivia e Paraguay (1932-1935), ma anche ai conflitti intrafricani dopo la decolonizzazione.  Di regola chi ha la forza è sempre pronto a farla valere. In qualunque momento, prima, durante, dopo. La trattativa è una pennellata di vernice...

Sono cose che Israele, in particolare “a conduzione” Netanyahu, conosce bene. Forse troppo. Che Trump invece fraintende, preferendo le pericolose fanfaronate da immobiliarista (almeno per ora). Diciamo che il primo fa sul serio, in modo arruffato, il secondo gioca con il fuoco, di armamenti  nuovi di zecca che  non conosce fino in fondo.

In sintesi: l’Iran teocratico va prima piegato. E con una certa logica organizzativa militare (che al momento difetta). L’Europa invece non deve mettersi in mezzo.

È così che funzionano le cose, da Tucidide a Clausewitz, passando per Yalta e Dayton: Hitler fu piegato, come lo fu nel suo piccolo, Milošević, che dopo Dayton, fu lasciato al suo posto ma per poco. I trattati, i compromessi, i grandi “momenti diplomatici” della storia non nascono da una comune ricerca della verità: la storia non è  un manuale di filosofia morale. Nascono invece da un equilibrio di potere costruito con la forza e solo dopo nobilitato con la parola.

Eppure sembra che si voglia invertire l’ordine naturale delle cose metapolitiche: si vuole trattare prima di vincere. Si cerca il compromesso prima che esista uno squilibrio reale in proprio favore. Si invoca la diplomazia mentre si subisce, non mentre si comanda. È il trionfo dell’ingenuità o, peggio, dell’ipocrisia.

Ma, attenzione, vincere non è sinonimo di umiliare. Sta poi all’intelligenza del vincitore, al suo senso della misura, non approfittare della vittoria, non trasformare la pace in vendetta mascherata. La storia, anche qui, parla chiaro: il congresso di Vienna (1814-1815) favorì quasi un secolo di pace. Per contro Versailles (1919) insegnò molto poco a chi poi si illuse, nel 1938, di fermare Hitler con un foglio di carta sventolato al mondo di ritorno da Monaco.

Insomma, la forza è la condizione del negoziato, non la sua negazione. Chi confonde la diplomazia con la psicoterapia non tratta: si arrende. E non costruisce la pace, ma legittima la propria sconfitta.

Carlo Gambescia 

venerdì 20 giugno 2025

Quarantasei anni di errori: l’Occidente e il disastro iraniano

 


Quel che oggi accade in Iran è il prodotto di una lunga catena di errori dell’Occidente. Errori politici, strategici e soprattutto culturali. Sono cose che vanno dette anche a costo di essere accusati di una lettura binaria e semplicistica della storia e della politica internazionale. Quel che perderemo in profondità analitica lo guadagneremo in chiarezza espositiva.

Il primo errore – forse il più grave – fu quello di sottovalutare la  reale natura del clero sciita negli anni Settanta. Si pensò, ingenuamente o colpevolmente, che dietro le vesti religiose ci fosse un’anima democratica. Così si lasciò cadere lo Scià, Mohammad Reza Pahlavi, figura autoritaria ma modernizzatrice, e si lasciò spazio a Khomeini.

Il risultato? Che dopo neppure tre mesi da quella maledetta scaletta dell’aereo da cui discese Khomeini, di ritorno dall’esilio francese, nacque nell’aprile del 1979 la Repubblica islamica: un regime teocratico feroce, repressivo, nemico dichiarato dell’Occidente e dei suoi valori. L’Iran degli ayatollah non è un incidente di percorso, ma la conseguenza diretta di quel tragico abbaglio.

Il secondo errore fu l’illusione di poter “giocare” con l’Iran e i suoi vicini secondo la logica dell’equilibrio del terrore regionale. Prima si tollerò Teheran in funzione anti-Baghdad, poi si sostenne Saddam in funzione anti-iraniana. Una partita cinica e pericolosa, nella quale si armarono alternativamente gli uni e gli altri. Una follia: come voler portare il principio della temperanza in un’osteria ricolma di ubriachi armati.

Il terzo errore, più recente ma non meno grave, fu credere – o fingere di credere – che il programma nucleare iraniano fosse esclusivamente civile. Ci si affidò a una diplomazia debole, a ispezioni parziali, a rassicurazioni risibili. E l’Europa, in particolare, si distinse per un pacifismo sterile e inconcludente, che fece il gioco di Teheran. Anche gli Stati Uniti, almeno in una fase, si lasciarono coinvolgere in questa farsa geopolitica.

E adesso, come una specie di foglia di fico, si discute del fatto che l’Iran possa costruire un’atomica in meno di due settimane: il tempo che serve a Trump, come ha dichiarato ieri, per riflettere se intervenire o meno.

Quando si dice il caso… Quarantasei anni di errori e due settimane per risolvere tutto. Ci sarebbe da ridere, se la situazione non fosse così grave. Anche perché, senza interventi militari diretti sul campo, insomma senza strategie militari precise e concertate, capaci di eccitare rivolte interne, giocando su forze di opposizione che pur resistono, il rischio è quello di un Iran che diventi una sorta di macro Gaza a cielo aperto. Un gigantesco campo di tiro al piattelo: “Pull!” E il lanciatore preme il pulsante che lancia in aria il disgraziato di turno.

Il che  non è una bella prospettiva.

Il quarto errore è quello attuale: mentre Israele affronta sul campo la minaccia iraniana – con durezza, certo, ma nella sostanza anche a difesa dell’Occidente – si levano voci di condanna e appelli alla pace. Si cerca di legare le mani a Israele proprio mentre combatte il nemico che noi, per viltà o convenienza, non abbiamo mai davvero voluto affrontare.

Il problema è chiaro: se una civiltà non sa più riconoscere i suoi nemici, ha già imboccato la via della decadenza. Europa e Stati Uniti, oggi, sembrano confusi, paralizzati, incapaci di una linea comune e coerente. E il proliferare del cancro nazionalista in Occidente non aiuta, perché mette tutti contro tutti, favorendo l'avanzata del nemico comune esterno.

E ora che il regime iraniano mostra crepe, che le tensioni si moltiplicano e la crisi regionale rischia di esplodere, ecco che i nodi vengono al pettine. Ma non c’è un piano, non c’è una strategia condivisa. Il cambio di regime in Iran – obiettivo dichiarato ma mai perseguito seriamente – richiederebbe forze sul campo, collaborazione tra alleati, chiarezza di intenti. E invece?

L’ Israele di Netanyahu agisce da solo. L’America di Trump prende tempo. L’Europa si rifugia nei salotti delle conferenze di pace. Intanto gli ayatollah si presentano come vittime del colonialismo occidentale, quando in realtà da decenni governano con pugno di ferro, soffocando ogni libertà.

Se davvero esistesse quel famigerato “sistema coloniale” di cui tanto si parla, l’Iran sarebbe oggi una monarchia moderata, alleata dell’Occidente, prospera e stabile. Invece, ecco,  ciò che vediamo: una teocrazia bellicosa e repressiva. E di questo, almeno in parte, dobbiamo ringraziare noi stessi.

Infine, qualcuno potrebbe ritenere che la caduta dello Scià venga trattata in modo troppo sbrigativo, trascurando le proteste popolari autentiche e le gravi violazioni dei diritti umani. Non si tratta, in realtà, di assolvere lo Scià né di ignorare le ombre del suo regime. Tuttavia, è altrettanto fuorviante continuare a raccontare quella storia come se tutto fosse cominciato nel 1979, come se l’ascesa di Khomeini fosse stata solo l’espressione spontanea di un popolo oppresso, e non anche il risultato di precise scelte, omissioni e ingenuità da parte dell’Occidente.

Quarantasei anni dopo, l’errore più grande resta quello di non voler vedere. Di non voler riconoscere che l’Iran degli ayatollah non è un’alternativa, ma una minaccia. E che l’Occidente, ancora oggi, resta diviso tra chi lo comprende – spesso inascoltato – e chi, per ideologia o calcolo, preferisce voltarsi dall’altra parte.

Non c’è più tempo per l’ambiguità, per l’autoflagellazione o per le illusioni pacifiste. Se l’Occidente vuole davvero difendere i suoi valori, deve cominciare col recuperare la lucidità necessaria a riconoscere i propri errori. E, finalmente, smettere di ripeterli.

 Carlo Gambescia

giovedì 19 giugno 2025

Il mondo brucia, il Papa tace

 


Tutti i riflettori sono accesi su Trump. Che farà? Entrerà in guerra contro l’Iran affiancando Israele? Oppure no?

La foto di un obeso ( o quasi), violento e prepotente, ghignante, con un ridicolo berrettino Maga, calcato in testa, campeggia su tutte le prime pagine.

E il Papa, Leone XIV, fisicamente l’opposto di Trump, che sembra scomparso dalle cronache, che fa? I cattolici, poverini, a chi possono indirizzare i messaggi di pace?

Dicono, che il Papa riposi. Che passeggi addirittura tra i giardini di Castel Gandolfo. Ieri, sembra abbia accennato alla necessità della pace, ma in un contesto generalista. Come se su Teheran piovessero ciambelle zuccherate. In realtà si è trattato solo di una breve visita alla storica residenza estiva dei papi. Un micro presa di possesso. Dopo i furori pauperistici di Francesco, forse Leone XIV vi trascorrerà un periodo di riposo in estate.

A Los Angeles, le proteste si trasformano in scontri violenti tra manifestanti e forze dell’ordine. L’ICE conduce operazioni che suscitano interrogativi non secondari sul rispetto della dignità umana. In Medio Oriente, Israele e Iran sono ormai in guerra. Conflitto che potrebbe incendiare l’intera regione, coinvolgendo attori globali. Trump, come dicevamo pensa di intervenire… E il Papa? Tace. Oppure parla d’altro.

Attenzione, non siamo pacifisti, come il lettore ben sa. Qui non si tratta di aspettarsi da Leone XIV discorsi infiammati. Nessuno pretende che si riduca a un Don Chisciotte della diplomazia morale. Ma, ecco il punto interessante, una istituzione sociale — e la Chiesa cattolica lo è, e tra le più antiche — ha un compito funzionale, una finalità storica. Per usare una parola grossa: offrire una cornice di senso, e se possibile, di giustizia a milioni cattolici. La “cornice” può non piacere, a noi non piace, però, sociologicamnete parlando, deve esservi. Soprattutto, quando la storia si incupisce.

Perché non parlare? Perché non nominare ciò che accade? Perché questa astensione, questa cautela eccessiva? Si dirà: prudenza diplomatica, quella tradizionale. Ma allora che differenza c’è tra un Pontefice e un Segretario generale dell’ONU? O peggio, tra un Vicario di Cristo e un consigliere privato di un governo?

C’è una cosa che si chiama dilemma delle istituzioni. Cioè una istituzione non può essere altro che se stessa. Per capirsi, magari brutalmente: sei Chiesa, devi comportarti da Chiesa, quindi predicare la pace sempre, o almeno salvare le apparenze. Non si può essere al tempo stesso Chiesa e dicastero degli Esteri di Castelgandolfolandia. Si deve scegliere. E una Chiesa, che sia tale, deve sempre scegliere di essere Chiesa. Altrimenti si finisce per dare ragione al grande scrittore ucronico Guido Morselli che in Roma senza papa, si inventa un papa Giovanni XXIV, un prete irlandese che abbandona Roma e si trasferisce a Zagarolo, favorendo intorno alla Chiesa un clima di smobilitazione.

Insomma, il Papa – e la Chiesa ovviamente – non può essere il semplice notaio silenzioso del nulla. Se la guerra incalza ha il dovere di parlare di pace. Non nel senso ingenuo del “Peace and Love” ma del riconoscimento del diritto e del limite, di ciò che può ancora essere salvato in termini di umanità, ordine e giusta pace.

Alla notazione sociologica qui sviluppata dell’istituzione che, se non vuole snaturarsi (essere altra cosa), deve restare tale, ne va aggiunta un’altra che rinvia al realismo politico. Quale? Che non esiste neutralità assoluta. Esiste invece il senso di responsabilità. E se la Chiesa vi abdica, rifugiandosi nell’impenetrabilità, magari addolcita con il postmoderno glucosio del simbolismo e della metafora, rinnega se stessa.

Qui non contano le buone intenzioni. Conta capire quale ruolo intende assumere la Chiesa nel mondo di oggi. Perché se Leone XIV continuerà a tacere mentre la storia torna a farsi tragica, sarà legittimo chiedersi se Castel Gandolfo — anche simbolicamente, anzi soprattutto — non rischi di diventare l’eremo dorato di un’istituzione che ha smarrito il senso del proprio ruolo.

E allora sì, con amara ironia, qualcuno inizierà a chiamare Leone XIV “il cappellano di Trump”. Ma non perché benedica direttamente le guerre o le deportazioni stellate. Piuttosto perché, tacendo, lascia che altri dicano sempre l’ultima parola.

Si dirà che sarebbero sempre e comunque solo “parole”. Certo, però non siamo stati noi ad asserire che l’uomo non vive di solo pane, ma uno dei "Padri fondatori", Matteo: Vangelo, 4, 4, dove si legge: “Non di solo pane vivrà l’uomo, ma di ogni parola che esce dalla bocca di Dio”.

Carlo Gambescia

mercoledì 18 giugno 2025

Giano è tornato. La destra riscopre la guerra, la sinistra sogna la pace

 


Giano è tornato. Non quello delle cartoline turistiche o dei libri di mitologia, ma il Giano bifronte della politica: da un lato la guerra, dall’altro la pace. Due volti inseparabili, eppure inconciliabili. Dopo decenni di rimozione postmoderna, il volto bellico di Giano torna a imporsi. 

A capitanare  il ritorno non è la sinistra, ma la destra. Una destra nuova, “globale”, che da Trump a Netanyahu – passando per Meloni, Orbán, e altri  conservatorismi armati dall’ Europa orientale al Pacifico – ha smesso di vergognarsi della parola “guerra”. Anzi, la rivendica.

La nuova destra ha compreso, o almeno finge di comprendere, ciò che la sinistra ha dimenticato: la storia non è un pranzo di gala, e la politica non è una funzione morale. È lotta, interessi, passioni, potenza. Certo, anche valori, ma portati sulle spalle di uomini armati. In fondo, Giano – il dio degli inizi, soglie e passaggi – ci ricorda che ogni costruzione politica ha il suo fondamento nella possibilità della forza. Non è un invito alla guerra, ma un avvertimento: senza la guerra come opzione, la pace diventa solo un’illusione.

Netanyahu, ad esempio, non si nasconde. Non cerca giustificazioni metafisiche. La sicurezza di Israele, dice, si costruisce giorno per giorno con il ferro e con il sangue. E bombarda Teheran. Il che non significa che sia una bella persona. 

È brutale? Sì. È cinico? Pure. Ma, qui c’è qualcosa che va oltre Netanyahu: la realtà che si vendica. 

Trump, altro scalmanato,  dal canto suo, ha ribaltato il lessico obamiano della prudenza e della colpa. L’America, per lui, deve tornare a “farsi temere”, più che a “farsi amare”. E scalpita.  Anche Meloni – pur con il freno a mano europeo tirato – mostra simpatia per questo linguaggio dell’ordine e della forza, soprattutto sul piano simbolico. È il ritorno della politica come scelta tragica, non come esercizio estetico.

La sinistra, invece, è rimasta inchiodata all’altro volto di Giano: quello pacifista, universalista, irenico. Continua a pensare il conflitto come un errore, mai come una possibilità intrinseca della realtà. L’utopia disarmata è diventata ideologia. Detto altrimenti: “io solo possiedo la verità”.  
 

Ogni guerra, per la sinistra  è colpa degli altri: mai dei popoli, mai delle culture, mai delle ideologie pacifiste. È sempre e solo “una sconfitta dell’umanità”, come si ripete nei comunicati. Insomma, "tanto peggio per i fatti".  Ma se la guerra è una sconfitta, allora la politica stessa lo è: perché la politica nasce proprio dal tentativo di governare il conflitto, non di cancellarlo. 

Da qui nasce l’attuale asimmetria. Una destra che si riappropria del concetto di sovranità armata. E una sinistra che abdica alla realtà per rifugiarsi nell’etica. Non è solo una differenza di politiche estere: è una differenza di antropologie. La destra descrive l’uomo come essere bellico, interessato, tribale. La sinistra come creatura emancipabile, pacificabile, educabile al bene. Entrambe le visioni hanno radici profonde. Ma oggi, in un mondo che torna multipolare, violento, cinico, chi può permettersi l’ingenuità?

E così si torna a Giano. La storia bussa alle porte, e ci chiede di guardarla con entrambi i volti. Come se ne esce? Forse non se ne esce affatto. Ma si può cercare di restituire alla politica una doppia consapevolezza: la guerra è reale, e la pace è fragile. Solo un pensiero capace di tenere insieme entrambi i volti può affrontare la nuova epoca. Né glorificazione della violenza, né fuga nel sogno. Realismo. Cultura del limite. Maturità. 
 

Attenzione   non è  nostra intenzione  generalizzare  troppo,   sappiamo benissimo  che  la contrapposizione destra/guerra vs sinistra/pace può essere  utile come costruzione dialettica. Ma sappiamo  anche che si rischia di semplificare troppo le cose. Non tutta la destra è bellicista, né tutta la sinistra è pacifista. Ad esempio, Biden (centrosinistra) ha mostrato notevole fermezza sul piano militare nei riguardi della Russia.

Neppure desideriamo   glorificare  la guerra e così  tirare la volata a personaggi come Trump e dittatori vari.  Può sembrare che   l’articolo tenda  a dare un tono quasi epico alla riscoperta della forza.  Ma chi ci segue sa che non è così. Restiamo semplicemente a guardia dei fatti.

Crediamo si debba lavorare, prima di tutto a livello metapolitico a   una specie di  terza via: al  ritorno di  un sano  realismo politico.  Che aiuti a capire quando ci si deve fermare. Come dire? Guerra sì, quando necessario, senza però esagerare. 
 
Ad esempio  al realismo politico  di  liberali come Guglielmo Ferrero,  Bertrand  de Jouvenel,  Raymond Aron, Julien Freund, solo per fare qualche nome.  Si deve guardare a  una posizione che senza glorificare la guerra ne riconosce la realtà. E cerca di governarla, non negarla. Una politica che unisca forza e misura, senza cadere nel delirio bellicista né nell’utopia disarmata.

Ecco cosa manca oggi. A destra, troppo spesso affascinata dal fragore delle armi. A sinistra, prigioniera della sua stanca retorica. Giano è tornato. Sta a noi riconoscerlo. O pagheremo – ancora una volta – il prezzo dell’accecamento ideologico. Pacifista.

Carlo Gambescia

martedì 17 giugno 2025

Omar non c’è più

 


Ieri sera è mancato un caro amico, Omar. Più o meno della mia età. La rapidità della malattia, qualcosa di perfido. Di irrispettoso. Sono qui, questa mattina, a interrogarmi attonito, sul nudo fatto, che non lo rivedrò più. Non credo nell’aldilà.

Come ricordarlo in una parola? Un vulcano.

Alto ( e si sa, altezza mezza bellezza), vicentino, un vero alpino, da manifesto per l’arruolamento. Non si perdeva mai nell’ordine: un fungo, una malga, un monte. Adorava Ivonne, forte, debole compagna, che qualche volta impara e a volte insegna, per dirla con Mogol-Battisti. Non meno degli intelligentissimi figli Erica e Mauro.

Dopo di che amava i gatti, gli amici, la convivialità. Abbondantemente ricambiato. Lo “sguardo” – e lui gradiva questa mia definizione – del caricaturista (infatti disegnava benissimo). Fin dai verdi anni del mitico “Casarmon”, sapeva cogliere di un viso e di una persona l’essenziale. E in un lampo. Solidi studi tecnici, per anni impiegato (praticamente tutta la vita), e con onore, in una grossa impresa nel ramo degli acciai industriali. Da più di dieci anni era in pensione, Fortunatamente non apparteneva alla “congrega” degli intellettuali. Omar aveva la capacità rara, soprattutto negli intellettuali, dell’autoironia. Applicava lo “sguardo” a se stesso.

Il suo atteggiamento verso il mondo, proprio perché alpino (quante me ne ha raccontate sulla sua naja), era almeno da duemilacinquecento metri. E si sa, dall’alto si vede tutto più chiaro.

Ora non so dove sarà. Mi piace immaginarlo con il calice levato verso l’ alto: “Facciamo un brindisi/ che sia sincero…”, ma lucidissimo, pronto alla battuta, alla risata, a volare con la fantasia.

Purtroppo, le nostre ali sono inchiodate a terra. Altrimenti Omar sarebbe ancora tra noi.

Le mie condoglianze alla carissima Ivonne, che ha perso il suo alter ego  per più di cinquant’anni. Sappiamo però, che la “presidentessa” è fortissima. E ne darà prova. Ai figli Erica e Mauro, ai compagni/e Dario e Angela.

C’era una battuta di Totò, che ogni tanto ripetevo, che faceva ridere Omar: “Era un uomo così antipatico che dopo la sua morte i parenti chiesero il bis”.

Non è il caso di Omar. Vorrei, anzi vorremo tutti, che ritornasse, qui e subito. Magari, se di strada, con quei famosi cornetti e bomboloni. Quante colazioni, quante risate, quanti scherzi, accoccolati come placidi gattoni intorno alla ricca tavola imbandita, in veranda nella sua bellissima casa.

Sono ricordi che nessuno mi può togliere.

Caro Omar ti voglio e ti vorrò bene per sempre.

Carlo 

lunedì 16 giugno 2025

Israele ha ragione a combattere? Un’analisi oltre il moralismo

 


Nel grande gioco mediorientale, la recente escalation tra Israele e Iran non rappresenta — per chi sappia leggere la storia oltre il velo delle emozioni — un incidente, bensì il naturale epilogo di una lunga traiettoria di ostilità ideologica, strategica ed esistenziale.

E chi oggi si scandalizza per le reazioni di Israele – talvolta dure, talvolta ciniche, ma sempre animate da un razionale motivo  di fondo – dovrebbe forse domandarsi quale altra opzione resti a una nazione assediata, minacciata, demonizzata in ogni foro internazionale.

Quest’ultimo capoverso illustra bene la nostra posizione filoisraeliana. Quindi mettiamo subito le carte in tavola. Il che, come vedremo più avanti, non significa sposare in toto la linea politico-militare di Netanyahu. Oppure esagerare in moralismo di segno opposto.

Il problema, purtroppo, è che viviamo in un’epoca in cui il realismo metapolitico, come fredda analisi dei fatti, quindi come condicio sine qua non della metapolitica, è stato sostituito dal moralismo politico. 

Non si guarda più ai rapporti di forza, ma ai sentimenti morali; non si analizza, si simpatizza. E se c’è un attore che paga il prezzo di questa deriva emozionale, è proprio Israele: unico stato democratico della regione, unica realtà capace di una riflessione autocritica interna, e tuttavia costantemente messo all’angolo, come se il solo diritto riconosciutogli fosse quello alla perpetua penitenza.

È naturale non poter condividere né l’operato del governo Netanyahu, né la persona stessa. Tuttavia, è fondamentale evitare l’errore di identificare Netanyahu con lo Stato di Israele, come spesso accade agli antisionisti, o, peggio ancora, di confondere l’uomo con l’ebraismo, cadendo così nella trappola dell’antisemitismo.

Se Netanyahu ha commesso, come non pochi in Europa sostengono, un genocidio, sarà prima o poi chiamato a pagare. E si spera dinanzi a un tribunale internazionale. In questo modo, consegnando Netanyahu , dopo averne individuato con onestà le responsabilità in patria, Israele potrebbe dare una lezione di liberal-democrazia al mondo. Questo però dovrà accadere al termine del mandato politico di Netanyahu.

Dall’altra parte, l’Iran: un regime teocratico, rivoluzionario per vocazione, imperiale per istinto, che da oltre quarant’anni investe energie e capitali nell’edificazione di un fronte anti-israeliano permanente. Hezbollah, Hamas, milizie sciite in Iraq e Siria: Teheran non nasconde il proprio progetto, lo rivendica. L’eliminazione dello Stato ebraico non è un’opzione estrema, è la linea ufficiale. Anche le varie supreme guide che si sono succedute a Teheran andrebbero consegnate alla giustizia internazionale. Ma ciò potrebbe accadere solo in un nuovo Iran, moderno, liberale, alleato di Israele e  dell' Occidente. Occorre insomma un radicale cambio di regime politico e sociale. Una rivoluzione liberale.

Schematizziamo troppo? Polarizziamo, umiliando la complessità delle cose?  Israele e Iran ridotti caricature?  Abbassiamo la questione palestinese a  semplice appendice del confitto tra Israele e Iran? E sia. Ne prendiamo atto. Diciamo pure che sfoltiamo per andare all’essenziale.

Israele, questo lo si dimentica, non ha mai cercato lo scontro diretto con l’Iran. Ha reagito – talvolta in modo preventivo, certo – a una strategia che lo vuole cancellare dalla mappa. Il diritto all’autodifesa è un principio cardinale della politica internazionale. E chi lo nega a Israele si pone, forse senza rendersene conto, fuori dal perimetro del realismo politico e della metapolitica.

Come abbiamo più volte scritto la vera tragedia, oggi, è che l’Occidente, paralizzato da un senso di colpa coloniale e da una nuova religione dei diritti welfarizzati (il cittadino come bambino viziato), fatica a riconoscere gli amici dai nemici. Israele non è perfetto, nessuno lo è. Ma in una regione dove si uccide per una vignetta e si lapida per un abito, la sua imperfezione è quella di una democrazia assediata. Non dovremmo aver paura di ricordarlo.

Difficile prevedere gli esiti, in un Medio Oriente che, a proposito della questione palestinese, non sembra credere più, e da un pezzo, nel lontano miracolo di Oslo (1993): accordi di reciproco riconoscimento ben gestiti da Rabin, Arafat, Clinton. Dopo di che, anche a seguito di circostanze drammatiche (l'assassinio di Rabin), le elezioni furono vinte da  Netanyahu (1996),  Prima tappa della  historia novella...

Si abbraccia invece la logica della forza. Quindi del rischio a tutto campo: infatti lo scontro con l’Iran potrebbe, con un passo indietro, essere confinato alla guerra ombra – droni, cyberattacchi, sabotaggi – oppure degenerare in un conflitto aperto, per procura o diretto, come sta accadendo. 

Molto dipenderà dagli Stati Uniti, oggi più distratti che decisi, e dall’Europa, che sembra aver scambiato la diplomazia con una posizione filopalestinese e troppo tollerante verso l’Iran. Di russi e cinesi meglio non fidarsi.

Finché l’Iran continuerà a fomentare instabilità e violenza nella regione, e finché l’Occidente confonderà il desiderio di pace con una sorta di resa o debolezza, Israele non avrà altra scelta che continuare a combattere. Non lo farà per espandere il proprio territorio (come facevano certi regimi del passato, ad esempio quello di Nasser in Egitto), ma per garantire la propria sopravvivenza. Chi desidera davvero una pace concreta – non una pace utopica – dovrebbe ricordare che, nella storia, la pace duratura è quasi sempre frutto della forza. Raramente è il risultato della debolezza.

Carlo Gambescia