martedì 30 aprile 2019

Socialdemocrazia e populismo (di sinistra)
Il grillino Sánchez  




In politica per definire la fisionomia di un partito è importante individuare i suoi nemici. La socialdemocrazia post-seconda guerra mondiale  aveva nemici a sinistra:  comunisti, socialisti  radicali  e gauchisti (dopo il Sessantotto). E, ovviamente,  nemici a destra: liberali, conservatori e reazionari, nonché  i  populisti, o comunque quelle forze politiche  che dicevano di  raccogliere  gli scontenti di sinistra e destra, evocando di  essere oltre la destra e la sinistra.
Sotto questo aspetto fascismo  e nazismo hanno radici populiste. E le socialdemocrazie post-belliche ben lo sapevano. E tenevano a distanza i populismi.  Non va perciò  dimenticato, che nel secondo dopoguerra, e non solo in Italia, i comunisti  accolsero nelle proprie file fascisti pentiti, scomunicando, ovviamente, chiunque da sinistra passasse a destra.  Il populismo era accettato,  ma solo "in entrata".  
Il che, tra l'altro,  spiega la storica diffidenza socialdemocratica verso i comunisti. Che, a loro volta, accusavano i socialdemocratici di essere al servizio del fascismo e del capitalismo: a loro avviso,  due facce della stessa medaglia. 
Ora, presentare come una vittoria della socialdemocrazia, quindi del riformismo,   la vittoria di Sánchez, a capo di un partito che a differenza della socialdemocrazia post-bellica  si appresta a governare, nonostante lo neghi, con la sinistra radicale  di Podemos e con gli indipendentisti repubblicani, indica a qual punto  sia   giunta la confusione politica.  
Chi rivendica  la caratura socialdemocratica di Sánchez?  Gli stessi che fino a qualche anno fa avversavano l’idea stessa di socialdemocrazia. Ripetiamo per i disattenti:  post comunisti, socialisti radicali e gauchisti. Tutti anti-riformisti  per eccellenza.
Si vedano ad esempio i titoli di “Libération” e del “Manifesto”. Si esulta.  E per quale ragione? Perché quei giornali sentono l'antico richiamo della foresta anti-riformista.  I  titoli ci dicono che  è viva e  vegeta  l’idea di  una  sinistra  mai dimentica  di combattere  il capitalismo.  Il suo compito,  secondo i post-comunisti mai pentiti,  non sarebbe quello di impedire  che si tiri  il collo  alla gallina dalle uova d’oro: il capitalismo, insomma. Ma più semplicemente di soffocare il gallinaceo lentamente a colpi di spesa pubblica, patrimoniale  e  vincoli severi alla libertà di mercato. Una specie di suicidio politico assistito. 
Il programma di Sánchez è semplice:  più tasse per imprese e più assistenzialismo per il popolo.   Un bel programmino fotocopiato dai  Grillini italiani.   Il saluto con il pugno chiuso  è il bacio della sposa allo sposo.   La ciliegina sulla torta del populismo di sinistra.
L’ economia sociale di mercato tedesca, post-bellica, condivisa da socialdemocratici e democristiani, era fondata sulla libertà di mercato non sulla sua distruzione. C’è inoltre un altro elemento che collega  populismo e socialdemocrazia modello Sánchez: la critica feroce e ingiusta delle  élite,  giudicate come presuntivamente corrotte.  Di conseguenza, la spiccata propensione del Psoe per l’assistenzialismo unita al populismo penale (Sánchez, vorrebbe mettere in prigione l’intero Partido Popular) conferma che siamo davanti a  un populismo  di sinistra.    Altro che socialdemocrazia... 
Non ci si faccia ingannare dall’antifascismo e dalle politiche di accoglienza promosse dal Psoe. Non siamo davanti all'umanitarismo socialdemocratico. E per una semplice ragione:  l’antifascismo è visto come l'altro volto, necessario, dell' anticapitalismo e l’immigrazione come un valoroso  esercito di riserva  per combattere l'ingiusto capitalismo. Al fondo dell'umanitarismo targato Psoe  non c'è la tolleranza  ma il calcolo politico.   
In Spagna,  ripetiamo, ha vinto il populismo di sinistra. Che, con le sue politiche sociali disastrose potrebbe favorire, dopo il suo tracollo, l’avvento del populismo di destra. 
Insomma, non c’è di che stare allegri. Soprattutto se si pensa che in Italia Zingaretti sembra uscito da una Xerox  di fabbricazione spagnola. 
Carlo Gambescia
            

lunedì 29 aprile 2019

Il suicidio della Spagna  (e dell’Italia)
Marx in soffitta



Le elezioni spagnole, stando agli ultimi dati per il Congreso,  ci dicono che Marx ha torto.  E definitivamente.  Perché non è l’economia  a dettare la politica.  Se  il padre  di un socialismo che si pretendeva scientifico  avesse avuto ragione gli elettori di un paese come la Spagna, con il Pil al tre per cento e che ha ridotto la disoccupazione della metà, avrebbero dovuto votare in massa  Partido popular.

E invece gli spagnoli  hanno premiato il  Psoe, gli indipendentisti, in particolare quelli catalani della repubblicana Erc,  nonché la destra nazionalista e conservatrice di Vox.  Un partito, quest'ultimo,  che in combinato disposto con gli indecisi centristi di Ciudadanos, ha sottratto voti al già sofferente  Partido popular.
Va sottolineato,  che pur penalizzandolo, gli elettori non hanno  del tutto  voltato le spalle a  Podemos, il partito del populismo politicamente corretto a sinistra, ma non meno pericoloso per le confuse idee che propugna.
Allora chi ha vinto?  Il primo partito è il Psoe. Ma in realtà ha vinto il partito della lagna. Dei piagnoni. Potremmo dire del prossimo venturo populismo di sinistra.  Il partito della spesa pubblica e delle tasse, del risentimento sociale e della bava alla bocca e di un antifascismo totalitario come il fascismo  che si pretende di contrastare. Ma soprattutto ha vinto il partito anti-Pil che può distruggere l’economia spagnola, e poi  europea, spingendo la Spagna, dopo il disastro che si annuncia,  nelle braccia dei populisti di destra.  Ha perso invece  il  partito della moderazione e  dell’equilibrio che ha  governano bene la Spagna: il Partido  popular.

I risultati delle elezioni spagnole evidenziano la stupidità e l’egoismo dell’elettore maturo, stagionato, fin troppo,  come quei frutti gonfi e dolciastri che stanno per cadere dall’albero  per poi marcire in terra. Parliamo di un elettore capriccioso, viziato, lamentoso, risentito  che  vuole il welfare senza versare un euro  di tasse in più.  E che crede alle  promesse di un mondo latte e miele  del   populismo di sinistra.  Magari, meno sguaiato di quello italiano a Cinque Stelle,  così come rappresentato dal  socialismo di Sánchez.   E, prossimamente, di Zingaretti.  
Infatti, per il  segretario del Partito democratico, i risultati spagnoli indicano, che grazie all’elettore maturo -  per non dire capriccioso e stupido -  si possono sottrarre voti ai Cinque Stelle. E - udite udite! -  in nome dell’individualismo protetto.  Come avvenuto in Spagna ai danni di Podemos.  Basta togliersi la cravatta come Sánchez. Quindi, anche in Italia, ne vedremo delle belle (si fa per dire). E probabilmente, spingendoci più in là nelle previsioni, anche in Europa: l'elettore maturo, nel senso negativo qui indicato,  non conosce più confini.  Purtroppo.
In sintesi,  il  Partido Popular,  rifiutandosi di sposare la causa populista nemica dell' economia di mercato, ha subito la cannibalizzazione di   Vox e Ciudadanos.  Detto altrimenti: all'interno del centro-destra  si è avuta una redistribuzione di voti che ha penalizzato  il  Partido Popular  e  impedito la conquista della maggioranza da parte del "bloque de centro-derecha". In breve: disuniti per perdere.
Per scendere più nel concreto,  si rischia che in Spagna  nasca un governo di sinistra, con dentro socialisti, Podemos e indipendentisti.  Un governo  populista  di sinistra.   Quel che c’è di meglio  per alzare i toni,  massacrare l' economia  e  spianare la strada al populismo  di destra.  
Sì,  Marx è proprio andato in soffitta.


Carlo Gambescia

sabato 27 aprile 2019

Rai 3  ha trasmesso il  film di Pif sullo sbarco americano in Sicilia
Diceria dell’untore



Pif non piace alla destra, ma il suo  film  trasmesso  ieri sera sui Rai 3,  In guerra per amore,  sposa  le stesse tesi  dei  neofascisti sullo sbarco alleato in Sicilia. Siamo davanti a un puro e semplice  romanzo criminale per attaccare gli Stati Uniti e la Democrazia Cristiana (*).  Con la differenza che nel film di Pif  Mussolini e i fascisti  sono  inclusi tra i cattivi. Tra l'altro  sono  tesi condivise dal vecchio Pci togliattiano ( e non solo), schierato con Mosca, per  infangare la ricostruzione della liberal-democrazia in Italia.    
Per  metterla sul dotto:  dicerie dell’untore, meno nobili, di quelle scolpite dai barocchismi di Bufalino, ma frutto avvelenato - veramente -  del professionismo  antimafia, così ben  intuito da  Sciascia.
Attenzione,   un professionismo dell’anima,  perché in fondo Pif è un idealista.  E probabilmente  in buona fede. Però proprio perché tale il regista e attore siciliano   è  tra i  più pericolosi. Va in giro  -  metaforicamente per carità -  con la cintura esplosiva e il video-testamento come un fondamentalista islamico.  Altro che radical chic, come spesso si legge.  Pif, da manicheo,  vede il mondo in bianco e  nero.   Ecco, nel suo caso, parleremmo di  fondamentalismo antimafia.  Cercheremo di essere più chiari con un esempio.
Garibaldi e i Mille  risalendo da Palermo  a Napoli trovarono sulla  strada  mafiosi e camorristi.  Lo stato borbonico era collassato e la criminalità del tempo, come a Napoli ad esempio, si sostituì di fatto alle autorità di polizia. Una volta superata la fase critica tutto tornò alla normalità. I poliziotti tornarono a fare i poliziotti, i camorristi i camorristi. Riemersero anche le connivenze? Probabilmente sì.  Ma non è questo  il vero punto della questione.  Qual era  il senso dell’impresa garibaldina? Unire l’Italia. E così fu. Quale  era il senso della sbarco americano?  Liberare Europa e Italia dal nazifascismo. E così fu.
Ora, ridurre   fenomeni macro-storici  come il Risorgimento e la Liberazione  a romanzo criminale, significa imporre una visione antistorica,  antistorica nel senso crociano della storia come progresso  della libertà. Cosa che avviene tra contraddizioni che non sempre gli uomini del tempo, immersi nei conflitti, avvertono come tali. E per fortuna.  Perché, diciamola tutta, se avessero vinto i fascisti, anche  ammesso e non concesso che avrebbero battuto la mafia, l’Italia sarebbe diventata un protettorato nazionalsocialista. Per non parlare dell'Armata Rossa. Fondamentalismi veri quindi.  Altro che Calogero Vizzini sindaco…             
Anche la nostra visione, come quella di Pif, è manichea? Cambia solo di  segno? Con gli americani nella parte dei buoni, e tutti gli altri in quella dei cattivi?
Decidano i lettori.


Carlo Gambescia 

venerdì 26 aprile 2019

25 Aprile,  il discorso del Presidente Mattarella
Pagnotte contro obbedienza


In effetti,  il  Presidente  Mattarella  ha colto un punto fondamentale,  quello del nodo  tra libertà e ordine, o se si preferisce sicurezza.  Nodo al quale si può ridurre  l’intera storia del pensiero politico. Certo semplificando  e  accettando una visione liberale della storia, che ha pochi secoli di vita ed è apprezzata da un pugno di spiriti eletti. 
Lo ha sviluppato bene? No.  Perché il Capo dello Stato dice un mezza verità,  in particolare  dove asserisce che la “storia insegna che quando i popoli barattano la propria libertà in cambio di promesse di  ordine e tutela gli  avvenimenti prendono sempre una piega tragica e distruttiva”  (*). 
Per quale ragione? Perché gli uomini, storicamente  parlando, hanno sempre preferito la sicurezza alla libertà:  dalle formiche umane edificatrici di piramidi alla insaziabile e gaudente plebe romana;  dai servi della gleba ottusamente paghi della propria condizione alle orde osannanti  di  mendicanti fiduciosi nella gloria del papa-re;  dalle marziali  adunate totalitarie alle masse welfarizzate affamate di indennità  e altre sinecure pubbliche.  Sintetizzando, magari alla buona:  pagnotte contro obbedienza. Hobbes tenía razón...

Per migliaia di anni gli uomini hanno obbedito in cambio di una pagnotta. La libertà  - semplificando - intesa  come franchigia legata a una condizione sociale elevata,  riguardava le  élite, che ovviamente la interpretavano  in chiave di status e di corporazione, dal guerriero, al religioso, al mercante.
Ora, piaccia o meno, ma si è dovuto attendere fino alle grandi rivoluzioni liberali, a cominciare da quella inglese del  XVII secolo, per porre  - solo per porre,  attenzione  -  la questione della scelta  tra libertà e ordine: opzione però non sempre compresa da tutti, in alto come in basso.  Di qui,  i contraccolpi reazionari, bonapartisti, fascisti, nazisti e comunisti.  E quella “piega tragica e distruttiva”, cui fa riferimento il Presidente della Repubblica.
Ciò significa che l’uomo, sociologicamente parlando, posto davanti al  nodo,  continua a privilegiare l’ordine alla libertà. Anche quando asserisce di difenderla, ma -  attenzione -  sempre contro qualcuno o qualcosa.  Di qui, la  lotta per i diritti, che una volta superata, la fase eroica dei diritti politici e civili, si è trasformata, nel Novecento,  in un volgare  scambio tra diritti sociali e obbedienza:  pagnotte contro sottomissione. E di riflesso,  chi più promette pane, più guadagna consensi.  Ciò  spiega il travolgente successo dei populisti che promettono pagnotte gratis per tutti.
Pertanto il vero punto della questione rinvia all’antropologia dell’obbedienza:  alla natura servile degli uomini, che le classi dirigenti, se illuminate davvero, dovrebbero (ri-)conoscere subito, e per questo evitare. Nel senso di sottrarsi  e di sottrarre la gente comune  all’aut aut  tra libertà e ordine. Dal momento che gli uomini, quelli veri (non quelli dei filosofi), insomma  nove uomini  su dieci,  una volta  messi davanti alla scelta secca, al disordine preferiscono l’ordine. Non è una questione  di memoria e apprendimento scolastico. Gli uomini sono fatti così: la libertà, che implica la decisione, dunque l'alea, viene considerata un peso. Purtroppo, il liberalismo politico, teoria politica storicamente ancora giovane  e che  celebra il rischio,  non è  una condizione naturale dell'uomo.  È per pochi:  una élite nella élite. E nonostante questo ha  favorito, grazie alla creatività di una minoranza di spiriti eletti,  un grande progresso, che di rimbalzo ha migliorato la vita di tutti.  Ma l'equilibrio, che consiste nel difenderne le conquiste dal gioco politico al rialzo e al ribasso,  non è facile, e per una semplice ragione:  perché il rifiuto del rischio, sempre incombente,  favorisce la via  verso  la servitù.  

Lo stesso meccanismo sociologico delle moderne rivoluzioni, prova che una volta raggiunto il picco di distruttività, si impone sempre, sul piano collettivo,  il graduale ritorno all’ordine. Gli uomini, anche per ragioni biologiche,  sono animali abitudinari,  reiterativi,  prima che politici. La ribellione, la rivolta, perfino la rivoluzione, come abbiamo appena detto, sono l'eccezione che conferma la regola.    
Concludendo, e dispiace dirlo,  il Capo dello Stato  mostra scarsa conoscenza della storia e dell’antropologia sociale.  Preferisce declamare. Del resto un Presidente, liberale e illuminato,  non avrebbe mai consegnato l’Italia a Salvini e Di Maio.

Carlo Gambescia  

giovedì 25 aprile 2019

“Onore a Mussolini”, lo  striscione vicino  piazzale Loreto
Fascismo e derivati



I tifosi  che ieri hanno inneggiato a Mussolini  nei pressi  di  piazzale Loreto, di sicuro, in cuor loro, si sentivano purissimi eroi romantici: gli ultimi orgogliosi depositari di una grande idea.  Il che prova, ancora un volta,  che il fascismo è una forma di romanticismo politico. 
Chiediamo  al  lettore di allacciarsi le cinture,  perché  stiamo per prenderla da lontano, confidando nel fatto  che alla fine  della nostra  “dimostrazione  porta a porta” l’aspirapolvere  (sociologico)   “folletto”   sarà acquistato…     

Romanticismo politico
Che cos’è il romanticismo politico?   Un atteggiamento  istintivo e fantastico nei riguardi della vita.  Si dirà  che  anche Manzoni era romantico. Eppure al tempo stesso era liberale.  Come lo era quel pugno di uomini politici  che  scrisse la storia dell’Unità italiana. Senza  istinto e fantasia,  l’idea risorgimentale  non avrebbe mai  vinto.

Istinto e fantasia. Il primo serve per cogliere l’attimo, la seconda per immaginare nuovi e apparentemente impossibili scenari. In qualche misura Cavour, simboleggia lo statista romantico per eccellenza.  Seppe cogliere l’attimo giusto, scegliendo i giusti alleati e intuendo, contro tutti e tutto, gli improvvisi sviluppi della situazione storica. Dinamiche storiche da tanti, forse troppi, ritenute irrealizzabili. Il Risorgimento ha in sé qualcosa di miracoloso.

Liberalismo, fascismo e romanticismo politico
Abbiamo però detto del fascismo che è “una forma” di romanticismo politico.  Cosa vogliamo dire? Che Cavour, da buon romantico politico,   colse un’ occasione, che seppe però anche creare. E come? Collegando il Risorgimento alle istituzioni liberali: unì l’istinto e la fantasia alla ragione delle istituzioni rappresentative, rafforzate dal discorso pubblico liberale, innervato sulla libertà di parola, pensiero, stampa, nonché sulla libertà economica e di impresa.
Anche Mussolini fu un romantico politico, ma si fece dominare  esclusivamente dall’istinto e dalla fantasia.  Fu abilissimo nel conquistare il  potere, ma non seppe intuire l’importanza di  riportarlo nell'alveo ragionevole e ragionato della tradizione liberale.   Anzi, fece del suo meglio per affossarla, costruendo uno stato prima autoritario, poi dittatoriale,  infine totalitario. 

Paletti e chimere
Il romanticismo politico ha perciò  necessità di paletti. Quali? Ad esempio,  quelli  rappresentati dallo stato di diritto e dalla  libertà di mercato. Il fascismo invece fu nemico dell’uno e dell’altra.  Inoltre, stravolse lo spirito risorgimentale di nazione,  piegandolo alla peggiore vulgata nazionalista e imperialista.

Il romantico politico, se privato  della parte razionale, si tramuta in puro e semplice occasionalista:  si volge di qua e di là, pur di ottenere risultati momentanei.  Di conseguenza,  il romantico politico allo stato puro subisce gli eventi credendo di dominarli: la brutale alleanza tra Mussolini e Hitler resta  il classico  esempio di un occasionalismo politico, in particolare da parte del Duce,  che portò l'Italia alla rovina.  
Il romanticismo politico fascista, proprio perché frutto esclusivo di istinto e immaginazione, esercita un certo  fascino  su giovani e disadattati sociali, i più ricettivi verso una visione chimerica della vita: i primi non hanno nulla da  perdere, i secondi tutto da guadagnare.

Coazione a ripetere
Come contrastare questo fenomeno? Difficile dire. Come spiegare ai tifosi che hanno inneggiato al Duce che  il fascismo, nelle stesse circostanze, avrebbe aperto il fuoco contro  di loro?  Mentre, lo stato liberale di diritto si è limitato a identificarli, lasciandoli liberi di andare a godersi la partita in curva  o da qualche altra parte?
Vivono  in una società libera, eppure inneggiano, all’uomo che trasformò l’Italia in una caserma.  O si è stupidi o, per l'appunto, si è romantici politici,  prigionieri della propria immaginazione e dell’istinto della coazione a ripetere  contro ogni buona ragione.  E dunque c’è poco da spiegare.  Non c’è peggior sordo, eccetera, eccetera.

Carlo Gambescia           
                                                                                      

mercoledì 24 aprile 2019

Il 25 Aprile e il populismo




Premessa. La tesi del totalitarismo, come visione antiliberale del mondo, in Italia non ha mai avuto molti sostenitori, né nei circoli colti, né tra la gente comune.   
In pratica, l’intera storia repubblicana  è solcata  dalla divisione netta tra fascisti e antifascisti: i primi visti come nemici della democrazia,  i secondi come  i suoi difensori. E il liberalismo? Roba da ricchi.
Va detto che quei giorni di aprile  furono vissuti  da molti italiani  come liberazione dalla paura.  La Liberazione, prima che fatto politico, fu fatto collettivo, fu come un grande respiro di sollievo.
Nel dopoguerra però  questo  patrimonio psicologico, invece di essere tradotto in sonanti valori liberali fu monopolizzato dalla sinistra. Nel nome della democrazia (attenzione,  non liberal-democrazia) qualsiasi tentativo di spostamento a destra  era  pavlovianamente  condannato come  tradimento.  Fino al punto, che  dopo il Sessantotto,  l' epiteto di fascista fu   automaticamente esteso a tutti coloro che pur non provando alcuna simpatia per il Movimento Sociale Italiano non credevano nemmeno nella democraticità del Partito Comunista Italiano  e  in  quella  dei gruppetti politici alla sua sinistra.
Il 25 Aprile, che negli anni  del Centrismo democristiano era saggiamente  celebrato  in sordina  per non fomentare divisioni e riaprire ferite,  tra gli anni Sessanta  e Settanta  si trasformò invece  nell’apoteosi  della Resistenza  in nome di un antifascismo targato Pci. In realtà,  si trattò di  una tradizione inventata, perché alla  Resistenza, che comunque non fu fenomeno di massa, parteciparono anche  monarchici, cattolici, liberali, socialisti riformisti. Diciamo che il Pci, senza incontrare grandi opposizioni tra i  partiti costituzionali,  si appropriò del copyright. 

Questa matrice di sinistra, per giunta comunista, favorita dal progressismo laico di stampo azionista, non ha mai  aiutato la ricomposizione politica dell’Italia intorno a comuni valori liberali e democratici.  Il Pci, per dirla tutta,   accettò   i valori democratici,  ma solo  in  chiave leninista:   per conquistare il potere.  Vedeva nel Parlamento il  mezzo per combattere dall'interno la democrazia rappresentativa, squalificandone contenuti e valori liberali. Grazie anche al rifiuto, mai dimenticarlo, di mettere sullo stesso piano totalitarismo comunista e fascista. Rifiuto tipico  dei circoli intellettuali colonizzati dal marxismo e dal democraticismo:  ai comunisti si riconoscevano,  comunque  e sempre,  le buone intenzioni;  se  sbagliavano era sempre a  fin di bene.
Pertanto la celebrazione del 25 Aprile  non poteva non  assumere una  connotazione di sinistra, trasformando la divisione tra fascisti e antifascisti, come del resto provano  gli anni dei governi berlusconiani,  in una continuazione della Guerra Civile  con altri mezzi.
Naturalmente, nel tempo, un  antifascismo così inteso   -  di parte, insomma senza la parificazione totalitaria -   non poteva non spaventare l’elettorato moderato e conservatore, facilitando  la rinascita e diffusione di quei luoghi comuni, un tempo patrimonio  dei soli neofascisti,  rivolti  a giustificare il fascismo: dalla natura indisciplinata degli italiani all’importanza dell’arrivo in orario dei treni.

In politica  a ogni azione segue una reazione.  E i colpi di accelerazione nei riguardi dell’antifascismo, soprattutto durante la Seconda Repubblica, non potevano non favorire controspinte di tipo fascistoide,  nel senso di atteggiamenti  affini o inclini al fascismo, in cui il populismo  -  lo stesso che fu alle origini del fascismo  - oggi sguazza.
Sicché,  da un lato   spicca  la  minimizzazione  fascista, che fa breccia nella gente comune, ammalatasi di populismo, dall’altro l’ enfatizzazione antifascista, sempre più patrimonio di una sinistra altrettanto isterica e populista.  A farne le spese è l’idea liberale, invisa a fascisti e antifascisti. Ieri come oggi.     
Di conseguenza, anche quest'anno,  ci ritroviamo  a celebrare un 25 Aprile, che continua a dividere gli italiani. Con una differenza però. Anzi due.  Che i populisti, quelli veri (altro che Berlusconi), sono al potere.  E  pure all’opposizione.    


Carlo Gambescia

martedì 23 aprile 2019

 Memoria e politica 
Le due destre che pari sono

Talvolta le immagini  la  dicono lunga sul  rapporto tra memoria e politica.   Due esempi.
Il primo. La foto di Salvini con la mitraglietta, postata  da un suo stretto collaboratore, unita  a minacce, più o meno esplicite, sulla capacità dei leghisti, di saper  difendersi, senza tante mediazioni.   Provando così  di non ricordare  cosa ha rappresentato  nella storia del terrorismo italiano,  di destra come di sinistra, il fucile mitragliatore. Insomma,  si evocano gli “Anni di Piombo”. Con "leggerezza".  E chi se ne frega, dei caduti:  agenti, magistrati, politici, sindacalisti, professori, giornalisti, imprenditori.   

Il secondo. La locandina  di un contromanifestazione  organizzata da “I Camerati”, quattro giorni dopo il 25 aprile, per celebrare,  caduti fascisti e neofascisti:  da Carlo Borsani (1945), Sergio Ramelli (1975), Enrico Pedenovi (1976), il primo giustiziato dai partigiani comunisti, i secondi vittime della violenza terrorista degli "Anni di Piombo".  Qui l’evocazione ha radici ancora più lontane, che affondano nella Guerra Civile  (1943-1945). Chi ha ideato la locandina  sa perfettamente ciò che vuole.  Altro che "leggerezza"...


Dicevamo del rapporto tra  memoria  e politica. Se i leghisti non ricordano, i "camerati"  non  sembra  abbiano dimenticato.  Tuttavia, sia i leghisti che i neofascisti, non hanno imparato nulla.  I leghisti, probabilmente per pura ignoranza: Salvini  negli anni Settanta avrà avuto cinque-sei anni. E probabilmente in seguito, a scuola, se pure c'era, dormiva.  Per non parlare dei militanti e dell’elettorato leghista.   Sembra che Salvini abbia su Fb tre milioni di amici,  tutti pronti a  celebrare il carisma del "capo".  Un film già visto, tra l'altro.. .
I neofascisti invece continuano a vedere nel 25 Aprile una brutta pagina da cancellare. Se fedeltà c'è, riguarda la Repubblica Sociale.   Quindi ricordano tutto. Anzi, i tre nomi della locandina indicano che si crede fermamente  in una linea di continuità tra i caduti  repubblichini e i caduti missini. Il che dal loro punto di vista ha un senso. Nulla è cambiato. In qualche misura, ripetiamo, come  l' emigré  francese dopo il 1815,  i neofascisti "non hanno imparato nulla, non  hanno dimenticato nulla". Sarebbe interessante, chiedere un parere alla post-fascista Giorgia Meloni. 
Qual è il succo del   nostro discorso?  Che  immemori e memori,  leghisti e neofascisti, pari sono.  E che  di conseguenza, visto che non sono pochi, soprattutto i primi,  la Repubblica è in pericolo.

           Carlo Gambescia                          

sabato 20 aprile 2019

Radio Radicale a rischio chiusura
Un  appello agli amici liberali




Mi si accusi pure di conflitto di interessi, ma Radio Radicale è un pezzo della mia  vita  di ascoltatore, nonché della mia vita di intellettuale: negli archivi, patrimonio della liberal-democrazia,  ci sono anch’io.  Ora però il governo populista, in particolare l'ala sinistra, di nome e di fatto, vuole chiuderla.   
In linea di principio sono contrario alle forme di finanziamento diretto e indiretto dei giornali: la stampa si deve reggere sulle proprie forze economiche, o più romanticamente  sui propri  lettori  (o ascoltatori). 

Messa così, avrebbero  ragione i  giacobini pentastellati… Difensori, come sembra si presentino, di un giornalismo economicamente sano e addirittura ispirato ai principi liberoscambisti.  
In realtà, Crimi, Di Maio e compagnia cantante non sono liberali e neppure liberisti.  Sono commissari del popolo, e in nome popolo, si sono imposti di combattere tutti i nemici del popolo. Cosa peggiore non  poteva capitare alla nostra liberal-democrazia.
Insomma,  si vuole chiudere Radio Radicale per un principio di illibertà, insito nel desiderio giacobino, a sfondo totalitario, di chiudere la bocca a chiunque la pensi diversamente dai commissari del popolo pentastellati: gli unici depositari della volontà del popolo. Tocqueville, con grande preveggenza,  intuì  i pericoli del democraticismo populista, della cosiddetta   tirannia della maggioranza. 
Il vero nodo della questione di Radio Radicale  non rinvia all’ etica della responsabilità. Per capirsi: da una parte, si dice, costa troppo, sono soldi pubblici; dall’altra,  si risponde, che si svolge un servizio di utilità  pubblica, eccetera, eccetera.  In realtà,  rimanda all’etica della libertà, dunque all’etica dei principi:  una voce in meno è sempre una perdita per la libertà.  Ma per capirlo si deve essere liberali, non populisti.

Certo, i liberali tendono a dividersi tra chi collega la libertà alle ragioni del libero mercato, e chi  invece  la disgiunge da una logica puramente economica, pur comprendendo l’importanza di una economia libera. Ma tutti insieme restano liberali. E a prova di bomba. I commissari del popolo pentastellati invece no: vogliono semplicemente liberarsi  di chiunque non la pensi come loro.  Pronti a tirare fuori dalla manica, quando conviene, anche l’asso dell’ultraliberismo. Salvo poi varare misure ultrastataliste come il Reddito di Cittadinanza e  guardarsi bene dal proporre la privatizzazione della Rai   
Allora, chi è in malafede?  I  commissari dei popolo che vogliono spegnere una voce libera?  O Radio Radicale che ha alle spalle  una tradizione di libertà che affonda le radici nell'  Areopagitica
Amici liberali, non cadiamo nel tranello pentastellato: non dividiamoci  davanti al nemico populista.                                                                                                                        Carlo Gambescia                    

venerdì 19 aprile 2019

Reporters Without Borders e  libertà  di stampa
Democrazie illiberali



Non conosciamo i  criteri che  informano  le  indagini annuali  di Reporters Without Borders, né in fondo ci interessano, dal momento che la libertà di stampa  non è solo (attenzione, non è solo) un problema di scorte concesse o ritirate,  ma rinvia a qualcosa di profondo come il rapporto tra liberalismo e democrazia.    
Intanto, sembra che l’Italia sia risalita di tre posizioni, ora è al 43° posto (*). I primi dieci paesi sono  Norvegia, Finlandia, Svezia, Olanda, Danimarca Svizzera, Nuova Zelanda e Giamaica, Belgio e Costarica. La Germania è al 13° posto, la Spagna al 29° ,  Francia e Regno Unito al  32° e 33°, Stati Uniti al 48°,  Russia al 149° (tra Venezuela e Bangladesh), Cina al  177°. In tutto,  i paesi “testati”  sono 180 (**).
Veniamo al punto. La libertà di stampa è parte integrante della modernità liberale.  Inutile qui rifarne la storia. Consigliamo ai lettori   di sfogliare almeno l’Areopagitica (1644) di John Milton, come documento fondamentale di rivendicazione della libertà di stampa contro la dittatura della maggioranza. All'epoca rappresentata dal  Parlamento inglese che, seppure nemico dell'autocrazia, aveva introdotto  forme di censura  preventiva su libri e opuscoli. 

Ecco perché parliamo di modernità liberale e non democratica. E per una semplice ragione, perché la democrazia, se intesa come potere assoluto della maggioranza di opprimere la minoranza  per restare al potere il più a lungo possibile, si trasforma in nemica della libertà di stampa, come qualsiasi altra dittatura.  
Il punto non è da poco. Si pensi a quel che sta accadendo in Italia, paese  democratico, ma per niente liberale.  La variopinta  maggioranza  populista, oltre a tagliare e  sopprimere  i fondi pubblici ai  giornali non allineati,  ha occupato militarmente  la  Rai e vuole costringere Radio Radicale, archivio storico della liberal-democrazia, a chiudere i battenti. E attenzione,  in un contesto, già compromesso,   dove la  stampa, tranne alcune testate,  per paura di ritorsioni   ha assunto verso il governo giallo-verde un atteggiamento di attesa o addirittura  benevolo  se non proprio da tifo calcistico.  Ovviamente,  non siamo ancora in Russia o in  Cina, ma diciamo pure che si è  sulla buona strada.
Il deficit di liberalismo rischia veramente di uccidere la libertà di stampa. Oggi,  si ridacchia, magari assumendo un atteggiamento di sufficienza, a proposito dei giornali dell’Italia giolittiana. In realtà,  furono anni  ricchissimi per la  qualità dei contributi  e la  quantità di testate nelle edicole.  Pari solo ai momentanei successi dell’immediato secondo dopoguerra,  nell'euforia del  ritorno della libertà. 
La crisi del giornalismo italiano risale agli anni Cinquanta, all’Italia  democristiana, post-degasperiana, poco o punto liberale. E si aggrava negli anni Sessanta e Settanta, in un' Italia illiberale segnata da pesantissimi conflitti ideologici.  Che proseguono, pur mascherati,  negli Ottanta, fino a far  sprofondare la libertà di stampa nei tre decenni successivi  sull’onda lunghissima del conflitto tra berlusconismo  e antiberlusconismo.  Uno scontro che ha spalancato le porte al populismo di destra e di sinistra, attualmente al governo e all' iperdemocraticismo nemico della libertà  di stampa, ben rappresentato da un pericoloso arruffapopoli come Beppe Grillo.  

Pertanto opporre la democrazia, anzi l’ultrademocrazia, celebrata come vittoria di tutto il popolo ma  in realtà  prolungamento del potere tirannico della maggioranza, significa uccidere la libertà di stampa,  come sta accadendo in Italia. E proprio in nome della democrazia.  E non è un paradosso, perché la democrazia,  quando abbandonata  a se stessa e all'onnipotenza del voto maggioritario, si traduce inevitabilmente in oppressione della minoranza, a cominciare dalla libertà di stampa. Servono invece regole, garanzie e quando occorre finanziamenti pubblici: tutti correttivi  liberali per impedire la trasformazione della democrazia in una  mostruosa  megamacchina al servizio di una maggioranza, libera persino di abolire la democrazia, magari "per il bene del popolo", solo perché votata dalla metà più uno.         
Questi sono i termini della questione, e in qualche misura, dello schema, anche mentale,  per  filtrare alla luce della ragione liberale i Rapporti annuali  di  Reporters Without Borders.  E soprattutto  per non lasciarsi incantare dalla retorica  ultrademocratica,  come dicevamo, dei populisti.
Fuffa antiliberale che conduce alla  rovina.  

Carlo Gambescia    
    

giovedì 18 aprile 2019

La svolta populista del quotidiano americano più letto al mondo
La cruna dell’ago  del "New York Times"


Quel che accade  negli Stati Uniti,  prima o poi accadrà, anche in Europa e altrove.  Oggi eufemisticamente si chiama soft power. Probabilmente, il primo  a intuirne la logica   fu Tocqueville. Che nella  Democrazia in America, dopo aver messo in luce pregi e difetti del sistema socio-politico statunitense,  ne decretò le grandi  capacità egemoniche. Rispetto a che cosa? A qualunque idea.  Quindi  nel bene come nel male.
Secondo il pensatore francese la radice del processo egemonico era (ed è)   nel pragmatismo americano: nell’ idea cardine che ciò che  funziona qui (negli Usa), può funzionare altrove (in tutto il mondo). perciò è interesse di tutti non opporsi, eccetera, eccetera.    
A questo approccio  si sono  aggiunte: 1) due guerre vinte e la giusta riconoscenza da parte degli europei (soprattutto per la seconda); 2)  la superiorità di un sistema economico e culturale, che grazie  all’industria dell’immaginario, unica nel suo genere, ha saputo offrire al mondo interno, un incomparabile e magico universo di sogni, miti e leggende.  Di conseguenza ogni mutamento  dell’immaginario americano si diffondo in chiave planetaria. 
A dire il vero,  l’immaginario,  dopo  l’elezione di Trump, è già cambiato.  E in peggio.  Protezionismo e populismo dilagano in tutto il mondo. Il soft power si  manifesta nuovamente in tutta  la sua forza ed efficacia.  
Un esempio? Il  “New York Times”, in prima linea contro Trump,  sembra aver accettato lo stesso approccio populista del Presidente.  Una prova? Oggi, a proposito di Notre-Dame si pone il problema, del perché i ricchi francesi, ma anche di altre  paesi, facciano a gara per  finanziare la ricostruzione, con uno zelo che invece non mostrano verso i  poveri (*).  
Dov’è il populismo?  Nel fatto che invece di elogiare  l’iniziativa privata  che generosamente si mette a disposizione, si coglie l’occasione  per gettare palle di merda (pardon) sulle élite,  proprio come fa Trump.
Che poi il dibattito sia partito in Francia (ad esempio su “Libération”),  non significa un bel niente davanti alla consacrazione populista del “New York Times”, che amplifica e rilancia,  grazie al soft power di cui sopra.  
Insomma, chi dovrebbe combattere il populismo, ne adotta gli stessi mezzi. E non parliamo delle opposizioni italiane che follemente criticano il governo giallo-verde perché non sta realizzando i suoi sconcertanti obiettivi,  ma dell' opposizione più intellettualmente raffinata al Presidente  Trump: quella del "New York Times", quotidiano dalla storia prestigiosa, spostatosi, come sembra,  su posizioni culturalmente populiste.
Cosa vogliamo dire?  Se la scelta  diventa  quella  tra populismo di destra e  populismo di sinistra, e a veicolarla ci si mette anche il  soft  power statunitense, la situazione rischia veramente di precipitare. Ci stiamo incamminando su  una strada che potrebbe essere veramente senza ritorno.

Carlo Gambescia      
                          

mercoledì 17 aprile 2019

L’Umbria rossa secondo Alessandro Campi


Poverino. Non deve essere stato facile vivere in Umbria e votare a destra  o ancora peggio  simpatizzare per il   Movimento Sociale.   A questo pensavo,  leggendo l'astioso editoriale   di Alessandro  Campi sullo scandalo perugino   delle assunzioni pilotate nella sanità. 
Le indagini sono in corso,  eppure Campi  buttandola furbamente sul   politologico,   dà  il colpo di grazia a un Pd sempre più in debito di ossigeno,  per dirla con il grande Bruno Pizzul.   Complimenti per il garantismo.  E per  il taglio  popperiano.
Nella sua  disamina il capo di accusa, apparentemente  sociologico, è rappresentato  dal clientelismo.  Un fenomeno che risale ai tempi dei Romani,  come giustamente  nota Campi.  Oggi  ripreso e sviluppato nelle democrazie da partiti sempre più ideologicamente  svuotati.   
Però Campi non dice che  il Pci,  la democrazia cristiana e lo stesso Movimento Sociale soprattutto nel  Mezzogiorno,  quando i partiti ancora contavano ideologicamente,  avevano  già il nome in ditta. Quindi sotto c’è  qualcosa  che va al di là della  crisi delle ideologie. 
Campi sfiora  la questione, quando accenna al keynesismo umbro: a una certa modalità dirigista  di concepire il rapporto tra  lo stato  (e di conseguenza la regione) e il  cittadino. Che però, altra cosa ignorata,  precede e di molto la religione  del  deficit spending.  
Il clientelismo italiano,  legato al voto di scambio (lavoro contro voto),  risale al fascismo, che in quanto partito unico,   sistematizzò, per così dire,   l’intera materia,  prima di allora magmatica, appena sbozzata  nell’Italia liberale,  dove  lo stato era molto meno intrusivo.    
A dire il vero,  l’ideologia della   tessera, come mostrò Missiroli (La monarchia socialista),  rinvia al satrapico socialismo comunale dei primi due decenni del Novecento,  che tutto controllava, tutto decideva.
Il fascismo, che pure distrusse l’apparato clientelare socialista, istituzionalizzò la tessera e  il voto di scambio, certo in  chiave totalitaria. E una volta  caduto,   comunisti, socialisti, democristiani e missini ne raccolsero subito, per la felicità degli elettori,  l'eredità antropologica.  Ovviamente su basi democratiche e secondo la rispettiva forza politica.   Attenzione,  non dico nulla di nuovo:  sulla "Repubblica dei partiti" esiste una ricca letteratura scientifica.
E oggi?  Le ideologie sono morte o quasi,  ma il cadavere del clientelismo, chiuso nella bara, curiosamente,  continua a  muovere le mascelle.  E Campi che fa?  Se la prende con l’Umbria rossa. Con gli ultimi arrivati.
Purtroppo, il  problema  non nasce  dalla permanenza al potere,  ma dall’ideologia della tessera "per lavorare".  Si tratta di una questione di antropologia sociale che ci riporta al  malefico  rapporto tra stato  e cittadino  instauratosi nel Ventennio. Ovviamente ripreso e sviluppato dai “partiti democratici”.
Un “sistema”  che quindi  dobbiamo a Mussolini, già socialista e profondo conoscitore del clientelismo social-comunale,   al quale il Duce mise la camicia nera.  Una megamacchina, davanti alla quale i mazzieri  giolittiani, e prima ancora crispini,  assomigliano a  pallide collegiali uscite  dalle Orsoline.
Ricapitolando, il Pci-Pd (per semplificare), non è che l’ultimo anello di una catena storica dai risvolti antropologici. Non è dunque  un problema di buona o cattiva amministrazione e  di esperienza governativa o meno,  ma di come ripensare, radicalmente il rapporto tra  stato e cittadino in chiave liberale.  Serve un'antropologia altra.
Ovviamente Campi, che proviene da una cultura fascista, assistenzial-clientelare,  con tutta la sua scienza, non potrà mai capire  il senso della cittadinanza liberale  e della libertà dalle tessere. Gli è profondamente estraneo. Come del resto il garantismo.
A meno che non ci si chiami Gianfranco Fini...

Carlo Gambescia              

                                                                    
         

    

martedì 16 aprile 2019

Notre-Dame in fiamme
Il destino d’Europa in una cioccolata calda




Di  Notre-Dame, tutti abbiamo almeno un ricordo personale.  Il mio risale  a qualche anno fa. Con un caro amico, Jerónimo Molina,  si passeggiava  per Parigi  nelle prime ore  di una assonnata domenica di fine  novembre.  Reduci  da un convegno e lieti di concederci qualche ora di svago, in attesa di partire nel tardo pomeriggio.  Mentre  parlavamo di Julien Freund,  apparve la cattedrale. Silenzio. Ci sentimmo piccoli piccoli:   un italiano e uno spagnolo si inchinarono, idealmente,  dinanzi alla storia di Francia. Ma non solo. 
Dopo un paio d’ore,  davanti a un cioccolato  fumante,  discutevamo  del  destino d’Europa, con gli occhi alla grandezza del passato. Evidentemente ancora sotto l’influsso  del  gotico  e di una Gerusalemme Celeste,  incarnata da guglie, volte e vetrate  dall’apertura metafisica.
Le fiamme, divampate insieme al telegiornale delle venti,  hanno valore simbolico,  come i flash dei  cellulari di ultima generazione che restituiscono foto “carine” dell’inferno, come la ricorsa dietrologica alle responsabilità dei vigili del fuoco e di Macron,   come la promessa di ricostruire la cattedrale,  grazie ai prodigi della tecnologia,  “tale e quale  a prima”.         
Un passo indietro. Qualche anno fa un intellettuale di destra, Dominique Venner,  si suicidò, dentro Notre-Dame: si sparò in testa.  Confusamente, avvertiva, come lasciò scritto,  che il destino della   Francia e dell’  Europa  era ormai  compromesso e nelle mani di  omosessuali,  negri,  ebrei, borghesi. Un ripugnante  ritornello ideologico che riconduce  alla tentazione fascista.  Ideologia, feroce e  totalitaria,  che invece, a differenza di ciò che riteneva il  suicida, non era  e non è la soluzione della crisi europea, ma parte del  problema, perché sintomo di barbarie,  proprio come quelle fiamme.
Quale problema?  Non avere capito che l’anima europea  non risiede nello strapotere della  tecnologia e  nella capricciosa denuncia di tutto e tutti. Come, per contro, non alberga  nel rifiuto bilioso della modernità. Ma dimora nello spirito liberale,  spirito che non può non dirsi cristiano.  Di riflesso, il comune recepimento delle idee  di  libertà e uguaglianza  ha permesso a tutti di migliorare le condizioni di vita, progettare e  viaggiare, al punto di  poter  avere, tutti o quasi, almeno  un ricordo personale  di Notre-Dame.      
Tutto  bene  allora?  Sì  e no. Chi scrive, come detto,  dopo aver visitato la cattedrale,  con un caro amico,  davanti a  un cioccolato, si mise a  discorrere  del destino d’Europa. Troppo,  forse. Cose da studiosi. Per altri turisti, seduti ai tavoli, alcuni già annoiati,  probabilmente,   c’era solo una tazza di cioccolato.  Non era poco. Ma non ne erano consapevoli.
Ecco il nodo, da sciogliere.  

Carlo Gambescia                               
         

lunedì 15 aprile 2019

Si sente la mancanza di una destra liberal-conservatrice
L'Italia e il "momento Guizot"

Copertina  dell'edizone italiana (1970)
Il classico studio  di René Rémond, sulla destra in Francia suddivide la destra transalpina  in tre filoni, legittimista, orleanista, bonapartista.  Tradotto: nell’ordine,  reazionaria, liberal-conservatrice, plebiscitaria (con ricadute fasciste ma anche risalite  golliste ).
 Ovviamente,  semplifichiamo, le tesi  di   un libro denso, ancora oggi utile. René Rémond, scomparso nel  2007,  resta uno migliori  storici e politologi francese. Più concreto, del pur profondissimo Aron,   non eclettico come il comunque geniale  Bouthoul.  E soprattutto privo di quel  pessimismo cosmico, che  innervava il severo realismo sociologico di   Ellul e  Monnerot .
Le definizioni di  Rémond sono concettuali, perché  vanno oltre la cifra  storica delle singole esperienze.  Elegante e accurata la sua definizione dell’ orleanismo (1830-1848): da Luigi Filippo di Borbone-Orléans, il “re borghese  e liberale che conferì il nome a un’epoca di grande trasformazione economica e sociale. Rémond eleva l'orleanismo  a  corrente storica  di idee,  alimentata dal flusso storico di capaci  e colti  uomini politici,  da Guizot e Giscard d’Estaing. 
François Guizot

Libertà di mercato, difesa della proprietà e delle prerogative del parlamento,  dunque massima libertà di parola e di stampa, bilanci dello stato in ordine e lotta contro l’inflazione e i socialismi.   Ecco  a  grandi linee  i contenuti politici  di una   destra liberal-conservatrice  che ha attraversato, governando  con alti e bassi, la storia di Francia fino a alla tragedia politica di Vichy.  Poi  cooptata e contrastata da De Gaulle,  affondata da Chirac e  tradita da Sarkozy. 
Oggi  Macron si aggira  tra le rovine della  destra  e della sinistra. Fa quel che può. Ha conservato e difende il  naturale e sano spirito  elitista  del liberalismo orleanista. Ma solo quello. Per ora.
È  mai esistita in Italia una destra orleanista,  guizotiana, liberal-conservatrice? 
Cavour, in qualche misura,  incarnò il momento orleanista italiano coniugandolo però con la prospettiva rivoluzionaria  del Risorgimento.  Un ossimoro politico. Pericoloso.  Soprattutto senza Cavour.
La Destra storica, che ne raccolse il programma, fu  troppo  preoccupata della  sopravvivenza italiana, e  non si curò   di altro: primum vivere.  Crispi e la sinistra liberale, accentratrice e imperialista,  non avevano nulla di liberal-conservatore. Giolitti, guardava troppo a sinistra: il suo fu un liberalismo sociale, intelligente e pragmatico.  Sonnino, suo avversario,  fu  troppo a destra, un quasi reazionario, colto, ma di scarsa lungimiranza, soprattutto in politica estera.  Mancò il giusto mezzo guizotiano, anche  se  i primi due  decenni (fino alla Prima guerra mondiale), furono anni di notevole progresso sociale.
Il fascismo bloccò tutto.   
Nel secondo  dopoguerra, la politica economica di Einaudi e De Gasperi, che fece ripartire il Paese,  rappresentò il canto del cigno del liberalismo conservatore.    
Camillo Benso, conte di Cavour

Dagli anni  Cinquanta fino agli anni Ottanta l’Italia crebbe, si sindacalizzò  e  welfarizzò, con la complicità dei ceti industriali e produttivi.   Dopo di che, fu il diluvio.
Conclusioni.  Una vera destra guizotiana, liberal-conservatrice politicamente parlando,  in Italia non  è mai esistita. È mancato perfino un  “momento Guizot” (per dirla con Pierre Rosanvallon): una fase orleanista, capace di avere la meglio su reazionari e radicali.   E dunque mettere radici (per non dirla con Pierre Rosanvallon).  
Parliamo di un Paese, ultimo arrivato,  privo di risorse politiche ed economiche,  sostanzialmente antiliberale,  che  si è barcamenato  tra il paternalismo cattolico e  il conservatorismo tout court all’insegna  del vorrei ma non posso.  Qualche  volta è andata bene, qualche volta  male. Tutto qui. Nel complesso ci siamo modernizzati, politicamente parlando,   nostro malgrado.   
Luigi Einaudi e Alcide De Gasperi

E gli italiani? Sono andati a rimorchio  ora di questo ora di quello. Esiste un elettorato moderato, che probabilmente è liberal-conservatore senza saperlo, che però o non vota, o  se vota, vota, turandosi il naso,  una volta a sinistra, una volta a destra. Sinistra e destra all’italiana, ovviamente: un guazzabuglio di assistenzialismo e individualismo.
Ovviamente, l’esperimento berlusconiano non fa testo: destra plebiscitaria,  per usare la terminologia  rémondiana.  Salvini resta criptofascista. Su Giorgia Meloni e i post-fascisti,  meglio far scendere il famigerato pietoso velo.
Monti e i professori?  Tecnici non politici. Non c’era  visione.

Carlo Gambescia