Il “cambio di regime” come lo si definisce in gergo politologico non è cosa semplice. Anzi, è quasi sempre una scommessa. E quando riesce, i frutti che produce sono spesso acerbi, amari, instabili.
Si pensi all’Iraq, alla Libia, all’Afghanistan, per fare tre esempi recenti (o quasi). La grande questione dell’esportazione, per così dire, della democrazia liberale si infrange, quasi sempre, in linea pratica, contro strutture sociali e politiche, arcaiche quanto si voglia, ma solide e resistenti. Molto più di quanto certi strateghi da tastiera vogliano ammettere.
Il caso dell’Iran è emblematico.
Qui ci troviamo davanti a un sistema politico-religioso che, a differenza di molte autocrazie del Medio Oriente, non poggia solo sulla repressione, ma su un consenso reale e stratificato. L’Iran non è solo una teocrazia: è una repubblica teocratica con un robusto apparato istituzionale, una burocrazia efficiente, un sistema economico statale e parastatale dirigista ma funzionale, e una classe dirigente che si rigenera internamente, secondo logiche di cooptazione che nulla hanno da invidiare a quelle dei partiti politici occidentali, studiate da Roberto Michels fin dai primi decenni del Novecento.
Chi parla con leggerezza di cambio di regime a Teheran come Trump, ignora – probabilmente nel suo caso per crassa ignoranza – la coesione ideologica dell’élite sciita, il radicamento sociale dei Pasdaran, e la capacità del regime di mantenere un equilibrio tra potere religioso e interessi economici nazionali. Non è solo questione di moschee, capestri e mitra, ma di reti clientelari, università, associazioni culturali, fondazioni religiose e di una ideologia rivoluzionaria ancora capace di mobilitare le masse.
Certo, esiste un’opposizione. C’è malcontento. C’è gioventù urbana che guarda all’Occidente. Ma questa opposizione sembra divisa, ideologicamente debole, facilmente infiltrabile. E – cosa fondamentale – manca del sostegno di un ceto medio compatto e organizzato, vero motore di ogni cambiamento politico serio. Quando cadde lo Shah nel 1979 gli si rivoltò contro perfino il mondo economico, in particolare quello urbano: un tessuto di imprenditori, mediatori, partner commerciali che riteneva corrotto e repressivo il regime di Mohammad Reza, lo Shah deposto, asceso al potere nel 1941 (va ricordata che la dinastia Pahlavi fu fondata da Reza Shah nel 1925). Ora sembra farsi avanti il figlio dell’ultimo Scià, Reza, ma in realtà si sa pochissimo sul suo reale peso politico.
Il vero ostacolo al cambio di regime in Iran non è l’ingenuità ideologica dell’Occidente, ma la natura profondamente strutturata del sistema che si vorrebbe abbattere. A cominciare, ripetiamo, dal carattere radicale e totalizzante dello sciismo politico, che non è semplice religione, ma dottrina di governo, visione del mondo, grammatica del potere: un canone che rinvia a una dinamica secolare interna all’Islam tra sunniti e sciiti (semplifichiamo). E che vede questi ultimi, animati da un potente radicalismo, proprio perché minoritari, quindi desiderosi di proselitismo, secondo la classica spirale dell’estremismo che conduce al potere o alla rovina.
Parliamo, per tornare all’Iran, di un potere che si legittima non solo sul piano teologico, ma anche attraverso reti sociali capillari, una classe dirigente coesa, e un’ideologia rivoluzionaria ancora attiva nel plasmare l’identità nazionale.
Il regime iraniano non è una dittatura personale o un’arbitraria tecnocrazia militare: è un ordine politico che si percepisce come sacro, storico e necessario. In questo senso, più che l’assenza di democrazia, a rendere arduo qualsiasi cambio di regime è la presenza di una legittimità alternativa, di pari forza. Può il liberalismo occidentale assolvere al compito? E soprattutto con quale tempistica storica? Lunga molto lunga, riteniamo. Nei tre principali casi storici di modernizzazione riuscita, esterni all’Occidente (Cina, Giappone, Turchia), il liberalismo, cioè la modernizzazione politica, non ha mai avuto vita facile.
Pertanto pensare di rovesciare il regime iraniano con un colpo di
bacchetta magica, come sembra credere Trump, è ridicolo. Tra l’altro,
Israele, nella sua logica prussiana, alimentata da Netanyahu , non
sembra molto interessato, a possibili trasformazioni politiche.
Pertanto il vero rischio è di alimentare il caos, senza costruire alcun ordine nuovo.
Nel 1979 la Rivoluzione islamica non fu un colpo di mano di fanatici religiosi, ma una mobilitazione di massa sostenuta da larghi settori della società, desiderosi sì di cambiamento, ma non certo di occidentalizzazione, a parte i frammenti di borghesia urbana, cui accennavano, ovviamente poi sacrificati dallo stato teocratico.
Nel 2009, l’Onda Verde, che nacque in risposta alle elezioni presidenziali, percepite da molti come truccate a favore di Ahmadinejad, fu un’enorme mobilitazione popolare (soprattutto a Teheran e nei centri urbani). Tuttavia il movimento non ebbe il sostegno decisivo né tra le élite religiose né tra i militari. Si avvertì l’assenza di un’organizzazione politica coesa e un programma alternativo chiaro. Insomma, le piazze si riempirono, ma il potere non vacillò.
Chi oggi fantastica di un nuovo cambio di regime dovrebbe ricordare che in Iran non siamo di fronte a un sistema improvvisato o di cartapesta, ma a una macchina ideologico-religiosa che ha saputo mantenere coesione, continuità e capacità di adattamento per oltre quarant’anni, anche sotto sanzioni, isolamento e pressioni internazionali.
Pertanto è verissimo (e giustissimo) che un Iran secolarizzato, filoccidentale, liberale, eccetera, sarebbe oggi più che mai necessario per stabilizzare il Medio Oriente, ma non si tratta di impresa facile da perseguire per le ragioni che abbiamo fin qui illustrato.
Ciò non significa, beninteso, che non si debba tentare. Ma il punto è evitare la faciloneria – tanto più pericolosa quanto più arrogante – di personaggi come Trump, convinti di poter piegare la storia con un tweet.
La realtà, come insegna la metapolitica, è più ostinata. I regimi solidi, coesi, non cadono per pressioni esterne, ma si sfaldano dall’interno, lentamente, sotto il peso delle proprie contraddizioni. Certo, nulla si può escludere. Le “esplosioni” di questi giorni – politiche o belliche – potrebbero alimentare fratture nella classe dirigente iraniana. Le sconfitte militari possono agire da catalizzatori.
Tuttavia, non per questo si deve credere all’esistenza di una nuova élite pronta a rimpiazzare i teocrati e a guardare al liberalismo occidentale con occhi pieni di ammirazione. Sarebbe un’altra ingenuità.
Altra leggerezza, altrettanto grave, è pensare che un eventuale ricambio – vale a dire una vera e propria mutazione sociologica del regime – possa avvenire in modo rapido e indolore. La storia, anche quella più recente, insegna il contrario.
Carlo Gambescia